Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle
montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap,
dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare
quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi
personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato
soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di
finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è
niente da fare: la sfida la vinci o la perdi.
Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor
Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non
scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al
volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A
destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori
preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale,
col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori
Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere
“pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente
corpo.
> “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non
> appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato,
> siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo,
> contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua,
> continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno
> infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una
> continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive
> perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra
> dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non
> dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e
> sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo
> somministrarcela da soli.”
Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si
condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei
quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come
anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri
dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce
chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano
fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha
appena ucciso.
L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota
decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente
dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala,
dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento,
una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione
furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in
cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti.
Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono
evidenti.
> “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A
> chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e
> minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno,
> perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire
> ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te
> stesso? No. E allora lui ha vinto.
>
> Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a
> Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i
> biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un
> attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da
> mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.”
Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di
fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che
sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il
cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a
semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere
ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una
di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su
cui soprassedere, facendo finta di niente.
La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di
schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi
istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli
anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine
maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo
può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna
edulcorazione. Nessuna salvezza.
Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di
violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa”
partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa
Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi
dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è
più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando
al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si
dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare,
dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da
inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta
persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri
inferni privati.
> “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e
> che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso
> lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero
> accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati
> lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da
> generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non
> bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di
> singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno
> allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali
> che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò
> sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando
> con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò
> i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento
> e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro
> […]”
Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi
che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente
sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è
quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un
brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare
del trauma. Consideralo un neo comunitario.
Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del
baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è
fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo,
vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a
vincere mai, almeno ai punti.
Vincenzo Montisano
*In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012
L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un
libro devastante proviene da Pangea.
Tag - Letteratura italiana
In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un
programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra
Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E
allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri
ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea
condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi
chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure,
non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un
uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia
ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua
laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata.
Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso
degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel
romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di
volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire
dalle viscere in subbuglio.
Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in
merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei
sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso –
sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato
per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e
allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla
lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la
qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già
guadagnato la mia stima?
Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto
attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando
a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni
libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno
scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera,
ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura
tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per
leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare
tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti
gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura.
Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che
per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato
scritto da Alessio Arena?
L’incipit:
> “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava
> lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per
> pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi
> qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la
> salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”
La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il
romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di
Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una
lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo
o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni,
allucinazioni comprese.
È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare
nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no
diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca.
O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla
lingua scritta del romanzo.
Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite
il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio
Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime
quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è
ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e
in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e
ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo
quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il
balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di
conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la
consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia
degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse
scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine
e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile
scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro
pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due
paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che
si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica
senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si
propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due
di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la
fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una
tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la
frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico
Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra
de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di
viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.”
A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I
complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili,
specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione
di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto
quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello
che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della
gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia
logica.
Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un
secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto
risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì
poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è
stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il
piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai
deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa
lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e
il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo
sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la
scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a
suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le
note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo
visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati
da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo,
perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.”
Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e
valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il
caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto
appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il
romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero
soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di
piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a
mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome
da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro?
Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla
centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle
comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una
tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe
sentito imprevedibilmente deluso?
Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato:
“Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la
Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo
del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di
qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi
per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi,
ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve
essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente
incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina
scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e
decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati,
la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più
incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o
l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei
castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e
sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie
inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e
soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua,
oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo,
Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.”
Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea,
sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo.
D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a
raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere
nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza
personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un
quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha
appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli
che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito
posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo
seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti
commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura
esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel
romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro
quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore
stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che
disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno
dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei
singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a
punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in
quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me
dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di
assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società
pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che
non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura
di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro
della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la
smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà
voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.”
Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come
si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così
all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un
abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in
quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al
proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia
della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere
guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora
che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite
lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad
Alessio Arena ho già scritto troppo.
antonio coda
*In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli
L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha
importunato Alessio Arena proviene da Pangea.
Parole: piccoli ceselli sulla pelle pietrigna del tempo. Fiammanti agguati, di
feroci simmetrie, che abbrancano prede fatte di vento. Mosse a un crudore aspro
o leni, appoggiate o impugnate, deposte, in profferta come doni votivi testimoni
di una fragilità che elegge Dio.
Parole derelitte come costole spolpate dal sole. Parole dipinte con estro
tonale, giustapposte, squillanti, stemperate o scialbe.
Parole fuori traccia, inedite e da sommossa, futili, banali, raccogliticce. Che
mordono la carne come stiletti, che lambiscono appena come fiati di petalo, come
un caldo contatto di pelle… Che sanciscono distanze, che abbreviano o
circonloquiscono in modo infame. Come incunaboli di fioriture, laceri stracci,
arazzi superbi, protendersi di dita rattrappite verso l’impellenza del sole;
sequele di futili, pedissequi rilievi, insignificanti, giocose, gratuite, nudate
e sofferte. Che avvengono e non avvengono, numinose e sapienti come antico
delubro, fitte di semenza o sterili come le greppie del potere. Occulte o
palmari. Parole abbrivio di lagnanze, petulanti tracce egotiche di parventi
ragioni, disilluse e bestiali, perentorie come carcasse da mattatoio, celestiali
e senza macchia. Parole argilla del boia e arcolai di salubri raggi.
Ogni linguaggio è territorio animale… Ma per ogni parola, detta o non detta, si
adultera o corrompe ciò che designa: intrasferibile verità e atavica condanna.
Per ogni parola, scelta e ragionata, prolettica e ventrale, la meridiana del
pieno meriggio si sgretola come osso tra le zanne di una bestia.
Il giorno è una stele che detta pene e vantaggi, la notte non appartiene a
nessuno, solo a un varco di stelle che, compassate, trafiggono solitudine
antica. E le parole lì, adiacenti a un desiderio, una promessa, un pianto
incistato in gola. Mentre la fatica del mondo si compie e le vite si estenuano
fino all’ultimo singhiozzo di luce lecita.
Possono far libera un’anima o condannarla alla pazzia, secchi gerani scossi
dalle mani di un uomo senza più un uscio per entrare o uscire dalla propria
appartenenza.
Ho visto creature, punite da un obolo di misericordia, brandire le parole e
scucire il velo dell’ipocrisia. Creature che non possono incontrarsi senza prima
smarrirsi dentro sé, perché è vero: solo ci si incontra, smarrendo la strada. Là
dove la parola evoca una disorna traccia, la geniale omissione dell’intero
oggettuale, scheletro astratto del contingente che fu o che sarà, che di un
oggetto ne fa mille e di mille uno.
Parole che appendono la lebbra delle fiamme a polverosi registri. Parole che
inseguono sentori: pugni che stringono il vento o mungono il sangue dalle lame.
Parole derelitte al centro di un’idea inesplicabile che si aggira sola al mondo
come una creatura. Parole come colli di bianchi cigni, come retrattili artigli,
ottuse come liti, angoli acuti senza porzione d’arco discreto. Legittime e
legittimate. Su arazzi di religioni e simili a stampelle d’un pensiero storpio.
Che giustificano il delitto seriale, che deprecano un tozzo rubato, enfie e
vacue, puntute e abissali… Che disegnano la silhouette di un’identità gettata
nei fatti. Che sfogliano paesaggi con le dita sottili di un visibile nascosto.
Parole, sono solo parole, ma si può dover morire per dar loro un senso.
Il poeta le sceglie, chi voce non ha le subisce, tutti le usiamo senza troppo
tema di sbagliare, con quotidiano, usato abuso che niente aggiunge e niente sa
di verità e bellezza.
Parole come un delitto perfetto di omissioni. Che molto dicono col raggiro di
non dire e di pletore d’opinioni e fatti desunti. Stagionali come abiti, eterne
come una rosa dipinta o cantata.
Parole di polvere su cubitale polvere di parole. Scritte sull’acqua, figlie
della muta e di mimesi psicotiche dettate, a cliché, dalla paranoia del
potere. Come spine confitte di ordini eseguiti, sogni nel sogno e rime eterne
col nostro rimosso, discorsi allo specchio di un turgore che olezza di carogna.
Parole enormi come cattedrali e che non significano un metro, parole esigue che
affoltano di vuoto. Cannibali e sottili come un’ostia. Rune di un’esistenza
sequestrata dal cielo. Ce ne sono di puntiformi e di simili a enormi bacini,
come soffitte e come sacrari, o infiniti contenitori in cui derubricare scomode
posizioni, a cumuli, con surrettizi, epidermici giudizi figli d’apocrifa
antonomasia.
Ne sfoggiamo di trite e ne defalchiamo di essenziali. Talvolta ne azzecchiamo
qualcuna, ma come per un lancio di dadi, un gioco di bussolotti.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: disegni di Peter Paul Rubens (1577-1640)
L'articolo “Ogni linguaggio è territorio animale… parole cannibali e sottili
come un’ostia” proviene da Pangea.
Cabbala del disincanto, dell’incastro a cose senza cautela; le date –
altrimenti, meri ornamenti cronologici – paiono l’azzardo del demone che si
gioca l’eternità a dadi. Giuseppe Piccoli esordisce al ‘grande pubblico’ nel
1981, nel fascicolo Poesia Tre edito da Guanda. In primo piano, figurano testi
di Dario Bellezza e di Giorgio Caproni, di Andrea Zanzotto e di Maurizio Cucchi
(che tanta parte avrà nella scoperta di Piccoli). Piccoli pubblica un mannello
di versi, Di certe presenze di tensione, di aurorale bellezza, antartico alla
fauna della poesia italiana del momento. Era nato poeta dieci anni prima, nel
1971, con un libro, Il padre pazzo, edito da Rebellato, sotto la cappa dello
pseudonimo, Francesco Maria Ebreo. Titolo di preveggente mania. Nel settembre
del 1981 quel poeta di inconsueto talento, “in un attacco di schizofrenia”,
colpisce con un coltello da cucina i genitori: il padre morì pochi giorni dopo.
Internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, Piccoli
transita per diversi reclusori; nell’ultimo, quello di Aversa, nel febbraio del
1987, si toglie la vita. Avrebbe compiuto trentotto anni due mesi dopo, nel più
crudele dei mesi; era nato a Verona.
Di Giuseppe Piccoli – un autentico paria della patria poetica – si sussurra di
tanto in tanto, come si svela una sindone. Su questo foglio elettronico, nel
2018, ne ha scritto Silvano Tognacci; di recente, me ne ha instillato la lince,
ben ingemmata nel cervello, Antonio Bux. Si diceva, tra l’altro, di una genia
della poesia italiana – che da Dino Campana e Lorenzo Calogero e Lucio Piccoli
arriva, tra singolarità d’Everest, a Ivano Fermini, Dario Villa, Gian Giacomo
Menon e, appunto, a Piccoli – che abita l’altro linguaggio, una lingua, chissà,
preadamitica, da mangiatori d’angeli, da precursori del fuoco, intorno a cui
bisognerebbe ri-ragionare di un ‘canone’ (cannonizzando l’attuale). Sono questi
– i laterali, i ronin, i dispersi e i disperati, i disparati – a costituire la
vena indocile, dal caglio più puro, della letteratura nostra: dovremmo
ricostruirne l’albero genealogico (dico a sprazzi: i ‘notturni’ di Tasso,
Galeazzo di Tarsia, il Buonarroti poeta ‘caravaggesco’, Leopardi al bulino del
conciatore di stelle, Boine…).
Quasi che: intorno al sacerdozio lirico ‘ufficiale’, attorno alla conclamata
ecclesia di poeti cardinalizi, dovesse sorgere, per eccesso di povertà e
d’innocenza, il ‘folle’, il fool, il “pazzo” (nel dirsi dell’Assisiate), a mo’
di capro espiatorio. Per poi riscoprirlo, notoriamente, postumo, e farsene
docili – ma egli viene perché voi ne respiriate l’asperità, a quella aspiriate.
Grati all’ingrato – direbbe, Andrea Ponso.
Giuseppe Piccoli (1949-1987)
Mi placo. È stato Maurizio Cucchi a insediare Giuseppe Piccoli tra i
grandi Poeti italiani del secondo Novecento. Nell’antologia omonima (Mondadori,
1996; 2004) Cucchi parla di “un inconsueto dire enigmatico, tra profetico e
quotidiano, che non è collegabile con altre esperienze di autori del suo tempo”,
parla di “originalità e forza di una fisionomia poetica tra le più notevoli
della sua generazione”; accenna a qualche nobile lettura – Rebora e Campana,
soprattutto – pur restando, Piccoli, “per strade del tutto autonome”. Piccoli
viene inserito in una sezione fittizia, “Tendenze di fine secolo”, che lo
accomuna, per puro dato anagrafico, immagino, a Viviane Lamarque e a Roberto
Mussapi, a Franco Buffoni e a Gianni D’Elia, tra gli altri. Una silloge di
Piccoli, Foglie, fu accolta nell’Almanacco dello Specchio edito da Mondadori nel
1983: insieme a lui, testi di Kavafis e di Marguerite Yourcenar, di Ferruccio
Benzoni e di Ted Hughes, di Roberto Mussapi e di Mario Luzi.
Il primo libro incompiutamente compiuto di Piccoli uscì postumo, per Bertani,
nel 1987, Chiusa poesia della chiusa porta. A curarlo, Arnaldo Ederle, fraterno
di Piccoli. Proprio Ederle dedica a Piccoli due servizi su “Poesia”, la rivista
di Nicola Crocetti: prima nel febbraio del 1997 (Giuseppe Piccoli. Del corpo e
dell’anima, n. 103), poi nel febbraio del 2007 (Giuseppe Piccoli. Tre presenze,
n. 213), in cui ricostruisce la vita lirica, l’ispirazione inafferrabile del
poeta, assemblando “altre tessere del mosaico drammatico di Giuseppe Piccoli che
ribadiscono lo spessore della sua presenza nel quadro non solo poetico, ma anche
sociale e umano dei nostri giorni, evidenziando, nelle zone più dolenti dello
spirito, le profonde inesauribili risorse della sensibilità artistica che
riscattano, nel segno della poesia, il significato di un’intera esistenza”. Nel
2012, per Lietocolle, Maria Piccoli ha curato Fratello poeta: il libro risulta
“non disponibile”, da allora non c’è traccia di pubblicazioni. Efficace il sunto
che ne fa Nicola Crocetti:
> “L’emarginazione dovuta alla sua vicenda personale si ripercuote sulla sua
> poesia, e rende difficile il suo riconoscimento artistico. Perché Giuseppe
> Piccoli è un ottimo poeta, uno dei migliori della sua generazione. E
> nonostante l’interessamento di rari amici (Arnaldo Ederle, Maurizio Cucchi),
> la sua ricca produzione di versi (dieci volumi; il primo, Il padre pazzo, del
> ’71) è ancora pochissimo nota”.
>
> (Prima disperazione. Piccoli, gli ardori del «ladro di fuoco», in “il
> Giornale”, 6 luglio 2014).
Il nocciolo di versi qui trascritti testimonia un irredimibile candore, il
purissimo ‘nuovo mondo’ nella mente del poeta: non è il tragico a confonderci,
ma il confinamento in una perenne primavera. Un alleluia da oltremondani, da
oltraggiati, che nelle minime cose del creato assiste a una rivelazione con gli
uncini, alla casa infuocata che chiami, per analogia, sole. Così al dolore è
consegnato un supremo detto dono. Sono poesie cristalline, queste, che si
sbriciolano appena pronunciate – una pronuncia con le rondini negli occhi, e i
roseti –, conseguenti al mistero, da tenere a lungo sul palato, nel loro
avvelenato zucchero. S’intravede una cristianità senza paramenti, qui, senza più
tempio, sguainata, di avvenuto regno – un oro non disgiunto dal sangue.
In una memoria, Cucchi parla del “giovane timido e gentile” e di “diversi
faldoni colorati, una grande quantità di suoi versi. La quantità mi aveva un po’
sorpreso e un po’, inizialmente, anche scoraggiato…”. L’appunto, straniante, non
è estraneo alla pratica di questi poeti da primo uomo e da fine dell’umanità,
poeti senza tempo, di pleistocenico genio: la scrittura ‘continua’, la pratica
assidua che sconfina nell’incanto dell’ossesso. Tutto va cantato, continuamente
– nulla a che fare con le ‘occasioni’, ma con l’amore che la sentinella porta
all’aurora e alla notte bicorne, con la veglia perpetua. Quando s’interrompe il
canto, finisce il mondo.
***
Baci. Ma nell’aria c’è una
malattia dell’Essere: la chiami
noia per ripetermi e quindi
evadere ogni possibilità di offesa.
La chiamo «mondo» e, rinnovandomi,
c’è questa splendida facoltà di intesa.
*
Sinché resista questa scorza
d’uomo, sin che la polpa
non s’asciughi, apri
la finestra sul mondo:
perché di te sia inconsumabile
il vero vento e la reale rosa
bianca, dell’uno e dell’altro
bimbo, di quelli che reggono
il velo di Ecce Homo.
*
Perché la grazia sia verde,
e sia verde il contagio, avvicinati:
io spalmo di olio le tue mani.
E per andare lontano, più lungi,
sarò amante del dolore cristiano.
*
Chi sono? Una sillaba acquisita
nel cerchio provvidenziale,
la sicurtà che non è più straniera
nel prezzo quotidiano del dubbio
che io mi trovi in condizione immortale.
Ma il “tu” che non scappa dalla solitudine,
il testo reale e non imbrogliato,
la caduta sul suolo amato
sono l’ortica, che mi punge
come fa una mamma.
*
Separàti da un muro, l’idiota
e l’angelo scrivono lo stesso poema,
per venticinque anni, con grazia
di arguzie e senno squisitamente
demoniaco. E la stessa farfalla
entra ed esce, per ricapitolare
la storia dei suoi voli: ma quelle
folte rase sopracciglia dell’idiota…
e quel verso di ufo
che gli angeli atterrisce…
*
Se ti chini
sul mondo che si divide
del mezzogiorno
o della mezzanotte
in un giorno d’estate
vedrai e udrai
le foglie cantare
nate da te
dallo spirito dell’albero
con mille ciliegie
o le albicocche
e vedrai sentirai capirai
palpitare le ciocche di capelli
della tua bella
che non sa parlare.
E capirai sentirai
gli anelli dell’aria
di sé in stelle mutare.
*
Tu ed io abbiamo avuto sempre
poca dimora, ma tanto cielo.
Eppure forse tra i due quello
che più astiosamente cercò
l’esilio dalla terra, resto io:
ché dove suona il sole è sempre
pronta una macchia di sangue.
*
Pensò che le brune stelle
portavano alla scuola alla casa
al primo amore al libro.
Lo si vide sospirare per questo.
Lo si vide piangere per questo.
Per questo né amante né marito
ma rincasando una sera s’angosciò.
E non era stato solo il libro.
Il verme che tutti ci divora
è questa ansiosa ansia di lenzuola
che vestono il suo corpo in un sudario.
*
Ma per chi non ha strada
c’è la caverna dove un muto infante
si rifugia chiamando il padrone:
non scesi con la lampada nell’antro
né vidi i morti fare all’amore,
né pensai a mia madre china al cucito
né sorpresi il maestro che disegnava alfabeti.
Ma l’angelo che il fanciullo custodisce
era il mio seno nella casa segreta:
io ero la chiave e l’oltremondo
mani e piedi e bocca offerti al sacerdote.
Giuseppe Piccoli
*In copertina: Eugène Delacroix, Schizzi di tigri e uomini, 1828 ca.
L'articolo “Io ero la chiave e l’oltremondo”. Sulla poesia di Giuseppe Piccoli,
genio tragico proviene da Pangea.
Se vuoi conoscere uno scrittore – uno scrittore vero – devi andare a Laveno.
Sponda lombarda del Lago Maggiore. Ho sempre frequentato l’altra, quella
piemontese: la preferivano Manzoni e Rebora, forse perché sboccia nella Val
Grande, la più grande area selvaggia d’Italia. Scrivere vuol dire dare del tu ai
lupi.
È vero: ho sempre tenuto in sospetto i lombardi di lago. Gente dai sorrisi
larghi e ingrigiti; di un’eleganza stantia, a un passo dalla città. Riccardo
Ielmini non fa eccezione. Classe 1973, elegante, educato – sorride sempre. A
Luino, poco più in là, sono nati Piero Chiara e Vittorio Sereni. Di mestiere,
Ielmini fa il dirigente scolastico di un Istituto comprensivo a Cuveglio:
tremila e passa abitanti in provincia di Varese. Non ci sono mai stato. Bisogna
sospettare sempre degli uomini di lago: dietro le apparenze da villino con
florilegio di ortensie, si cela un mostro. Anche quel gentile dirigente
scolastico nasconde, nei sotterranei del cuore, un Loch Ness.
Riccardo Ielmini, semplicemente, non ha mai sbagliato un libro. Esordì come
poeta nel nuovo millennio, nel 2000, con un libro rivoluzionario fin nel
titolo, Il privilegio della vita. A dispetto dei poeti inargentati dal dolore,
inclini al lamento, Ielmini canta la gioia, la sofferenza come prova, la
fermezza nell’amare. Alcuni versi, di per sé, segnarono una rivolta: “Arrivare a
dire sono uno fortunato”; “Stare nel privilegio della vita”; “Quanta vita ancora
chiede voce”. Ecco un poeta che ha la primavera tra le falangi, verrebbe da
dire; verrebbe da dire: ecco un poeta nel pieno della lotta, nell’urlo. In una
poesia, Ielmini scrive di Kurt Cobain (attacco memorabile: “I bambini belli la
vita li rovina/ quasi sempre, gli inficca nel cuore una lama”), un’altra
s’intitola Mio padre è uno stanco democristiano. Credo che Ielmini tifi ancora
Inter – fedeltà alla squadra come alla donna –; ha uno stuolo di figli, ho perso
il conto. A me ricorda James Stewart, il grande attore, quello di It’s a
Wonderful Life.
Riccardo Ielmini ha scritto un altro libro in versi memorabile: s’intitola –
appunto – Una stagione memorabile, lo ha pubblicato Il Ponte del Sale nel 2021,
ma non è questo il punto. Ielmini non ha sbagliato neppure un libro. Nel 2011 ha
pubblicato una folgorante raccolta di racconti, Belle speranze (stampa
Macchione), nel 2019, per le edizioni Unicopli, è uscito con Storia della mia
circoncisione. Leggetelo. Si parla di un venticinquenne, Giovanni De Ambrosis,
di un kibbutz in Lombardia, della Svizzera e di Dio.
Lui è Riccardo Ielmini
Forse Riccardo Ielmini è l’unico scrittore autenticamente “cattolico” d’Italia –
nel senso che gli scrittori cattolici, in Italia, di solito rifuggono dallo
scrivere di Dio; lui invece no, Ielmini non ha paura di lordare le sacre verità,
di dissacrare il tempio e di pronunciare invano il Nome. Quando si legge
Riccardo Ielmini accade uno strano fenomeno. Ielmini scrive in un italiano
sgargiante, ‘manzoniano’, si direbbe (di certo, marziano all’oggi); il suo è un
tono da ironia epica, eppure, pare, leggendolo, di sentire i modi di Philip
Roth, i toni di Saul Bellow e di Henry Roth, lo straordinario scrittore
di Chiamalo sonno. Ecco: Riccardo Ielmini, l’ultimo scrittore autenticamente
“cattolico” d’Italia, scrive come un ebreo-americano.
L’ultimo libro di Riccardo Ielmini – uno scrittore-cecchino, uno scrittore che
non sbaglia neanche un libro – s’intitola Spettri Diavoli Cristi Noi (Neo,
2025), ed è il libro più bello di questo autore così anomalo. Il romanzo si
svolge in un paese in riva al lago dal nome fittizio, Contea; i protagonisti
sono un gruppo di ragazzi, la Confraternita; il contesto mostra messe nere,
assassini in serie, orrori a tracannare. L’incipit è apocalittico, una specie di
John Milton all’imbarcadero:
> “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica
> incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo
> bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn,
> l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo
> ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla,
> e quindi sta’ lontano dal Diavolo…”
…e avanti così, in sabba, per un paio di pagine. Il romanzo è fitto di
personaggi sfacciati e fiabeschi – “Indiano Joe”, “L’Uomo Dei Boschi”, “Artù il
Muto”, “La Frida” –, alcuni dei quali – Von Arcimboldi e Frau Ingeborg Bauer –
sono tratti dai libri di Roberto Bolaño. Il romanzo inscena, soprattutto,
l’eterna lotta tra il Bene e il Male – “l’Altissimo dava retta alle giaculatorie
delle nostre vecchie e disseminava nelle boscaglie intorno alla Contea i suoi
spettri custodi” – perché il Male, quello al di là del raziocinio, esiste – “la
Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo
altra carne, carne debole, innocua” –, ma pure il Bene, quello incredibile,
quello indicibile. Non mancano le viltà, i tradimenti e i giornalini porno:
l’orrore non è negato, ma narrato con la certezza che l’Onnipotente, prima o
poi, farà quadrare il caos. Più che a Flannery O’Connor, Ielmini guarda, in
questo romanzo, al ghigno da chassid di Isaac B. Singer. Su tutto, aleggia
un’atmosfera che mescola Twin Peaks ai Goonies; sgommano a go-go falangi di
vecchie, indimenticate bmx.
In un articolo pubblicato ricordando Simone Cattaneo – su “Atelier” n. 67, del
settembre 2012, lo trovate in rete –, Ielmini accenna a Dejan Stanković:
furoreggiava nell’Inter di allora. “Una volta mi aveva tenuto un monologo sugli
slavi: razza calcistica superiore, perfetta: bastardi con piedi buoni da
sudamericani e testa dura e cattiva, aveva detto”. Le stesse caratteristiche
tecniche di Ielmini: estro e ferocia, genio e pervicacia.
Non ha mai sbagliato un libro.
Mai trovarselo davanti. Sembra gentile, sorride sempre – è implacabile.
L'articolo Riccardo Ielmini: lo scrittore che non ha mai sbagliato un libro, con
un Loch Ness nel cuore proviene da Pangea.
Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966:
> “Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono
> scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle
> lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa
> che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”.
Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue
sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio
della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024),
di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da
strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di
cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario;
valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella
follia.
Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo,
Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal
linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio,
per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa
riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che
riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da
Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del
WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo.
Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio
di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’.
Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano
per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal
e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio,
Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e
fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo
stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali;
un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale
(pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta
armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il
punto.
Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della
dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei
ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo
e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre
scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe
e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici:
al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal,
Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto
lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco:
> “Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella
> recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai
> vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”.
In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla
dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del
Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti
scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla
natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più
raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una
terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili,
semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che
trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi,
a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al
poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al
romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola
sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa.
Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra
cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora:
> “Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola,
> domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade,
> quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via
> si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”.
Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del
fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che
la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo
verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è
l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia
dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il
cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno;
e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi
– nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale
pratica è semplicemente più esplicita.
Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così
ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati
Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia
alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e
umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli
individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure
‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con
un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e
avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare,
soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in
luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci
degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che
piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio,
in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va
letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che
sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito
resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla
morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi.
Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola?
Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma
l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida
tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole,
leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.
Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla.
Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata
di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha
pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di
tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il
primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e
gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della
musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare
poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo
(42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce,
accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento
di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra
la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto
d’arte reca un pervicace sentore di sangue.
Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo
umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e
con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca,
nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli
operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene
incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli
esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato.
Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice
Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan
un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di
quel fiele.
*In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the
invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni
L'articolo “Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa,
ancora, su GRM) proviene da Pangea.
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle
della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un
sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli
astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di
angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria –
Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il
pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di
memorie passeriformi.
E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di
leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea
che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina,
l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli
inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono
torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo;
Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì,
nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli
estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.
Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella
sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che
vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda
l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del
Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la
nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei
pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa,
il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino
del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo,
falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose
malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.
Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è
lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi.
Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città
fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma
ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a
tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani.
Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di
immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a
dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della
pena. La prima:
> “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido
> fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti,
> si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato.
> Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare
> ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.
L’altra riguarda l’animale:
> “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento
> chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da
> così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore
> acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo
> della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi
> guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie
> hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo
> letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo
> sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a
> graffiarmi con potenza”.
Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei
dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano
un’invocazione:
> “Modera la tua ira!
> Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta,
> come una crepa nel legno,
> diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”.
Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a
maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i
più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro,
forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento
dell’uomo.
Ad ogni modo, ho interpellato Linda.
Preliminare: perché l’ossessione del Nord?
Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi
hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i
ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio
rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione
scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a
Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle
Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno
1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto.
Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce
abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di
conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende
il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le
storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da
una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne
sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano
in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce.
Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica
di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere?
Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel
cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in
Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu
venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra
norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che
non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo,
l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne
piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa
pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in
cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una
istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il
passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo
cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la
luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare.
In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un
sottofondo lirico che anima il romanzo?
Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è
la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi
un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che
rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno
della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto
come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul
fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve
ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai
che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non
significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male
che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad
occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono
piuttosto aggrovigliate.
Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata?
Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in
grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver
visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di
vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata
tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi
pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore
tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel
cuore dell’inverno.
Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del
tuo romanzo?
Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero
spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi
sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani
avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello
che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del
passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il
grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la
protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata,
controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre
sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di
corrispondente alla verità.
Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.
Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male.
> “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi
> contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua
> integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti
> come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente
> freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e,
> nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il
> fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti,
> sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire
> dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore
> improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”.
Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo
dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle
conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale.
> “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con
> un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha
> capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha
> sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva,
> ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”.
Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato
che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di
Pyramiden:
> “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di
> polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono
> migliaia di occhi che ci scrutano”.
E ora? Cosa scrivi, cosa studi?
Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo
editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore
dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al
parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto
alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo
momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro
voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé,
più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile.
Ma talvolta è necessariamente più potente e audace.
*In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden
L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città
fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in
quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi.
Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della
maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per
descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che
non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello
spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si
scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo
corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di
fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla
necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e
del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per
trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in
superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità
umana dell’abbandono.
Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore
incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il
Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola
diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme
alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire
che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del
testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e
l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare
un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda,
incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di
racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice,
può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E
pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!
Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una
pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra
Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate
sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso.
Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in
quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo
neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento,
di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della
creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo
la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo
delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in
atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede?
A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa,
inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare
mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci
sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche
se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro
divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e
Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei
pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo
lo spessore dei maestri.
Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un
libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il
sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione.
Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta
magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto,
niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in
mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico
sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si
salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per
raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il
quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre.
Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura
che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto,
insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca
dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della
propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora
quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire
l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo,
si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero
assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo,
come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche
il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un
infinito.
Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad
avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda,
gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare
come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a
fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito.
Oggi è più grave?
La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque
cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in
una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed
esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della
parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede
forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità
della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma
senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la
pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa
riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta,
un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La
parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al
chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è
personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci
sorprende.
Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore
insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra
gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani,
risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la
sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei
si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman
non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la
vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è
persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è
capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso.
Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso.
Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo.
Ricominciamo, leggiamo l’inizio:
> “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona
> gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al
> viaggio”.
L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole,
realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a
cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe,
si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di
seguito si legge:
> “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare
> il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una
> mappa”.
Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:
> “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e
> tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”.
Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e
così pure il lettore:
> “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed
> ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì,
> rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini
> dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a
> svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e
> capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che
> dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e
> desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro
> corpi avvinti”.
Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole
sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto
inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue,
allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua
immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che
gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo
nell’Ora denominata occidentale orientale:
> “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e
> arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre
> ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati
> nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e
> slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni
> si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.
Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo
sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai
contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e
di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo
nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine
di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al
piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale
sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri
all’incontrario”).
Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che
siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non
a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:
> “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a
> un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di
> fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su
> materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione
> delle ore ti dà misura di te”.
Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò
anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola
che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella
che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte.
L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che
uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva,
attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.
> “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su
> quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi
> dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo
> quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si
> avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia
> gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al
> tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per
> dare chiarore alla notte”.
Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne.
“La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:
> “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume
> senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e
> capoversi”.
Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un
indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza
saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo.
Vincenzo Gambardella
*In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916)
L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di
Silvio Perrella proviene da Pangea.
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta –
endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo
mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era
stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste
letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi,
restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un
geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri
dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui
scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore”
con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e
tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo
marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz
– “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente
sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai,
Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a
Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –,
Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli
chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un
attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli
dice di tornare a studiare.
> “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro
> rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.
Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da
poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà
per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se
ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio
Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è
onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa
nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni
verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994
seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello.
Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli
occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di
Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo
stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua
come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco
di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:
> “Sono un animale ferito.
> Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere
> definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
> Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il
> cuore m’avrebbe solo bagnato”.
Successe, poi, il disastro.
Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti –
creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A
metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma.
Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho
fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli
risponde con un autoritratto:
> “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui,
> direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non
> erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia
> innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da
> questo punto di vista”.
Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta
Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel
1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come
“Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”,
Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come
il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le
retrovie dell’epoca.
Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli
racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane
bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco”
e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata,
da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti
minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a
essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo
malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei
diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.
Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e
istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo
Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di
un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si
tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva
azzannare al collo.
Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”;
per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di
Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro,
1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle
streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo:
chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver
visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me)
assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da
chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di
fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al
fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva
bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.
Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive
nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e
nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto
l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:
> “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per
> niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.
Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.
Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon
L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini &
Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
Massimo Bontempelli è lo scrittore italiano che con maggiore intensità ha
lavorato nel canone biblico, rielaborandolo secondo le mire della propria
ispirazione. Tra i grandi autori del Novecento – vanno citati, almeno, La vita
intensa, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo e L’amante
fedele; sia lode all’editore Utopia che va rieditando tutto –, Bontempelli fondò
riviste – “900”, ad esempio, insieme a Curzio Malaparte: ai “Cahiers d’Italie et
d’Europe” collaborarono, tra gli altri, Joyce e Pierre Mac Orlan, Virginia Woolf
e Alberto Moravia –, fu futurista per noia, fascista per dovere e per passione,
espulso dal partito nel 1936, perché rifiutò di occupare la cattedra di
letteratura italiana a Firenze al posto di Attilio Momigliano, sollevato dopo le
leggi razziali. Eletto senatore nel 1948, nei ranghi del Fronte Democratico
Popolare, fu espulso anche dal Parlamento, poco dopo; al “compagno Bontempelli
di oggi” non fu perdonato “il camerata Bontempelli di ieri”; un’autentica
porcata politica, come ha riconosciuto un critico ‘di parte’ (comunista),
Alberto Asor Rosa: “la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel
confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua
appartenenza alla Accademia d’Italia”.
Musicista nel tempo libero, Bontempelli ha tradotto Stendhal, Chateaubriand,
Apuleio. Il suo Vangelo secondo Giovannifu incorporato in un’edizione dei
Vangeli edita da Neri Pozza nel 1947, a cura degli scrittori: a Nicola Lisi fu
affidato il Vangelo di Matteo, a Corrado Alvaro quello di Marco, a Diego Valeri
quello di Luca. Il volume uscì con l’introduzione di don Giuseppe De Luca e
l’imprimatur dell’allora cardinale Roncalli. Dal Nuovo Testamento, Bontempelli
ha tradotto anche le Lettere di Giovanni e – con particolare partecipazione –
l’Apocalisse: nel poeta “relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le
stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, [che] nel giorno del Signore ha
e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza”, intravedeva,
probabilmente, il simbolo vivente della scrittura. Cioè: isolarsi dalle tempeste
della Storia, vigilare sulle proprie visioni, darsi alle altezze.
Bontempelli è un pioniere della traduzione biblica ‘autoriale’: entra nel
deserto ebraico da predestinato, con iliadica corazza retorica e tutti gli
araldi attorno. Alcune proposte, così, suonano un po’ rétro, molte altre
resistono, sgargianti (ad esempio, è bello passarsi sulle labbra questo dire,
corroborante: “Dolce cosa è la luce, e diletto agli occhi il sole”).
Nell’editoriale di “900”, era il 1926, Bontempelli scrive: “La vita più
quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio
continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne.
L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”. Il senso del
rischio e dell’avventura si avvertono nelle sue traduzioni, brillanti, a briglia
sciolta.
Tradurre il testo sacro – dunque: dissacrarlo – vuol dire aprire i recinti e
liberare le bestie. Spesso, ciò che hai creduto domestico, domesticato, ti si
rivolta contro, si rivela il tuo totale nemico. La Bibbia, cioè, è un testo
‘vivente’, un testo-zoé, parola che dà la vita: ogni traduzione, allora, è come
il gesto del picador che conficca la lancia sul collo taurino, fiacca e fa
esplodere il corpo dell’offerta. Bontempelli ne era consapevole: aveva sintonia
con Giovanni, in particolare, e così scrive dell’Apocalisse, testo che è
inesatto tacitare come attuale, perché è grazie al suo attuarsi che esiste
l’attualità:
> “La caduta degli angeli è il primo capitolo della storia umana. Di là comincia
> l’inquietudine dei tentativi perennemente rinnovati dell’uomo per ritrovare il
> volo e il cielo: ma di continuo li combattono le potenze della terra, quasi
> essa non voglia essere riabbandonata alla vuota solitudine ora che ha sentito
> il caldo della vita e dell’intelligenza.
>
> Poesia, filosofia, religione, forme vive della contemplazione, tentano
> resistere alla storia, che è fatta di prepotenza e avidità. Disperata
> resistenza. La spiritualità dell’uomo è continuamente sopraffatta dalla sua
> zoologia… Ogni periodo di tempo presenta in pieno il decorso di questa lotta,
> nella quale la malizia storica finisce sempre per avere il sopravvento
> sull’innocenza primordiale: le epoche che la storia ci tramanda con vanto come
> le più splendide, sono quelle in cui l’uomo più s’allontanava dalla Sapienza e
> da Dio: i cosiddetti Rinascimenti. Il poema di Giovanni è tra l’altro una
> vivace rappresentazione del travaglio della storia, della lotta tra
> contemplazione e azione, tra cielo e terra”.
Nel 1971 Mondadori ha raccolto come Traduzioni dalla Bibbia gli esperimenti
esegetici di Bontempelli. L’autore era morto undici anni prima; aveva lo stigma
del visionario. Dal Primo Testamento aveva tradotto Il libro di Giobbe, Cantico
dei Cantici, Sapienza. La casa editrice De Piante ha riesumato le sua versione
di Qoelet (2025), il rotolo biblico che ricapitola la promessa in un pozzo,
l’esodo in una spartizione di sparizioni. Qoelet: basso rogo di fiamme locuste;
buco nero in cui l’iddio degli eserciti è vanitas, insieme a tutto il resto,
insieme al tutto.
Non difetta in lirismo, il genio del grande scrittore. Bontempelli, in effetti,
scrisse poesie: raccolte, nel 1919, da Facchi, come Il purosangue. L’ubriaco,
recano i crismi di una ferina singolarità, da disastro imminente. Piacquero a
Gozzano, Mengaldo le incorpora nei Poeti italiani del Novecento, andrebbero
rilette, eccone una, Prigioni, 1:
Un lucernario nell’alto taglia un quadrato di cielo.
Stridi di rondini neri nei mattini passano
si sgombra la scena canta l’azzurro –
passano aquile grandi grandi con le ali
tra le trombe dorate del sole alto –
angeli a stormi al tramonto appaiono fuggono
candidi profilati di bagliori rosei –
nel prato delle stelle che sventolano veli
scivolano sciami lunghi d’anime scompaiono.
A notte fonda si spengono tutte le stelle
nulla si muove sulla scena nera –
tutti i pensieri profondi degli uomini s’addensano
nell’immenso quadrato del cielo
sfumava la cornice nel nero dell’infinità
cadono le pareti e la prigione è scomparsa –
tutti i canti gravi e acuti del mondo
accolgono l’anima libera signora.
Girandole cifrate della storia. Nel 1955 – “credo” – Guido Ceronetti comincia a
praticare, da alchimista, il testo biblico: si scontra con Ecclesiaste, impara
da un rabbino “a dirne i versetti autentici, le ripetizioni martellanti in
specie, facendo smorfie di rabbia e di disgusto”. Compiva ventotto anni. A mo’
di risarcimento, due anni prima, il Premio Strega aveva onorato Bontempelli,
ormai un paria delle patrie lettere: L’amante fedele – una raccolta di antichi
racconti – primeggiò sul Sergente nella neve di Rigoni Stern, sulle Novelle del
ducato in fiamme di Gadda e Le libere donne di Magliano di Tobino, un
capolavoro.
La prima traduzione di Ceronetti di Qohélet o L’Ecclesiaste esce da Einaudi nel
1970, nella ‘Collezione di poesia’. Bontempelli era morto dieci anni prima – di
“qoheletite”, verrebbe da dire, parafrasando Ceronetti –; l’anno dopo Mondadori
sarebbe uscita con il volume – presto scomparso – delle Traduzioni dalla Bibbia.
Bontempelli si rifaceva alla “Clementina”, la versione della Biblia
Sacra vulgata, edita nel 1927. Le varie versioni di Qohélet ordite da Ceronetti
trovano un luogo riassuntivo nell’edizione Adelphi del 2001. Ceronetti era
sintonizzato su quel roco dire di “colui che prende la parola”: uno che ghigna
tra cumuli di carcasse. Amava l’“incurabile incoerenza” del testo ebraico, la
funebre giga di quel “Disitengratore che come tesori di sapienza nient’altro ha
da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione,
figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita”. Se ne rallegrava,
perfino, di quel Qohélet-Céline, orchestrale di disastri. Franco Fortini lo
criticò. Nei suoi bagliori verbali si intravedeva troppo Novecento, troppa danza
macabra dei pupazzi e degli scheletri, troppo gnosticismo da letterati.
> “Quanto a Ceronetti, sembra di leggere una parafrasi da Ungaretti; non priva
> di efficacia; ma che introna e distrae. Di fronte a questa violenta
> elettricità da esposizione, dove risultano domati e quasi resi inoffensivi
> anche potenti e terribili reperti di antiche civiltà, quasi si rimpiangono
> certi musei polverosi dove la luce è solo quella delle finestre”.
Più in generale, Fortini – in urticante intelligenza – si scagliava contro le
traduzioni esagitate più che esegetiche, da scrittori in lotta con la Scrittura,
nel tempo in cui “tutti ambiscono alla irrepetibilità e alla firma”. Introduceva
una “lettura” – non traduzione – di Ecclesiaste approntata da Attilio Lolini in
un libro di petroglifica bellezza, edito dalle edizioni di Barbablù nel 1984,
tirato in quattrocento copie numerate (poi: Edizioni L’obliquo, 1993, con cinque
tavole di Salvo). “Lolini adotta, col coraggio di una calcolata innocenza, un
atteggiamento post-diluviano o post-atomico, come di chi stia leggendo in una
carta mezza abbruciata, in un libro squinternato dall’apocalisse. L’oltranza fa
presto dimenticare l’origine biblica”, scrive Fortini.
L’esito ha finiture a volte sgargianti, da moloch sumero, da profilo macedone;
così dal quarto capitolo del libro:
“Le violenze
tutte
ho veduto
sotto il sole
le lacrime degli oppressi
non saranno premiate
ma anche gli oppressori
non verranno consolati
Ai morti dico:
felici voi
più felici certo
di coloro che si dicono
vivi
Ma più felice
chi non è stato
chi non sarà
che non ha visto
che non vedrà
il male che l’uomo
compie sotto il sole
La pena che dà
il fare
gli sforzi
l’invidia che l’uno
prova per l’altro
miseria
un vortice di vento
Perché
ti agiti
così
lo stolto
che ha le mani
legate
pur si divora
le carni”
Rimane sempre lo scarto, un vocabolario che potremmo dire afasia: sguainare un
linguaggio è ridurre a guaito il dire di Dio. Reclinare in tazzina l’infinità
teurgica, tellurica del testo. Eppure, occorre il latte, occorre la briciola, la
particola di pietà per far crescere i poppanti, noi. A noi non resta che slegare
i sigilli, insistere su quella gioventù di scatenati riti, di scriteriato amare
– meditare l’ingiuria per gustare il giusto. Cos’è tradurre? Scoprire se stessi
o scoperchiarsi?
Entrare nel testo: abbandonare i paramenti retorici, abbandonare sé. Una
spoliazione – una rapina. Cosa resta? Il frumento e il trafugato, il transfuga e
la trattativa, il rifiuto, il fiato.
L'articolo Malati di “qoheletite”: Massimo Bontempelli, Guido Ceronetti, Attilio
Lolini proviene da Pangea.