Homo Poeticus
In un momento come questo, nel quale il gesto di scrivere libri ha perso ormai
totalmente di senso, tanto che forse sarebbe meglio il contrario, la poesia
resta l’ultimo baluardo a proteggere questa sacra vocazione, l’unico presidio in
difesa di un tempio troppo spesso profanato in maniera ingiusta; si tratta di
un’esperienza, una delle pochissime fra quelle una volta elettive, che ancora e
per fortuna non è scesa alla portata di tutti, o di chiunque intenda farsi
chiamare autore o autrice perché ha espettorato qualcosa su un foglio cartaceo o
digitale. Tutto questo è successo se non altro perché il verso ha delle regole,
una musicalità, una complessità anche strutturale, cose che vanno imparate e poi
rispettate, concetti estetici che costitutivamente non possono essere alla
portata di prosatori pedestri e occasionali.
Il poeta vero e di talento autentico sa rispettare le regole della composizione
in modo naturale e ignaro: il genio è anche padronanza tecnica sublime ma
inconsapevole. In più la poesia ha anche una storia, che la rende unica, e ogni
opera in versi si colloca in un fluire atemporale, mentre invece, oggi, chi
scrive, non considera niente e nessuno oltre sé, pensa di essere il primo e
l’unico al mondo, trascurando il fatto che prima di lui ci sono stati Pablo
Neruda, Josif Brodskij, Sylvia Plath, e Emily Dickinson. E la poesia è protetta
non solo delle regole imposte dal metro, ma anche da quell’istanza autoriale
unica nel redigere l’opera, che è qualcosa che anima solamente il poeta, il
quale si distingue per la sua voce innocente, la limpida spontaneità, la grazia
sorprendente. Tutte cose totalmente antitetiche rispetto alla meschinità
borghese, contro la quale la silloge di poesie ci regala un sentire di nuovo,
nudo e puro, una fresca lettura delle più banali movenze della vita, alla luce
di una superiore sensibilità. Concetti unici, che fanno di quelle parole una
sorta di osservatorio distintivo, una peculiare finestra sulle cose, a cui
consegue una diversa visione del mondo.
Ben lontano da qualunque eventuale soluzione consolatoria, il poeta vero mischia
con naturalezza il comico e il tragico della vita, la storia del mondo, e gli
eventi personali. Vede le cose basse ancora più dal basso, e sa elevarle ancora
più dell’alto. Si sente perseguitato da guardoni curiosi e cinici, e provocato
continuamente dalla bruttezza e dalla volgarità dei suoi contemporanei. Offeso
da tutto ciò si scava una tana dentro di sé, e nello sforzo lirico, emette un
segnale di sola andata, come un’antenna che spara messaggi nello spazio
disabitato del cosmo. Crea nuove sensibilità nelle coscienze, attraverso il
recupero di sentimenti antichi, è drammatico in senso classico, ma ciò
nonostante sa anche innovare, costringe i lettori a comprenderlo, superando così
l’invisibile e pigra immobilità che ci impedisce spesso di capire noi stessi.
Tutto questo privilegio nel sentire non è ripagato con la gloria e con la
ricchezza, ma al contrario, il poeta ottiene in cambio solo un grande dolore ed
una irreversibile solitudine. (Sandro Bonvissuto)
**
Dal vostro al mio esilio
Oh, voi immortali
poeti d’ogni dove:
poeti d’oltre oceano
e della madre Russia.
Poeti impanicati
e poeti sbeffeggiati
nascosti e salvati in ogni angolo del mondo;
poeti suicidati e poeti martoriati nella Storia,
io vi dico:
non solo nel libro di Davide è il mio esilio,
ma nei vostri libri!
In tutti i vostri libri che traboccano versi intoccabili,
io ritrovo vita e respiro
e seppur solo – seppur solo! –
attraverso le parole d’ogni tempo: libero.
Perché l’epoca è adesso
nella lettura d’un sacro verso;
qui e ora,
nella letteratura che dà senso
al più profondo isolamento.
*
a Gian
Ruggero Manzoni
Quell’uomo sconosciuto ha ucciso uomini,
è stato nei servizi segreti,
ha conosciuto Pier Vittorio Tondelli.
Quell’uomo un giorno mi ha osservato
si è avvicinato, e con un atto di umiltà e rispetto
mi ha stretto la mano.
Quell’uomo si chiama Gian Ruggero Manzoni
e crede in dio.
Cosa pensa di Amelia Rosselli e di Borges non lo so,
ma li ha conosciuti.
E quella notte, quando ci siamo salutati, mi ha detto:
«È come se ci conoscessimo da sempre».
*
Del dolore ne conosco la rosa
lo stelo e la spina.
Del dolore forse avverto la causa,
ma è il suo silenzio o il suo grido
ciò che mi affascina e mi riavvicina a dio.
Nel dolore riconosco una sequela,
un qualcosa di tradito,
un petalo spezzato
all’improvviso dal tormento.
Ma è il dolore della mente,
il silenzio dell’anima,
quello più inquietante.
E quel poeta che ne soffre ancora,
considerato pazzo da qualcuno,
in realtà sta tessendo
un poema d’amore.
Con le sue parole
rende vero un profumo,
colora le rose d’un rosso potente;
ne incarna il sangue, ne ribolle.
Dunque, che sia la tua rosa
la causa di tutto questo poetare?
Di tutto questo soffrire?
La tua rosa alchemica,
la mia alchemica rosa,
che nascondiamo da sempre al mondo
ma non a un amico di una sera soltanto.
Perché quel nostro incontro di poeti,
oltre a dare il senso alla scusa di uno sfogo,
permette al cuore di rinascere;
come quando una musa ti ama per davvero.
Giorgio Anelli
*I testi, compresa l’introduzione, sono tratti dall’ultimo libro di Giorgio
Anelli, “Rosa alchemica, alchemica rosa”, Ensemble, 2025
*In copertina: Peter van der Doort, Amphiteatrum sapientiae aeternae, XVI sec.
L'articolo “Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli proviene
da Pangea.
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È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di
Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il
romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi
nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti
tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di
Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di
Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in
Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e
inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo
Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi,
invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era,
brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene
sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida.
La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.
Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.
Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere
nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al
rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati,
corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un
saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da
Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non
resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per
rivestire un vuoto, il nulla.
I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da
notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania
turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si
consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle
sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco
prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è
rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa
Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le
“Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza,
pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una
poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis
e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto
Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso
di disincantato incanto – uno schianto.
Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più
ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo
dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su
“Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e
a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver
“fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del
Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello
dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli
accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non
riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”.
Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23
giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica
in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali
diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a
“Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura
Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di
«Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il
romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un
capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base
agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto
il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo
ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i
romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del
senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e
alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come
nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a
spingerlo al sequestro”.
Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del
1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è
ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della
festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto
pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a
chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi –
gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per
me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’
che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand
Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei
film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era
Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.
Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di
Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come
anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana
nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole
dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini,
Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis
Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads.
Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.
Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e
spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti
di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento
disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale
spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non
svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità
travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella
nudità.
Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello
spirito.
Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di
tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo
guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi,
puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è
stato offerto per sempre.
Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre
*A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8
dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana
Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi
– di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio
Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni.
L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
proviene da Pangea.
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di
passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo
capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore
dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai
vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare
poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe
chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono
a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o
Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del
liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco
Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo
nome, presa senza sapere bene perché.
Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante
fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se
ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più
parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti
un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi
è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio
Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario?
Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante
della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi
ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su
manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni
cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita
mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate
al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il
silenzio.
Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a
finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta.
Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né
tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha
rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato
dall’editore calabrese Meligrana.
La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il
protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa
ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina
ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di
vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo
con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese.
> «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter
> scambiare qualche parola con lui.»
Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore
piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un
orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è
relativo:
> «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli
> anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure
> travolgere.
>
> Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il
> soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.»
Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per
raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono
“magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le
colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri,
di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri
si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di
grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo.
Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina
anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è
facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il
progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al
lettore.
> Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e
> incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla
> testa.
> «Dobbiamo rapirlo!»
> «Chi?»
> «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.»
Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e
accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e
magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine,
viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i
suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi
romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della
sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà
come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara
avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo
scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della
scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora
più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che
nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso
niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo
e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi
scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di
moda.
Silvano Calzini
L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da
Pangea.
Si dice che l’uomo abbia imparato a cacciare dal lupo, osservando il modo in cui
questo si muove in gruppo, concepisce il terreno, annusa l’aria, spazializza la
sua fame e il suo destino. Cacciare, in fondo, significa mappare e mappare
implica disegno e misura. Disegnare, a sua volta, ci insegna a pensare in
termini di futuro e passato, di desiderio e fine. In un certo senso, il lupo ci
ha reso poeti.
Il ciclo Confessioni del lupo raccoglie i frammenti di un’elegia esplosa e
scheggiata in onore di questo animale, in cui ancora collettivamente e
simbolicamente riconosciamo diverse apoteosi: ferocia e tenerezza, intelligenza
e istinto, fiuto e indipendenza. Quel mosaico di forme variopinte e a volte
grottesche, il cane, non sarebbe il nostro più devoto alleato, con il suo
affetto che sembra sfidare ogni logica, se non avessimo, seguendo i nostri
capricci, riscritto il destino genetico del lupo. Dovessimo sparire dalla faccia
della terra, anche il prodotto della nostra selezione artificiale sparirebbe con
noi. Il cane tornerebbe alla sua unica e vera dimensione possibile, tornerebbe a
essere lupo – o comunque un animale molto simile al Canis lupus, come
vividamente immaginato da Richard Jefferies in After London (1885) uno dei primi
romanzi post-apocalittici dell’era moderna, dove branchi ferali vagano in
un’Inghilterra riconquistata dalla natura.
Nel mio ciclo, il lupo si confonde, come in una pittura rupestre, con elementi
umani. Se lì si intreccia, si fonde con il carbone applicato, il sangue, il
fuoco che ha guidato il disegno, con la luce millenaria imprigionata nelle rocce
calcaree; qui, si mischia con la marmellata di mirtilli, l’asfalto, il seme
schizzato sulle lenzuola. Nella poesia finale del ciclo, ho immaginato un
lupo – uno di quelli realmente reintrodotti negli anni Novanta del secolo scorso
nel parco di Yellowstone –il suo iniziale disorientamento, il panico di fronte
all’ignota sensazione della fame, fino al primo morso, alla successiva
diminuzione della popolazione di cervi. Pare che i biologi si fossero messi le
mani nei capelli all’inizio, incerti sulla bontà del loro progetto, finché, dopo
un paio d’anni, videro gli alberi crescere, non più decimati sul nascere dai
troppi erbivori ingordi. E con gli alberi ai bordi dei fiumi tornarono i
castori, e con le loro dighe nuove popolazioni di insetti e uccelli, finché
persino il corso dei fiumi cambiò. Il lupo non aveva solo rinvigorito
l’ecosistema: aveva trasformato persino la geografia del parco.
Il ciclo Confessioni del lupo è tratto da un libro in fieri. Mi piace pensare a
questa raccolta, alla quale lavoro dai primi mesi del 2023, come a una sintesi
dei due libri precedenti, Habitat e La grande nevicata, con cui andrebbe a
formare una sorta di trilogia. Non so se la parola “sintesi”, con quel
retrogusto hegeliano, sia davvero quella giusta per definirne l’identità, ma è
vero che in queste pagine ritornano sia la riflessione ecologica e topografica
che ha animato Habitat, sia quella meteorologica e memoriale che
contraddistingue La grande nevicata. La differenza è che in questi testi più
recenti emerge con maggiore forza – e una certa virulenza – la dimensione
elegiaca, intesa tanto come lamento quanto come celebrazione. Forse ciò è dovuto
al mio ritorno a Rilke, così pervasivo e dominante negli ultimi due anni: un
ritorno esplicitato in modo un po’ ironico, ma non per questo meno radicale e
sentito nello pseudo-sonetto Saggio sugli angeli e, soprattutto,
in Borgeby. Questo toponimo, di non facile ubicazione, rimanda alla cittadina
svedese dove il poeta soggiornò per un certo periodo, nel 1904, e da cui inviava
lettere cariche di attesa per le meraviglie policromatiche e dinamiche
dell’autunno che si sarebbero presto rivelate. Rilke veniva dall’estate calda,
monotona e statica di Roma e non vedeva l’ora di immergersi nei cieli in
subbuglio dell’autunno nordico. Quella mia poesia è, a suo modo, una lettera a
un destinatario non nominato – una lettera priva dei caratteri riconoscibili
della corrispondenza – in cui gli accenni a una quotidianità claustrofobica si
intrecciano a frammenti di geografie fluide, umane e non-umane.
Federico Italiano ritratto da Dino Ignani
La poesia – anche quella più difficile o apparentemente inutile – è radicata
nella realtà, possiede una propria causalità, simile al suono generato dal vento
che attraversa la “Æolian lyre”, l’arpa eolia, evocata da Shelley nella
sua Defence of Poetry. Essa nasce dall’incontro tra due realtà oggettive che,
interagendo, si trasformano, si traducono, generando una terza entità, un terzo
oggetto, la poesia stessa. Questa, a sua volta, darà vita a ulteriori pieghe del
reale. In tal senso, la poesia non solo agisce sulla realtà, la poesia è realtà.
Federico Italiano[1]
Borgeby
Provai a percorre tutti i fiumi di Francia
sulla carta limnologica a colazione –
c’era la Loira in blu, l’Aveyron
in rosa, la Mosella in verde
e tutti i tributari,
tutti gli affluenti,
nei loro correspettivi colori.
Mappai le vene di un mammifero
immenso, squartato e deposto
sul tavolo autoptico della Storia
ma finito il caffè mi alzai,
feci andare il lavastoviglie
e dimenticai i fiumi,
il prosciutto, la Francia e il sangue,
per scrivere di un poeta vegetariano
che da Borgeby in Svezia mandava
lunghe lettere alla moglie
sull’autunno imminente,
sul vento che non cessa, sul turgore
dei frutti, sulle cicogne più giovani
ormai indistinguibili da quelle più anziane.
*
Saggio sugli angeli
Le ossa degli angeli si flettono elastiche
ma si possono fagliare se esposte
troppo a lungo all’atmosfera terrestre.
Sono un mix di cellule e collagene, come le nostre,
solo che al posto dei fosfati hanno uranio
espulso dalla supernova Tycho.
Simile a quello degli uccelli, il loro sterno è ampio,
a forma di ascia, con un osso biforcuto
sotto il collo: non fosse per le piume sulle ali
e i così biondi boccoli, ne aprirei con piacere uno
lungo il torace per capire cosa si nasconda lì
dentro – se una stufa celeste, un ingranaggio divino –
cosa gli faccia splendere madreperla la cute
insinuando la finzione del sangue sulle gote.
*
Confessioni del lupo
1.
La notte è un mostro gigante
che ho sfamato
centinaia di volte
bruciandomi le mani e il pube.
Ho il pelo radioattivo,
sono un pericolo.
Le viscere della terra – una mucosa
che si prende gioco di me.
*
3.
impronte latenti
Con l’eloquio di una perdita còlta
in flagrante, l’umidità mi ha tradito
svelando al lampadario
e a tutte le finestre dirimpetto
gli esiti della mia pressione, strani
fischi nel mio sistema di valvole,
le crepe nelle mie guarnizioni,
l’odore di caviale sui lenzuoli
e il beneficio atteso di uno schizzo,
di una goccia – una nota, una bozza d’essere.
*
4.
lupo vegano
Quando nel cielo scomparvero tutte le pecorelle
intimorite dal mio gioire nel guardarle
smisi di provare piacere con gli occhi
e rinnegai Dio-Lupo
dedicandomi a funghi psicotropi e arbusti aromatici
per lenire l’acidità nel mio stomaco
e l’infiammarsi dei miei pensieri grigi.
Un mattino, passato l’inverno, le greggi tornarono
in cielo, infinite pecorelle candide come neve,
ma non avevo più gli occhi per contemplarle
né avidità nei lombi, estinta
era la gioia indivisibile
di chi divora il giorno senza masticare
e non teme il suo vero colore.
*
5.
die Füchse brauen
[le volpi fanno la birra]
Quando dai boschi sale la bruma o la foschia
ammanta brughiere e villaggi
dicono sia colpa delle volpi
che fabbricano birra nelle loro tane
come se quei loschi canidi rossi
sappiano discernere il malto
dal luppolo. Che ingenui –
le nebbie salgono dalle mie lingue
quando ansimo per raffreddarmi il sangue.
*
6.
Aldo Leopold
Solamente la montagna ha vissuto
così a lungo da capire davvero –
dicono – il mio ululare.
Ah, ma si sbagliano:
per ogni mio lamento c’è un lupo
oltre il bosco che si interroga e risponde
un filo d’erba che si piega,
un sassolino che scricchiola
sotto le mie zampe contratte nel canto
una foglia che cadendo cambia
direzione e colpisce
un efemerottero mentre ispeziona il suo stagno
una lepre che medita
immobile sulla fine dei giorni
e un assiolo solitario che si eccita.
*
7.
Pelle
aggrottata
lingua del passato,
duna, radioattiva spiaggia
intertidale, pergamena o lenzuolo,
ti indosserò fino alla fine, senza cedere nulla,
neanche un millimetro, neanche una molecola, pel-
le.
*
10.
Yellowstone
National Park
Mi reintrodussero senza darmi istruzioni
vagai senza una mappa guaendo
e fornicando per sconforto
con l’orrore
dei crinali negli occhi
e il pelo che si rizzava a ogni alito
di vento o al ronzio di un calabrone.
Non sapevo neanche cosa fosse la fame finché
qualcosa si contorse e m’inondò di saliva
le mascelle: un profilo tondo –
una coscia,
vicino al ruscello,
ben tornita – le mie pupille
s’espansero e addentai un futuro di sangue.
Dopo qualche inverno si ridussero i cervi
i germogli perdurarono, divennero
alberi, crescendo lungo le rive,
i castori
ebbero legna per le loro dighe –
nicchie per marmotte e idrofile – un giorno
vidi un astore inchinarsi al mio passaggio.
La mia fame assestava il corso dei fiumi
fortificava colline e spargeva fiori
nel verde indiviso delle vallate
ogni mio morso
dava agli alberi il tempo
di fare corteccia, mettere muscoli
resistere al vento, cambiare le topografie.
*Per gentile concessione si riproducono parte dell’introduzione di Federico
Italiano e una selezione di testi, pubblicati integralmente nell’ultimo numero
di “Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025)
In copertina: schizzo preparatorio di Rubens per “La caccia al lupo e alla
volpe” (1616 ca.)
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[1] Federico Italiano ha pubblicato, tra l’altro, “Nella costanza” (Atelier,
2003); “L’invasione dei granchi giganti” (Marietti, 2010), “Habitat” (Elliot,
2020), “La grande nevicata” (Donzelli, 2023). Ha tradotto, tra gli altri, Jan
Wagner (per Bompiani e Einaudi), Michael Krüger e Durs Grünbein; è tradotto in
inglese, spagnolo, ungherese, ebraico, svedese e un certo numero di altre
lingue. Lo trovate anche qui: http://www.federicoitaliano.com
L'articolo “Confessioni del lupo”. Una silloge di Federico Italiano proviene da
Pangea.
Era una notte d’autunno ferma come pietra, in cui il cielo, soffocato da nembi
plumbei, sembrava non respirare più. In quei decadenti quartieri, l’aria –
sottile e mefitica – si insinuava nei polmoni come un siero etereo e maligno, ma
Toby Dammit pareva insensibile a ogni influsso del mondo materiale. L’universo
intero era per lui divenuto un teatro desolato, illuminato appena dal chiarore
esitante d’una luna che mai trovava riflesso nel mare tempestoso e caotico della
sua mente.
Camminava a passi pesanti e incerti, tanto lungo la strada che conduceva alla
taverna quanto nei meandri oscuri del suo pensiero. Pareva immerso in un abisso
senza eco, dove le ombre – ora beffarde e malevole, ora supplichevoli –
s’intrecciavano con ciò che ancora rimaneva della realtà. I suoi occhi non erano
più strumenti di visione: erano vetrine velate, cieche, come quelle d’un emporio
abbandonato, svuotato da tempo d’ogni cosa da offrire, d’ogni vita, d’ogni luce.
Un battito cupo, sommerso, pulsava nei recessi più profondi del suo cranio: un
suono indistinto, simile al rantolo d’una morte mai compiuta, o d’una fiamma che
consuma senza spegnersi. Poi, come accade nei sogni più infausti, anche quel
battito cessò.
Nei suoi sogni – che non erano sogni ma presagi – tornava sempre lei: la sua
Morella. Ma era una presenza umbratile e di sortilegio. Una figura di velo e
silenzio, eternamente sospesa in quegli antri interiori che solo il delirio
riesce a popolare. Non parlava mai: lo guardava con occhi di vetro e tenebra,
come un’onda staccatasi da un mare antico e senza rive. Sembrava scolpita nel
gesso, una statua fissata per sempre nell’atto d’ammonire. Ma le sue parole – o
quel che di esse Toby immaginava – risonavano senza tregua nella sua mente
franta: “Tu mi hai violata, e ora è un plutonico vincolo che ci unisce… Per
l’eternità.”
Ogni passo nel regno del sogno lo conduceva più vicino a lei, e più lontano da
se stesso. La sua mente era uno specchio ridotto in schegge, e in ogni frammento
si specchiava la sua perdizione. Se Morella fosse stata solo una visione onirica
dissolta all’alba, l’avrebbe forse benedetta. Ma ella era un emblema, un
delirio, un simbolo della febbre perpetua dell’anima. Un tormento reso carne
solo per strappargliela. La malattia che la consumava anche lui. E nei sogni la
sua presenza era ancora più tormentosa, come se fosse messaggera di una colpa
che lui non poteva risarcire.
La vita di Toby, in quel tempo, si era tramutata in una sequenza di frammenti
d’inferno, un dedalo intricato di presenze spettrali che si moltiplicavano e
confondevano fino a dissolversi in un aggregato informe, al di là di qualsiasi
cognizione sensoriale. Era un delirio costante, slogata dal solco di ciò che è
reale e tangibile, e proiettata in incubi di forme vaghe e torturartici della
sua anima. Non vi era più un ordine, né un principio che potesse guidarlo
attraverso il mondo dei vivi; tutto ciò che lo circondava era ormai piegato e
stravolto dalla sua mente, scivolando incessantemente tra la sostanza e
l’irreale. La realtà – quel qualcosa che prima gli sembrava tangibile e
immutabile – ora gli appariva come una distorsione maligna, un’eco vuota che si
perdeva nell’abissale spessore dei suoi sogni febbrili e deliranti, e mentre
l’immaginazione s’impossessava di lui, il confine tra ciò che era e ciò che non
lo era si annullava, svaniva, lasciando dietro di sé un unico, indefinibile
spirito di disfacimento.
In questo magma di visioni oniriche e tormenti, un’altra figura tornava a
ripresentarsi con una presenza quasi sacra, ma al contempo impossibile da
concepire senza disperazione. Ella era Berenice, eppure non lo era, e Toby,
tormentato dal contrasto tra la sua mente che definiva, la carne percepita, e
l’anima ardentemente bramata, non era pari al dare a questa apparizione né nome
né forma, se non come un’epifania di un mondo in cui le leggi dell’umano non
avevano più alcun statuto. Non era corpo, né spirito, ma una cosa sola, eppure
l’uno e l’altro in un abbraccio mostruoso. Berenice – no, non Berenice, ma
piuttosto l’idea di Berenice – si rivelava in Toby come la quintessenza del
desiderio e della distruzione, un’immagine forgiata dall’assenza,
dall’impossibile. I suoi denti – quegli incredibili, perfetti, insostenibilmente
bianchi denti – risplendevano in lui come simbolo di una purezza assoluta e
irraggiungibile, come frammenti di un potere divino che, invece di elevare,
annientava. Ogni scintillio di essi nella sua mente era una visione abbacinante
che lo condannava a un’agonia, ne era certo, non avrebbe mai avuto fine. Non
erano denti, ma strumenti erinnici… O sigilli. Sigilli che lo legavano a un
desiderio oscuro e carnale, ad una fame che non avrebbe mai potuto essere
saziata, un appetito che bruciava d’assenza e tormento.
In uno dei suoi più recenti incubi, incubi che non erano più sogno ma continua
reiterazione di visioni infernali, Toby trovava il corpo di Morella, disteso nel
suo sepolcro, e senza pensare, senza fermarsi, mosso da un impulso che non
avrebbe potuto spiegare nemmeno se lo avesse voluto, si avventava sulla sua
tomba, riesumandola, liberandola da quella fredda prigione. Ma ciò che il suo
corpo toccava non era più Morella, era Berenice. Berenice. L’ossessione si
compiva. La figura che giaceva davanti a lui era l’esatto contrario di quello
che il nome evocava: era la carne di una donna morta, eppure viva di un’altra
forma di vita, quella che si alimentava non di sangue, ma di desiderio
inestinguibile.Toby non toccava più la morte di Morella, ma la morte di
Berenice, che pure non era mai stata viva, se non nell’abisso della sua fantasia
più contorta.
Nell’allucinato stato di quell’ultima notte, poi, aveva rivisto sua madre nel
letto di morte ed aveva avuto una timida erezione. In quell’istante di suprema
decadenza, un fremito lo attraversava: non d’affetto, non di pietà, ma d’un
impulso mostruoso, silenzioso, indegno. Ed è in quell’abisso che le figure di
Berenice e della madre si erano confuse e fuse, divenendo una sola cosa. Toby
avvertiva l’indicibile, il vergognoso, l’orrido: il desiderio di ciò che lo
aveva generato. Lì, in quell’attimo, il male, il desiderio, il peccato e
l’ossessione si erano fatte una sola cosa, e Toby non aveva più visto né la
madre né l’amata, ma solo l’orrore ineffabile di aver amato ciò che lo aveva
partorito, ciò che avrebbe dovuto elevarlo e invece lo faceva assoggettato a un
desiderio oscuro e nefando, profanatore. In quell’orrore il demone della
perversità, gli faceva bramare un passo oltre verso il precipizio, verso la
rovina di sé.
*
Nella taverna, luogo malfamato e di perdizione, l’aria greve di fumo recava risa
sguaiate e chiacchiere rumorose e moleste. Toby si sedette davanti a un
bicchiere di vino che sembrava l’unico filo di salvezza rimasto tra lui e la
follia. Lì, nella penombra di quello scantinato pieno di avvinazzati, la
Berenice del suo delirio gli si avvicinò, ma non per parlare. Gli si fece più
vicina, come se ogni passo che compiva in direzione di lui fosse un passo verso
la sua fine.
E quando il volto di Berenice si avvicinò al suo, i suoi occhi divennero
fiaccole sataniche, la bocca si spalancò e Toby vide i denti uscirne come
artigli affilati: “Mi desideri? Mi desideri ancora?”. Toby ebbe un singulto e
sgranando gli occhi tornò alla realtà con lo sguardo fisso su un avventore che
lo squadrava incuriosito dalla scena. Il silenzio fu rotto dalle squille
bronzine della Chiesa di Saint Sebastian: due rintocchi simili a scossoni nel
suo corpo stravolto. Un gatto gli si strusciò alle caviglie. Era nero come un
monito e aveva occhi di giada che lo guardavano grandi e profondi. Lo prese per
la collottola e se lo pose in grembo per carezzarlo, ma il gatto lo graffiò con
l’impeto dinamico di due artigliate profonde su una mano. Non vedeva più
dall’ira e lo scagliò lontano da sé. Quello urtò il fianco contro una colonna di
legno e si allontanò con incedere malfermo. Toby bevve ancora e ancora e poi
uscì in strada in preda ai fumi dell’alcol. I suoi passi risuonavano in modo
tetro per le viuzze del borgo. Era quasi giunto a casa ma vide un vecchio
cencioso e sporco, dal volto butterato e lo sguardo dilavato, che girava un
angolo verso di lui. Non vi badò e il vecchio lo superò proseguendo d’opposta
banda alle spalle di Toby. Ma l’orrido più ripugnante si presentò nelle
sembianze di un secondo vecchio, identico al primo, che voltò lo stesso angolo
incedendo a sua volta in sua direzione. La scena si ripeté talché poté contare
sette vecchi identici. Sentiva di perdere la ragione e corse forsennatamente
verso casa lasciandosi alle spalle quella vista insostenibile.
Giunto davanti al portone fece per cercare le chiavi ma non le trovò. Si vuotò
le tasche, frugò la giacca: niente. Dovevano essergli cadute o alla taverna o
durante la corsa. Il campanile batté tre rintocchi. Un gatto, anche questo nero,
gli si strusciò alle caviglie. La sua corporatura corrispondeva a quella del
gatto della taverna, anzi avrebbe potuto essere lo stesso, senonché aveva
un’orbita vuota come un cratere nero e un solo occhio azzurro come ghiaccio in
una notte di luna. Ne rimase inorridito. Tornò sui suoi passi. In quell’istante
comparve in sembianze umane una creatura di cui percepì malvagità estranea a
questo mondo, come un gelido refolo da lui a sé. La figura, allampanata in abito
scuro elegante si tolse la mantella dello stesso colore ma con una federa
cremisi che guizzò nella luce dei lampioni. Fece un inchino e si presentò. Disse
di essere un creditore d’anime. Un gentiluomo vecchia maniera che stringeva
patti che nessuno dotato di ragione non avrebbe potuto credere allettanti. Un
commerciante, a suo modo, solo che vendeva sogni rendendoli realtà. Era come se
lo conoscesse ma lo vedesse per la prima volta. Un sogno ormai passato bussò
alle porte della sua mente ma lo ricacciò via! Del resto la sua ragione era
sfibrata, allo stremo, febbricitante e caotica da tempo, e confondeva i sogni
con la realtà, anche per la sua grave dipendenza dall’alcol.
“Hai dimenticato queste”, disse l’uomo che gli si stagliava davanti come un
basilisco e fece tintinnare appese a due dita le chiavi di casa di Toby. Poi
aggiunse: “Hai un desiderio? Com’è vero che sei di carne e ossa, io lo
esaudirò.” Lo fissava con occhi di brace carichi di una inquieta attesa.
“Se quanto dici è vero. Riporta a me la mia amata Morella.
“Sei sicuro di quanto hai chiesto?”
“Sì” disse in modo sicuro e stentoreo.
“È già qui. Voltati.”
Morella era alle sue spalle, alta e bella, la pelle di cera e gli occhi intensi
che lo guardavano con un amore velato di angoscia. Non parlava. Restava muta e
lo fissava. Inclinò il viso un po’ di lato e versò lacrime arricciando la bocca
come se fosse sofferente di una sofferenza innominabile.
Poi disse:
“Mi sono svegliata e non c’eri. Ti ho cercato… Perché l’hai fatto?” La sua voce
era come ovatta intrisa di un liquido.
“Morella mia, di che parli?” Le si avvicinò ma lei indietreggiava.
Il commerciante d’anime si trasse di tasca un foglio e lo lasciò cadere a terra.
Toby guardò sul marciapiede e vide che era un foglio piegato, simile a un
sottile cencio di carta lisa.
“Raccogli quel foglio. Leggilo, mio amato, creatura infelice,” disse Morella in
un sussurro gorgogliante.”
L’uomo nerovestito aveva un ghigno feroce stampato in faccia:
“Diciamo che quella è una copia del predente accordo. Leggi, leggi pure
miserando!”
Lui corse con gli occhi sulle righe e capì.
Le righe parevano vergate con grafia elegante nel sangue ormai secco e brunito:
Bene. Il patto è compiuto. Hai promesso: dovrai restare nella tua dimora con
Morella almeno fino al terzo rintocco di questa notte e poi sarete sempre
insieme, felici, la sua malattia regredirà e avrete un futuro assieme. Facile,
no? Ma, bada bene, se non rispetterai il patto i tuoi incubi peggiori si faranno
carne nella tua amata Morella, col suggello del destino della Berenice che
sempre sogni. E tu sai cosa hai fatto e continuerai a fare a Berenice. La tua
anima sarà dannata nella colpa. Per sempre.
Il viso di Morella si fece una smorfia di terrore e pena, spalancò la bocca e un
rivo denso e rubino le scese le labbra: non aveva un solo dente.
Il misterioso commerciante d’anime aprì la mano destra e ne rovesciò il
contenuto sul piancito: ne cadde uno spicinio di denti macchiati di sangue.
“Ma… Ma Berenice mi appariva solo in sogno! Non è reale, io non ho colpa, non
l’ho fatto davvero!”
“Hai la tua Berenice nel corpo di Morella. Prenditela e affoga nella colpa!
L’hai sempre desiderata, in fondo. O no?”
Improvvisamente ricordò tutto. Si era svegliato nel letto accanto a Morella come
con la vivida traccia mnemonica di quello che credeva esser stato un
incubo. Era davvero sicuro di aver sognato tutto? Ma non importava più: sogno o
realtà, tutto si compenetrava sinistramente, come in una farragine di attimi
indistinguibili. Sul tavolo di cucina un foglio in evidenza campeggiava come
un’azzurra, viva bestiola alla luce lunare filtrante dalla finestra. Un richiamo
tenace come una voce da un lembo d’Aldilà lo spingeva verso il foglio, come se
fosse un oggetto sacro e importante. Vi era posto sopra un calamaio come per
metterlo in evidenza. Il richiamo dell’alcol però l’aveva subito rapito e
distratto torcendogli le budella, e si era recato come ogni sera alla taverna
per lenire il suo tormento nell’alcol. Morella dormiva, serena, con volto
bambino, per la prima dopo tante notti di agonia. Le aveva baciato candidamente
la fronte che per una volta non scottava. Felice se n’era compiaciuto ed era
andato dietro alle lusinghe dell’alcol. Come ogni sera. Un rintocco dal
campanile della piazza era risuonato cupo nell’etere.
Non è la vita tutta un sogno dentro al sogno?
Massimo Triolo
*In copertina: poster di “Toby Dammit”, episodio filmato da Federico Fellini da
“Tre passi nel delirio” (1968), tratto dall’opera di Edgar Allan Poe
L'articolo Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo,
“Caleidoscopio-Poe” proviene da Pangea.
Caro Marco Maraldi,
le scrivo col cuore in mano per ringraziarla della parola di cui si è fatto
carico, parola nuova che ha avuto animo di scrivere, quasi pronunciare, e che
dilaga a fiotti, incessantemente, dalle pagine del suo libro Assalti (Fallone
Editore, 2025).
> “senza scendere non troverai nel temporale
> delle ustioni un’impronta solo tua”
>
> Tutto è morto
> qui – le galassie
> hanno preso anche la neve.
> Tutto è morto
> e insepolto tutto è
> morto perché non fa
> silenzio,
> qualcosa ancora tace.
> Sulle reni scucite il vestito
> batte piano
> il calendario di un’ascesa infinita.
> Non hanno trovato impronte
> nell’inverno della cenere.
Parola escatologica, cercata lontano, dopo la fine. Prima della parola sfinita,
appena un attimo prima della sua manifestazione ultima, insomma all’origine e
prima… diciamo prima di Hopkins, prima di Ungaretti, prima di Péguy, prima di
Rebora, prima di Eliot, prima di Turoldo, prima di Testori, prima di Luzi.
> “Baciami che io… ti segno dammi il pane… del collo, i milligrammi del respiro…
> la sostanza… non sono vergine… sono grande e ho una potenza che gli altri… non
> mi credono… ti voglio mostrare… baciami che io… ti segno che ti marchio a…
> febbre… non lo nascondere così… ti riconosco ci sarà… tempo… ci sarà un segno
> per ammazzarci nella polvere”.
Più che una preghiera è una confessione, o quello che resta, imploso nel
sentimento di verità raggiunto. Sentire come evento, come fulmine, o saetta che
avverte l’effetto impareggiabile del mistero. Arrivo perfetto e imprevisto,
temuto. Luce che sbianca nella luce altra e incandescente del dire. “[…]
custodisci il fiore dell’origine […]” (pag. 48). Spirito di ferro fuso, o rosa
pura scossa dal vento, sul ciglio di una voragine. L’impeto dell’essere,
investiti da questo, del sentirsi destinati a questo. Ogni fulminazione sembra
l’ultima e invece rappresenta un avvento, in quanto parola che si sta
significando nell’attimo stesso del dire, dello stare sul limite e toccarlo: Dio
è frantumato, invocato, attraversato, abbracciato, scandito, immaginato.
Nella prospettiva del mondo attuale “che risponde al progressivo cancellarsi di
Dio come Unico oggetto d’amore” (Michel de Certeau). Perciò esporsi significa
testimoniare (malgrado tutto!), raggiungere uno sconfinamento, affinché il
vissuto possa vivere negli altri, non gli ipocriti lettori (sebbene fratelli),
ma voce rivolta a buone volontà incarnate nel sapere, o della visione alimentata
dal sapere; spalancate, comunque, sul petto di Dio battente al suolo: voce
offerta con slancio.
> “Sei solo un’eco della divinazione. Non essere riconsegnato alla volgarità di
> avere un nome. Nessuno in te all’infuori di me – i fiori della grazia sono
> brace in bocca. Hanno cieli negli occhi e chiodo notturno. Tu rinasci
> nel senzanome. Dormi adesso, dormi – le parole sono piene di punte”.
Risuonano l’argento e l’azzurro dei Salmi (l’argento che riflette e l’azzurro
che assorbe il lampo della luce perenne). Che forza! Riecheggia tutto in sillabe
di sonagli che scoprono un canto scavato, scoperto laggiù, nel tempo (il prima
che dicevo, il prima che indica una radice mistica), e ora raggiunto. Poesia che
nasce per essere Lui, non come Lui. Insomma chiedere l’impossibile, perché è Lui
che fa.
> “C’è una lingua che non vuol parlare,
> infatti vuole solo accadere”.
Questi i due versi in esergo. Poi, a stringere i tempi, o l’intero spazio
poetico, che ha ansia di anticipare, ecco che si annuncia il riconsegnato.
All’elenco delle parole redatte dal profondo prefatore del libro, Lorenzo
Chiuchiù, e cioè esilio, rivolta, sacrificio, verginità, aggiungo un’altra
parola-chiave: riconsegna. Chi è il riconsegnato? Etimologicamente: ri è il
prefisso che restituisce e ripete il segno che sigilla, e l’azione del donare.
La riconsegna è all’amore, e la parola è un’offerta. Adesso c’è un nuovo
pensiero da fermare sulla carta, che equivale a un’immersione. Non è poesia
comune, sta piantata nel cuore, ed è strumento di ricerca e di strazio. Che sia
desiderio?, che si voglia dar fibra, adoperandosi così a un desiderio
d’infinito? Giacché c’è un grido dopo ogni segno d’interpunzione, come a dire:
finché ho fiato io ti cerco, io ti nomino. Il suo bussare batte e ribatte alla
porta senza tregua, per conoscere, ecco il perché, l’esigenza, della parola, del
discorso poetico.
Discorso impervio, eppure proprio da qui viene la spinta a capire, a cercare
d’interpretare una forma che pur nel suo espressionismo appare calibrata ad
alzare arcate su arcate architettoniche di pietre e fango, capaci di stare
contro il cielo, in rigoroso e innamorato disegno. Confesso: di fronte a questo,
io avverto la mia povertà, la mia miseria, ho paura di violare tutta questa
bellezza, tutta questa grazia!
> “Stelle del digiuno latte
> del firmamento, c’è
> l’ignoto a penetrare l’universo
> della fronte, quando anche il pane della terra riceve la sostanza
>
> sei solo e questa sete è già un miracolo. Sei nato riconsegnato, ed ecco: un
> non-pensiero si annida lì, colpevole nel sangue ascetico. Sei nato
> riconsegnato: con le sillabe in lotta e una lama che divora. Non hai chiuso
> gli occhi, poi ti abbiamo medicato le mani, ferite d’inchiostro… non ci hai
> avvertito (– bevi: questo è il destino; – bevi: è vino che ustiona; – benedici
> il flagello: questa è la carezza”.
P. S. Il nascere, ovvero: l’uomo e la parola si rinnovano. Ce n’è bisogno, ché
senza la poesia ogni cosa è spenta, ogni cosa è inutile. Alla riconsegna si lega
il tema dell’evento, va sottolineato. Sempre citando de Certeau, si può dire che
“il libro preserva un segreto che non possiede”. Il che è il massimo della
relazione. Splendido!
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Giorgio Morandi, Vasi su un tavolo, 1931
L'articolo “Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a
Marco Maraldi proviene da Pangea.
È acqua sorgiva la poesia di Felice Mastroianni, un ruscello limpido che sgorga
da un lembo del Reventino e rinfresca il secondo Novecento italiano. Nato a
Platania (CZ) nel 1914, si forma tra il ginnasio di Catanzaro e il liceo di
Nicastro, dove conseguirà la maturità classica, formazione che getterà le basi
dell’immaginario archetipico mediterraneo del poeta e che germoglierà poi in
quella “soave grecità” di cui saranno impregnati i suoi versi.
Negli anni Trenta si laurea in lettere classiche a Napoli e comincia a
pubblicare i primi saggi, tra cui L’Infinito leopardiano (Tip. Gigliotti,
Nicastro 1935) e Coscienza cristiana di Ulisse dantesco (E. Patitucci,
Castrovillari 1939); al contempo si dedica all’insegnamento, attività che
svolgerà per tutta la vita.
Arriva nel vespro degli anni il vero esordio poetico sulla scena nazionale,
durante il periodo napoletano. Scrive egli stesso, a tal proposito, nella
premessa de L’arcata sul sereno (La Procellaria, Reggio Calabria 1963), con lo
stesso pudore e gli stessi toni sommessi dei suoi versi, quasi come a
giustificarsi della pubblicazione:
> “Chi come noi, avendo costantemente nutrito, intimo e vivo, l’amore della
> poesia si decide finalmente […] a romperla col naturale e lungo timore della
> stampa, non è più certamente perdonabile, perché, con la giovinezza, gli è
> venuta anche meno la condizione indispensabile che fa volentieri indulgenti i
> lettori verso i ‘peccati’ di quella irrevocabile età. Ma, in compenso, ha
> dalla sua una certa scusante, di non essere stato, cioè, capace, suo malgrado,
> di tenere più a lungo segreto quell’indomabile amore nativo.”
Rotto il silenzio, la stagione poetica di Mastroianni prosegue per oltre un
ventennio, pubblicando in vita: Favoloso è il vento (prefazione di Mario
Stefanile, Ed. Maia, Siena 1964); Lucciole sul granturco (Rebellato, Padova
1965); Tre poesie(Il Baretti, Napoli 1966); Il vento dopo mezzodì (prefazione di
Mario Luzi, Quaderni di “Persona”, Roma 1968); Il riso delle Naiadi (con
lettera-prefazione di Vittorio Sereni, Rebellato, Padova 1971); Luna santa
luna (Rebellato, Padova 1974); Quaderno di un’estate (Karavàas, Atene
1975); Primavera (Difros, Atene 1977); La favola di Eutichio (Delphica Tetradia,
Atene 1982).
Alla sua morte, sopraggiunta nel 1982 a Lamezia Terme, seguiranno: Quest’ombra
sul terreno (Ed. Ligeia, Lamezia Terme 1983, riedita da Rubbettino, Soveria
Mannelli 2021), che raccoglie gran parte dei componimenti in italiano; Trilogia
neoellenica (Delphica Tetradia, Atene 1983 anch’essa riedita sempre da
Rubbettino, Soveria Mannelli 2014), che raccoglie le sue liriche in greco; ‘U
cantu ‘ngola (Il canto in gola) (Rubbettino, Soveria Mannelli 2001); Il pane
degli anni. Memoria d’una sorgiva (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003).
Gli opuscoli delle poesie giovanili, risalenti agli anni
Quaranta: Frammenti (Patitucci, Castrovillari 1941), Notturno(Patitucci,
Castrovillari 1942), Alba lontana (Patitucci, Castrovillari 1942), nonché tutti
i saggi pubblicati, sono stati recentemente raccolti dall’editore Rubbettino,
che ha reso così disponibile la fruizione dell’intera opera del poeta (F.
Mastroianni, Poesie giovanili, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021; F.
Mastroianni, Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021).
*
Pretenziosa sarebbe in questa sede un’analisi completa della poetica di Felice
Mastroianni, data la vastità della sua produzione, che si dipana attraverso due
decenni fluendo in più lingue; d’obbligo, invece, risulta tracciarne le
coordinate principali, i segni essenziali e la contestualizzazione nel panorama
letterario coevo, se non altro in onore di quel: “perché il vento/ non si porti
via tutto/ di me”, che in maniera drammaticamente umana apre la
raccolta Favoloso è il vento.
I versi di Mastroianni, essenziali, puri, lontani da ardui giochi
intellettualistici e privi di retorica o cerebralismi, rappresentano la
necessità di un ritorno alla condizione ancestrale dello spirito dell’uomo, in
un tempo e in un luogo in cui l’esatta direzione della società faticava a
comprendersi.
Il Meridione del boom economico, nei primi decenni della Prima Repubblica, la
Calabria del secondo dopoguerra, assumono l’aspetto di una chimera dal corpo
tecnologicamente sviluppato, ma dalla testa goffamente industrializzata; le
tradizioni e i ritmi del mondo contadino, acremente condannato perché
considerato nemico del progresso, non trovano più spazio nel modello moderno di
società, ed alle classi sociali più povere non resta che vivere nell’ombra del
mito dello sviluppo, estraniati dalle proprie radici. La polverizzazione dei
sentimenti, sostituiti dalla corsa al consumismo, trova medicina nella nitidezza
di una poesia genuina, spontanea, che accompagna come un’ombra il poeta.
Riguardo ai suoi versi, che riempiono senza artifici la pagina bianca, Felice
Mastroianni in un intervento del 1982 scrive:
> “Non ho mai avuto l’uzzolo né la capacità di sperimentalismi, convinto che la
> poesia, quando c’è veramente, non ha bisogno che della propria verità. Ad un
> certo punto ho sentito, questo sì, l’esigenza d’altro strumento linguistico,
> scrivendo e pubblicando ad Atene tre raccolte in lingua neo-greca, come
> ricerca e realizzazione d’un congeniale mezzo di espressione spontanea. […] Al
> punto in cui sono giunto, senza convenzionale dichiarazione delle mie ragioni
> poetiche, posso soltanto affermare con umiltà e senso di responsabilità che,
> almeno in parte, son riuscito nell’intento vero e proprio della poesia: quello
> cioè d’una esperienza non oziosa ma motivata da seria e sofferta
> partecipazione all’inesauribile ritmo del cuore delle cose e dell’anima
> umana.”
I paesaggi di una Platania vergine, le montagne, i fiumi, l’erba, le stelle, la
luna, la fede e gli affetti sono incarnazione – per questo attuali e
necessariamente in vita, non rimandi nostalgici – dell’antica favola del mondo
magnogreco e permangono, sebbene con diverse sfumature, per tutta la sua
produzione poetica. Assonanze, per contenuti e versi sciolti, vi sono tra le
liriche degli anni Sessanta di Mastroianni e il primo Franco Costabile di Via
degli ulivi, contiguo di terra e di anima, al quale, con fraterno cordoglio,
dedicherà in occasione della sua morte Ultima notizia della poesia,
originariamente contenuta in Luna santa luna:
“T’avevo mandato dei versi,
non ne seppi nulla.
Eri entrato nel silenzio
che precede i cataclismi dell’anima.
Avessi potuto tenderti la mano,
parlarti tra un ricordo e l’altro
delle albe dei nostri paesi.
Non era non era di maleficio
l’acqua dei nostri monti,
così pura,
che t’aveva stillato in cuore
la cara menzogna di cui vivesti,
come d’un unico amore.
Altra fontana
fu quella della mala sorte.
Ti penso su una strada irraggiungibile.
Eri solo,
con la tua verità.
E fosti un cuore d’oro,
di fanciullo che s’adonta
d’essere stato dimenticato
in un àndito buio”.
Il canto di Mastroianni non assume i toni gravi e severi del secondo Costabile,
né – sempre per contiguità di terra e di anima –, l’enfasi civile di Rocco
Scotellaro. La sua poesia resta un rosario recitato in silenzio, al crepuscolo,
una voce fioca ma lucida, fissa, mai intermittente. La sua voce, certamente
mediterranea, appartiene però ad un coro più grande, nato lontano dalla
metropoli, che cerca l’essenza della vita nei luoghi immaginifici dell’infanzia,
dove tutto si compie e null’altro diventa necessario. C’è un filo che lega
l’Italia da Nord a Sud, che passa dal “C’è un giardino chiaro, fra mura basse,/
di erba secca e di luce, che cuoce adagio/ la sua terra. È una luce che sa di
mare./ Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli/ e ne scuoti il ricordo” di
Pavese, al “Perché siamo al di qua delle Alpi/ su questa piccola balza/
perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre/ ci scalda il sole sulla porta/
mamma e figlio sulla porta/ noi con gli occhi che il gelo ha consacrati/ a
vedere tanta luce ed erba” di Zanzotto, al “È sull’orto/ che avvalla coi
castagni/ a ghiaie d’anguille/ la terrazza dei miei mattini/ di mele odorose,/
delle mie sere/ d’organetti e di lumi/ da aie lontane,/ e delle notti/ magiche,
immense notti/ di luce/ e di remote fontane” di Mastroianni.
*
La piena maturità della poesia di Felice Mastroianni si contraddistingue per
l’utilizzo del neogreco, che non si marginalizza a mero esercizio di stile, ma
diventa scelta etica nei confronti di una lingua che porta nell’anima.
L’integrazione nel panorama intellettuale greco è totale; diversi critici e
poeti ellenici spendono parole generose per Mastroianni. Febo Delfi, nella
prefazione di Quaderno di un’estate, scrive:
> “Con questa raccolta Felice Mastroianni si colloca nell’eletta schiera dei
> poeti neogreci, ed è uno dei nostri per sangue e spirito. Si naturalizza poeta
> ellenico. Accogliamolo e diamogli il benvenuto come un vero fratello.”.
Epilogo chiude il trittico in lingua ellenica, ultima pubblicazione in vita di
Mastroianni, che vista dagli occhi dei posteri assume i connotati di un presagio
di morte. È congedo e al tempo stesso risposta, forse nemmeno voluta, alla
coppia di versi in apertura della sua prima raccolta: “Può salvarci dai giorni
che saranno/ la pietà del passato?”
Ma se un ritorno alle sorgenti del mattino non ci è consentito, nel segreto
dell’alba, il poeta ci augura di spaccare la mandorla della vita, per sentire
ancora il profumo della sua anima pura.
Salvatore Giuseppe Di Spena
***
IL FILO DELLA RONCOLA
Tempo malcerto
tra sopravvivenze e nuove fiorite
questo tempo di vertigine
che ci estranea dal cuore della terra.
Abbiamo scordato il volto delle stagioni.
Sono profili sfuggevoli
gli stessi tuoi arnesi.
Ne seguo i contorni
a ritrovare un ritmo perduto,
mi parla una vita:
la tua vita,
certa come cupa radice,
scavata come la cote
ove s’è arrotata la tua pazienza
sul filo della roncola
e della falce fienaia.
Tempo di timore.
Il timore che mi trattiene presso il muro
di cinta della casa paterna,
ove ho rinnovato negli anni
la parabola del figliuol prodigo,
a palparne le pietre malferme,
le crepe, marginate ferite
coperte d’erbe,
a spiarne di nuove,
a piegarmi in un vano struggimento
di fare puntello della mia vita.
* * *
FIORIRANNO DI RONDINI ALTRI CIELI
Che senso avrebbe accorgersi di nidi
d’improvviso deserti, ancora tiepidi di piume,
se non per porre mente che qualcosa è accaduto
anche per noi, più che un riflusso
d’ali di là dagli orizzonti
nel segreto d’un’alba.
Fioriranno di rondini altri cieli
nell’alterna ventura del mondo.
E noi qui come tonti
a bere le piogge d’autunno
con queste sere povere di gridi.
Nella scorza dell’inverno
scorderemo la menzogna del sole.
* * *
ETERNO L’ANDARE?
Nel cammino senza tempo
quest’ombra sul terreno
non è che un istante.
E poi avverrà con la morte
ch’io mi risvegli mio Dio
oltre il cerchio dell’ombra al sereno
d’un eterno mattino
di Te sfavillante.
S’arresterà il cammino
o senza fine è l’andare
dell’anima, Signore,
al Tuo sublime splendore?
* * *
L’ANTICO GIOCO
Ritenta il gioco antico
delle tue sere di bimbo.
Copriti di terra gli occhi
e i ginocchi e le mani
e fa’ che il sapore dell’erbe
t’entri nel sangue,
sapore d’oblio.
Fa’ che il sole al tramonto
non ti distingua dalle cose,
e dall’erbe
succhia la tua nuova vita.
Tramonta anche tu nel sole,
naufrago nel sapore della terra.
* * *
VENTO D’ISOLE D’ORO
Ancora seppellita la mia sorte
in sabbia d’anni e di naufragi.
E invano
ritorni a queste rive
vento d’isole d’oro.
Ho scordato gli azzurri sentieri.
Ora, in albe d’insonnia
vi ripenso e sussulta,
isole d’oro, il cuore alla risacca.
* * *
EPILOGO
Qui finisce
– come un gioco, come un’illusione –
il mio canto ellenico,
il canto di «Eutichio»
(«Eutichio» mi chiamano
i fratelli poeti greci).
E verrà il vento
a cancellare la mia voce
e la favola di «Eutichio».
Felice Mastroianni
*In copertina: opera di Vincenzo Gemito (1852-1929)
L'articolo “I cataclismi dell’anima”. Felice Mastroianni, poeta proviene da
Pangea.
Il lutto confonde, agita, scuote. La fine di tutto genera inevitabilmente un
nuovo inizio, almeno per chi resta. Paradossalmente, il lutto crea sempre vita
nuova.
> “Non ho potuto e in piedi
> sono rimasta. Difficile
> è cadere”.
Ci sono opere che trovano un posto nel panorama letterario non appena vengono
concepite, altre invece devono aspettare decenni. Ogni libro ha il suo tempo.
Quello di Ancestrale è stato lungo: composto nel 1953 da Goliarda Sapienza,
all’epoca trentenne, vide la luce soltanto dopo più di mezzo secolo, nel 2013,
grazie alla cura di Angelo Pellegrino per La vita felice. Nel 2025 Einaudi lo
ripropone in un’edizione più aggiornata ed estesa, arricchita con nuovi apparati
critici – sempre a cura di Pellegrino, con Postfazione di Maria Grazia
Calandrone.
Si tratta “dell’atto di nascita dell’esistenza letteraria” della scrittrice
siciliana. La sua prima raccolta poetica, primo grido della sua anima, febbrile
e forte germoglio della sua voce nel mondo. Un atto fondativo, laboratorio di
immagini e ossessioni che annuncia la sua futura scrittura, e che esploderà poi
nell’Arte della gioia.
Quest’opera, pur meritando attenzione fin dagli anni Cinquanta, ricevette
opinioni contrastanti dalla critica. Inizialmente annegata dall’indifferenza e
dal rigetto di alcuni, come Mario Alicata e Cesare Garboli, venne in seguito
apprezzata da altri come Anna Banti e Roberto Longhi. Goliarda aveva ben
compreso che la disapprovazione di Alicata – detentore dell’egemonia culturale
del partito – significava l’esclusione da case editrici, riviste e giornali e da
tutto un ambiente di sinistra di cui faceva parte, se non altro per origine
familiare, anche se, già a quel tempo, con posizioni fortemente critiche. I
tentativi editoriali dunque cessarono in fretta, com’era tipico per la
scrittrice, la quale, stanca di lanciarsi all’inseguimento degli editori,
cominciava un nuovo lavoro.
Nell’Introduzione al volume di Einaudi, Angelo Pellegrino racconta di come
Goliarda avrebbe potuto, a quel tempo, farsi fare una plaquette per far
circolare il testo tra amici e conoscenti, e invece non lo fece: “il suo pudore
non poteva superare certi scogli. E questa raccolta era tutto il suo
pudore”. L’intera raccolta rimase nascosta, e le poesie diventarono così una
forma di comunicazione destinata a rivelarsi soltanto agli amici. A lui,
infatti, le offrì come un segreto, da custodire nell’intimità. E lo erano: erano
il segreto del suo lutto, quello primario, quello che annienta e distrugge,
apparentemente tutto, per portare alla luce qualcosa di nuovo. Gli inizi
letterari di Goliarda Sapienza presero le prime forme dall’esigenza di
esprimersi dopo la morte della madre.
Voleva fare l’attrice; non la scrittrice. Ma, si sa, le emozioni più forti
cedono il passo all’inconfessabile, e spesso è il trauma della perdita a
spalancare le porte dell’arte, a far fiorire ciò che resta inespresso quando le
ossa si spezzano. La madre di Goliarda, Maria Giudice, morì nel freddo e corto
mese di febbraio del ’53. Fu accudita dalla figlia, che rinunciò a molte tournée
teatrali per starle vicino, e che quando scoprì che alla donna, gravemente
diabetica, non rimanevano più di sei mesi di vita, le aprì un conto nella
pasticceria più vicina. Questo il loro rapporto.
> “Mi muore il giorno
> e il gesto s’è perduto
> fra il fumo e il lampadario
> Un segno nero
> già traccia intorno a me
> cupo abbandono”
Ancestrale si compone di una natura così intima che fa quasi paura. Durò un
decennio l’elaborazione di questo grave lutto, al quale si aggiunsero nuove
perdite, altre mancanze. L’abbandono di molte idee e speranze trasmesse dai
genitori, il distacco dalla Sicilia, l’impossibilità di fare teatro o di
recitare nel cinema, e la crisi del suo rapporto affettivo, nata
dall’incomprensione, dalla percezione di non essere vista. Si tratta di una
delle raccolte poetiche più personali che si possano leggere, un viaggio
all’interno delle emozioni, che prendono contatto con ogni parte dell’autrice,
svelandone drammi, sofferenze, contraddizioni, desideri e bugie.
Questa silloge diventa una storia, una fiaba dove si racconta che i morti e i
vivi danzano in cerchio, dove la luna mente, e si ha paura di ricordare. In
questo “fare disfare ancora rifare”, “[…] un lutto stretto/ avvolge i tetti del
mare”, scava tra i tendini, come un verme, si nutre del sangue nelle vene e
raggela i sentimenti. Il dolore annulla ogni certezza, tutto ciò che resta è la
consapevolezza di soffrire, di vedere l’irrefrenabile sgretolarsi della vita
attorno a noi: “Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi
di medusa/ aggrappata alla sabbia/ lontana dal mare”.
“Verrà a me e non può mancare”: scrivere poesia è esigenza, non si arresta.
Goliarda Sapienza lo fa con un linguaggio essenziale, puro e a tratti crudo.
Sono versi spogli, privi di aggettivi, senza fronzoli, che prediligono i verbi
all’infinito:
> “Separare congiungere
> spargere all’aria
> racchiudere nel pugno
> trattenere
> fra le labbra il sapore
> dividere
> i secondi dai minuti
> discernere nel cadere
> della sera
> questa sera da ieri
> da domani”.
Una scrittura primordiale, nascente, che arriva nel punto più profondo: è questo
che impone il lutto, il dolore – il niente. Non chiede altro, le priorità si
ristabiliscono, tutto ciò che prima era necessario pare superfluo, il sole e le
stelle si spengono, e ci si sente vuoti. È una scrittura ridotta all’osso,
quella di Sapienza, e allo stesso tempo è precisa come un bisturi – emozionale,
magmatica, sembra seguire i battiti del cuore.
> “È compiuto. È concluso. È terminato.
> È consumato l’incendio. S’è fermato.
> S’è chiuso il cerchio pietrificato.
> Il tempo s’è fermato. È consumato
> il delitto. S’è bruciato
> il ricordo. L’ansia è cessata.
> Una coltre di lava ha sigillato
> ogni cranio ogni orbita svuotata.
>
> S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
> il silenzio di lava. Le formiche
> girano intorno al rogo spento impazzite”.
Sono versi taglienti, ricchi di sangue, immagini contraddittorie, alimentati dal
paradosso. Perché è paradossale vivere un sentimento che non si riesce a
esprimere (“[…] Non sapevo il dolore d’esser muta/ il dolore di piangere e
gridare/ senza voce/ contro un muro danzante di sorrisi”), per cui non si
trovano parole (“Ascolta non c’è parola per questo/ non c’è parola per
seppellire una voce/già fredda nel suo sudario/ di raso e gelsomino”). È
paradossale continuare a cercare chi non può più rispondere – chi non riesce a
sentire, chi è troppo lontano: “Vedi non ho parole eppure resto/ a te accanto.
Non ho voce eppure/ muovo le labbra. Non ho fiato eppure/ vivo e ti guardo. E
forse è questo/ che volevo da te, muta restare/ al tuo fianco ascoltando la tua
voce/ il tuo passo scandire le mie ore”. Restare fedeli a un recinto sacro,
eppure vuoto.
L’intimità di questa raccolta è disarmante: un continuo dialogo tra un “io” e un
“tu” inconciliabili, eppure indistinguibili, per questo indivisibili. La prima
persona singolare contraddistingue la maggior parte dei componimenti, e in molti
di essi è proprio presente in funzione di quel “tu”. È questo che accade quando
il dolore arriva senza bussare: la nostra vita ci pare impossibile da
affrontare. Così l’assenza diviene viva presenza, il vuoto è insostenibile:
strenuamente, con le unghie e con i denti lottiamo per riempirlo con la
nostalgia per qualcosa che non c’è più, abbandonandoci totalmente all’altro – a
chi non ci può più guidare, sostenere, accarezzare.
> “Vorrei all’ombra del tuo
> sguardo
> sostare e con la
> mano disegnare
> la tua voce
> che cala verso
> me a raccontare.
>
> Vorrei al ritmo
> del verso
> abbandonarmi ma
> il tempo stringe
> e devo correre
> ancora”.
Quando perdiamo un amore – una madre, un padre, un compagno, un cane – perdiamo
una parte di noi, per sempre. Bisogna ricostruire: si sente, in sottofondo, una
grande consapevolezza di sé nei versi di Sapienza. Del proprio corpo, delle
proprie contraddizioni, dei propri sentimenti. Della nuova direzione che occorre
prendere, anche se ancora non la si conosce: “Ho camminato sul ciglio/ dei miei
sogni. Sbattuta/ dall’onda nera delle tue occhiaie./ Risucchiata/ dal gorgo del
tuo fiato/ Non posso tornare”.
Il titolo di questa raccolta è la chiave della sua intera lettura, secondo
Pellegrino. Inizialmente doveva essere Informazione biologica, poi I luoghi
ancestrali della memoria. Certo, è evidente la volontà, per Goliarda, di un
ritorno all’ancestralità attraverso le proprie origini come i genitori e la
terra, ma anche la necessità di costruire un nuovo mondo a partire da queste
origini. Un mondo solo suo, composto in dieci anni, con sofferenza, memoria,
distacco e sentimento.
C’è tanto mare, in questo mondo. Ci sono alghe, meduse, ci sono gli scogli, il
sole e la luna. C’è la Sicilia, quella terra per lei madre: alla fine del libro
è presente una raccolta intitolata Siciliane – pubblicata per la prima volta da
Il Girasole edizioni nel 2012 –, in cui troviamo poesie composte soltanto nel
dialetto isolano. Sono, a coronare il tutto, l’espressione di un’anima pura,
libera dai pregiudizi, sola nel suo vibrante coraggio. Con Ancestrale, Goliarda
Sapienza non recita solo un dolore, ma fonda una voce che ancora oggi non smette
di bruciare.
> “E va beni. Facemu cuntu
> ca’ un ni canuscemu.
> Comu si’ un avissimu jucatu
> nsemmula nna rina.
> Eppuru lu sai ca m’aiutasti
> a scavari na fossa
> finu a quannu tuccammu
> l’acqua nnu funnu.
> L’acqua du mari”.
Anna Taravella
***
A mia madre
Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara.
Goliarda Sapienza
L'articolo “Tutto il suo pudore”. Cedere all’inconfessabile: la poesia di
Goliarda Sapienza proviene da Pangea.
Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo
Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una
storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto
critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e
Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del
secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è
infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari
evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una
rivoluzione, di un bivio più che di una conversione.
Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare
abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a
volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante,
questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa,
solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo
rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza
riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si
lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del
secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è
tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una
specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre
(l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni
Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’,
praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo
stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi
poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le
fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata –
come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla
tragedia.
Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero,
di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da
Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo
Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre,
l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un
anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a
nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese –
Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora
austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe,
in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue
spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile…
Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire,
tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire
legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe
Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva
Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon:
dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo
10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in
vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99,
cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di
poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I
binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo
Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco
dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva
Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita
inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano,
aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul
terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma,
l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato
nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di
Paul Celan.
Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che
spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un
bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio:
> dentro di noi come uova di mosca
> dileguarsi con i congegni per le madri astrali
> stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento
> sbarrati e neri nei sai
> quando il tempo delle città apre le sue botole
> un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici
> profilo di cifre marginali
> e l’uomo con le ascelle fiorite
> esperto di addii al livello dei grani
> abbandonato alla legge
> piomba nelle orine animali impastate di erba
> e altri dopo con ossature di tela
> il cuore sospeso all’aperto
> un chilometro più lungo della vita
> scattano oltre i canali sui denti della neve
> a risvegliare le controcorrenti dei pesci
> la contesa dei corni
> e altri azzurri di punta con occhi di metallo
> annotano la fuga ostile dei giorni
> al seguito dei cani gonfiati dalla luna
> dentro di noi covare la nostra profezia
> spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra
> all’orlo dei cieli domestici
> insicuri sui nettari sulle croste del sangue
> predatori da gioco
> barattare con le lacrime l’insolenza delle parole
Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa…
accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté
sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è
riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da
anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di
formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo
chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa
mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite
1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di
silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un
bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante,
2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.
Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di
essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono
il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle
antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto.
Pretendono l’audacia chiamata dedizione.
La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale,
compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di
spudorato pudore?
Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di
essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele,
immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma
coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale
presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori)
non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche
consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse
nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo
quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica
cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza
dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago,
il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha
pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come
lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di
aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione
di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione
sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario
Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60,
tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico
antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due
anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta
di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era
andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se
non ricordo male, a Marsilio.
Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava
della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di
Menon?
Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i
simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito»
ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo
Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali
dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato
soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco)
Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con
ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i
due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le
copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando,
che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come
un ‘fratello gemello separato alla nascita’.
«Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna
preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione
delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti,
tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla
memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le
caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica
principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di
altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e
inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo,
la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti
dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan
(poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una
lingua «a nord del futuro». E ancora:
> «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non
> crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna,
> poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità;
> è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per
> sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio
> la poesia».
Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:
> «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre.
> Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un
> disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito».
Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica
di Menon?
Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era
l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in
scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in
lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso
(credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso
di
un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva
(o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo
di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi
irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce,
elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non
ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno
avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali
è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue
stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare
sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli
occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore,
godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che
fa».
Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il
‘personaggio’ Menon.
Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per
capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando,
sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la
posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano
cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno
preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime
hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è
ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior
ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di
non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e
stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido.
Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon.
Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli
infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così,
citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo
«pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie:
«nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere
(…)
coltivatore di ansie
uomo solo
vado con bagagli di vento,
speranze di infanzia,
i segni lasciati sul cuore
dalla tua mano
(…)
terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo».
Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci
resta da scoprire di Gian Giacomo Menon?
Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni
(“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio
non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come
poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di
gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del
“fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo
fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di
lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei
maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni
doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα),
quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina,
saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non
ce l’ha difficilmente se lo può dare.
Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola,
discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito;
ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici;
quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a
Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un
costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul
mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia
udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza
erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui
non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che
poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che
Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale
del Simposio.
Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a
contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i
suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto
costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che
l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è
un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti
di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero
né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti
dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a
balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere
‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche
Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato
epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a
lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua
carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e
prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione
contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi
allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori
(quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e
magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella
loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia
Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo
classico ‘Stellini’ di Udine.
Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza
età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando
tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti
vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che
debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga
soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un
terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e
a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico
allievo.
I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono
lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come
si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che
si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza
e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi,
promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro
mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso,
prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il
suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere.
A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa
manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del
nostro paese?
Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza
per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è
un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di
te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo.
Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte
sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi
a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad
accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e
attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a
livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto
competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire,
provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo!
L'articolo “Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è
poeta, un vero poeta” proviene da Pangea.
Il primo ad unirli fu il visionario, l’anticipatore: Pier Paolo Pasolini. Fece
incontrare Alda Merini e Michele Pierri sulle pagine della rivista
“Paragone”. Era il 1953 e Pasolini scrisse un lungo articolo intitolato Una
linea orfica, in cui accostava le loro opere nel segno dell’orfismo. La
giovanissima Alda (che all’epoca aveva appena 22 anni) era rimasta abbagliata
dalla lettura del De Consolatione di Pierri, uscito per Schwarz, dove era
altresì apparso il suo Tu sei Pietro.Non sapeva nulla di lui, solo che aveva 54
anni, viveva a Taranto con la moglie e i numerosi figli ed esercitava la
professione di chirurgo.
Dopo quasi trent’anni da quell’incontro sulla carta, nel 1981, è Giacinto
Spagnoletti a favorire il loro contatto, una loro collaborazione poetica. Chiede
a Pierri di mettere mano alla produzione di Alda Merini per cercare di ottenere
una raccolta che ne segni il ritorno sulla scena editoriale.
Alda vive un momento di grande difficoltà: reduce da dieci anni trascorsi in
manicomio, completamente sola nella sua casa milanese di Ripa Ticinese: il
marito è continuamente ricoverato in ospedale e le sue quattro figlie vivono
lontane. Quando Spagnoletti pronuncia il nome di Pierri, per lei è un momento
quasi epifanico. L’idea di ritrovare il compagno di orfismo, di potersi affidare
alle sue attenzioni, la rassicura e la rallegra immensamente. E così, la sera in
cui arriva la telefonata dell’ormai ottantenne poeta tarantino, Alda lo accoglie
con una delle sue frasi leggendarie “Buonasera, Michele, sono Alda Merini. Sono
trent’anni che aspetto questa telefonata.”
Possiamo immaginare lo stupore di Michele Pierri nell’udire queste parole,
ironiche ed immediate, che attraversano i fili del telefono come saette. Il
medico-poeta è un uomo estremamente riservato, vive immerso nel silenzio e nella
concentrazione. Ha recentemente perso l’amata moglie Aminta, dopo una lunga
malattia che l’ha paralizzata a letto per undici anni, e intorno a lui si muove
una grande famiglia di ben dieci figli.
Tra Alda e Michele vi sono ben mille chilometri di distanza e 32 anni di
differenza. Lei ha 51 anni, lui 83. Ma siamo nel paese dell’anima, dove dubbi e
distanze diventano materia di confronto serrato, dialogo profondo tra poeti. Il
loro appuntamento telefonico diventa un momento di pura felicità per entrambi,
un luogo di incontro, di intima fiducia. Alle volte Alda appoggia il telefono
sul calorifero, si mette al pianoforte, e fino all’una di notte dedica a Michele
le romanze più dolci che conosce.
Pierri è profondamente colpito dalla situazione di profonda miseria in cui versa
quella poetessa milanese che lui ha sempre considerato di eccezionale valore.
L’idea che le sue figlie chiamino “mamma” altre donne, a cui sono state affidate
a seguito dei suoi ricoveri in manicomio, gli fa sanguinare il cuore. Rivolge i
suoi pensieri anche al marito, gravemente malato, che non può più sostenerla.
Tra Taranto e Milano inizia così una fitta corrispondenza nutrita di lettere,
poesie e telefonate interurbane. La loro relazione diventa di dominio familiare
a causa delle bollette telefoniche, da un milione, due milioni, quattro milioni
e mezzo di lire. Conti vertiginosi… ma quel legame è diventato troppo prezioso
perché possa finire.
Il marito di Alda, Ettore Carniti, comprende che questo è forse il germe di
un’unione più forte e ne è quasi sollevato: quel medico potrebbe essere un
importante punto di riferimento per la moglie, quando lui non ci sarà più… Ormai
piegato da un cancro ai polmoni, da un infarto e da una gamba amputata, una
sera, verso la fine, chiede ad Alda di parlare con Pierri e riesce a pronunciare
parole immense, che vanno dritte al cuore: “Le affido mia moglie, ne abbia cura
e le faccia da padre.”
L’agonia di Ettore termina il 7 luglio 1983. Alda attraversa il mare della
perdita. Gli antichi fantasmi rischiano di tornare nella sua mente ma l’intima
amicizia con Pierri, ormai nutrita da una lunga fiducia, riesce a salvarla.
Alda e Michele si concedono ora una maggiore tenerezza, sentono che possono
appartenersi, possono parlare dell’alchimia che li unisce, un’alchimia profonda
che fonde amicizia, stima reciproca, bisogno di conoscersi, toccarsi, amarsi.
Un lungo ed inedito amore telefonico sta per diventare “vera vita”?
Michele è il più prudente, sente pienamente la responsabilità che si è assunto,
ma esita a proiettarsi di nuovo al fianco di una donna. Alda, che vive i
sentimenti molto istintivamente, parla senza esitazione d’amore. “Cesare amò
Cleopatra,/ io amo Pierri divino/ che non conduce nessuna guerra,/ che è solo
condottiero di nostalgia”, scrive nelle Satire della Ripa, che esce nel 1983,
grazie al corposo lavoro di selezione operato da Pierri.
Arriviamo così al 1984: l’anno della rinascita (e non solo letteraria), che
passa attraverso La terra santa, il capolavoro di Alda Merini. Anche Michele
Pierri è protagonista di un’importante pubblicazione. Si tratta di una sua
antologia personale che raccoglie una selezione di versi composti tra il 1945 e
il 1983: il titolo è Passare il ponte da sola, con 16 inediti del 1983. Qui
compare Alda Merini, con due poesie a lei esplicitamente dedicate.
Nella poesia Ma questo nuovo aprile si legge “Il tuo seno scoperto/ una finestra
aperta/ sulla vita futura/ adorando il presente”. Pare la prospettiva di
un’unione che possa conciliare il futuro con un presente ancora vivo e
sanguinante (dove forse si cela l’amata Aminta, a cui Pierri resterà sempre
profondamente legato). Il fatto che Michele stia coltivando il definitivo
desiderio di concretizzare il loro legame in qualcosa di più che una telefonata
è confermato dall’altro componimento a lei dedicato, Due poesie: “Due poesie che
per grazia/ s’incontrano non possono/ non abbracciarsi”. Paiono le parole di un
libro già scritto… Michele la aiuta, le invia dei vaglia per salvarla dallo
sfratto e dal rischio di vedersi tagliare luce, telefono, gas. Ma le condizioni
economiche di Alda sono ben oltre la soglia critica e, un giorno, pensando di
racimolare qualche lira, subaffitta una stanza del suo bilocale a Charles, un
barbone del Naviglio. Saputa la cosa, Pierri si decide, butta il cuore oltre
l’ostacolo e le invia un telegramma di sole tre parole: “Ti sposo subito”.
Da Milano Centrale, Alda parte dunque in treno alla volta di Taranto, attraversa
l’Italia ed i mille chilometri che la dividono da Michele, l’uomo che si staglia
nella sua mente come un mito, un eroe sublime. È sedotta dalle sue qualità,
quelle che ha conosciuto nei loro lunghi convegni telefonici: la sua monumentale
rettitudine morale e la sua tendenza ascetica e meditativa. Come racconta nella
sua biografia Reato di vita:
> “Quando era venuto a prendermi alla stazione …io non l’avevo mai visto di
> persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro anni ci
> eravamo ardentemente amati al telefono”.
Il 6 ottobre 1984, nella Chiesa del SS. Crocifisso di Taranto, Michele Pierri e
Alda Merini si sposano. Lui ha 85 anni, lei 53.
Per quattro anni, a Taranto, Alda fu una sposa felice. Ogni mattina Michele
arrivava nella loro stanza con il caffè, una rosa e una poesia d’amore sul
vassoio… Scrivevano, si consultavano, si recitavano versi. Quegli anni furono
tra i più creativi di Alda Merini, un momento di crescita umana e poetica, in
cui la sua maturità artistica, già attraversata da esperienze gravi e dolorose,
si coniuga ad un maggior rigore formale, certamente ispirato da Pierri.
Ogni tanto lei e Michele salivano a Milano Su quel treno di Taranto,
infinito, che Alda canterà più avanti con tanta malinconia, dopo la morte di
Pierri, avvenuta nel 1988. Rivolgendosi all’amico editore Vanni Scheiwiller,
scriverà
> Su quel treno di Taranto, infinito
> dove guarirà l’ombra della mia giovinezza
> io tornerò un giorno.
> Tornerò, Vanni, dall’amore che ho perso
> tra gli ulivi gaudenti della terra,
> tornerò presso il suo vecchio corpo…
> e quando il sole mi guariva le tempie,
> o Vanni, io pregavo il Signore
> che mi facesse morire con lui.
“Erano una coppia favolosa”, scrive Maria Corti, attenta e fondamentale
curatrice dell’opera di Merini, “poeti di rilievo entrambi, che ti venivano a
trovare, ti donavano i loro testi e ti lasciavano nelle stanze il senso di una
epifania”. È proprio questo il senso che si respira tra le righe dei versi che
Alda ha dedicato a Michele, il suo “grande guru bianco… di straordinaria
bellezza, anche se già ottantenne”, ma eterno ragazzo nel cuore:
> Forse tu hai dentro il tuo corpo
> un seme di grande ragione,
> ma le tue labbra gaudenti
> che sanno di tanta ironia
> hanno morso più baci
> di quanto ne voglia il Signore…
> E le tue mani roventi
> nude, di maschio deciso
> hanno dato più abbracci
> di quanto ne valga una messe,
> eppure il mio cuore ti canta,
> o sposo novello.
Un grande amore che si fa poesia, malgrado le maldicenze e le ipocrisie di
quanti non lo compresero “Quanta gente Michele ha messo la bocca/ tra i nostri
inguini,/ gli inguini dei nostri sogni…”. I farisei non capiranno mai cosa sia
una follia d’amore ebbe a scrivere Merini nella Mistica d’amore. Ma, dopotutto,
a poco conta il loro giudizio di fronte a questo verso: “Pierri, se morirò/
ricordati che io ebbi l’audacia di amarti”.
Marilena Garis
*In copertina: Alda Merini e Alberto Casiraghy in un ritratto fotografico di
Giorgio Matticchio
L'articolo “Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri proviene da
Pangea.