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Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un libro di Giovanna Di Marco
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille, forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la sua verità liberata dall’artificio della parola.  Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato (come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia. Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata: l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo che meriti di essere salvato.  È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa – Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura, affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi, Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio, Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt, Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.  A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale (siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona, monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico, giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del tutto ostile.  I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro. «Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel quadro».  Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo, l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente, inadeguato:  > «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti > architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per > scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma > di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che > arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si > offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi > riconsegnarla sotto altra forma».  Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque, all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.  > «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco > –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E > adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi». Fabrizio Coscia *In copertina: Camille Claudel (1864-1943) L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. 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May 8, 2025 / Pangea
“Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno
In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro, Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte. Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti. Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi – a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.  Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert, Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.  Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno riprende una frase di John Cheever:  > “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre > all’eccellenza.”  Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura didattici.  Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato), oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e dunque il bel ricordo che ne conserviamo.  Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere, come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:  > “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un > itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché > è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi > sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono > stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità > che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”  Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare, come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte davvero.  Edoardo Pisani *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno  proviene da Pangea.
May 7, 2025 / Pangea
Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo? «Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli luminose dell’Himalaya. Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti? Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico, trasfigurandolo in desiderio. Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia, popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso. E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla meraviglia. * Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi – Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili, nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano. Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini, invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci dell’immaginazione. Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo, contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è legato da una profonda riconoscenza.  Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine: l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica, capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese, nascono quasi degli Haiku in prosa: > “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati > all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada > imperlava di luce”. Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto. Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci: geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco: maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo lirismo proprio nell’evocazione di Pemà. La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece, sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei, stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene l’inglese e i grandi autori della letteratura.  La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18 maggio 1948  Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari. C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla nostra?  Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano, come per incanto:  > “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i > puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i > campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della > Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle > distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti > svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci > degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da > difendere, da condurre di là dall’Imàlaia” * Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare, dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.  Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.   Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche, un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e dolcezza, umorismo e compassione.  * Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti, pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di stoffa tibetane.  Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone. Lorenzo Giacinto *In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963. Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
“…ne la luce catastrofica”. Attorno al Meridiano Campana di Gianni Turchetta
Firenze, settembre 2018. il bibliotecario della Marucelliana posa il volume su un leggio e si allontana con discrezione.cancellature, singole parole, riscritture formicolano sopra le righe. guardo. guardo e basta, se tocco, tutto scompare. sono rimasta a lungo su quei primi versi. simili al suo Libro ma diversi. diversi. il titolo scritto a caratteri più minuti del testo: “Cinematografia sentimentale”, “La notte mistica dell’amore e del dolore”. poi, per tutto, fu semplicemente La Notte. non era il Libro. l’uomo non era, esattamente, lo stesso. contemplando quel supporto pulito pensai a quante volte Dino fosse entrato in una biblioteca, da anonimo. anonima la sua lungimiranza nel consultare testi che ancora nessuno in Italia aveva notato. anonimo perché già oltre. il volume sul leggio si intitolava Il più lungo giorno. l’amico Dino Castrovilli quella mattina mi aveva detto: “ho una sorpresa per te”. così è stato, che gliene sia sempre grata. incontrare quella rilegatura così gracile dopo avere sognato un libro immenso. guardo e penso che tutta la vita di Dino Campana è stata il più lungo giorno “ne la luce catastrofica”: ogni giorno l’attesa vitale, urgente. ne la luce catastrofica. queste quattro parole mi rotolano davanti tra le righe, tra tante altre, impigliate ad altre, ognuna definitiva, visione autonoma. continuo a guardare. accanto a “stanza” Dino scrive “piena di sogni”. sopra “scheletrico”, “vulcanizzato”. così apparivano le coste antracite dei suoi Appennini. in alcuni casi, frasi accavallate: “e nella vita stellare dello specchio un ricordo d’antica sera d’amore di viola”, segni in schegge. mentre scrivo ho vicino a me la versione anastatica de Il più lungo giorno di Vallecchi, la ‘realtà’ di quello che resta. ripenso a quei giorni come a un sogno fugato. devo iniziare. mi viene ‘ordine’. la parola che sale per prima percorrendo questo magnificente lavoro di Gianni Turchetta, atto d’amore. fare ordine, innanzi tutto. riconoscere la volontà di Dino Campana di affermare un talento che sapeva, rivendicava, e ribadiva con uno studio continuo rimasto nella maggior parte della critica sotto traccia, offuscato dalle diagnosi di nevrastenia, dalle boutades dei momenti di corto circuito, dai pregiudizi di chi vide in tutte quelle cancellature e riscritture un segno di confusione invece di un intento lucido di rileggere le varie versioni di uno stesso testo e scegliere quella che sembrasse migliore, come farebbe ogni scrittore. lineare nel proporsi al mondo da poeta, tessitore di sogni, di connessioni inesplorate, creatività pulita. nettarlo dallo stereotipo del matto talentuoso ma caotico, capace di fulgori ma arronzone, scarpone indesiderato dei piccoli Olimpi letterari. restituirgli un disegno personale, anche se offeso dal travaglio, e forse per questo più assetato. l’ordine di Gianni Turchetta si manifesta già nella sezione introduttiva, L’eterno ritorno dell’immagine e la resistenza della poesia (Turchetta 2024, XI-CVIII)[i], che in esergo riporta come una dichiarazione di intenti una frase di Michel Foucault: “dove c’è l’opera non c’è follia” (da Storia della follia nell’età classica).  questo saggio di apertura è un attento lavoro filologico che mostra con implacabile affetto verso l’essere umano che Turchetta segue da 40 anni, attraverso alcuni elementi cardinali, l’intento costruttivo del Poeta rispetto alla sua esperienza di studio della letteratura e della filosofia, in particolare tedesca, inglese e belgo-francese, e questo attraverso una reiterata frequentazione delle biblioteche, suggerendo spostamenti mirati che contestano l’immagine di un dromopatico che si sarebbe trovato per caso, nel suo moto perpetuo, anche in una biblioteca. le sedute di studio sono volute, nella coscienza piena che il suo destino di poeta e letterato fosse stato deviato dalla volontà della famiglia di farne un farmacista. già la scelta del titolo, Canti Orfici è un manifesto identitario, una “posture visionnaire” (Claudel in Turchetta 2024, XXXIX) che vuole discostarsi dal mito orfico dell’Antichità o dell’Occultismo. l’Orfismo di Dino Campana rivendica il concetto stesso di arte in quanto “mito della magia dell’artista, del suo disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell’universo, e della sua speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti il suo viaggio” (Segal, Ibidem). Orfeo incarna la poesia che può vincere la morte, una connotazione che Dino attribuisce a Faust, “alter ego del poeta” (XL). l’omaggio alla poesia si sviluppa attorno a una tensione costruttiva, a un meccano circolare in cui si alternano i temi della ripetizione e del ritorno, scrive Turchetta, che nei testi del Quaderno, precedenti i Canti Orfici, si reiterano attorno a un femmineo che non concerne soltanto la figura della donna ma diventa uno sguardo sensibile che permea anche il paesaggio: la notte, la montagna, l’acqua, le navi, la città (XCII). tutto è animato da un fremito cosmico: “Odore amaro d’alloro ventava sordo dall’alto/Attorno al bianco chiostro sepolcrale:/ Ma bella come te, battello bruciato tra l’alto/ Soffio glorioso del ricordo, gridai o città,/ (Quaderno, “Oscar Wilde a S. Miniato”, 158). e ancora: “Nave che soffri e vegli/ Coll’occhio disumano/ E al destino lontano/ Sempre sopra del vano/ Ondeggiare tu pensi/ E m’arde e m’arde il cuore/ Nella notte serena/ (testo 38, senza titolo). la nave come creatura senziente, quasi che quell’“occhio disumano” fosse quello di un pesce e che l’ondeggiamento, più che il beccheggio della prua, un respiro di branchie. rispetto alla figura della donna, è evidente, scrive Turchetta, una continua oscillazione tra incontro e perdita, un sentimento d’amore che si tempra e trova le sue note più alte nell’assenza dell’amata. una volontà di strutturazione, scrive l’autore, si evince anche dal riequilibrio del rapporto tra versi e prose, che nei Canti Orfici sono rispettivamente 15 e 14, contro il rapporto di 14 a 4 ne Il più lungo giorno. e allo stesso tempo questa tensione alla costruzione di un opus unitario procede per lacerti, correzioni, rimandi, ritorni. Turchetta espone quasi chirurgicamente il cantiere della costruzione poetica campaniana: dopo l’Introduzione e la Cronologia, propone una vivida “Nota all’edizione” in cui esplicita la struttura del volume, organizzato in quattro parti principali (“macro-sezioni”): la prima dedicata ai Canti Orfici, le due successive ai testi a stampa e manoscritti che hanno preceduto e seguito il Libro e la quarta alle Lettere. qui l’autore esplicita il suo intento di far affiorare l’ordine dell’immenso lavoro di scrittura e riscrittura di Dino Campana, una “tensione verso la verità” (CXCIII) irraggiungibile per definizione ma continuamente reiterata, elemento principe della dignità del lavoro campaniano, sia di quello concepito come privato, come nel caso del Taccuinetto faentino, del Fascicolo marradese inedito e del Taccuino Mattacotta, che di quello destinato a un pubblico, come Il più lungo giorno e le Carte Bandini. porre come primo documento i Canti Orfici, il cui commento è “intenzionalmente ampio” (CXCVII) è una scelta assertiva, a dire che dopo infiniti giri attorno al sole, rovinose cadute, perdite e smarrimenti questo è ciò che doveva rimanere. un’alternativa sarebbe stata ordinare il materiale secondo un ordine cronologico ma mettendo i Canti Orfici in prima posizione si vuole ribadire un pieno diritto di presenza, umana e poetica. scemati i giudizi, i conflitti, l’incomunicabilità, lo sperdimento, resta l’opera, l’unico Libro, anima salva. là dove tutto era sembrato perso, mancato, l’opera è salvezza, senso di una vita. nelle note all’unico Libro (853-1139), eroiche, si sente la meticolosità di un affetto profondo e sedimentato, un dialogo intimo da cui affiora chiara l’intenzione di riscattare un uomo ma soprattutto un immenso magmatico poeta. solo per citare qualche esempio, apprendiamo che l’edizione dei Canti Orfici proposta è quella che Dino Campana considerava, parlando dell’edizione Vallecchi del ’28, l’editio princeps, corretta “sul testo di Marradi e delle riviste che stamparono i miei versi per la prima volta” (853). le dimensioni del volume 19,5×12,5 sono indicative perché si riscontrano almeno due diverse partite di carta. informazioni dettagliate riguardano il corpo dei caratteri (10 per la poesia, 12 per la prosa), il numero di esemplari giunti a noi (Roberto Maini ne avrebbe recensiti 111 cui se ne sono aggiunti nove), forniti o privi di dedica, la menzione della qualità e del formato della carta, le differenze riscontrate, dovute a correzioni effettuate sui piombi, segnano passo dopo passo la qualità dell’analisi filologica dell’autore. egli menziona anche “l’unico, prezioso reperto del processo di stampa della princeps” (855): le “bozze” appartenute a Paolo Toschi, che incontrò per la prima volta Dino Campana “una sera d’estate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola trattoria, negl’anni sereni in cui s’andava addensando il turbine della guerra: e mi sembrò d’ascoltare una novella di Edgardo Poe”. in un’altra occasione, nell’estate del ’14, il Poeta gli disse: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio volume: non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze […] E oggi – scrisse Toschi – sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo e a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero” (Ibidem). malgrado la stima sincera che Toschi nutrì per la poesia di Dino Campana (“Fra molte cose illogiche o non completamente realizzate, ma sempre lampeggianti di sprazzi di poesia, trovo alcune pagine limpide, espressive di tale evidenza e poeticità quale è raro trovare anche fra i più bravi scrittori d’oggi”), si può immaginare che molte delle espressioni colorite che usò per descrivere l’uomo andarono a innaffiare il mito del matto, riportando con dovizia di particolari alcune imprese occorse per strada o nelle trattorie. “Tale vita avventurosa e fantastica io l’ho sentita raccontare da lui stesso una sera d’estate” (Toschi 1926). A questo potremmo aggiungere la materialità dei verbali di “Pubblica Sicurezza” e delle reiterate diagnosi e descrizioni sintomatiche, tra cui la “Modula informativa per l’ammissione dei mentecatti nel manicomio di Firenze, 9 aprile 1909”, firmate negli anni da dottori e specialisti ai fini dei diversi ricoveri psichiatrici. a volte sono i Carabinieri stessi a farsi medici: “segni di pazzia furiosa […] essendo il Campana riconosciuto per matto furioso dal Dottor condotto del luogo (“legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Firenze, 8 aprile 1909) (CXXXIX). già tre anni prima la Questura di Firenze l’aveva definito “squilibrato di mente” (CXXV), avviando la catena del profilo criminogeno ed entrando in sinergia con le diagnosi patogene degli specialisti che sarebbero seguite e che avrebbero condotto Dino al manicomio di Imola il 5 settembre 1906 a seguito dell’“ordinanza” che attestava la sua “alienazione mentale” (CXXXI). “il soggiorno nel manicomio di Imola era avvenuto – scrive lo psichiatra Carlo Pariani – ‘non perché fosse malato di mente ma perché lo volevano matto per forza’” (Pariani 2002, 21). appare oggi surreale che la diagnosi che ha sentenziato l’entrata di Dino in manicomio è di “demenza precoce?” con il punto interrogativo (Idem) e che tra le patologie, che diventano voci di crimine, risulti anche l’uso di caffè “del quale è avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo” (Ibidem). il peccato di avidità fa la colpa, la frequenza, la malattia. ugualmente vago è il certificato stilato dal Dott. Cuylitis presso quella che era all’epoca la Maison de santé Saint- Bernard di Tournay (attuale Tournai, in Belgio), il quale certifica, tra la fine del 1909 e l’inizio del 1910, di aver personalmente “visto, esplorato e interrogato Campana Decio (sic) “colpito da una malattia che si caratterizza con i sintomi seguenti: “tendenza alla pigrizia (?)”, “al caffè”, “alcolismo” (CXLI)[ii]. a Tournai, dopo aver passato due mesi nella prigione di Saint Gilles, a Bruxelles, Dino avrebbe incontrato Il Russo, alter ego, scrive Turchetta, dell’“io poetico”, opposto e complementare a Regolo; il primo vittima del sistema repressivo pubblico, il secondo, alter ego vincente. eppure Il Russo incarna il sentimento di persecuzione della poesia, quindi del “boy” innocente e, come in un gioco di specchi, di Dino Campana stesso (1077). ne è prova anche l’errore, forse non così casuale, nella traduzione dell’epigrafe da Whitman che chiude i Canti Orfici, dove Dino ha tradotto: “Erano tutti stracciati e coperti del sangue del fanciullo” quando l’originale in inglese recita: “I tre erano tutti stracciati e coperti del sangue del fanciullo”, come a sottolineare la persecuzione di cui si sentiva vittima, soprattutto da parte di Papini e Soffici. un’ interpretazione complementare vede i versi di Dino Campana ispirati anche dalle Georgiche di Virgilio nel passo in cui si narra dell’uccisione di Orfeo da parte delle donne dei Ciconi, Georgiche che avrebbero avuto un ruolo importante nella diffusione dei mito di Orfeo. allo stesso tempo, la diffidenza del Poeta verso la forza pubblica andrà di pari passo con la necessità di trovare ancor più che un equilibrio un ordine, manifesto d’altronde nell’intenzione di frequentare la Scuola Ufficiali e poi di entrare in Polizia. le Note ai Canti Orfici sono un lavoro di alta oreficeria, con infiniti spunti di riflessione e approfondimento. soltanto per citare un esempio, La Notte, Turchetta sottolinea come essa designi un percorso iniziatico dove si sentono gli influssi degli Inni alla Notte di Novalis nella misura in cui il buio notturno rappresenta il tempo della rivelazione e della verità “che la luce del giorno nasconde”: “E la notte fu il grembo possente/delle rivelazioni – là tornarono gli dei” (869). a questo elemento si intreccia “l’assoluta centralità del tema dell’amore” (Ibidem) incarnato dall’incontro con la donna. amore, scrive Gianni Turchetta, che dal singolo individuo passa a una verità cosmica, in un contesto di sacralità laica. speculum ne è per l’autore La Verna, seconda lunga prosa dei Canti Orfici. là dove ne La Notte si intravede l’ombra del V canto dell’Inferno dantesco, la Lussuria, La Verna fa da contraltare, con i suoi riferimenti a San Francesco e gli scenari all’aperto che implicano “ascesa” e “purezza”, “pellegrinaggio da espiazione” (Ibidem). a giusto titolo Turchetta esplicita il carattere altamente cinematografico de La Notte al fine di rompere l’andamento cronologico e intesserlo di scorci, flashback e paesaggi onirici. tutto per restituire, fondamentalmente, la dimensione di un viaggio introspettivo che solo in questo modo avrebbe potuto accogliere l’immensità dell’esperienza d’amore che attraverso la grazia della poesia si fa stato d’amore universale. in questo senso, aggiungo, torniamo, anche se in una declinazione laica, all’esplicitazione dell’intento di luce e amore del viaggio dichiarato nel Paradiso: “poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte/ sembianze femmi perch’io spandessi/ l’acqua di fuor del mio interno fronte. ‘La Grazia che mi dà ch’io mi confessi’/ comincia’ io ‘da l’alto primopilo,/ faccia li miei concetti bene espressi’”[iii]. * la seconda parte del volume, Prima dei “Canti Orfici”, raccoglie diverse sezioni[iv]. la prima, “Testi pubblicati da Campana”, conta tre scritti poi rielaborati nel Libro: “Montagna – La Chimera”, “LE CAFARD (Nostalgia del viaggio)” e “DUALISMO – Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita Tchegarray”. segue il Quaderno, ritrovato dal fratello di Dino, Manlio, consegnato a Enrico Falqui, che nel 1942 ne curò la pubblicazione di cinque pagine per l’editore Vallecchi nel volume Inediti di Dino Campana.questa sezione raccoglie la totalità dei testi del Quaderno, 42, di cui 15 senza titolo. Silvano Salvadori aveva già scritto, nel suo saggio sul Quaderno, di un afflato universale del quotidiano. segue una breve sezione di tre “Testi contenuti nelle lettere”, poesie, scrive Turchetta, che Dino Campana copia in una lettera destinata ai periodici “La Lettura” e “Corriere della Domenica” (Lettera 4, febbraio 1912), prima di arrivare al Taccuinetto faentino, acquistato in una cartoleria di Faenza, “del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera”, scrive Domenico De Robertis nella Nota al Testo dell’edizione Vallecchi. un “quadernuccio” che “non ha un principio e neppure una fine – nel senso che, essendo scritto nei due versi, comincia senza terminare e l’uno s’intreccia e si confonde con l’altro”, scriverà Falqui nell’introduzione all’edizione Vallecchi del 1960. quest’ultimo si preoccupa dell’immagine da “scartafaccio” dell’opera, composta da testi scritti in momenti diversi, forse già dal 1912 (1227), che si dipanano in verticale e in orizzontale, a penna e a lapis, come aveva già sottolineato De Robertis. e malgrado questo, Falqui sottolinea l’intento preparatorio di Dino, in vista dei Canti Orfici, in cui farà confluire nove testi del Taccuinetto, che attraverso quest’ultimo ci fa capire “quanto lungo e minuzioso e accanito e cosciente sia stato il lavoro di Campana, […] quasi che chieda e cerchi e aspetti e aneli di trovare e godere presso di noi il perfezionamento ideale”. dopo il Taccuinetto Turchetta pone le Carte Ravagli con il “Fascicolo marradese”, donato da Manlio Campana a Federico Ravagli, da questi pubblicato tra il 1950 e il 1951 su Portici, e le Carte Bejor, che Turchetta restituisce attraverso non il volumetto di Bejor ma dal volume del ‘42 di Ravagli. segue Il più lungo giorno. Turchetta sottolinea come il manoscritto dimostri che, anche a riscontro degli innumerevoli rimaneggiamenti, riscritture e sovrapposizioni dei testi campaniani in nome di una poesia del movimento, i Canti Orfici non furono una copia del primo manoscritto; al contrario, l’autore attesta l’esistenza di un “antigrafo comune a PLG e a CO, da cui sarebbero stati copiati entrambi” (1261). contrariamente alla credenza che il supporto cartaceo del manoscritto fosse di poco conto, Turchetta ricorda che Dino Campana si avvalse di un “antico volumetto rimasto bianco, trovato chissà dove, la cui composizione si può far risalire alla prima metà del secolo XVIII” (De Robertis, Ibidem). le note dell’autore alla sezione de Il più lungo giorno (1259-1293) sono di estremo interesse: egli afferma che, per la presenza di inesattezze e irregolarità, il manoscritto è probabilmente la riscrittura di un testo antigrafo; dubita dell’affermazione, ormai radicata, che Il più lungo giorno costituisca due terzi dei Canti Orfici, come affermato da De Robertis, e mostra dettagliatamente come questo manoscritto che anticipa il Libro sia fondamentalmente provvisorio nelle sue parti, tale da non poter costituire un’opera compatta sovrapponibile per i suoi due terzi all’Opera. secondo l’autore, benché il manoscritto non fosse allo stadio di appunti personali, Dino Campana non avrebbe mai consegnato a una tipografia il testo de Il più lungo giorno nella forma in cui lo aveva redatto. e se Papini e Soffici avessero accettato il manoscritto egli vi avrebbe certamente apportato cambiamenti. quindi, anche per l’evidente sviluppo dei testi campaniani pubblicati come “Autografi lacerbiani”, consegnati probabilmente insieme a Il più lungo giorno e per la presenza di pagine vuote, quest’ultimo non può essere considerato ‘il Libro’ di Campana (1263-65). le Carte Papini contano due fascicoli con quattro testi nuovi rispetto a Il più lungo giorno che confluiranno nei Canti: “Il Russo (storia vera)”, “(Crepuscolo mediterraneo”), “Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)” e “Pampa”. probabilmente i testi consegnati a Papini erano più numerosi, visto che Campana aveva consegnato altri testi per Lacerba insieme a Il più lungo giorno (1294).  in ogni modo emerge l’evidenza di una stesura di gran parte dei Canti Orfici precedente la consegna de Il più lungo giorno, che nel suo insieme appare ponderata, lontana dall’ipotesi diffusa di una ricostruzione frettolosa a memoria. le Carte Bandini testimoniano una cura per la comprensibilità della redazione, evidente nelle numerose rifiniture delle lettere, come se i testi fossero destinati a ipotetici lettori. è interessante notare, scrive Turchetta, che la sequenza dei Notturni combacia quasi interamente con la versione dei Canti Orfici mentre altri testi presentano delle varianti, attestando un percorso che va dagli “avantesti” de Il più lungo giorno alle diverse versioni dei Canti Orfici, “elaborando i testi nelle direzioni di addensamento semantico e di esasperazione iterativa che meglio caratterizzano il suo stile” (1303). seguono Altri inediti, di influenza nietzschiana e baudelairiana, in parte consegnati a Enrico Falqui dai parenti di Dino Campana. la parte Dopo i “Canti Orfici” riprende “Versi e prose sparsi”, testi pubblicati tra il novembre 1914 e il maggio 2016, tra cui tre prose estratte dai Canti Orfici. gli altri testi verranno pubblicati nel 1928 da Attilio Vallecchi nella sezione “Inediti” del volume Liriche. essi testimoniano la nuova direzione della scrittura campaniana, sempre più orientata su un’integrazione tra poesia e pittura, e indicano la volontà di Dino di arrivare a una seconda edizione del Libro, forse rivolgendosi a un altro editore. alla luce di questo progetto di riedizione in vista di un’ulteriore piallatura dei testi potrebbero essere lette anche le reiterate pressioni, nel 1916, su Papini e Soffici affinché restituissero il manoscritto de Il più lungo giorno. ne è prova una lettera in cui Emilio Cecchi nel maggio 1916 suggerisce a Dino Campana lo Studio Editoriale Lombardo per far “rivivere il libro in un’edizione bella, corretta, etc con unite Olimpia, Toscanità e le altre cose nuove” (1323). è evidente che questa fase in nuce della creazione campaniana procedeva intrecciata al difficile percorso personale del Poeta, evidente dal tenore delle Lettere: “Scrivere non posso, i miei nervi non lo tollerano più, per ora”, confida all’amico Mario Novaro nell’aprile del 1916 (CLXVIII; 601). in questa fase di “sofferta monotonia” la mattina del 3 agosto 1916 Dino incontra per la prima volta, a Barco nel Mugello, Sibilla Aleramo. a lei sono destinati alcuni dei Versi sparsi, testi scritti a mano negli spazi liberi di alcune copie del Libro donate o vendute agli amici, tra cui appunto Aleramo, Bejor, Cecchi e Ravagli. lungi dall’essere il risultato di una mania correttiva, questi testi, scrive Turchetta, testimoniano di una coerenza stilistica che Dino Campana voleva imprimere alla sua opera in vista di una riedizione. ne è prova il fatto che quando Cecchi propone di far confluire nella futura edizione una selezione dei Canti Orfici più “le ultime cose”, egli risponde che sarebbe “la cosa più dolorosa che si potesse fare” (1323) a testimonianza del fatto che considerava le sfumature apportate attraverso la limatura o l’aggiunta di testi nuovi come parte integrante di un unico disegno poetico del Libro. tra i Versi sparsi spicca “Arabesco-Olimpia”, che Turchetta considera, “un arabesco sonoro”, per le fitte corrispondenze fonetiche e la presenza di “colorismo”, “un testo capitale non solo di questa fase, ma di tutta la produzione campaniana” (1326)[v]:  > Oro, farfalla, dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un > tramonto di torricelle rosse perchè pensavo ad Olimpia che aveva i denti di > perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e > rossi sul muro sono fioriti. Perchè si rivela un viso, c’è come un peso > sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta. il Taccuino Mattacotta, che segue i Versi sparsi, è un “quaderno di lavoro”, che consiste nel “fare e rifare  un numero relativamente limitato di componimenti” in italiano, inglese e francese, avendo Dino riscritto, soprattutto a matita copiativa e a penna a inchiostro nero, sulle stesse pagine da due a quattro volte, databile tra gli ultimi mesi del 1914 e l’estate del 1916 (1341-1343). il Taccuino fu donato a Sibilla Aleramo che in seguito l’avrebbe donato a Franco Mattacotta durante la loro relazione.  > I announce the justification > of candour and the > justification of pride > (se devo annunciar qualche > cosa) nella sezione Altri manoscritti, sono riunite le “Carte Aleramo-Gallo-Mattacotta”, il “Manoscritto Orlandi”, le “Carte Gallo”, le “Carte Novaro-Falqui” e “Poesie per Sibilla Aleramo”. nel primo fascicolo appare il luminoso frammento L’infanzia nasce, che Turchetta attribuisce, benché non sia autografo, a una sorta di testamento spirituale: > L’infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacchè in uno strano eco > s’immobilizza e s’allontana dai giorni: anzi nasce proprio da una cosa > “specchiata” con le ridenti spighe gialle e con i campanili: conoscenza eterna > (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre > sulla riva del giorno. nelle “Carte Gallo” affiora Giulietta e Romeo, un testo spedito a Sibilla Aleramo a metà dicembre del 1916, forse uno dei “biglietti cinici” di cui Sibilla dice a Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi. a Niccolò Gallo, scrive Turchetta, si deve la prima edizione, nel 1958, del carteggio tra Sibilla Aleramo e Dino Campana. qui torna il tema reiterato dell’innocenza: “e infine della/lotta delle passioni/il trionfo dell’innocenza/, quasi a sottolineare il baratro tra il cuore intatto del Poeta e le intemperie che lo colpiscono. Turchetta propone una grafia emotiva, evidente nel “disordine convulso della scrittura” (1369), in cui coabitano aggressività e pentimento. segue “Poesie per Sibilla Aleramo”, testi iconici della poesia campaniana dove la rabbia sfuma nel passo che incede del ricordo, nella dolce ripetizione che fissa l’eterno: > Più pura nell’azzurro è la luce d’argento > Più bella la tua figura. > Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi > Più bella della bionda Cerere la tua figura nella sezione seguente, Altri testi, sono raccolte due delle quattro prove d’esame per docente in Lingue straniere che Dino affrontò, senza successo, nell’aprile del 1911 presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. si tratta del tema di italiano, “A zonzo per Firenze” e della redazione in francese, “Le repentir”, da cui traspaiono, malgrado siano state redatte in un frangente particolare e con un tempo limitato a disposizione, tòpoi familiari all’opera campaniana, tra cui l’attenzione al paesaggio. le quattro “Traduzioni” che seguono, da Verlaine, Ward Howe, Goethe e Heine, sono solo una parte del lavoro effettuato da Dino Campana su testi stranieri.  * Cercavo idealmente una patria non avendone l’ultima parte del Meridiano è dedicata alle 290 Lettere 1903-1931, di cui la maggior parte scritte tra il 1915 e il 1917. come nota Gianni Turchetta si attesta una grande differenza tra il numero di lettere che precede i Canti Orfici e quello che segue il Libro. la Lettera 7 indirizzata a Giuseppe Prezzolini (6 gennaio 1914) riporta una versione de “La Chimera” molto vicina a quella dei Canti Orfici. lo stesso è per una versione dei “Notturni” che appare nella Lettera 13, destinata a Luigi Bandini. il lavoro di ricerca sulle Lettere non è esaustivo. Turchetta ci dice, ad esempio, che ne mancano molte inviate all’amico Mario Novaro (“siamo un po’ fratelli, non è vero?”, Lettera 93, aprile 1916) e a Sbarbaro. una recente pubblicazione a cura di Costanza Geldes da Filicaia e Marcello Verdenelli rivela che Alessandro Pavolini avrebbe continuato a scrivere a Dino Campana anche dopo l’internamento a Castel Pulci, stemperando, seppure con cautela, l’immagine di una solitudine totale del Poeta durante i 14 anni in manicomio. le Lettere sono forse il contributo d’affetto per Dino Campana più evidente dell’alacre lavoro di Gianni Turchetta, che rispetto alle edizioni precedenti elimina la separazione tra la corrispondenza con Sibilla Aleramo e le altre. qui lo studioso si fa da parte, e mentre egli tace la vita di Dino si dipana, affiora il bisogno di essere riconosciuto, di percepirsi, scrive Turchetta, attraverso lo sguardo degli altri. tra le epistole più toccanti ci sono certamente quelle scambiate con Sibilla. l’abisso di una passione limpida mista a rovina, “il cupo bagliore del miracolo”, scrive la scrittrice al suo Dino “fatto per il sole”, coagulando forse un’intuizione[vi]. la reiterazione implacabile tra speranza e delusione, ira e dolcezza. due cuori bambini che la vita ha portato lontani l’uno dall’altro. il continuo tentativo di farsi capire votato all’incomprensione, la solitudine infera per un disamore subίto che Dino sentiva destinale, ferita di abbandono che a sua volta diventa lama acuminata che giudica e abbandona.  > Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua > grazia […]. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni > col pensiero[vii]. eppure forse il dolore più cupo, l’affanno più lancinante di questa continua ricerca di presenza al mondo affiora dalle lettere mandate ad amici e intellettuali, tra cui spiccano Boine, che sente per Dino una sincera empatia: “Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che si appiatti?” (Lettera 60, 15 novembre 1915), Novaro, Cecchi, Cardarelli, Carrà. “Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo anch’io”, scrive il Poeta alla Direzione della rivista “La difesa dell’arte” nell’estate del 1910 (Lettera 3). con Papini, con cui aveva ingaggiato una tenzone a senso unico mesi prima, si firma nel dicembre 1913 “Suo uomo dei boschi” (Lettera 6), chiedendogli di portare la sua “piena solidarietà” agli “altri indimenticabili compagni”, compagni che certamente non avevano pensieri per lui. Dino vuole riconoscersi altro dalla sfilata di “filibustieri”, “bluffisti”, “nemici”, “chacals”, “mangiapane” dei circoli letterari soprattutto fiorentini ma allo stesso tempo chiede a Mario Novaro: “Se à notizia di qualche recensione per me la prego dirmelo” (Lettera 83, 25 febbraio 1916). alcuni furono sinceramente toccati dall’aderenza piena alla vita di Dino. Francesco Chiesa scrive: “Le sue parole mi commuovono e mi affliggono” (Lettera 61, 19 novembre 1915); Emilio Cecchi gli dice che le ore passate insieme erano state “una ripresa di energia e fiducia” e si firma “aff.mo” (Lettera 84, 27 febbraio 2016). nella risposta di Dino affiora tutta la sua prostrazione per il sentimento di incomprensione che avvertiva sia dai compaesani di Marradi, dai quali si sentiva perseguitato “con un’infamia e una ferocia tutte lazzaronescamente italiane e clericali” che dalle presenze immanenti di Papini e Soffici, “ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto” (Lettera 85, 1-2 marzo 1916). è quasi una lettera ultima in cui Dino si raccomanda affinché Cecchi non dimentichi le ultime parole dei Canti Orfici, i versi di Whitman: They were all torn and covered with the boy’s blood, “che sono le uniche importanti del libro”. se è possibile che la solitudine di Dino Campana sia stata oltremodo accentuata dalla critica, sicuramente questa lettera a Cecchi è una di quelle in cui, forse anche a seguito delle sue condizioni fisiche e psichiche, si avverte il senso di isolamento e di incomunicabilità: “Mi lascio vivere in un disgusto e una noia mortale” (Lettera 88 a Cecchi, 28 marzo 1916). Cecchi appare come un interlocutore amico, amico che cercherà di riconfortare il Poeta esprimendogli da una parte stima e comprensione, pur avendo attraversato egli stesso “giorni buj terribili… ore e ore di violenza e prigionia”, e consigliandogli dall’altra di non dare troppa importanza al comportamento di Papini, di non “soffrire di certe cose che francamente non valgono la pena per il fatto che non possono più toccarla” (Lettera 86, 13 marzo 1916). è chiaro invece che l’indifferenza di Papini rispetto all ‘assassinio’ di aver perso la copia de Il più lungo giorno rimase per Dino una spina nel cuore. anche Boine registra la sua sofferenza e a sua volta lo mette a parte delle proprie difficoltà economiche e di salute: “Caro Campana, Le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica che cosa risponderle…Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio bene, Campana, e ho grandissima stima di lei e delle sue cose [.]. Ma sono un amico inutile. Suo Boine” (Lettera 99, 22 aprile 1916). da Margherita Carnecchia Lewis, che lo chiama “Infelice Fratellino” (Lettera 124, 30 giugno 1916) a Emma Cima, molti rispondono al suo disagio esistenziale, a loro volta provati da vicissitudini personali, quasi che la sofferenza di Dino rappresentasse una condizione umana condivisa, trascinata silenziosamente nei giorni. un diluvio per tutti. poi arrivò Sibilla.  * T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente. già nella Lettera 128 del 24 luglio 1916 si sente l’urgenza di raccontarsi. Sibilla Aleramo va contro il galateo di ruolo dell’avvicinamento amoroso. si muove per prima verso Dino, senza conoscerlo. cammina nell’essenziale suo, fin dall’inizio in un’intimità spalancata, sovversiva perché anti-strategica, aderente solo a quell’evento di piena che quattro anni prima le aveva fatto scrivere in Corsica la sua prima poesia:  > e penserò allora a queste notti in paese straniero > a queste luci vivide nel vento > che volteggia dolce su le rupi, > a questa mia anima > che ancora una volta si risolleva, > si risolleva avida, > penserò a questo ch’è ancora nelle mie vene > palpito di giovinezza, > ardore forte > volontà più grande d’ogni mio grande pianto, > e stupirò allora, > o notte di stelle, di vento, di anelito solitario[viii] “Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso siamo più vicini… Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato qualche mio piccolo accento – e tutto il resto vi confonderà”. Lei già vicina. si racconta tutta insieme, rotolando cose disparate, come se quel primo riconoscimento fosse già maturo, pregno, già oltre. come se le parole dicessero di un plurale. il giorno dopo dedica a Dino una poesia. e un giorno è un lunghissimo tempo per chi ha capito. “Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,/ meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,/ liberi singhiozzando, senza mai vederci,/ né mai saperci, con notturni occhi… Cuor selvaggio,/ musico cuore” (Lettera 129, 25 luglio 1916). Dino le risponde in francese: “Je vois que nous pourrons être des amis si vous le voulez…Voilà donc une âme comme il en manque…comme il en manque…je me suis dit. – Votre première lettre était vraiment trop belle pour moi et je me suis mis à douter, mais maintenant j’ai compris. Pardonnez-moi” (Lettera 133, 27 luglio 1916). segue un invito a “condividere” la sua ammirazione per la linea “severa” e “musicale” degli Appennini, ad andare insieme a Marradi e per le montagne circostanti. “Aimeriez-vous de vivre un peu sous la tente?… Ce qui m’a le plus touchez a été [sic] le souvenir de votre enfance. Comme je vous aime quand vous écrivez cela ! Je vous baise les deux mains. Votre Cloche”. Sibilla accetta l’ironico invito in tenda parlando come si parla alla vigilia di una vita insieme: “Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli che bisogna ignorare” (Lettera 134, 28 luglio 1916). “Si vous venez ici je n’oublierais pas, jamais, votre grace” (Lettera 135, Campana a Aleramo, 30 luglio 1916). dopo scivolarono. nell’amore. nel buio. l’ultima lettera per Lei è dal manicomio di San Salvi, a Firenze, anticamera del destino: “Cara, Se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo, Dino” (Lettera 282, 17 gennaio 1918). Sibilla non rispose. tace, il dolore. dopo l’ingresso al manicomio di Castel Pulci, le rare lettere, indirizzate allo psichiatra Carlo Pariani, all’amico Bino Binazzi e al fratello Manlio, indicano una volontà di distrazione dal mondo, cioè uno sguardo ormai orfano d’innocenza sul mondo, in cui tuttavia soggiace uno spirito vigile: “La suggestione regna largamente in Italia e fa ottimi affari. Io sono un solitario e non mi piace ammetterla” (Lettera 284 a Carlo Pariani, 30 aprile 1927). e allo stesso tempo, Pariani riporta che qualche giorno prima gli avrebbe detto: “C’è il mezzo di ringiovanire, di rivivere; c’è la suggestione. La suggestione può influire sul carattere, può arrestare lo sviluppo del tempo, può lasciare uno nello stato in cui è anche sempre. Può continuargli la vita anche per cento anni, la suggestione (Pariani 2002, 26-27). a leggere oggi la testimonianza di Pariani si resta in silenzio. lo psichiatra costruisce sistematicamente, commento dopo commento, il profilo psicotico di Dino Campana con deduzioni proprie: “Del secondo colloquio si riportano le idee vane […], si trascriveranno le stoltezze principali e così dell’ultimo, tutto insensato, per manifestare intera la personalità patologica” (25-26), e con scambi di questo tenore: “Sarà come lei dice, ma gli avvenimenti che narra, signor Dino, non sono credibili. Lei passa qui il tempo senza costrutto. Si troverà vecchio col dispiacere di averlo sciupato” (25). non sapremo mai fino a che punto Dino giocasse con Pariani allo ‘spostato’ per proteggersi da tutto questo. sappiamo quasi niente. di quanto il pensiero di Sibilla lo accompagnò in tutti quegli anni, “nel velo attraverso il quale tutte le cose eterne vibrano e sorridono” (Aleramo in Turchetta 2020, 395). gli ultimi giorni non sono chiari ma Gianni Turchetta esprime chiaramente l’ipotesi, condivisa da altri, tra cui lo scrittore e psichiatra Mario Tobino, che non sia stata l’infezione all’inguine in un tentativo di fuga a uccidere Dino ma che si sia trattato di un tentativo di autolesionismo immediatamente insabbiato dalla Direzione di Castel Pulci.  resta il Poeta, come indica la lapide  nella chiesa di Badia a Settimo, nascosta, sotto il pavimento della navata sinistra: “Dino Campana, poeta, 1885-1932”. in quei giorni di settembre, qualcuno aveva portato sulla tomba dei fiori gialli. i viali deserti di San Salvi imbevuti di notte fresca rimandavano ombre buone, sussurri rappacificati. non c’è più nessuno, tutto è rimasto fedele. Cristiana Panella * Riferimenti bibliografici Alighieri, D. La Divina Commedia. A cura di A. Vallone e L. Scorrano. Napoli: Editrice Ferraro, 1987. Campana, D. Il più lungo giorno. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici. Archivi, Arte e cultura dell’età moderna in collaborazione con Vallecchi editore: Roma e Firenze, 1973. Copia numerata.  Pariani, C. Vita non romanzata di Dino Campana. A cura di C. Ortesta. SE: Milano, 2002. Titolo originale: Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, 1938. Sitzia, S. “Per ua nuova edizione del “Quaderno” di Campana. Testimoni e varianti di tradizione. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiano Otto-Novecentesca (OBLIO), I (2-3), 2011. Testo disponibile su https://www.campadino.it Toschi, P. “Il Rimbaud della Romagna”, Il Resto del Carlino, Bologna, 27 novembre 1926. Testo disponibile su https://www.campadino.it Turchetta, G. Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta. Giunti/Bompiani: Firenze e Milano, 2020. Turchetta, G. Dino Campana. L’opera in versi e in prosa. I Meridiani. Milano: Mondadori, 2024. Vèroli, L. pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo. Associazione Melusine e La Vita Felice: Milano, 2020. -------------------------------------------------------------------------------- [i] Tranne laddove indicato, tutti i riferimenti in corpore al testo sono da Turchetta 2024. [ii] La traduzione dal francese è dell’autrice. [iii] Paradiso, XXIV, 55-60. [iv] Per una nota critica sulle prime pubblicazioni dei testi del Quaderno, Sitzia 2011. [v] Magistrale l’analisi dell’autore su “Arabesco-Olimpia” (Turchetta 2024, 1326-1329). [vi] Lettera 139 di Sibilla Aleramo a Dino Campana, 6-7 agosto 1916. [vii] Lettera 208 di Dino Campana a Sibilla Aleramo, 4 gennaio 1917. [viii] Aleramo in Vèroli 2020, 91. *In copertina : Max Kllinger, Una vita, 1885 ca. L'articolo “…ne la luce catastrofica”. Attorno al Meridiano Campana di Gianni Turchetta proviene da Pangea.
April 29, 2025 / Pangea
“Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze, in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.  Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di lampi.  I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?  Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera, più vasta del sole.  Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può correre, come una pecora. * Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo. Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in muratura.  Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi. Bosco in lotta con l’angelo.  Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la benedizione.  Glabri morti, grati morti. * Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.  Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha inghiottito? Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende che ti inginocchi.  Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile. Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i morti.  Quando non si venerano i morti, si muore.  Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono, case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al significato della parola bianco.    Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti – una visione, forse.  * Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di terribile spoliazione.  Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine, il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.  Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi, asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera, altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui, specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.  Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé, a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e là.  Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante, l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.   * Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono, all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo: > “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù > sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del > risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare > la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo > incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così > vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo > infinito di tutte le cose, non sono nulla”. Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio – mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e tutto sia un Moby Dick.  * Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala – 20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”; anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso. Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto. Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione – morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto: identità non è l’identico.  Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.  Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.  ** Dal “Salterio dei Poeti” Salmo 42 Lamento del Levita in esilio Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah. Cerva assetata l’anima mia sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio. L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita; quando potrò tornare ed espormi al suo volto?  Mangio lacrime giorno e notte mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio? Ricordo questo, e in me l’anima esala: emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio, tra inni e grida di giubilo di una folla in festa. Perché ti schianti, anima mia, perché in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. L’anima mia è franta poiché mi ricordo di te dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar. Abisso desta abisso  nel turbinio delle tue cascate, i tuoi flutti e i tuoi frangenti irrompono su di me. Di giorno l’Eterno accende il suo amore di notte in me è il suo cantico, supplica del Dio vivente. Interpellerò Dio, mio baluardo: Per quale ragione di me ti dimentichi? Perché vago oppresso dal giogo dei nemici? Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini, irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio? Perché ti schianti, anima mia, e in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo 42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti esperti, smaliziati al plagio della vocazione. La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide, avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà con il fondo di bottiglia di un bambino. Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna anche in un tempo assurdo. Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci opprime. La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole. Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16). Traduzione e commento di Andrea Temporelli * Salmo 51  Porta numero 51 Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio. Spingimi la testa nel tuo amore Spingila verso il mio petto Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo  Per il quale non so baciare la dolcezza  Che hai inalterato nel mio cuore Dunque spingimi verso la vicinanza violenta  Del tuo battito che sono tutta io Tamburellami con la tua grazia Col capo piegato su me stessa Annegami Fammi sbranare dal centro di questo petto  L’iniquità che mi protegge offendendoti Flettimi, spezzami, raschiami Scorzami da questa pelle Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza Smascherami, sì, sfigurami Riportami riconoscibile a misura ripida Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio Perché contro te solo ho peccato Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato Riportami all’aria della tua bocca Respirami profondamente E vietami l’uso della disperazione  Perché non voglio coincidere col mio errore Reincarnati in questo corpo flesso Non farmi morire nel Nessuno Appendimi denocciolata al tuo collo Fammi ciondolare vicino al tuo calore Ristabilisci la violenza non del sacrificio Ma dell’abbandono Abbandonami in te solo Isolami in te solo Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora E torniamo alla neve Rimarginiamo lo sfregio al bianco Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo  Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason Con il suono dell’impatto di un colpo genitale Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora Riconoscimi bianco, spezza ogni osso  Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato Lasciami solo nel sonno, solo con te Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio. Non abbandonarmi, rimani in me. Non guardare la banalità del mio peccato  Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi Sciogli questo ghiaccio irrigidito  Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia Non accatastarmi tra i pesci di una fossa Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare. Riossigenami Spingimi la testa nel tuo polmone di neve Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato Si, scomparire. Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve? Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera E noi sempre bianco davanti dietro di fianco Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca Sulla terra che vibra Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini E vedere appena la terra davanti a noi  Come un prato bianco immenso mietuto di fresco  Senza più corsa dei cani e voci degli abbai Solo la linea di silenzio del ritorno a casa. Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo Fammi risalire Sion, Gerusalemme  Fino al cospetto della montagna orso Fammi sgozzare l’orso E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve Non disprezzare quello che ho da offrirti Non i sacrifici degli uomini Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me. Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto Non affidarmi a questo buio. Guardami, Mio Accecante, denudami  Mio Ipervedente, lavami  Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca Lasciami respirare la pronuncia del mio nome Schiacciami in te, incostolami, spingi Non farmi rimanere mezza viva E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore Nessun prossimo apparente Io sono qui tutta te Riconoscimi dal punto più distante Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa E come un mattino, mio Boreale,  Sarò bianco, vedrai – Sarò più affamato della neve. Traduzione di Tiziana Cera Rosco L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre proviene da Pangea.
April 26, 2025 / Pangea
Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia
Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta, ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”, si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di “niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998 (Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”, di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore imperituro nel filosofare: > “Quando il tempo viene meno,  > e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,  > quando > nemmeno tu che hai governato il mondo,  > puoi più credere in quel mondo,  > onora la maestà del pensiero, sii fedele,  > sii > come uno che accende il fuoco,  > entra nella notte  > fa ssst,  > con il dito poggiato sulla bocca”. Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo – il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si fa parete di ghiaccio.  Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo, infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male, ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam. Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato (cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in versi.  Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio: > “Chi se li ricorda, i tempi > di un tempo che fu, remoto, inaccessibile, > che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna, > ancora. > Ma nessuno più sogna, credimi, > e questo è per voi, che venite di lontano, > l’ostacolo più grande: resistere > al sonno che vi invade, e annienta > la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi, > discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso, > come ragne liquorose nella cella > della mente. > Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo > dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano, > si abitua a non farne, > e così diviene simile a noi, ombra > come tutti” L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo, della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/ appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.  Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.  La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”. Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono: si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia – porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco troppo netto, dalla lama troppo tesa.  Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al dialogo. Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco, dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima. Insomma, dimmi.  Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una metafora della grande tela del mondo.  Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte… Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio (Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito – classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche, come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:  > «un salto  > che nessuno ha mai fatto,  > e tutti fanno». Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni? Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa  > «su una forcina di bimba,  > si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,  > di una nenia  > che sembra soffiata dentro un vetro  > una bolla  > di voce che ha il suono del vento, la luce  > della neve che scende».  Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:  > «è > come essere in un nero  > che abbaglia, come  > scendere una scala, aprire una porta, trovarsi  > all’improvviso in alto»…  E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade (Anime, stridono). Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi, per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le letture, i maestri? Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’ stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle, naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero. Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi? Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine, una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci, visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia, dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro, parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:  > «Ed è un bivacco di ere,  > che tumultuano, conglomerano. Padri  > che rotolano in altri padri. Materia  > che s’impenna, delira  > in vortici di fuoco».  > > (Dillo tu) La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è tutta la sua grandezza e la sua vanagloria. A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”? «Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa, il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di ogni forma di conoscenza: > «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi  > in un anfratto di vita nascosta»…  > «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano, > e nomi di popoli che non conosciamo».  Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e perché? Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).  > C’è un cuore austero > prima di ogni verso > e sogni, e cieli, e intonaci > e tutta la vita del mondo > che stride, gorgoglia > come un ranocchio di fiume > al suo primo salto Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale: quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere, un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre dev’essere ciò che entra in un verso.  E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro immaginario.  Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima, austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che gorgoglia al suo primo salto.  Lui è Giancarlo Pontiggia E ora? Dove cerchi? Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli che ho scritto.  C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.  Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento di Eraclito:  > «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».  Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono sull’Olimpo.  *In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917 L'articolo Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia proviene da Pangea.
April 24, 2025 / Pangea
Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta
Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina. L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale. È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte, Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte, fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.  La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.  > “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti > sconosciuti”.  L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi, 2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità. Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo scrittore del mondo, che non ha pari. È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale, cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi, riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione interna, il suo moto lineare. Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro, ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri, quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria, raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare, non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso, quello che si opera in noi, di cui siamo opera.  Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?, per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria, Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera, perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.  Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore, la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice, adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore della rivelazione, ancora in atto.  Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme. Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione. Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo, verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito, tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo. Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:  > “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno > incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.  Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata, affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce, tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995). > “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che > l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due > sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi > piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né > speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio > intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola > tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è > fuggito”. Lo scrittore è assorto, nella pietà!  Vincenzo Gambardella L'articolo Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta proviene da Pangea.
April 21, 2025 / Pangea
La poesia-facile e la poesia-poesia
1. Vorrei raccontare un esperimento che ho fatto tempo fa. Ho preso 10 spettatori. Ho fatto vedere loro lo spezzone di un film con un attore che non sa recitare. In 9 si sono accorti della cattiva recitazione. Poi ho preso 10 lettori. Ho dato loro da leggere alcune poesie con testi banali e melensi. Soltanto 4 di loro si sono accorti della bruttezza. Ai 10 spettatori ho chiesto quanti di loro avrebbero voluto fare l’attore. Soltanto uno mi ha detto che in gioventù aveva pensato di iscriversi a una scuola per attori. Ai 10 lettori ho chiesto quanti di loro avrebbero desiderato scrivere poesia, e 8 di loro mi hanno detto che scrivono e avrebbero voluto farmi leggere le loro poesie. I risultati di questo semplice “esperimento” (al di là della sua sciocca inutilità statistica) mostrano di per sé alcune evidenze: a. una consistente differenza tra spettatori e lettori; b. una consapevolezza degli spettatori, rispetto ai lettori, del fatto che la recitazione è anche una tecnica da studiare; c. la presunta facilità della poesia per chiunque abbia appreso a scrivere a scuola; d. la capacità di individuare “errori” nell’arte performativa è superiore a quella di riconoscere “errori” nel testo scritto. Al di là della miriade di poeti della domenica, anche tra quelli pubblicati spesso ci si riferisce ormai quasi esclusivamente a una accessibilità della poesia. Cioè ci si riferisce più alla domanda che all’offerta. In sostanza ci si occupa di marketing, cioè di ragionamenti e azioni che si fondano sulle “esigenze” del lettore – intercettare il lettore, si dice. Questo è ciò che cercano gli editori. E questo è il loro lavoro. Ma non dovrebbe essere quello del poeta. Quando si parla del lettore, di quale lettore si parla? Ovviamente di un lettore generico, di un lettore-tipo, vale a dire di un lettore medio, uno che non esiste in concreto, ma che a furia di nominarlo con tanta bramosia si palesa. Questo lettore inesistente si palesa nella maniera della pubblicabilità, quel modo che trascina poesia e letteratura nella mediocrità, in un ambito cordiale che tutto mastica e tutto digerisce. Partiamo da qui: la cordialità in poesia è un’aberrazione. Non è questo lo scopo del poeta. Non è questo il terreno della poesia. * 2. Ma che cos’è oggi la poesia? La domanda è pertinente, la risposta è difficile da individuare. È vero però che da un decennio è emersa in molti titoli di autori conosciuti una certa semplificazione a tutto tondo. E ultimamente c’è pure una caratteristica diffusa, cioè la ricerca costante di una folgorazione finale. Si trovano accorati pay-off in forma di poesia: soluzioni fulminee, apologhi icastici, sviolinate con ciliegina. Si trovano raramente poesie, nel senso specifico del mezzo. Siamo in un mondo in cui la poesia somiglia all’atto diarroico di dover per forza disporre con impeto parole su un foglio, come una volta le diapositive delle vacanze. Oltre a questa tendenza a disporre testi poetici con finali a effetto, senza che il testo stesso, che precede questi finali, abbia uno stile adeguato nella creazione di un processo motivato che porta a tale finale, ci sono altre caratteristiche negative alla base della produzione diffusa di poesia attuale. E mi piace citarne almeno una. Vale a dire che spesso molte poesie contemporanee scrivono esattamente ciò che vogliono dire. Non è coerenza tra pensiero e scritto: è cronaca. Ma una cosa è raccontare in poesia una domenica in vespa (come fa Sereni in un testo formidabile), altra cosa è fare i compiti andando a capo a caso e raccontando pedissequamente la passeggiata in un bosco, un semaforo rosso nel corso principale, l’affetto per la nonna, e in più utilizzando tutta una serie di inutili aggettivi decorativi. La poesia non dovrebbe solo dire esattamente ciò che vuole dire. Di più. Se, per esempio, uso la parola “ramarro” in una poesia devo avere la consapevolezza che quella parola non appartiene al mio testo, ma soprattutto al mondo della poesia, perché ne hanno scritto Dante e Montale. La tradizione – come si chiama – serve anche a questo: a tonificare in novità un tema antico. La profondità di un testo poetico non è soltanto in quello che racconta, ma come lo dice. E oggi, purtroppo, l’empatico desiderio di rendersi protagonisti delle proprie emozioni porta molti a esporre sentimenti in forme semplificate, invece di verticalizzare (in alto o in basso) le profondità di idee o viscere. Purtroppo oggi si leggono sempre più testi poetici che intendono esattamente ciò che vogliono intendere, senza alcuna “ambiguità”. Mentre è proprio sulla polisemia che si gioca spesso la forza di una poesia. Finché questi prodotti poetici restano nella casa vasta della poesia-facile, nel suo senso lato di “affare emotivo”, va benissimo. Del resto alcuni di questi prodotti diventano anche titoli librari di successo, e vengono pubblicati con ottime tirature. Eppure credo avesse ragione Ungaretti quando diceva: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile nel modo più elementare, non è più poesia”. * 3. Veniamo così a un altro argomento. Cosa dovrebbe accadere quando il punto non è il mercato librario, ma la poesia-poesia? Forse la poesia dovrebbe essere, prima di tutto, la semplificata complessità di un lungo rapporto con la tradizione e con la lingua. E certo anche il fulmineo processo creativo emozionale. La poesia dovrebbe essere, prima di ogni altra cosa, la parte consistente di un lavoro sulla lingua. La metrica è la musica della poesia e chi non la conosce fa la stessa figura del direttore d’orchestra che non sa leggere la musica sullo spartito. Certo, si può ignorare la metrica, come si può fare immondizia dell’armonia, ma si deve conoscere e si deve sapere che cosa si sta facendo. In definitiva, il poeta ha soltanto la lingua, l’uso della lingua, i suoi modelli e i suoi labirinti, le sue opportunità e le sue forme, come destinazione e come destino. E per raccontare qualcosa che abbia la parvenza di un lavoro nella poesia forse non basta una vita. Una vita di letture abbondanti, una vita di studi continui, una vita di lunghe passeggiate in solitudine per sgranchirsi la mente, una vita di riscritture chiarificatrici. Non si può definire un poeta da un libro, da un lampo improvviso che acceca, ma da una competenza acquisita nel tempo, possibilmente attraverso un’opera composta da più prove, da una carriera svolta in maniera appartata in questo fragile piccolo mondo delle parole. * 4. Capisco che in un mondo fatto di social e onnipresenze virtuali le persone pensino al concetto di tempo e di storia come un lungo presente spalmato esclusivamente sulla loro età, sulla loro brevità di vita. Tuttavia la cultura dovrebbe scucire dagli occhi il velo che ci attanaglia, invece di farne viva cordialità e simpatica e amorevole eroina che tutto rasserena. I libri e la poesia soprattutto ci fanno vivere nella consapevolezza di una lingua. Nella tradizione letteraria italiana la poesia ha un ruolo soverchiante sulla prosa. Questa tradizione può essere solcata o essere tradita, ma soltanto attraverso di essa possiamo concepire un passato che serve ancora comprendere e in questa maniera guardare a un futuro da inventare. Ecco dunque che la poesia non è il gioco iperbolico delle chiuse a impatto, concepite come manifesti 6×3 che ti si parano davanti, quando svolti sulla tangenziale. La poesia non è empatia sentimentale, non è la sociologica versione del dolore. Forse questo funziona per i social, la tv, i rotocalchi. Ma non per il fragile piccolo mondo della poesia-poesia. Certamente i social (e facebook su tutti – pur con il suo declino, essendo una piattaforma legata a una popolazione anziana) hanno avuto il merito di rendere più diffuse molte frasi letterarie. Molte poesie famose sono rimbalzate di post in post rendendosi fruibili a numeri enormi di persone. I social contribuiscono a una specie di “democratizzazione” della punta dell’iceberg letterario. Vale a dire che milioni di utenti si ritrovano a leggere pezzi di brani letterari, spunti narrativi, frasi tagliate, brevi testi poetici. Tutto ciò però conferma la superficialità di questo approccio e fissa alcuni passi di letterature di vari Paesi del Mondo in frasi granitiche scolpite nella pietra. Come una canzone ascoltata per tutta un’estate diventa un tormentone e dopo un anno non abbiamo più orecchie per ascoltarla e ce ne dobbiamo separare o dimenticare, anche una poesia di Giorgio Caproni, continuamente postata sui social ci risulta prima o poi stucchevole. “Anche oggi pernici?”, diceva un padrone al cuoco in un testo di Swift, per dire che anche un piatto prelibato può dare disgusto se lo mangi sempre. Che cos’è dunque questo desiderio di chiunque di rendere “poetico” un attimo della propria esistenza, attraverso una riflessione emotiva postata tramite una poesia ricorrente? Credo sia l’inconsapevole certezza che la parola declinata in forma poetica ha una forza intrinseca che, come un solfeggio, batte e leva, cioè misura il ritmo della nostra anima emotiva. Tuttavia questo non basta a descrivere i contorni della poesia-poesia, ma soltanto la forza della lingua al servizio dell’atto poetico. Perché in verità la poesia non è tutta nelle pagine dei libri, ma nella natura. È da questo grande libro incommensurabile che spesso si traggono, con il lavoro nella lingua, le emozioni delle parole. * 5. Tuttavia, come forse abbiamo lasciato intuire, il segno della poesia-poesia non ha largo campo nella società e all’interno dei suoi mezzi di comunicazione. Perciò resta complesso (e impossibile qui) indagare quanto i dispostivi tecnologici abbiano modificato e influiscano sulla percezione della poesia-poesia, preferendo solitamente una poesia-facile, cioè “meccanismi poetici” più superficiali e semplificati. Questi ultimi sono la voce-guida “culturale” dei nostri tempi. Tempi che non mostrano più un’identità collettiva, checché ne dicano o sperino i governanti; tempi che non vedono una fase di ricostruzione collettiva, come accadde nel secondo dopoguerra; tempi che erodono la razionalità in favore di emotività adolescenziale. È finita la vita in diretta, cioè quel legame individuale e collettivo che i mezzi di comunicazione (tv, radio, stampa, editoria) organizzavano per gli italiani. Dal momento in cui ogni individuo ha potuto avere un dispositivo personale, la visione e la pubblicazione on-demand hanno soppiantato la visione e la pubblicazione tramite terzi, si è perduto, in questa frammentazione, anche il valore della poesia-poesia. Con la denatalità degli italiani, l’arrivo di molti immigrati da varie parti del mondo, il gergo invasivo dei social e dei giochi elettronici, l’uso dell’inglese della tecnologia, i ricorrenti gerghi giovanili (derivanti più o meno dalla musica pop), l’ideologia woke e le sue declinazioni linguistiche, i sempre più spiccati ritorni ad accenti regionali nelle radio e nelle televisioni nazionali, siamo di fronte a un tempo formato da molte alloglossie. Non sembra esserci più un sistema di una lingua maggioritaria, come è stato fino ai primi anni Ottanta del Novecento, attraverso i canali RAI. Allora potrebbe essere forse la poesia-facile a stabilire nuove regole e nuovi principi? La sua diffusione sui social, la sua elementare comprensibilità, la sua affabilità nelle forme semplificatorie di cui abbiamo detto all’inizio di questo testo, potrebbero suggerire un sentiero, che mette d’accordo lingua scritta e lingua parlata. Infatti, ormai l’uso dei vari dispositivi tecnologici permette una commistione molto forte tra scritto e parlato, con uno scivolamento del primo in favore del secondo. Senza dubbio una società è coesa laddove si individua un sistema linguistico corrente e comune, un impianto di base minimo non soltanto per la comunicazione concreta, ma che sappia anche muovere dal linguaggio alle emozioni e dunque a un immaginario possibile di riferimento. Senz’altro la poesia-facile sta avendo successo per questa riduzione di complessità, per una certa adolescenziazione sociale e culturale, che è anche, in parte, una rinuncia alla razionalità e alla responsabilità. Invece di offrire agli adolescenti una formazione, attraverso la letteratura, che li traghetti al mondo adulto, si è recentemente attaccata superficialmente la tradizione letteraria cercando di nasconderla, emendarla, epurarla. Al tempo stesso si pubblicano e si promuovono “casi letterari” di poesia-facile, si adolescentizza, in chiave esclusivamente emotiva, la produzione poetica contemporanea. Non mi sembra un buon programma di crescita individuale e collettiva. E certo voglio credere che servirà ancora qualcuno che sappia muovere le trame sottili e adulte della poesia-poesia. Di questo spero che la comunità attuale dei letterati e dei responsabili dell’editoria continuino ad averne consapevolezza. Alessandro Agostinelli * Alessandro Agostinelli, scrittore e poeta. Ha pubblicato il romanzo Benedetti da Parker (2017); alcuni saggi sul cinema americano; i reportage di viaggio Giordania stilografica (2023), Da Vinci su tre ruote (2019), Honolulu Baby (2011); le raccolte di poesia Le vive stagioni (2023), Il materiale fragile (2021), L’ospite perfetta – Sonetti italiani (2020) e in Spagna En el rojo de Occidente (2014). Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI Tre, L’Espresso. Fondatore del Festival del Viaggio. Dirige la collana Poesia di Edizioni ETS. L'articolo La poesia-facile e la poesia-poesia proviene da Pangea.
April 18, 2025 / Pangea
“Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza
Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse, anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino, che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio (1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice lunga sulla sua psicologia.  A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e figlio.  Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime fantasie amorose fa una riflessione: > “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a > lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io > stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non > piccola, il mio avvenire”. Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo inestricabile.  > “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi > fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina, > delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi > indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo > fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa > piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era > diventata ancora più alta, molto più alta”.  A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue miserie.  Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé: > “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso > nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che > poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di > accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di > tanta infinita adorazione”. Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la rinuncia alla vita.  Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite nella pietra:  > “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”. Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata. Silvano Calzini *In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922 L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza proviene da Pangea.
April 17, 2025 / Pangea
“Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po
La produzione letteraria (e non solo) di Gian Ruggero Manzoni è delle più variegate e peculiari. Leggendone i libri, seguendone il percorso artistico (almeno di questi anni) ci si accorge facilmente di quanto l’autore abbia un piede nel presente e un piede in un passato remotissimo. Manzoni lo vedo un po’ così, attuale e allo stesso tempo antico, mentre paziente fila una tela che ricongiunge il presente con gli albori dell’umanità.  Dopo un libro come Dialoghi infami (Medusa, 2024), tremendamente macchiato dalla contemporaneità, con Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo, 2024) facciamo un balzo indietro di millenni (come già aveva compiuto con Ultramodum), all’origine della vicenda umana, quando ancora non era Storia, sulle orme di sciamani che camminano sul sottile confine tra questo mondo e l’altro (o gli altri), fra religione e magia. Il libro raccoglie una serie di prose poetiche e disegni, suddivise in quattro sezioni: Nel lento movimento dei ghiacci, Sciamani, La quarta moira, La rinuncia. Mi domando se non stia tutto qui il senso della ricerca artistica, della scrittura come del disegno: ritrovare il filo di un discorso incominciato migliaia di anni fa e che abbiamo perso lungo la strada, ritrovare la magia di cui è ancora intrisa la realtà sotto tonnellate di cemento. Artista, poeta, scrittore; traduci e interroghi testi sacri e mercenari sanguinari: ti senti anche tu un po’ sciamano? A un recente Festival Internationnal des Traditions et Spiritualites Ancestrales et du Chamanisme, tenutosi in una vallata nei pressi di Reims, in Francia, confrontandomi con sciamani e sciamane riconosciuti quali Abdellah e Gnawa Akharraz, Vera Sakhina, Ayangat, Anja Normann, Frederic Roure, Bhola Nath Banstola, Tiegniery Diarra, Baruch Osorno, Domi Farinelli, sono stato riconosciuto, da loro, quale sciamano a mia volta… sciamano della parola, non celebrativo, cioè non operante tramite danze o gesti propiziatori, ma quale “guaritore”, così mi hanno definito, per mezzo della parola, ed “evocatore”, sempre tramite il suono che conteniamo, di entità superiori. Comunque già mia nonna Olimpia, a sua volta sciamana romagnola, mi aveva riconosciuto e, a suo tempo, mi passò il dono. Inoltre ogni buon poeta o artista o musicista è infine uno sciamano se opera per il bene e il bello, e se sempre rispettoso delle “anime naturali”.   Quale legame persiste fra l’uomo di oggi e quello che vestiva le pelli di mammut e interrogava il fato seguendo il volo degli uccelli? Sono lo stesso uomo unicamente in tempi diversi. Tutte le massime domande sono ancora sul tavolo prive di risposta, quindi nulla sapeva del cosmo e di sé l’uomo primitivo e nulla sappiamo di noi e del cosmo… o, meglio, della dimensione che ci contiene e che conteniamo… noi umani del XXI° secolo. Giusto sappiamo che un giorno moriremo e che la Terra è tonda e ruota attorno al Sole, mentre la Luna ruota attorno alla Terra, poi stop, che altro si sa? Dimenticavo, ancora molti continuano a credere che la Terra sia piatta… e detto ciò non resta che sorridere riguardo la nostra attuale condizione.  “La magia appare incredibile solo perché è l’evento più naturale e quotidiano che ci sia”. “Ciò che è stato creato è magia, e lo sciamano non è che l’indagatore dell’indagine”. Ma cos’è la magia? Credendo in un divino generatore, creatore e demiurgo, credo anche che esistano esseri umani e animali e piante che riescono a metterci in contatto con altre dimensioni. La magia è la capacità di proiettarti o proiettare un altro essere in universi paralleli, come sostengono le varie Teorie del Multiverso, così, scientificamente, oggi vengono appellate, mentre arcaicamente avevano e ancora hanno altri nomi. La magia è entrare in esse e giungere a vibrare come le stesse, fino alla scoperta della propria “nota armonica”, come la definiva il teosofo, pedagogista, filosofo, esoterista austriaco Rudolf Steiner. Il sommo Guido Ceronetti giustamente scriveva nel suo Il silenzio del corpo, un libro che consiglio:  > “La fame di magico è più che legittima, il rischio è, sempre, che il malvagio > destino la orienti, per sfogarla, sulla stella del male. Ma di magia buona c’è > oggi molto più bisogno che di medicina buona”. Quando osserviamo una civiltà arcaica (anche quella più vicina a noi, come quella contadina) con i suoi riti, ci appare come in balia delle superstizioni, eppure era una civiltà più solida della nostra. Siamo oggi, più di allora, vittime di superstizioni? Direi che il “rito del consumo” sia la superstizione più nefanda che oggi ci possa essere, idem la “messa del denaro”, paragonabile ad ogni “messa nera”. Tutto ciò che oggi divide e rende predatori risulta quale attuale superstizione, ciò che invece unisce è ‘savietà’, saggezza, buon senso, cultura base, consapevolezza, massima osservazione, “antica credenza popolare”, compenetrazione, quindi passata e accettabile superstizione. Sì, un tempo, anche noi Occidentali, oggi definiti evoluti, emancipati, civili, tramite l’attenzione persistente riuscivamo a compenetrare la materia e il mistero così come l’altro o l’altra da sé, al punto di partorire modi di dire valevoli ovunque atemporalmente. Quindi necessita suddividere la superstizione, come poi la magia, in bianca o nera. Su ciò che oggi definiamo idolatria o, peggio, ignoranza, un tempo si sono costruiti imperi, ma l’antica superstizione era troppo attinente al destino e allo stare attenti ai “segni” per poterla definire volgarmente ubbia. I “segni” e la capacità di interpretarli sono da considerarsi come le tracce lasciate sul suolo che i pellerossa riuscivano a leggere. L’interpretazione dei “segni” e delle atmosfere era l’arcaica buona, benevola, accrescente superstizione.  Questo lento movimento dei ghiacci, questo andare alla deriva, rappresenta un po’ la tua idea dell’umanità oggi. In alcuni passaggi sembri suggerire una fratellanza umana originaria perduta, ormai scaduta in uno “scontro tra simboli che, nell’errore, si leggono avversi… si disegnano quali contrari, di sanguinari eccessi o di ecatombi, oppure di massacri”. È una fratellanza recuperabile? Sì, la lenta deriva dei freddi… dei gelidi ghiacci è il nostro attuale andare. Mai gli uomini sono stati fratelli per sangue, quanto, invece, fratelli per idea, per idealità, quindi per fede, perciò uniti anche se non si è stati scaturiti dalla medesima carne. Gli ovuli e l’utero che rendono non solo fratelli ma gemelli si chiamano: credo comune, comune rappresentazione mentale, comune opinione, convinzione comune, sentire comune, spirito comune, volontà comune, divinità comune, comune magia. Nell’oggi l’Occidente ha perduto quei valori fondamentali che ho pocanzi elencato. Siamo molto… troppo lontani gli uni dagli altri. Crollata una memoria comune, così che nascessero infinite memorie, ecco che la frammentazione… la polverizzazione disintegra ogni possibile verità comune, o, meglio ancora, ogni comune verità.  La quarta moira, cioè il nulla, l’assenza di prima e dopo, la fine della fine, domina una parte centrale del libro. Qual è il tuo rapporto con la morte e con ciò che viene (se viene) dopo? Sono solito dire che i miei genitori più che vivere mi hanno insegnato il come morire con estrema dignità, sacralità, coraggio e spiritualità. Il senso di morte ha sempre aleggiato a casa mia, ma non in accezione cupa, oscura, deprimente, scoraggiante, quanto come persistente preparazione alla stessa. Ogni attimo può essere l’ultimo e per quell’ultimo necessita essere pronti. Infine la mia esistenza, finora, è stata un persistente apprestamento alla morte, con tutto quello che ne consegue, quale prima componente il cercare di vivere… sì, di vivere ogni attimo come appunto fosse l’ultimo. Ciò che di noi resta, così come ciò che di questo universo resterà, non sarà neppure un punto su di una mappa ampia quanto la potenza dell’inesprimibile. Il mio e il nostro nulla è il saper morire quindi il saper vivere in quell’inesprimibile. A tal proposito tanto mi fu caro quello strabiliante scritto titolato, in italiano, La Lettera di Lord Chandos, in tedesco “Ein Brief”, del grande Hugo von Hofmannsthal. Valerio Ragazzini ** Brani tratti da Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo) di Gian Ruggero Manzoni Ogni dimensione ride attorno a me, e mai mi priverò di quello che la mia fede dona. Un sorriso è il Cristo, mai un atto d’accusa. Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana. È ancora un antico sogno che riconduce alla mia terra d’origine, a quell’arcaico intrico di rami, rovi, edera, canne, alghe palustri. È nella natura aspra della mia gente che saldo la tragedia, ma anche l’elevazione, del nostro destino di eterni immaturi. Che gioia! Che ritrovata incoscienza pudica! Forse che l’Età dell’Oro dimori in un colpo di zappa o nel tergersi la fronte dal sudore? La genuinità perduta solca ancora la palude. Nulla è scomparso. Tutto è ancora lì, se apri gli occhi di tua madre, e, del padre, se indossi gli stivali di gomma e i pantaloni di velluto. * Mi diceva un filosofo e musicista di Praga: “La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; la stessa accusa fu di mia nonna, indagatrice di segni e di premonizioni sulla corteccia degli olmi o dei pioppi padani. Lei mai volle salire in auto, se non il giorno che la portarono all’ospedale dove le diagnosticarono che entro un mese sarebbe morta e che si preparasse a salpare. Al che si fece riportare nel suo letto (posto al centro della nostra casa), accese la candela che aveva sul comodino, recitò le orazioni e si spense con l’ultima goccia di cera scivolata… mentre le api, riunitesi, con lei migrarono in un’altra chiesa dimenticata… su di un altro altare. * Al che si disse che oltre la velocità della luce, pur sempre relativa, non si può andare, visto che non esiste alcun modo di accelerare una spinta fin oltre i 300.000 chilometri al secondo, se non fornendo un’energia che risulti al di là dell’estremo, quindi ardua, impossibile, lontana da noi, inavvicinabile, cattiva e infinita, non certo piccola giostra che tramite il calore muove pale, vele, seggiolini, camei, sputando sulle madri che glabre ammirano con facce ebeti i loro figli… privi di futuro, carne già morta, di già polvere, di già rutto di un mulinello di cielo, o coda gelida di uno spegnersi sia di stelle che d’illusioni… che di risorse… che di fermenti… che di fittizie occasioni. * L’11 maggio del 1872 il cielo d’Europa venne ammutolito da una pioggia di meteore in fiamme che cessarono in una nuvola di cenere che avvolse per giorni animali da latte, neonati, baldracche, lumache e api, poi connestabili, carabinieri, netturbini, scava pozzi, e pur anche cani e aironi, quale benedizione di me demone che per non molto custodirò l’equilibrio dei corpi astrali, così che lei, la gran signora, nella gravità copuli col marito mentre, gli ultimi gemiti, siano dell’amante, poi dell’amante, e dell’amante ancora, nella perduranza di una sterile ginnastica, frutto di una Gomorra petulante e allucinata, incensata dallo sperma di un toro che annaffia probi e tagliagole, avvocati, notai, banchieri, i quali si riconoscono fra loro tramite anelli ai lobi, occhi truccati, turbanti e gemme, cinismo, volgarità e nessuna carità parziale, cristiana, o chissà dove e come, la stessa, sia nata e possa custodire un valore ultraumano o solo menzogne, o sterili sermoni. *In copertina e nel testo, alcune opere di Gian Ruggero Manzoni L'articolo “Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po proviene da Pangea.
April 16, 2025 / Pangea