Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
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In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro,
Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero
molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo
maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte.
Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua
evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti.
Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi –
a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a
scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.
Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo
sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi
divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi
paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è
all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora
bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni
hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più
attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato
di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una
sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore
qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert,
Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai
banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono
innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto
implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della
passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per
gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi
consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri
Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.
Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque
lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e
lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e
arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e
poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi
a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un
saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno
riprende una frase di John Cheever:
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un
suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la
ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in
cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla
letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura
didattici.
Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque
dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i
brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un
originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente
frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a
costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai
racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio
alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato),
oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla
fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma
riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e
dunque il bel ricordo che ne conserviamo.
Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe
avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per
camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere,
come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro
che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo
amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:
> “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un
> itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché
> è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi
> sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono
> stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità
> che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”
Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni
maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare,
come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano
le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come
sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con
interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte
davvero.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti
sacrifici”. A lezione da Piperno proviene da Pangea.
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita
radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il
confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo?
«Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva
Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli
luminose dell’Himalaya.
Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa
diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti?
Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto
inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico,
trasfigurandolo in desiderio.
Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia
millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia,
popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i
dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il
Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una
costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso.
E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si
immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di
Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e
inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di
viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla
meraviglia.
*
Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi –
Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili,
nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato
antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo
documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la
sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni
gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano.
Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non
siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e
Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini,
invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di
camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In
questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha
visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci
dell’immaginazione.
Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal
porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo,
contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur
scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave
avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è
legato da una profonda riconoscenza.
Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine:
l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in
Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui
avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una
certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità
di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne
il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya
Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta
pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del
mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di
pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da
giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e
silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti
da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto
di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica,
capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e
di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la
prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a
cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese,
nascono quasi degli Haiku in prosa:
> “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati
> all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada
> imperlava di luce”.
Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua
scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri
nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella
giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche
lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto.
Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci:
geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura
delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei
versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco:
maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi
come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran
Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura
femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero
lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi
l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo
che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini
abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo
lirismo proprio nell’evocazione di Pemà.
La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un
contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco
superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in
lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e
penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal
sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece,
sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo
gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei,
stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è
avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle
mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda
occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena
tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e
profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene
l’inglese e i grandi autori della letteratura.
La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18
maggio 1948 Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024
Archivi Alinari.
C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno
alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un
pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per
Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta
tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in
quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue
sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un
modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al
cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla
nostra?
Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è
passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano,
come per incanto:
> “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i
> puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i
> campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della
> Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle
> distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti
> svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci
> degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da
> difendere, da condurre di là dall’Imàlaia”
*
Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e
costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la
fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e
l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per
squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti
vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare,
dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e
nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa
indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali
sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano
portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.
Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i
mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso
violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo
atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di
scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della
scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente
pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo
svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.
Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante
di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche,
un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze
opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e
dolcezza, umorismo e compassione.
*
Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella
regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due
estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti,
pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di
stoffa tibetane.
Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi
perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello
dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare
da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico
drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito
mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed
irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella
manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963.
Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi
Alinari
L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla
generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
Firenze, settembre 2018. il bibliotecario della Marucelliana posa il volume su
un leggio e si allontana con discrezione.cancellature, singole parole,
riscritture formicolano sopra le righe. guardo. guardo e basta, se tocco, tutto
scompare. sono rimasta a lungo su quei primi versi. simili al suo Libro ma
diversi. diversi. il titolo scritto a caratteri più minuti del testo:
“Cinematografia sentimentale”, “La notte mistica dell’amore e del dolore”. poi,
per tutto, fu semplicemente La Notte. non era il Libro. l’uomo non era,
esattamente, lo stesso. contemplando quel supporto pulito pensai a quante volte
Dino fosse entrato in una biblioteca, da anonimo. anonima la sua lungimiranza
nel consultare testi che ancora nessuno in Italia aveva notato. anonimo perché
già oltre. il volume sul leggio si intitolava Il più lungo giorno. l’amico Dino
Castrovilli quella mattina mi aveva detto: “ho una sorpresa per te”. così è
stato, che gliene sia sempre grata. incontrare quella rilegatura così gracile
dopo avere sognato un libro immenso. guardo e penso che tutta la vita di Dino
Campana è stata il più lungo giorno “ne la luce catastrofica”: ogni giorno
l’attesa vitale, urgente. ne la luce catastrofica. queste quattro parole mi
rotolano davanti tra le righe, tra tante altre, impigliate ad altre, ognuna
definitiva, visione autonoma. continuo a guardare. accanto a “stanza” Dino
scrive “piena di sogni”. sopra “scheletrico”, “vulcanizzato”. così apparivano le
coste antracite dei suoi Appennini. in alcuni casi, frasi accavallate: “e nella
vita stellare dello specchio un ricordo d’antica sera d’amore di viola”, segni
in schegge. mentre scrivo ho vicino a me la versione anastatica de Il più lungo
giorno di Vallecchi, la ‘realtà’ di quello che resta. ripenso a quei giorni come
a un sogno fugato.
devo iniziare. mi viene ‘ordine’. la parola che sale per prima percorrendo
questo magnificente lavoro di Gianni Turchetta, atto d’amore. fare ordine,
innanzi tutto. riconoscere la volontà di Dino Campana di affermare un talento
che sapeva, rivendicava, e ribadiva con uno studio continuo rimasto nella
maggior parte della critica sotto traccia, offuscato dalle diagnosi di
nevrastenia, dalle boutades dei momenti di corto circuito, dai pregiudizi di chi
vide in tutte quelle cancellature e riscritture un segno di confusione invece di
un intento lucido di rileggere le varie versioni di uno stesso testo e scegliere
quella che sembrasse migliore, come farebbe ogni scrittore. lineare nel proporsi
al mondo da poeta, tessitore di sogni, di connessioni inesplorate, creatività
pulita. nettarlo dallo stereotipo del matto talentuoso ma caotico, capace di
fulgori ma arronzone, scarpone indesiderato dei piccoli Olimpi letterari.
restituirgli un disegno personale, anche se offeso dal travaglio, e forse per
questo più assetato. l’ordine di Gianni Turchetta si manifesta già nella sezione
introduttiva, L’eterno ritorno dell’immagine e la resistenza della
poesia (Turchetta 2024, XI-CVIII)[i], che in esergo riporta come una
dichiarazione di intenti una frase di Michel Foucault: “dove c’è l’opera non c’è
follia” (da Storia della follia nell’età classica).
questo saggio di apertura è un attento lavoro filologico che mostra con
implacabile affetto verso l’essere umano che Turchetta segue da 40 anni,
attraverso alcuni elementi cardinali, l’intento costruttivo del Poeta rispetto
alla sua esperienza di studio della letteratura e della filosofia, in
particolare tedesca, inglese e belgo-francese, e questo attraverso una reiterata
frequentazione delle biblioteche, suggerendo spostamenti mirati che contestano
l’immagine di un dromopatico che si sarebbe trovato per caso, nel suo moto
perpetuo, anche in una biblioteca. le sedute di studio sono volute, nella
coscienza piena che il suo destino di poeta e letterato fosse stato deviato
dalla volontà della famiglia di farne un farmacista. già la scelta del
titolo, Canti Orfici è un manifesto identitario, una “posture visionnaire”
(Claudel in Turchetta 2024, XXXIX) che vuole discostarsi dal mito orfico
dell’Antichità o dell’Occultismo. l’Orfismo di Dino Campana rivendica il
concetto stesso di arte in quanto “mito della magia dell’artista, del suo
disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell’universo, e della sua
speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti il suo
viaggio” (Segal, Ibidem). Orfeo incarna la poesia che può vincere la morte, una
connotazione che Dino attribuisce a Faust, “alter ego del poeta” (XL). l’omaggio
alla poesia si sviluppa attorno a una tensione costruttiva, a un meccano
circolare in cui si alternano i temi della ripetizione e del ritorno, scrive
Turchetta, che nei testi del Quaderno, precedenti i Canti Orfici, si reiterano
attorno a un femmineo che non concerne soltanto la figura della donna ma diventa
uno sguardo sensibile che permea anche il paesaggio: la notte, la montagna,
l’acqua, le navi, la città (XCII). tutto è animato da un fremito cosmico: “Odore
amaro d’alloro ventava sordo dall’alto/Attorno al bianco chiostro sepolcrale:/
Ma bella come te, battello bruciato tra l’alto/ Soffio glorioso del ricordo,
gridai o città,/ (Quaderno, “Oscar Wilde a S. Miniato”, 158). e ancora: “Nave
che soffri e vegli/ Coll’occhio disumano/ E al destino lontano/ Sempre sopra del
vano/ Ondeggiare tu pensi/ E m’arde e m’arde il cuore/ Nella notte serena/
(testo 38, senza titolo). la nave come creatura senziente, quasi che
quell’“occhio disumano” fosse quello di un pesce e che l’ondeggiamento, più che
il beccheggio della prua, un respiro di branchie. rispetto alla figura della
donna, è evidente, scrive Turchetta, una continua oscillazione tra incontro e
perdita, un sentimento d’amore che si tempra e trova le sue note più alte
nell’assenza dell’amata. una volontà di strutturazione, scrive l’autore, si
evince anche dal riequilibrio del rapporto tra versi e prose, che nei Canti
Orfici sono rispettivamente 15 e 14, contro il rapporto di 14 a 4 ne Il più
lungo giorno. e allo stesso tempo questa tensione alla costruzione di
un opus unitario procede per lacerti, correzioni, rimandi, ritorni. Turchetta
espone quasi chirurgicamente il cantiere della costruzione poetica campaniana:
dopo l’Introduzione e la Cronologia, propone una vivida “Nota all’edizione” in
cui esplicita la struttura del volume, organizzato in quattro parti principali
(“macro-sezioni”): la prima dedicata ai Canti Orfici, le due successive ai testi
a stampa e manoscritti che hanno preceduto e seguito il Libro e la quarta alle
Lettere. qui l’autore esplicita il suo intento di far affiorare l’ordine
dell’immenso lavoro di scrittura e riscrittura di Dino Campana, una “tensione
verso la verità” (CXCIII) irraggiungibile per definizione ma continuamente
reiterata, elemento principe della dignità del lavoro campaniano, sia di quello
concepito come privato, come nel caso del Taccuinetto faentino, del Fascicolo
marradese inedito e del Taccuino Mattacotta, che di quello destinato a un
pubblico, come Il più lungo giorno e le Carte Bandini.
porre come primo documento i Canti Orfici, il cui commento è “intenzionalmente
ampio” (CXCVII) è una scelta assertiva, a dire che dopo infiniti giri attorno al
sole, rovinose cadute, perdite e smarrimenti questo è ciò che doveva rimanere.
un’alternativa sarebbe stata ordinare il materiale secondo un ordine cronologico
ma mettendo i Canti Orfici in prima posizione si vuole ribadire un pieno diritto
di presenza, umana e poetica. scemati i giudizi, i conflitti,
l’incomunicabilità, lo sperdimento, resta l’opera, l’unico Libro, anima salva.
là dove tutto era sembrato perso, mancato, l’opera è salvezza, senso di una
vita. nelle note all’unico Libro (853-1139), eroiche, si sente la meticolosità
di un affetto profondo e sedimentato, un dialogo intimo da cui affiora chiara
l’intenzione di riscattare un uomo ma soprattutto un immenso magmatico poeta.
solo per citare qualche esempio, apprendiamo che l’edizione dei Canti
Orfici proposta è quella che Dino Campana considerava, parlando dell’edizione
Vallecchi del ’28, l’editio princeps, corretta “sul testo di Marradi e delle
riviste che stamparono i miei versi per la prima volta” (853). le dimensioni del
volume 19,5×12,5 sono indicative perché si riscontrano almeno due diverse
partite di carta. informazioni dettagliate riguardano il corpo dei caratteri (10
per la poesia, 12 per la prosa), il numero di esemplari giunti a noi (Roberto
Maini ne avrebbe recensiti 111 cui se ne sono aggiunti nove), forniti o privi di
dedica, la menzione della qualità e del formato della carta, le differenze
riscontrate, dovute a correzioni effettuate sui piombi, segnano passo dopo passo
la qualità dell’analisi filologica dell’autore. egli menziona anche “l’unico,
prezioso reperto del processo di stampa della princeps” (855): le “bozze”
appartenute a Paolo Toschi, che incontrò per la prima volta Dino Campana “una
sera d’estate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola
trattoria, negl’anni sereni in cui s’andava addensando il turbine della guerra:
e mi sembrò d’ascoltare una novella di Edgardo Poe”. in un’altra occasione,
nell’estate del ’14, il Poeta gli disse: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio
volume: non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze […] E oggi –
scrisse Toschi – sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo e
a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero” (Ibidem). malgrado la
stima sincera che Toschi nutrì per la poesia di Dino Campana (“Fra molte cose
illogiche o non completamente realizzate, ma sempre lampeggianti di sprazzi di
poesia, trovo alcune pagine limpide, espressive di tale evidenza e poeticità
quale è raro trovare anche fra i più bravi scrittori d’oggi”), si può immaginare
che molte delle espressioni colorite che usò per descrivere l’uomo andarono a
innaffiare il mito del matto, riportando con dovizia di particolari alcune
imprese occorse per strada o nelle trattorie. “Tale vita avventurosa e
fantastica io l’ho sentita raccontare da lui stesso una sera d’estate” (Toschi
1926). A questo potremmo aggiungere la materialità dei verbali di “Pubblica
Sicurezza” e delle reiterate diagnosi e descrizioni sintomatiche, tra cui la
“Modula informativa per l’ammissione dei mentecatti nel manicomio di Firenze, 9
aprile 1909”, firmate negli anni da dottori e specialisti ai fini dei diversi
ricoveri psichiatrici. a volte sono i Carabinieri stessi a farsi medici: “segni
di pazzia furiosa […] essendo il Campana riconosciuto per matto furioso dal
Dottor condotto del luogo (“legione Territoriale dei Carabinieri Reali di
Firenze, 8 aprile 1909) (CXXXIX). già tre anni prima la Questura di Firenze
l’aveva definito “squilibrato di mente” (CXXV), avviando la catena del profilo
criminogeno ed entrando in sinergia con le diagnosi patogene degli specialisti
che sarebbero seguite e che avrebbero condotto Dino al manicomio di Imola il 5
settembre 1906 a seguito dell’“ordinanza” che attestava la sua “alienazione
mentale” (CXXXI). “il soggiorno nel manicomio di Imola era avvenuto – scrive lo
psichiatra Carlo Pariani – ‘non perché fosse malato di mente ma perché lo
volevano matto per forza’” (Pariani 2002, 21). appare oggi surreale che la
diagnosi che ha sentenziato l’entrata di Dino in manicomio è di “demenza
precoce?” con il punto interrogativo (Idem) e che tra le patologie, che
diventano voci di crimine, risulti anche l’uso di caffè “del quale è avidissimo
e ne fa un abuso eccezionalissimo” (Ibidem). il peccato di avidità fa la colpa,
la frequenza, la malattia. ugualmente vago è il certificato stilato dal Dott.
Cuylitis presso quella che era all’epoca la Maison de santé Saint- Bernard di
Tournay (attuale Tournai, in Belgio), il quale certifica, tra la fine del 1909 e
l’inizio del 1910, di aver personalmente “visto, esplorato e interrogato Campana
Decio (sic) “colpito da una malattia che si caratterizza con i sintomi seguenti:
“tendenza alla pigrizia (?)”, “al caffè”, “alcolismo” (CXLI)[ii]. a Tournai,
dopo aver passato due mesi nella prigione di Saint Gilles, a Bruxelles, Dino
avrebbe incontrato Il Russo, alter ego, scrive Turchetta, dell’“io poetico”,
opposto e complementare a Regolo; il primo vittima del sistema repressivo
pubblico, il secondo, alter ego vincente. eppure Il Russo incarna il sentimento
di persecuzione della poesia, quindi del “boy” innocente e, come in un gioco di
specchi, di Dino Campana stesso (1077). ne è prova anche l’errore, forse non
così casuale, nella traduzione dell’epigrafe da Whitman che chiude i Canti
Orfici, dove Dino ha tradotto: “Erano tutti stracciati e coperti del sangue del
fanciullo” quando l’originale in inglese recita: “I tre erano tutti stracciati e
coperti del sangue del fanciullo”, come a sottolineare la persecuzione di cui si
sentiva vittima, soprattutto da parte di Papini e Soffici. un’ interpretazione
complementare vede i versi di Dino Campana ispirati anche dalle Georgiche di
Virgilio nel passo in cui si narra dell’uccisione di Orfeo da parte delle donne
dei Ciconi, Georgiche che avrebbero avuto un ruolo importante nella diffusione
dei mito di Orfeo. allo stesso tempo, la diffidenza del Poeta verso la forza
pubblica andrà di pari passo con la necessità di trovare ancor più che un
equilibrio un ordine, manifesto d’altronde nell’intenzione di frequentare la
Scuola Ufficiali e poi di entrare in Polizia.
le Note ai Canti Orfici sono un lavoro di alta oreficeria, con infiniti spunti
di riflessione e approfondimento. soltanto per citare un esempio, La Notte,
Turchetta sottolinea come essa designi un percorso iniziatico dove si sentono
gli influssi degli Inni alla Notte di Novalis nella misura in cui il buio
notturno rappresenta il tempo della rivelazione e della verità “che la luce del
giorno nasconde”: “E la notte fu il grembo possente/delle rivelazioni – là
tornarono gli dei” (869). a questo elemento si intreccia “l’assoluta centralità
del tema dell’amore” (Ibidem) incarnato dall’incontro con la donna. amore,
scrive Gianni Turchetta, che dal singolo individuo passa a una verità cosmica,
in un contesto di sacralità laica. speculum ne è per l’autore La Verna, seconda
lunga prosa dei Canti Orfici. là dove ne La Notte si intravede l’ombra del V
canto dell’Inferno dantesco, la Lussuria, La Verna fa da contraltare, con i suoi
riferimenti a San Francesco e gli scenari all’aperto che implicano “ascesa” e
“purezza”, “pellegrinaggio da espiazione” (Ibidem). a giusto titolo Turchetta
esplicita il carattere altamente cinematografico de La Notte al fine di rompere
l’andamento cronologico e intesserlo di scorci, flashback e paesaggi onirici.
tutto per restituire, fondamentalmente, la dimensione di un viaggio
introspettivo che solo in questo modo avrebbe potuto accogliere l’immensità
dell’esperienza d’amore che attraverso la grazia della poesia si fa stato
d’amore universale. in questo senso, aggiungo, torniamo, anche se in una
declinazione laica, all’esplicitazione dell’intento di luce e amore del viaggio
dichiarato nel Paradiso: “poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte/ sembianze
femmi perch’io spandessi/ l’acqua di fuor del mio interno fronte. ‘La Grazia che
mi dà ch’io mi confessi’/ comincia’ io ‘da l’alto primopilo,/ faccia li miei
concetti bene espressi’”[iii].
*
la seconda parte del volume, Prima dei “Canti Orfici”, raccoglie diverse
sezioni[iv]. la prima, “Testi pubblicati da Campana”, conta tre scritti poi
rielaborati nel Libro: “Montagna – La Chimera”, “LE CAFARD (Nostalgia del
viaggio)” e “DUALISMO – Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita
Tchegarray”. segue il Quaderno, ritrovato dal fratello di Dino, Manlio,
consegnato a Enrico Falqui, che nel 1942 ne curò la pubblicazione di cinque
pagine per l’editore Vallecchi nel volume Inediti di Dino Campana.questa sezione
raccoglie la totalità dei testi del Quaderno, 42, di cui 15 senza titolo.
Silvano Salvadori aveva già scritto, nel suo saggio sul Quaderno, di un afflato
universale del quotidiano. segue una breve sezione di tre “Testi contenuti nelle
lettere”, poesie, scrive Turchetta, che Dino Campana copia in una lettera
destinata ai periodici “La Lettura” e “Corriere della Domenica” (Lettera 4,
febbraio 1912), prima di arrivare al Taccuinetto faentino, acquistato in una
cartoleria di Faenza, “del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare
dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera”, scrive Domenico De Robertis
nella Nota al Testo dell’edizione Vallecchi. un “quadernuccio” che “non ha un
principio e neppure una fine – nel senso che, essendo scritto nei due versi,
comincia senza terminare e l’uno s’intreccia e si confonde con l’altro”,
scriverà Falqui nell’introduzione all’edizione Vallecchi del 1960. quest’ultimo
si preoccupa dell’immagine da “scartafaccio” dell’opera, composta da testi
scritti in momenti diversi, forse già dal 1912 (1227), che si dipanano in
verticale e in orizzontale, a penna e a lapis, come aveva già sottolineato De
Robertis. e malgrado questo, Falqui sottolinea l’intento preparatorio di Dino,
in vista dei Canti Orfici, in cui farà confluire nove testi del Taccuinetto, che
attraverso quest’ultimo ci fa capire “quanto lungo e minuzioso e accanito e
cosciente sia stato il lavoro di Campana, […] quasi che chieda e cerchi e
aspetti e aneli di trovare e godere presso di noi il perfezionamento ideale”.
dopo il Taccuinetto Turchetta pone le Carte Ravagli con il “Fascicolo
marradese”, donato da Manlio Campana a Federico Ravagli, da questi pubblicato
tra il 1950 e il 1951 su Portici, e le Carte Bejor, che Turchetta restituisce
attraverso non il volumetto di Bejor ma dal volume del ‘42 di Ravagli. segue Il
più lungo giorno. Turchetta sottolinea come il manoscritto dimostri che, anche a
riscontro degli innumerevoli rimaneggiamenti, riscritture e sovrapposizioni dei
testi campaniani in nome di una poesia del movimento, i Canti Orfici non furono
una copia del primo manoscritto; al contrario, l’autore attesta l’esistenza di
un “antigrafo comune a PLG e a CO, da cui sarebbero stati copiati entrambi”
(1261). contrariamente alla credenza che il supporto cartaceo del manoscritto
fosse di poco conto, Turchetta ricorda che Dino Campana si avvalse di un “antico
volumetto rimasto bianco, trovato chissà dove, la cui composizione si può far
risalire alla prima metà del secolo XVIII” (De Robertis, Ibidem). le note
dell’autore alla sezione de Il più lungo giorno (1259-1293) sono di estremo
interesse: egli afferma che, per la presenza di inesattezze e irregolarità, il
manoscritto è probabilmente la riscrittura di un testo antigrafo; dubita
dell’affermazione, ormai radicata, che Il più lungo giorno costituisca due terzi
dei Canti Orfici, come affermato da De Robertis, e mostra dettagliatamente come
questo manoscritto che anticipa il Libro sia fondamentalmente provvisorio nelle
sue parti, tale da non poter costituire un’opera compatta sovrapponibile per i
suoi due terzi all’Opera. secondo l’autore, benché il manoscritto non fosse allo
stadio di appunti personali, Dino Campana non avrebbe mai consegnato a una
tipografia il testo de Il più lungo giorno nella forma in cui lo aveva redatto.
e se Papini e Soffici avessero accettato il manoscritto egli vi avrebbe
certamente apportato cambiamenti. quindi, anche per l’evidente sviluppo dei
testi campaniani pubblicati come “Autografi lacerbiani”, consegnati
probabilmente insieme a Il più lungo giorno e per la presenza di pagine vuote,
quest’ultimo non può essere considerato ‘il Libro’ di Campana (1263-65).
le Carte Papini contano due fascicoli con quattro testi nuovi rispetto a Il più
lungo giorno che confluiranno nei Canti: “Il Russo (storia vera)”, “(Crepuscolo
mediterraneo”), “Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)” e “Pampa”.
probabilmente i testi consegnati a Papini erano più numerosi, visto che Campana
aveva consegnato altri testi per Lacerba insieme a Il più lungo giorno (1294).
in ogni modo emerge l’evidenza di una stesura di gran parte dei Canti
Orfici precedente la consegna de Il più lungo giorno, che nel suo insieme appare
ponderata, lontana dall’ipotesi diffusa di una ricostruzione frettolosa a
memoria. le Carte Bandini testimoniano una cura per la comprensibilità della
redazione, evidente nelle numerose rifiniture delle lettere, come se i testi
fossero destinati a ipotetici lettori. è interessante notare, scrive Turchetta,
che la sequenza dei Notturni combacia quasi interamente con la versione
dei Canti Orfici mentre altri testi presentano delle varianti, attestando un
percorso che va dagli “avantesti” de Il più lungo giorno alle diverse versioni
dei Canti Orfici, “elaborando i testi nelle direzioni di addensamento semantico
e di esasperazione iterativa che meglio caratterizzano il suo stile” (1303).
seguono Altri inediti, di influenza nietzschiana e baudelairiana, in parte
consegnati a Enrico Falqui dai parenti di Dino Campana. la parte Dopo i “Canti
Orfici” riprende “Versi e prose sparsi”, testi pubblicati tra il novembre 1914 e
il maggio 2016, tra cui tre prose estratte dai Canti Orfici. gli altri testi
verranno pubblicati nel 1928 da Attilio Vallecchi nella sezione “Inediti” del
volume Liriche. essi testimoniano la nuova direzione della scrittura campaniana,
sempre più orientata su un’integrazione tra poesia e pittura, e indicano la
volontà di Dino di arrivare a una seconda edizione del Libro, forse rivolgendosi
a un altro editore. alla luce di questo progetto di riedizione in vista di
un’ulteriore piallatura dei testi potrebbero essere lette anche le reiterate
pressioni, nel 1916, su Papini e Soffici affinché restituissero il manoscritto
de Il più lungo giorno. ne è prova una lettera in cui Emilio Cecchi nel maggio
1916 suggerisce a Dino Campana lo Studio Editoriale Lombardo per far “rivivere
il libro in un’edizione bella, corretta, etc con unite Olimpia, Toscanità e le
altre cose nuove” (1323). è evidente che questa fase in nuce della creazione
campaniana procedeva intrecciata al difficile percorso personale del Poeta,
evidente dal tenore delle Lettere: “Scrivere non posso, i miei nervi non lo
tollerano più, per ora”, confida all’amico Mario Novaro nell’aprile del
1916 (CLXVIII; 601). in questa fase di “sofferta monotonia” la mattina del 3
agosto 1916 Dino incontra per la prima volta, a Barco nel Mugello, Sibilla
Aleramo. a lei sono destinati alcuni dei Versi sparsi, testi scritti a mano
negli spazi liberi di alcune copie del Libro donate o vendute agli amici, tra
cui appunto Aleramo, Bejor, Cecchi e Ravagli. lungi dall’essere il risultato di
una mania correttiva, questi testi, scrive Turchetta, testimoniano di una
coerenza stilistica che Dino Campana voleva imprimere alla sua opera in vista di
una riedizione. ne è prova il fatto che quando Cecchi propone di far confluire
nella futura edizione una selezione dei Canti Orfici più “le ultime cose”, egli
risponde che sarebbe “la cosa più dolorosa che si potesse fare” (1323) a
testimonianza del fatto che considerava le sfumature apportate attraverso la
limatura o l’aggiunta di testi nuovi come parte integrante di un unico disegno
poetico del Libro. tra i Versi sparsi spicca “Arabesco-Olimpia”, che Turchetta
considera, “un arabesco sonoro”, per le fitte corrispondenze fonetiche e la
presenza di “colorismo”, “un testo capitale non solo di questa fase, ma di tutta
la produzione campaniana” (1326)[v]:
> Oro, farfalla, dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un
> tramonto di torricelle rosse perchè pensavo ad Olimpia che aveva i denti di
> perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e
> rossi sul muro sono fioriti. Perchè si rivela un viso, c’è come un peso
> sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.
il Taccuino Mattacotta, che segue i Versi sparsi, è un “quaderno di lavoro”, che
consiste nel “fare e rifare un numero relativamente limitato di componimenti”
in italiano, inglese e francese, avendo Dino riscritto, soprattutto a matita
copiativa e a penna a inchiostro nero, sulle stesse pagine da due a quattro
volte, databile tra gli ultimi mesi del 1914 e l’estate del 1916 (1341-1343).
il Taccuino fu donato a Sibilla Aleramo che in seguito l’avrebbe donato a Franco
Mattacotta durante la loro relazione.
> I announce the justification
> of candour and the
> justification of pride
> (se devo annunciar qualche
> cosa)
nella sezione Altri manoscritti, sono riunite le “Carte
Aleramo-Gallo-Mattacotta”, il “Manoscritto Orlandi”, le “Carte Gallo”, le “Carte
Novaro-Falqui” e “Poesie per Sibilla Aleramo”. nel primo fascicolo appare il
luminoso frammento L’infanzia nasce, che Turchetta attribuisce, benché non sia
autografo, a una sorta di testamento spirituale:
> L’infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacchè in uno strano eco
> s’immobilizza e s’allontana dai giorni: anzi nasce proprio da una cosa
> “specchiata” con le ridenti spighe gialle e con i campanili: conoscenza eterna
> (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre
> sulla riva del giorno.
nelle “Carte Gallo” affiora Giulietta e Romeo, un testo spedito a Sibilla
Aleramo a metà dicembre del 1916, forse uno dei “biglietti cinici” di cui
Sibilla dice a Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi. a Niccolò Gallo,
scrive Turchetta, si deve la prima edizione, nel 1958, del carteggio tra Sibilla
Aleramo e Dino Campana. qui torna il tema reiterato dell’innocenza: “e infine
della/lotta delle passioni/il trionfo dell’innocenza/, quasi a sottolineare il
baratro tra il cuore intatto del Poeta e le intemperie che lo colpiscono.
Turchetta propone una grafia emotiva, evidente nel “disordine convulso della
scrittura” (1369), in cui coabitano aggressività e pentimento. segue “Poesie per
Sibilla Aleramo”, testi iconici della poesia campaniana dove la rabbia sfuma nel
passo che incede del ricordo, nella dolce ripetizione che fissa l’eterno:
> Più pura nell’azzurro è la luce d’argento
> Più bella la tua figura.
> Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi
> Più bella della bionda Cerere la tua figura
nella sezione seguente, Altri testi, sono raccolte due delle quattro prove
d’esame per docente in Lingue straniere che Dino affrontò, senza successo,
nell’aprile del 1911 presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. si tratta
del tema di italiano, “A zonzo per Firenze” e della redazione in francese, “Le
repentir”, da cui traspaiono, malgrado siano state redatte in un frangente
particolare e con un tempo limitato a disposizione, tòpoi familiari all’opera
campaniana, tra cui l’attenzione al paesaggio. le quattro “Traduzioni” che
seguono, da Verlaine, Ward Howe, Goethe e Heine, sono solo una parte del lavoro
effettuato da Dino Campana su testi stranieri.
*
Cercavo idealmente una patria non avendone
l’ultima parte del Meridiano è dedicata alle 290 Lettere 1903-1931, di cui la
maggior parte scritte tra il 1915 e il 1917. come nota Gianni Turchetta si
attesta una grande differenza tra il numero di lettere che precede i Canti
Orfici e quello che segue il Libro. la Lettera 7 indirizzata a Giuseppe
Prezzolini (6 gennaio 1914) riporta una versione de “La Chimera” molto vicina a
quella dei Canti Orfici. lo stesso è per una versione dei “Notturni” che appare
nella Lettera 13, destinata a Luigi Bandini. il lavoro di ricerca sulle Lettere
non è esaustivo. Turchetta ci dice, ad esempio, che ne mancano molte inviate
all’amico Mario Novaro (“siamo un po’ fratelli, non è vero?”, Lettera 93, aprile
1916) e a Sbarbaro. una recente pubblicazione a cura di Costanza Geldes da
Filicaia e Marcello Verdenelli rivela che Alessandro Pavolini avrebbe continuato
a scrivere a Dino Campana anche dopo l’internamento a Castel Pulci, stemperando,
seppure con cautela, l’immagine di una solitudine totale del Poeta durante i 14
anni in manicomio. le Lettere sono forse il contributo d’affetto per Dino
Campana più evidente dell’alacre lavoro di Gianni Turchetta, che rispetto alle
edizioni precedenti elimina la separazione tra la corrispondenza con Sibilla
Aleramo e le altre. qui lo studioso si fa da parte, e mentre egli tace la vita
di Dino si dipana, affiora il bisogno di essere riconosciuto, di percepirsi,
scrive Turchetta, attraverso lo sguardo degli altri. tra le epistole più
toccanti ci sono certamente quelle scambiate con Sibilla. l’abisso di una
passione limpida mista a rovina, “il cupo bagliore del miracolo”, scrive la
scrittrice al suo Dino “fatto per il sole”, coagulando forse un’intuizione[vi].
la reiterazione implacabile tra speranza e delusione, ira e dolcezza. due cuori
bambini che la vita ha portato lontani l’uno dall’altro. il continuo tentativo
di farsi capire votato all’incomprensione, la solitudine infera per un disamore
subίto che Dino sentiva destinale, ferita di abbandono che a sua volta diventa
lama acuminata che giudica e abbandona.
> Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua
> grazia […]. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni
> col pensiero[vii].
eppure forse il dolore più cupo, l’affanno più lancinante di questa continua
ricerca di presenza al mondo affiora dalle lettere mandate ad amici e
intellettuali, tra cui spiccano Boine, che sente per Dino una sincera empatia:
“Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che si
appiatti?” (Lettera 60, 15 novembre 1915), Novaro, Cecchi, Cardarelli, Carrà.
“Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo
anch’io”, scrive il Poeta alla Direzione della rivista “La difesa dell’arte”
nell’estate del 1910 (Lettera 3). con Papini, con cui aveva ingaggiato una
tenzone a senso unico mesi prima, si firma nel dicembre 1913 “Suo uomo dei
boschi” (Lettera 6), chiedendogli di portare la sua “piena solidarietà” agli
“altri indimenticabili compagni”, compagni che certamente non avevano pensieri
per lui. Dino vuole riconoscersi altro dalla sfilata di “filibustieri”,
“bluffisti”, “nemici”, “chacals”, “mangiapane” dei circoli letterari soprattutto
fiorentini ma allo stesso tempo chiede a Mario Novaro: “Se à notizia di qualche
recensione per me la prego dirmelo” (Lettera 83, 25 febbraio 1916). alcuni
furono sinceramente toccati dall’aderenza piena alla vita di Dino. Francesco
Chiesa scrive: “Le sue parole mi commuovono e mi affliggono” (Lettera 61, 19
novembre 1915); Emilio Cecchi gli dice che le ore passate insieme erano state
“una ripresa di energia e fiducia” e si firma “aff.mo” (Lettera 84, 27 febbraio
2016). nella risposta di Dino affiora tutta la sua prostrazione per il
sentimento di incomprensione che avvertiva sia dai compaesani di Marradi, dai
quali si sentiva perseguitato “con un’infamia e una ferocia tutte
lazzaronescamente italiane e clericali” che dalle presenze immanenti di Papini e
Soffici, “ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto” (Lettera 85, 1-2 marzo
1916). è quasi una lettera ultima in cui Dino si raccomanda affinché Cecchi non
dimentichi le ultime parole dei Canti Orfici, i versi di Whitman: They were all
torn and covered with the boy’s blood, “che sono le uniche importanti del
libro”. se è possibile che la solitudine di Dino Campana sia stata oltremodo
accentuata dalla critica, sicuramente questa lettera a Cecchi è una di quelle in
cui, forse anche a seguito delle sue condizioni fisiche e psichiche, si avverte
il senso di isolamento e di incomunicabilità: “Mi lascio vivere in un disgusto e
una noia mortale” (Lettera 88 a Cecchi, 28 marzo 1916). Cecchi appare come un
interlocutore amico, amico che cercherà di riconfortare il Poeta esprimendogli
da una parte stima e comprensione, pur avendo attraversato egli stesso “giorni
buj terribili… ore e ore di violenza e prigionia”, e consigliandogli dall’altra
di non dare troppa importanza al comportamento di Papini, di non “soffrire di
certe cose che francamente non valgono la pena per il fatto che non possono più
toccarla” (Lettera 86, 13 marzo 1916). è chiaro invece che l’indifferenza di
Papini rispetto all ‘assassinio’ di aver perso la copia de Il più lungo
giorno rimase per Dino una spina nel cuore. anche Boine registra la sua
sofferenza e a sua volta lo mette a parte delle proprie difficoltà economiche e
di salute: “Caro Campana, Le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica
che cosa risponderle…Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio
bene, Campana, e ho grandissima stima di lei e delle sue cose [.]. Ma sono un
amico inutile. Suo Boine” (Lettera 99, 22 aprile 1916). da Margherita Carnecchia
Lewis, che lo chiama “Infelice Fratellino” (Lettera 124, 30 giugno 1916) a Emma
Cima, molti rispondono al suo disagio esistenziale, a loro volta provati da
vicissitudini personali, quasi che la sofferenza di Dino rappresentasse una
condizione umana condivisa, trascinata silenziosamente nei giorni. un diluvio
per tutti.
poi arrivò Sibilla.
*
T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente.
già nella Lettera 128 del 24 luglio 1916 si sente l’urgenza di
raccontarsi. Sibilla Aleramo va contro il galateo di ruolo dell’avvicinamento
amoroso. si muove per prima verso Dino, senza conoscerlo. cammina
nell’essenziale suo, fin dall’inizio in un’intimità spalancata, sovversiva
perché anti-strategica, aderente solo a quell’evento di piena che quattro anni
prima le aveva fatto scrivere in Corsica la sua prima poesia:
> e penserò allora a queste notti in paese straniero
> a queste luci vivide nel vento
> che volteggia dolce su le rupi,
> a questa mia anima
> che ancora una volta si risolleva,
> si risolleva avida,
> penserò a questo ch’è ancora nelle mie vene
> palpito di giovinezza,
> ardore forte
> volontà più grande d’ogni mio grande pianto,
> e stupirò allora,
> o notte di stelle, di vento, di anelito solitario[viii]
“Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso siamo
più vicini… Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato
qualche mio piccolo accento – e tutto il resto vi confonderà”. Lei già vicina.
si racconta tutta insieme, rotolando cose disparate, come se quel primo
riconoscimento fosse già maturo, pregno, già oltre. come se le parole dicessero
di un plurale. il giorno dopo dedica a Dino una poesia. e un giorno è un
lunghissimo tempo per chi ha capito. “Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,/
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,/ liberi singhiozzando, senza
mai vederci,/ né mai saperci, con notturni occhi… Cuor selvaggio,/ musico cuore”
(Lettera 129, 25 luglio 1916). Dino le risponde in francese: “Je vois que nous
pourrons être des amis si vous le voulez…Voilà donc une âme comme il en
manque…comme il en manque…je me suis dit. – Votre première lettre était vraiment
trop belle pour moi et je me suis mis à douter, mais maintenant j’ai
compris. Pardonnez-moi” (Lettera 133, 27 luglio 1916). segue un invito a
“condividere” la sua ammirazione per la linea “severa” e “musicale” degli
Appennini, ad andare insieme a Marradi e per le montagne
circostanti. “Aimeriez-vous de vivre un peu sous la tente?… Ce qui m’a le plus
touchez a été [sic] le souvenir de votre enfance. Comme je vous aime quand vous
écrivez cela ! Je vous baise les deux mains. Votre Cloche”. Sibilla accetta
l’ironico invito in tenda parlando come si parla alla vigilia di una vita
insieme: “Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a
quelli che bisogna ignorare” (Lettera 134, 28 luglio 1916). “Si vous venez ici
je n’oublierais pas, jamais, votre grace” (Lettera 135, Campana a Aleramo, 30
luglio 1916). dopo scivolarono. nell’amore. nel buio. l’ultima lettera per Lei è
dal manicomio di San Salvi, a Firenze, anticamera del destino: “Cara, Se credi
che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia
vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo, Dino” (Lettera 282, 17 gennaio 1918).
Sibilla non rispose. tace, il dolore.
dopo l’ingresso al manicomio di Castel Pulci, le rare lettere, indirizzate allo
psichiatra Carlo Pariani, all’amico Bino Binazzi e al fratello Manlio, indicano
una volontà di distrazione dal mondo, cioè uno sguardo ormai orfano d’innocenza
sul mondo, in cui tuttavia soggiace uno spirito vigile: “La suggestione regna
largamente in Italia e fa ottimi affari. Io sono un solitario e non mi piace
ammetterla” (Lettera 284 a Carlo Pariani, 30 aprile 1927). e allo stesso tempo,
Pariani riporta che qualche giorno prima gli avrebbe detto: “C’è il mezzo di
ringiovanire, di rivivere; c’è la suggestione. La suggestione può influire sul
carattere, può arrestare lo sviluppo del tempo, può lasciare uno nello stato in
cui è anche sempre. Può continuargli la vita anche per cento anni, la
suggestione (Pariani 2002, 26-27). a leggere oggi la testimonianza di Pariani si
resta in silenzio. lo psichiatra costruisce sistematicamente, commento dopo
commento, il profilo psicotico di Dino Campana con deduzioni proprie: “Del
secondo colloquio si riportano le idee vane […], si trascriveranno le stoltezze
principali e così dell’ultimo, tutto insensato, per manifestare intera la
personalità patologica” (25-26), e con scambi di questo tenore: “Sarà come lei
dice, ma gli avvenimenti che narra, signor Dino, non sono credibili. Lei passa
qui il tempo senza costrutto. Si troverà vecchio col dispiacere di averlo
sciupato” (25). non sapremo mai fino a che punto Dino giocasse con Pariani allo
‘spostato’ per proteggersi da tutto questo. sappiamo quasi niente. di quanto il
pensiero di Sibilla lo accompagnò in tutti quegli anni, “nel velo attraverso il
quale tutte le cose eterne vibrano e sorridono” (Aleramo in Turchetta 2020,
395). gli ultimi giorni non sono chiari ma Gianni Turchetta esprime chiaramente
l’ipotesi, condivisa da altri, tra cui lo scrittore e psichiatra Mario Tobino,
che non sia stata l’infezione all’inguine in un tentativo di fuga a uccidere
Dino ma che si sia trattato di un tentativo di autolesionismo immediatamente
insabbiato dalla Direzione di Castel Pulci.
resta il Poeta, come indica la lapide nella chiesa di Badia a Settimo,
nascosta, sotto il pavimento della navata sinistra: “Dino Campana, poeta,
1885-1932”.
in quei giorni di settembre, qualcuno aveva portato sulla tomba dei fiori
gialli.
i viali deserti di San Salvi imbevuti di notte fresca rimandavano ombre buone,
sussurri rappacificati. non c’è più nessuno, tutto è rimasto fedele.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
Alighieri, D. La Divina Commedia. A cura di A. Vallone e L. Scorrano. Napoli:
Editrice Ferraro, 1987.
Campana, D. Il più lungo giorno. Riproduzione anastatica del manoscritto
ritrovato dei Canti Orfici. Archivi, Arte e cultura dell’età moderna in
collaborazione con Vallecchi editore: Roma e Firenze, 1973. Copia numerata.
Pariani, C. Vita non romanzata di Dino Campana. A cura di C. Ortesta. SE:
Milano, 2002. Titolo originale: Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e
di Evaristo Boncinelli scultore, 1938.
Sitzia, S. “Per ua nuova edizione del “Quaderno” di Campana. Testimoni e
varianti di tradizione. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiano
Otto-Novecentesca (OBLIO), I (2-3), 2011. Testo disponibile
su https://www.campadino.it
Toschi, P. “Il Rimbaud della Romagna”, Il Resto del Carlino, Bologna, 27
novembre 1926. Testo disponibile su https://www.campadino.it
Turchetta, G. Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta. Giunti/Bompiani:
Firenze e Milano, 2020.
Turchetta, G. Dino Campana. L’opera in versi e in prosa. I Meridiani. Milano:
Mondadori, 2024.
Vèroli, L. pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo.
Associazione Melusine e La Vita Felice: Milano, 2020.
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[i] Tranne laddove indicato, tutti i riferimenti in corpore al testo sono da
Turchetta 2024.
[ii] La traduzione dal francese è dell’autrice.
[iii] Paradiso, XXIV, 55-60.
[iv] Per una nota critica sulle prime pubblicazioni dei testi del Quaderno,
Sitzia 2011.
[v] Magistrale l’analisi dell’autore su “Arabesco-Olimpia” (Turchetta 2024,
1326-1329).
[vi] Lettera 139 di Sibilla Aleramo a Dino Campana, 6-7 agosto 1916.
[vii] Lettera 208 di Dino Campana a Sibilla Aleramo, 4 gennaio 1917.
[viii] Aleramo in Vèroli 2020, 91.
*In copertina : Max Kllinger, Una vita, 1885 ca.
L'articolo “…ne la luce catastrofica”. Attorno al Meridiano Campana di Gianni
Turchetta proviene da Pangea.
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra
del tradurre proviene da Pangea.
Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta,
ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”,
si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried
Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di
“niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra
fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah
divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo
stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se
l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998
(Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in
versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il
ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”,
di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La
materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore
imperituro nel filosofare:
> “Quando il tempo viene meno,
> e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,
> quando
> nemmeno tu che hai governato il mondo,
> puoi più credere in quel mondo,
> onora la maestà del pensiero, sii fedele,
> sii
> come uno che accende il fuoco,
> entra nella notte
> fa ssst,
> con il dito poggiato sulla bocca”.
Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo –
il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il
fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo
parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per
screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la
scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La
materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco
fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel
niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la
poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si
fa parete di ghiaccio.
Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito
e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un
linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare
presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo,
infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male,
ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di
Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam.
Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato
(cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si
sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in
versi.
Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio:
> “Chi se li ricorda, i tempi
> di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
> che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna,
> ancora.
> Ma nessuno più sogna, credimi,
> e questo è per voi, che venite di lontano,
> l’ostacolo più grande: resistere
> al sonno che vi invade, e annienta
> la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
> discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
> come ragne liquorose nella cella
> della mente.
> Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo
> dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
> si abitua a non farne,
> e così diviene simile a noi, ombra
> come tutti”
L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo,
della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di
ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi
dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/
appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un
mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per
scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.
Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è
carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e
tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.
La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del
Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento
un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a
me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è
come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”.
Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono:
si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia –
porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco
troppo netto, dalla lama troppo tesa.
Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al
dialogo.
Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco,
dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si
parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima.
Insomma, dimmi.
Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che
devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due
sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo
ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello
virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una
memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni
dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il
canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo
il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e
ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una
metafora della grande tela del mondo.
Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da
chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita
e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte…
Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella
materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la
pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo
nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio
(Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la
vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E
l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare
da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito –
classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche,
come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che
parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E
ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano
all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un
libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che
parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere
che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che
s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di
noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne
con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:
> «un salto
> che nessuno ha mai fatto,
> e tutti fanno».
Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le
braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o
abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo
peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni?
Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film
come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma
questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che
s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento
tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste
immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono
seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come
nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia
immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una
madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa
> «su una forcina di bimba,
> si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,
> di una nenia
> che sembra soffiata dentro un vetro
> una bolla
> di voce che ha il suono del vento, la luce
> della neve che scende».
Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta
libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è
più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un
libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del
contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come
il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci
con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:
> «è
> come essere in un nero
> che abbaglia, come
> scendere una scala, aprire una porta, trovarsi
> all’improvviso in alto»…
E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade
(Anime, stridono).
Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi,
per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici
antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le
letture, i maestri?
Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto
individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei
secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con
le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che
in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità
fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’
stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per
ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del
sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che
rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco
Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi
dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi
tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le
energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle,
naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una
logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero.
Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci
pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto
in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi?
Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine,
una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per
quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti
quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal
Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in
realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso
e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un
grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che
parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa
pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due
retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una
sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci,
visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo
senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia,
dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si
dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro,
parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:
> «Ed è un bivacco di ere,
> che tumultuano, conglomerano. Padri
> che rotolano in altri padri. Materia
> che s’impenna, delira
> in vortici di fuoco».
>
> (Dillo tu)
La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica
semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è
tutta la sua grandezza e la sua vanagloria.
A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio
lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che
quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”?
«Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo
pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo
dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in
tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava
morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e
dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo
Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel
penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna
continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu
grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la
mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti
migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano
senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno
letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa,
il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo
stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di
ogni forma di conoscenza:
> «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi
> in un anfratto di vita nascosta»…
> «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano,
> e nomi di popoli che non conosciamo».
Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e
perché?
Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la
strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).
> C’è un cuore austero
> prima di ogni verso
> e sogni, e cieli, e intonaci
> e tutta la vita del mondo
> che stride, gorgoglia
> come un ranocchio di fiume
> al suo primo salto
Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale:
quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le
stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere,
un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel
secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre
dev’essere ciò che entra in un verso.
E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un
prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di
lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che
viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di
madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro
immaginario.
Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo
tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che
designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire
un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola
cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è
altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima,
austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che
gorgoglia al suo primo salto.
Lui è Giancarlo Pontiggia
E ora? Dove cerchi?
Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto
essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo
la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli
che ho scritto.
C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben
conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni
senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un
mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e
da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una
previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai
all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al
lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo
e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una
fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se
fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.
Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est
une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile
una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una
definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal
tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere
che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo
sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento
di Eraclito:
> «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».
Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince
ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono
sull’Olimpo.
*In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917
L'articolo Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia proviene
da Pangea.
Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli
Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La
mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse
scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella
materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi
scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava
intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina.
L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di
scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del
racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale.
È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte,
Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo
incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono
fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla
totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di
vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a
combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte,
fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui
dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire
persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel
popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere
nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.
La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che
coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.
> “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti
> sconosciuti”.
L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è
nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi,
2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che
è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo
poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è
carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono
segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che
si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato
nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a
vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile
della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la
capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende
ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico
della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare
alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità.
Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova
maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare
oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e
rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare
quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo
scrittore del mondo, che non ha pari.
È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un
dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale,
cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per
mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi,
riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al
momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si
legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non
puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione
interna, il suo moto lineare.
Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui
pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come
negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro,
ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri,
quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione
nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria,
raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine
che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare,
non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso,
quello che si opera in noi, di cui siamo opera.
Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel
cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché
è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù
mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare
in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?,
per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua
risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua
a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria,
Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera,
perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo
provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.
Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i
cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui
bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore,
la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni
cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio
che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta
assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice
sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il
nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice,
adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci
chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore
della rivelazione, ancora in atto.
Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme.
Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa
dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù
che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del
senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un
amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una
terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione.
Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non
vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del
destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo,
verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di
talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito,
tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in
un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo
dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra
duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in
conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È
un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo.
Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti
dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:
> “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno
> incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.
Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro
articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata,
affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di
umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce,
tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995).
> “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che
> l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due
> sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi
> piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né
> speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio
> intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola
> tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è
> fuggito”.
Lo scrittore è assorto, nella pietà!
Vincenzo Gambardella
L'articolo Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta
proviene da Pangea.
1.
Vorrei raccontare un esperimento che ho fatto tempo fa.
Ho preso 10 spettatori. Ho fatto vedere loro lo spezzone di un film con un
attore che non sa recitare. In 9 si sono accorti della cattiva recitazione.
Poi ho preso 10 lettori. Ho dato loro da leggere alcune poesie con testi banali
e melensi. Soltanto 4 di loro si sono accorti della bruttezza.
Ai 10 spettatori ho chiesto quanti di loro avrebbero voluto fare l’attore.
Soltanto uno mi ha detto che in gioventù aveva pensato di iscriversi a una
scuola per attori.
Ai 10 lettori ho chiesto quanti di loro avrebbero desiderato scrivere poesia, e
8 di loro mi hanno detto che scrivono e avrebbero voluto farmi leggere le loro
poesie.
I risultati di questo semplice “esperimento” (al di là della sua sciocca
inutilità statistica) mostrano di per sé alcune evidenze:
a. una consistente differenza tra spettatori e lettori;
b. una consapevolezza degli spettatori, rispetto ai lettori, del fatto che la
recitazione è anche una tecnica da studiare;
c. la presunta facilità della poesia per chiunque abbia appreso a scrivere a
scuola;
d. la capacità di individuare “errori” nell’arte performativa è superiore a
quella di riconoscere “errori” nel testo scritto.
Al di là della miriade di poeti della domenica, anche tra quelli pubblicati
spesso ci si riferisce ormai quasi esclusivamente a una accessibilità della
poesia. Cioè ci si riferisce più alla domanda che all’offerta. In sostanza ci si
occupa di marketing, cioè di ragionamenti e azioni che si fondano sulle
“esigenze” del lettore – intercettare il lettore, si dice. Questo è ciò che
cercano gli editori. E questo è il loro lavoro. Ma non dovrebbe essere quello
del poeta.
Quando si parla del lettore, di quale lettore si parla? Ovviamente di un lettore
generico, di un lettore-tipo, vale a dire di un lettore medio, uno che non
esiste in concreto, ma che a furia di nominarlo con tanta bramosia si palesa.
Questo lettore inesistente si palesa nella maniera della pubblicabilità, quel
modo che trascina poesia e letteratura nella mediocrità, in un ambito cordiale
che tutto mastica e tutto digerisce.
Partiamo da qui: la cordialità in poesia è un’aberrazione.
Non è questo lo scopo del poeta. Non è questo il terreno della poesia.
*
2.
Ma che cos’è oggi la poesia?
La domanda è pertinente, la risposta è difficile da individuare. È vero però che
da un decennio è emersa in molti titoli di autori conosciuti una certa
semplificazione a tutto tondo. E ultimamente c’è pure una caratteristica
diffusa, cioè la ricerca costante di una folgorazione finale. Si trovano
accorati pay-off in forma di poesia: soluzioni fulminee, apologhi icastici,
sviolinate con ciliegina. Si trovano raramente poesie, nel senso specifico del
mezzo. Siamo in un mondo in cui la poesia somiglia all’atto diarroico di dover
per forza disporre con impeto parole su un foglio, come una volta le diapositive
delle vacanze.
Oltre a questa tendenza a disporre testi poetici con finali a effetto, senza che
il testo stesso, che precede questi finali, abbia uno stile adeguato nella
creazione di un processo motivato che porta a tale finale, ci sono altre
caratteristiche negative alla base della produzione diffusa di poesia attuale. E
mi piace citarne almeno una. Vale a dire che spesso molte poesie contemporanee
scrivono esattamente ciò che vogliono dire. Non è coerenza tra pensiero e
scritto: è cronaca.
Ma una cosa è raccontare in poesia una domenica in vespa (come fa Sereni in un
testo formidabile), altra cosa è fare i compiti andando a capo a caso e
raccontando pedissequamente la passeggiata in un bosco, un semaforo rosso nel
corso principale, l’affetto per la nonna, e in più utilizzando tutta una serie
di inutili aggettivi decorativi.
La poesia non dovrebbe solo dire esattamente ciò che vuole dire. Di più. Se, per
esempio, uso la parola “ramarro” in una poesia devo avere la consapevolezza che
quella parola non appartiene al mio testo, ma soprattutto al mondo della poesia,
perché ne hanno scritto Dante e Montale. La tradizione – come si chiama – serve
anche a questo: a tonificare in novità un tema antico. La profondità di un testo
poetico non è soltanto in quello che racconta, ma come lo dice. E oggi,
purtroppo, l’empatico desiderio di rendersi protagonisti delle proprie emozioni
porta molti a esporre sentimenti in forme semplificate, invece di verticalizzare
(in alto o in basso) le profondità di idee o viscere. Purtroppo oggi si leggono
sempre più testi poetici che intendono esattamente ciò che vogliono intendere,
senza alcuna “ambiguità”. Mentre è proprio sulla polisemia che si gioca spesso
la forza di una poesia.
Finché questi prodotti poetici restano nella casa vasta della poesia-facile, nel
suo senso lato di “affare emotivo”, va benissimo. Del resto alcuni di questi
prodotti diventano anche titoli librari di successo, e vengono pubblicati con
ottime tirature. Eppure credo avesse ragione Ungaretti quando diceva: “La poesia
è poesia quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile nel modo più
elementare, non è più poesia”.
*
3.
Veniamo così a un altro argomento. Cosa dovrebbe accadere quando il punto non è
il mercato librario, ma la poesia-poesia?
Forse la poesia dovrebbe essere, prima di tutto, la semplificata complessità di
un lungo rapporto con la tradizione e con la lingua. E certo anche il fulmineo
processo creativo emozionale. La poesia dovrebbe essere, prima di ogni altra
cosa, la parte consistente di un lavoro sulla lingua. La metrica è la musica
della poesia e chi non la conosce fa la stessa figura del direttore d’orchestra
che non sa leggere la musica sullo spartito. Certo, si può ignorare la metrica,
come si può fare immondizia dell’armonia, ma si deve conoscere e si deve sapere
che cosa si sta facendo.
In definitiva, il poeta ha soltanto la lingua, l’uso della lingua, i suoi
modelli e i suoi labirinti, le sue opportunità e le sue forme, come destinazione
e come destino. E per raccontare qualcosa che abbia la parvenza di un lavoro
nella poesia forse non basta una vita. Una vita di letture abbondanti, una vita
di studi continui, una vita di lunghe passeggiate in solitudine per sgranchirsi
la mente, una vita di riscritture chiarificatrici. Non si può definire un poeta
da un libro, da un lampo improvviso che acceca, ma da una competenza acquisita
nel tempo, possibilmente attraverso un’opera composta da più prove, da una
carriera svolta in maniera appartata in questo fragile piccolo mondo delle
parole.
*
4.
Capisco che in un mondo fatto di social e onnipresenze virtuali le persone
pensino al concetto di tempo e di storia come un lungo presente spalmato
esclusivamente sulla loro età, sulla loro brevità di vita. Tuttavia la cultura
dovrebbe scucire dagli occhi il velo che ci attanaglia, invece di farne viva
cordialità e simpatica e amorevole eroina che tutto rasserena.
I libri e la poesia soprattutto ci fanno vivere nella consapevolezza di una
lingua. Nella tradizione letteraria italiana la poesia ha un ruolo soverchiante
sulla prosa. Questa tradizione può essere solcata o essere tradita, ma soltanto
attraverso di essa possiamo concepire un passato che serve ancora comprendere e
in questa maniera guardare a un futuro da inventare.
Ecco dunque che la poesia non è il gioco iperbolico delle chiuse a impatto,
concepite come manifesti 6×3 che ti si parano davanti, quando svolti sulla
tangenziale. La poesia non è empatia sentimentale, non è la sociologica versione
del dolore. Forse questo funziona per i social, la tv, i rotocalchi. Ma non per
il fragile piccolo mondo della poesia-poesia.
Certamente i social (e facebook su tutti – pur con il suo declino, essendo una
piattaforma legata a una popolazione anziana) hanno avuto il merito di rendere
più diffuse molte frasi letterarie. Molte poesie famose sono rimbalzate di post
in post rendendosi fruibili a numeri enormi di persone. I social contribuiscono
a una specie di “democratizzazione” della punta dell’iceberg letterario. Vale a
dire che milioni di utenti si ritrovano a leggere pezzi di brani letterari,
spunti narrativi, frasi tagliate, brevi testi poetici.
Tutto ciò però conferma la superficialità di questo approccio e fissa alcuni
passi di letterature di vari Paesi del Mondo in frasi granitiche scolpite nella
pietra. Come una canzone ascoltata per tutta un’estate diventa un tormentone e
dopo un anno non abbiamo più orecchie per ascoltarla e ce ne dobbiamo separare o
dimenticare, anche una poesia di Giorgio Caproni, continuamente postata sui
social ci risulta prima o poi stucchevole. “Anche oggi pernici?”, diceva un
padrone al cuoco in un testo di Swift, per dire che anche un piatto prelibato
può dare disgusto se lo mangi sempre.
Che cos’è dunque questo desiderio di chiunque di rendere “poetico” un attimo
della propria esistenza, attraverso una riflessione emotiva postata tramite una
poesia ricorrente? Credo sia l’inconsapevole certezza che la parola declinata in
forma poetica ha una forza intrinseca che, come un solfeggio, batte e leva, cioè
misura il ritmo della nostra anima emotiva. Tuttavia questo non basta a
descrivere i contorni della poesia-poesia, ma soltanto la forza della lingua al
servizio dell’atto poetico. Perché in verità la poesia non è tutta nelle pagine
dei libri, ma nella natura. È da questo grande libro incommensurabile che spesso
si traggono, con il lavoro nella lingua, le emozioni delle parole.
*
5.
Tuttavia, come forse abbiamo lasciato intuire, il segno della poesia-poesia non
ha largo campo nella società e all’interno dei suoi mezzi di comunicazione.
Perciò resta complesso (e impossibile qui) indagare quanto i dispostivi
tecnologici abbiano modificato e influiscano sulla percezione della
poesia-poesia, preferendo solitamente una poesia-facile, cioè “meccanismi
poetici” più superficiali e semplificati. Questi ultimi sono la voce-guida
“culturale” dei nostri tempi. Tempi che non mostrano più un’identità collettiva,
checché ne dicano o sperino i governanti; tempi che non vedono una fase di
ricostruzione collettiva, come accadde nel secondo dopoguerra; tempi che erodono
la razionalità in favore di emotività adolescenziale.
È finita la vita in diretta, cioè quel legame individuale e collettivo che i
mezzi di comunicazione (tv, radio, stampa, editoria) organizzavano per gli
italiani. Dal momento in cui ogni individuo ha potuto avere un dispositivo
personale, la visione e la pubblicazione on-demand hanno soppiantato la visione
e la pubblicazione tramite terzi, si è perduto, in questa frammentazione, anche
il valore della poesia-poesia.
Con la denatalità degli italiani, l’arrivo di molti immigrati da varie parti del
mondo, il gergo invasivo dei social e dei giochi elettronici, l’uso dell’inglese
della tecnologia, i ricorrenti gerghi giovanili (derivanti più o meno dalla
musica pop), l’ideologia woke e le sue declinazioni linguistiche, i sempre più
spiccati ritorni ad accenti regionali nelle radio e nelle televisioni nazionali,
siamo di fronte a un tempo formato da molte alloglossie. Non sembra esserci più
un sistema di una lingua maggioritaria, come è stato fino ai primi anni Ottanta
del Novecento, attraverso i canali RAI.
Allora potrebbe essere forse la poesia-facile a stabilire nuove regole e nuovi
principi? La sua diffusione sui social, la sua elementare comprensibilità, la
sua affabilità nelle forme semplificatorie di cui abbiamo detto all’inizio di
questo testo, potrebbero suggerire un sentiero, che mette d’accordo lingua
scritta e lingua parlata. Infatti, ormai l’uso dei vari dispositivi tecnologici
permette una commistione molto forte tra scritto e parlato, con uno scivolamento
del primo in favore del secondo.
Senza dubbio una società è coesa laddove si individua un sistema linguistico
corrente e comune, un impianto di base minimo non soltanto per la comunicazione
concreta, ma che sappia anche muovere dal linguaggio alle emozioni e dunque a un
immaginario possibile di riferimento. Senz’altro la poesia-facile sta avendo
successo per questa riduzione di complessità, per una
certa adolescenziazione sociale e culturale, che è anche, in parte, una rinuncia
alla razionalità e alla responsabilità. Invece di offrire agli adolescenti una
formazione, attraverso la letteratura, che li traghetti al mondo adulto, si è
recentemente attaccata superficialmente la tradizione letteraria cercando di
nasconderla, emendarla, epurarla. Al tempo stesso si pubblicano e si promuovono
“casi letterari” di poesia-facile, si adolescentizza, in chiave esclusivamente
emotiva, la produzione poetica contemporanea. Non mi sembra un buon programma di
crescita individuale e collettiva. E certo voglio credere che servirà ancora
qualcuno che sappia muovere le trame sottili e adulte della poesia-poesia. Di
questo spero che la comunità attuale dei letterati e dei responsabili
dell’editoria continuino ad averne consapevolezza.
Alessandro Agostinelli
*
Alessandro Agostinelli, scrittore e poeta. Ha pubblicato il romanzo Benedetti da
Parker (2017); alcuni saggi sul cinema americano; i reportage di
viaggio Giordania stilografica (2023), Da Vinci su tre ruote (2019), Honolulu
Baby (2011); le raccolte di poesia Le vive stagioni (2023), Il materiale
fragile (2021), L’ospite perfetta – Sonetti italiani (2020) e in Spagna En el
rojo de Occidente (2014). Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI Tre, L’Espresso.
Fondatore del Festival del Viaggio. Dirige la collana Poesia di Edizioni ETS.
L'articolo La poesia-facile e la poesia-poesia proviene da Pangea.
Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del
grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo
Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero
che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica
del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse,
anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne
attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino,
che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio
(1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero
autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a
negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice
lunga sulla sua psicologia.
A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e
figlio.
Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino
del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è
altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo
e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una
timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è
possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il
protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime
fantasie amorose fa una riflessione:
> “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a
> lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io
> stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non
> piccola, il mio avvenire”.
Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima
volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato
a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi
istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena
sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo
inestricabile.
> “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi
> fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina,
> delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi
> indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo
> fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa
> piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era
> diventata ancora più alta, molto più alta”.
A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una
duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue
inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di
essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità
del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non
nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente
intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che
prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue
miserie.
Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e
finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è
una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per
Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel
cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro
di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse
è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da
vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per
fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare
l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la
gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere
nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto
braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé:
> “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso
> nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che
> poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di
> accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di
> tanta infinita adorazione”.
Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello
scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al
centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore
svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la
rinuncia alla vita.
Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il
segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al
tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento
della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non
oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui
sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e
nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere
detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con
discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite
nella pietra:
> “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”.
Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un
monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la
storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il
continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del
romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di
uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata.
Silvano Calzini
*In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922
L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto
elogio della timidezza proviene da Pangea.
La produzione letteraria (e non solo) di Gian Ruggero Manzoni è delle più
variegate e peculiari. Leggendone i libri, seguendone il percorso artistico
(almeno di questi anni) ci si accorge facilmente di quanto l’autore abbia un
piede nel presente e un piede in un passato remotissimo. Manzoni lo vedo un po’
così, attuale e allo stesso tempo antico, mentre paziente fila una tela che
ricongiunge il presente con gli albori dell’umanità. Dopo un libro
come Dialoghi infami (Medusa, 2024), tremendamente macchiato dalla
contemporaneità, con Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo, 2024) facciamo
un balzo indietro di millenni (come già aveva compiuto con Ultramodum),
all’origine della vicenda umana, quando ancora non era Storia, sulle orme di
sciamani che camminano sul sottile confine tra questo mondo e l’altro (o gli
altri), fra religione e magia. Il libro raccoglie una serie di prose poetiche e
disegni, suddivise in quattro sezioni: Nel lento movimento dei
ghiacci, Sciamani, La quarta moira, La rinuncia.
Mi domando se non stia tutto qui il senso della ricerca artistica, della
scrittura come del disegno: ritrovare il filo di un discorso incominciato
migliaia di anni fa e che abbiamo perso lungo la strada, ritrovare la magia di
cui è ancora intrisa la realtà sotto tonnellate di cemento.
Artista, poeta, scrittore; traduci e interroghi testi sacri e mercenari
sanguinari: ti senti anche tu un po’ sciamano?
A un recente Festival Internationnal des Traditions et Spiritualites Ancestrales
et du Chamanisme, tenutosi in una vallata nei pressi di Reims, in Francia,
confrontandomi con sciamani e sciamane riconosciuti quali Abdellah e Gnawa
Akharraz, Vera Sakhina, Ayangat, Anja Normann, Frederic Roure, Bhola Nath
Banstola, Tiegniery Diarra, Baruch Osorno, Domi Farinelli, sono stato
riconosciuto, da loro, quale sciamano a mia volta… sciamano della parola, non
celebrativo, cioè non operante tramite danze o gesti propiziatori, ma quale
“guaritore”, così mi hanno definito, per mezzo della parola, ed “evocatore”,
sempre tramite il suono che conteniamo, di entità superiori. Comunque già mia
nonna Olimpia, a sua volta sciamana romagnola, mi aveva riconosciuto e, a suo
tempo, mi passò il dono. Inoltre ogni buon poeta o artista o musicista è infine
uno sciamano se opera per il bene e il bello, e se sempre rispettoso delle
“anime naturali”.
Quale legame persiste fra l’uomo di oggi e quello che vestiva le pelli di mammut
e interrogava il fato seguendo il volo degli uccelli?
Sono lo stesso uomo unicamente in tempi diversi. Tutte le massime domande sono
ancora sul tavolo prive di risposta, quindi nulla sapeva del cosmo e di sé
l’uomo primitivo e nulla sappiamo di noi e del cosmo… o, meglio, della
dimensione che ci contiene e che conteniamo… noi umani del XXI° secolo. Giusto
sappiamo che un giorno moriremo e che la Terra è tonda e ruota attorno al Sole,
mentre la Luna ruota attorno alla Terra, poi stop, che altro si sa? Dimenticavo,
ancora molti continuano a credere che la Terra sia piatta… e detto ciò non resta
che sorridere riguardo la nostra attuale condizione.
“La magia appare incredibile solo perché è l’evento più naturale e quotidiano
che ci sia”. “Ciò che è stato creato è magia, e lo sciamano non è che
l’indagatore dell’indagine”. Ma cos’è la magia?
Credendo in un divino generatore, creatore e demiurgo, credo anche che esistano
esseri umani e animali e piante che riescono a metterci in contatto con altre
dimensioni. La magia è la capacità di proiettarti o proiettare un altro essere
in universi paralleli, come sostengono le varie Teorie del Multiverso, così,
scientificamente, oggi vengono appellate, mentre arcaicamente avevano e ancora
hanno altri nomi. La magia è entrare in esse e giungere a vibrare come le
stesse, fino alla scoperta della propria “nota armonica”, come la definiva il
teosofo, pedagogista, filosofo, esoterista austriaco Rudolf Steiner. Il sommo
Guido Ceronetti giustamente scriveva nel suo Il silenzio del corpo, un libro che
consiglio:
> “La fame di magico è più che legittima, il rischio è, sempre, che il malvagio
> destino la orienti, per sfogarla, sulla stella del male. Ma di magia buona c’è
> oggi molto più bisogno che di medicina buona”.
Quando osserviamo una civiltà arcaica (anche quella più vicina a noi, come
quella contadina) con i suoi riti, ci appare come in balia delle superstizioni,
eppure era una civiltà più solida della nostra. Siamo oggi, più di allora,
vittime di superstizioni?
Direi che il “rito del consumo” sia la superstizione più nefanda che oggi ci
possa essere, idem la “messa del denaro”, paragonabile ad ogni “messa nera”.
Tutto ciò che oggi divide e rende predatori risulta quale attuale superstizione,
ciò che invece unisce è ‘savietà’, saggezza, buon senso, cultura base,
consapevolezza, massima osservazione, “antica credenza popolare”,
compenetrazione, quindi passata e accettabile superstizione. Sì, un tempo, anche
noi Occidentali, oggi definiti evoluti, emancipati, civili, tramite l’attenzione
persistente riuscivamo a compenetrare la materia e il mistero così come l’altro
o l’altra da sé, al punto di partorire modi di dire valevoli ovunque
atemporalmente. Quindi necessita suddividere la superstizione, come poi la
magia, in bianca o nera. Su ciò che oggi definiamo idolatria o, peggio,
ignoranza, un tempo si sono costruiti imperi, ma l’antica superstizione era
troppo attinente al destino e allo stare attenti ai “segni” per poterla definire
volgarmente ubbia. I “segni” e la capacità di interpretarli sono da considerarsi
come le tracce lasciate sul suolo che i pellerossa riuscivano a leggere.
L’interpretazione dei “segni” e delle atmosfere era l’arcaica buona, benevola,
accrescente superstizione.
Questo lento movimento dei ghiacci, questo andare alla deriva, rappresenta un
po’ la tua idea dell’umanità oggi. In alcuni passaggi sembri suggerire una
fratellanza umana originaria perduta, ormai scaduta in uno “scontro tra simboli
che, nell’errore, si leggono avversi… si disegnano quali contrari, di sanguinari
eccessi o di ecatombi, oppure di massacri”. È una fratellanza recuperabile?
Sì, la lenta deriva dei freddi… dei gelidi ghiacci è il nostro attuale andare.
Mai gli uomini sono stati fratelli per sangue, quanto, invece, fratelli per
idea, per idealità, quindi per fede, perciò uniti anche se non si è stati
scaturiti dalla medesima carne. Gli ovuli e l’utero che rendono non solo
fratelli ma gemelli si chiamano: credo comune, comune rappresentazione mentale,
comune opinione, convinzione comune, sentire comune, spirito comune, volontà
comune, divinità comune, comune magia. Nell’oggi l’Occidente ha perduto quei
valori fondamentali che ho pocanzi elencato. Siamo molto… troppo lontani gli uni
dagli altri. Crollata una memoria comune, così che nascessero infinite memorie,
ecco che la frammentazione… la polverizzazione disintegra ogni possibile verità
comune, o, meglio ancora, ogni comune verità.
La quarta moira, cioè il nulla, l’assenza di prima e dopo, la fine della fine,
domina una parte centrale del libro. Qual è il tuo rapporto con la morte e con
ciò che viene (se viene) dopo?
Sono solito dire che i miei genitori più che vivere mi hanno insegnato il come
morire con estrema dignità, sacralità, coraggio e spiritualità. Il senso di
morte ha sempre aleggiato a casa mia, ma non in accezione cupa, oscura,
deprimente, scoraggiante, quanto come persistente preparazione alla stessa. Ogni
attimo può essere l’ultimo e per quell’ultimo necessita essere pronti. Infine la
mia esistenza, finora, è stata un persistente apprestamento alla morte, con
tutto quello che ne consegue, quale prima componente il cercare di vivere… sì,
di vivere ogni attimo come appunto fosse l’ultimo. Ciò che di noi resta, così
come ciò che di questo universo resterà, non sarà neppure un punto su di una
mappa ampia quanto la potenza dell’inesprimibile. Il mio e il nostro nulla è il
saper morire quindi il saper vivere in quell’inesprimibile. A tal proposito
tanto mi fu caro quello strabiliante scritto titolato, in italiano, La Lettera
di Lord Chandos, in tedesco “Ein Brief”, del grande Hugo von Hofmannsthal.
Valerio Ragazzini
**
Brani tratti da Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo) di Gian Ruggero
Manzoni
Ogni dimensione ride attorno a me, e mai mi priverò di quello che la mia fede
dona.
Un sorriso è il Cristo, mai un atto d’accusa.
Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata
sostanza della natura umana.
È ancora un antico sogno che riconduce alla mia terra d’origine, a quell’arcaico
intrico di rami, rovi, edera, canne, alghe palustri.
È nella natura aspra della mia gente che saldo la tragedia, ma anche
l’elevazione, del nostro destino di eterni immaturi.
Che gioia! Che ritrovata incoscienza pudica!
Forse che l’Età dell’Oro dimori in un colpo di zappa o nel tergersi la fronte
dal sudore?
La genuinità perduta solca ancora la palude.
Nulla è scomparso. Tutto è ancora lì, se apri gli occhi di tua madre, e, del
padre, se indossi gli stivali di gomma e i pantaloni di velluto.
*
Mi diceva un filosofo e musicista di Praga: “La velocità è la forma di estasi
che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; la stessa accusa fu di mia
nonna, indagatrice di segni e di premonizioni sulla corteccia degli olmi o dei
pioppi padani.
Lei mai volle salire in auto, se non il giorno che la portarono all’ospedale
dove le diagnosticarono che entro un mese sarebbe morta e che si preparasse a
salpare.
Al che si fece riportare nel suo letto (posto al centro della nostra casa),
accese la candela che aveva sul comodino, recitò le orazioni e si spense con
l’ultima goccia di cera scivolata… mentre le api, riunitesi, con lei migrarono
in un’altra chiesa dimenticata… su di un altro altare.
*
Al che si disse che oltre la velocità della luce, pur sempre relativa, non si
può andare, visto che non esiste alcun modo di accelerare una spinta fin oltre i
300.000 chilometri al secondo, se non fornendo un’energia che risulti al di là
dell’estremo, quindi ardua, impossibile, lontana da noi, inavvicinabile, cattiva
e infinita, non certo piccola giostra che tramite il calore muove pale, vele,
seggiolini, camei, sputando sulle madri che glabre ammirano con facce ebeti i
loro figli… privi di futuro, carne già morta, di già polvere, di già rutto di un
mulinello di cielo, o coda gelida di uno spegnersi sia di stelle che
d’illusioni… che di risorse… che di fermenti… che di fittizie occasioni.
*
L’11 maggio del 1872 il cielo d’Europa venne ammutolito da una pioggia di
meteore in fiamme che cessarono in una nuvola di cenere che avvolse per giorni
animali da latte, neonati, baldracche, lumache e api, poi connestabili,
carabinieri, netturbini, scava pozzi, e pur anche cani e aironi, quale
benedizione di me demone che per non molto custodirò l’equilibrio dei corpi
astrali, così che lei, la gran signora, nella gravità copuli col marito mentre,
gli ultimi gemiti, siano dell’amante, poi dell’amante, e dell’amante ancora,
nella perduranza di una sterile ginnastica, frutto di una Gomorra petulante e
allucinata, incensata dallo sperma di un toro che annaffia probi e tagliagole,
avvocati, notai, banchieri, i quali si riconoscono fra loro tramite anelli ai
lobi, occhi truccati, turbanti e gemme, cinismo, volgarità e nessuna carità
parziale, cristiana, o chissà dove e come, la stessa, sia nata e possa custodire
un valore ultraumano o solo menzogne, o sterili sermoni.
*In copertina e nel testo, alcune opere di Gian Ruggero Manzoni
L'articolo “Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con
Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po proviene da Pangea.