Debellati gli aggettivi con la corazza, quelli che piacciono alla critica – a
ciò che ne rimane, a ciò che razzola tra la cenere –: finalmente, la scoperta di
un poeta primigenio, senza lignaggio. Un poeta senza paladini né palafreni né
padrini in parata.
Un poeta, cioè, che comporta l’abbandono delle norme ortografiche, delle
grammatiche cattedratiche, di ogni forma di subdola tattica; alieno
all’abbondanza dei retori del quieto vivere e del quieto amare. Non dovrebbe
fare così un poeta: interrare il vocabolario, pio stendardo, e sfoderare l’ascia
del verbo? “Insegnaci a pregare”, implorano gli inebetiti discepoli al maestro:
Gesù sbriciola per loro le scarne parole del Pater – mai un dio è stato così
prossimo, così grano e spada, e noi fummo il suo pasto, il suo desco, il suo
desinare e il suo destino a morire di sete.
Insegnaci a parlare, dovremmo chiedere ai poeti.
Ricorda: si prega nei luoghi desolati, dove vagano, in tormento, gli spiriti
impuri, dove appaiono in Appalachia di zampe gli angeli. Non altrove si deve
scrivere.
Così, questo libro di Blu Temperini va letto insieme ai trattati di falconeria,
ai bestiari medioevali, alle carte celesti dove gli astri, con strenua pazienza,
indossano il volto del leone e del cavallo, dell’eroe e della vergine.
Questo libro – un esordio mai così antichissimo – è requie e cinghia, nuovo
culto al di là dai cultori dell’odierno lirismo. Potremmo chiamarlo – come si
diceva una volta, senza essere iniziati ad alcunché che all’obbedienza –
“ufficio delle tenebre”.
Non c’è linea di continuità, intendo, tra questo poeta – d’indecente precocia,
di sfiancata facondia – e la quadrupede tradizione dei poeti recenti, altra è la
sua biada, altitudine diaccia, propria di chi frequenta i ghiacciai, le
inimmaginabili alture.
Hanno gli artigli, il becco e le cangianti penne queste poesie.
A esasperare lo spaesamento, una lista di avi e di archivi costruiti a casaccio,
in casa, da autodidatta, piccoli idoli di legno: Sergio Solmi e Guido Ceronetti,
Giovanni Boine ed Egle Marini, Maria Maddalena de’ Pazzi, Tommaso Landolfi,
Maria Banuș, che tanto piacque ad Andrea Zanzotto. La formula, cioè, di
addobbarsi estranei al proprio tempo, di ancheggiare in un altrove di trine,
come se l’Eden, in fondo, non fosse altro che un decalogo di candele.
Nella più piena spoliazione – tolti dalla bocca gli ultimi nutrimenti, la
particola poetica che ci rende soddisfatti del ‘buon lavoro’ – Blu Temperini
reca l’estremismo di Alejandra Pizarnik, la premura oracolare di una visionaria
dell’anno mille. Poesia, cioè, come frammento mesolitico e contrafforte in
selce; turba del toro primordiale da cui estrarre il corallino per aggiornare a
luce le latebre grotte.
Lingua che ci precede, da assumere tenendo l’orecchio confitto al tronco e alla
nubile nube. Parola impareggiabile, allora, nel senso che neppure il poeta –
scriba senza arte di concia – sa dire da dove quel dire provenga, da quale piaga
o plaga.
Da qui, l’ostinato cicaleccio dei morti, l’orma bivalve del verbo penitente, i
celesti fatti paglia. Tutto un sistema divinatorio per costringere le stelle,
ancora, a brucare nella brocca delle nostre mani, a bruciarci. Il resoconto di
questa ecchimosi: poesia.
Che a Torino – città d’elezione di Blu – sia custodita la Sindone e si celi, tra
cunicoli a forma di serpe e di capra, il Graal (o la sua ombra, è lo stesso), è
sintomatico di una scrittura che non si coagula nell’iride né nella mente, che
restituisce il sangue degli andati in statura di rosa, in sutura.
Si sarebbe tentati di sussurrare la parola sacro; semplicemente, come accade
nella poesia autentica, rarissima, si tratta del cuore Lancillotto, del cuore
cavalleggero, senza cavilli, di cui, a fine lettura, non resta che la brace, un
bronzeo da primo giorno del mondo, il santo pudore.
**
La violenza è maestosa, nel suo presente
anche il domani, prima del tempo;
e la brama si ostina laddove
non può essere disimparata,
nel filamento partecipe e
non partecipe dell’attenzione.
Il futuro è nell’oltrepassare
le cose vedute alla fine.
*
Miracolo
Da falce e creta è nutrito il tuo
corpo in questo abbraccio e
vedi solo il prestito del cuore
compiere un arco nel risveglio.
Una colomba trasvola nella stanza:
migrano da parete a parete
– vuote – le coordinate del miracolo.
*
Non più vincitori vorrebbe il cielo
Sul nome d’oggi termini la fabula,
l’opera che nell’amichevole cuore
nasconde il rifiuto ad ogni benevolenza,
tragitto di ambedue – vincitori
e vinti – per gli annali di innocenza.
Ma solo i vincitori trapassano sulla
più violenta sponda che si inclina;
di ogni vittima innamorati sono
i primi a sommare il fuoco con la frode.
Giustizia stessa si reca su uno solo
e con gli altri vagabonda.
*
Ogni ultima cosa la chiamo notizia
ed è sadico dover dire sì alla vita
che miete le sue vittime, dire sì
all’agnello distrutto nel coro,
all’insetto fratello della perdita,
ma più sadico è festeggiarne l’indolenza,
più sadico è restare attesi nell’ordinario sangue.
Tra le voci perdenti dell’effimero
nell’effimero lume del mondo
il torto è fatto, ogni ultima
cosa la chiamai vantandomi
e fui punita, puniti i miei anni.
– Umiliati! –
*
Non ho altra volontà
– dicono gli innocenti –
che ardere su due paragoni:
prima schiavi, poi trasparenza
dovunque riletta, trafugata
da ospiti tutti attesi, tutti danneggiati.
In uno scrigno di irriconoscibili
difetti d’amore è possibile trovarli,
fedeli alla doppiezza del gesto;
e se il mondo non potrà morire
sarà un innocente a vivere.
*
I tonni o della fame di forme
Non esiste l’uscita materna,
tutto è contorta fluttuazione;
nessuna immagine e nessun
disegno, tutto è somigliante
nel branco e non ha difetto.
Poi l’artificio pesante dell’azzurro
accomuna la fame di forme.
*
La serpe o della degradazione
Forse prima celebrava messe
col capo sollevato ed era attrezzo
di individuo contrariato dallo spirito,
sola tolleranza che esibiva il sangue.
Ora intransigente si inchina
a questa sospensione e si
arricchisce dell’ombra sua
come di ogni oggetto spezzato.
*
Gli uccelli o dell’esilio
Gli uccelli abitano alte impressioni
e nel tornare alla fonte si contorcono:
la terra brucia per quelli che volano.
Sotterrano con l’unica lastra
di sguardi ogni rivalsa:
nel cielo una radice sfigurata,
la prova di un altro mondo che ripugna.
*
Da Elemento (Uno studio)
(VII)
Nella caccia segnali di rupe,
le terre già improntate:
lusinghe, bestiame.
Il cacciatore, la ricerca
e l’estinzione gettata in questi obblighi:
operazione, opere di rinuncia.
Le carni fedeli al carnefice,
i sensi alla vittima:
un prodigio i doppi umori.
*
(XIV)
Dove è passata la terra
fu niente l’immagine, il suono;
fu il lavorio delle cose interminabili,
dei mattini impietositi.
Da nulla è lasciato intendere
quale sole, quale tempo inganna
e sulle tavole non le scritture, i gesti.
Blu Temperini
*I testi, pubblicati per gentile concessione, sono tratti da: Blu Temperini,
“Nel principio infondato”, Crocetti, 2025
**In copertina: Frida Kahlo, “Il cervo ferito”, 1946
L'articolo “Ufficio delle tenebre”. Intorno a un libro di Blu Temperini proviene
da Pangea.
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Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero
s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe
continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto.
L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e
devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza,
richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in
grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si
affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta.
Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col
suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi
guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto
dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi
notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia
è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che
non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra
mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di
giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il
respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile.
Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate,
resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani
potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che
c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se
non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere
nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti
stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono
i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si
dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel
chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di
vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato
nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura.
Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina
Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante
pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità,
l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre,
e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si
rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue
vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano
e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro
protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto
è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli
istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in
essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare
dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in
iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare.
> “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si
> vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […]
> Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca
> sbieca […] tutti gli usci erano serrati”.
È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria
direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo,
agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si
deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale
intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto
al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi
inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito:
riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla
luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit!
Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda
alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia.
Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando
descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta
la pagina è rimasta integra):
> “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di
> essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di
> prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano
> come grigie lame di ferro incolonnate”.
E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del
personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero,
passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico
umano di stupore.
> “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima
> nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre
> incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre
> chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la
> mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e
> subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante
> campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie
> colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli
> occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre
> lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”.
Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144.
“Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”.
La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo,
per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.
Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena.
Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge
intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché
occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si
pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne
dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga,
dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento,
in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è
nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di
ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a
terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la
natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione
vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.
Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele
offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il
corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo
la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è
natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è
ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un
chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non
dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore,
sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del
nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande
D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo?
Allora la mia pena continuerà anche dopo?
Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie
moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di
aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla
bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una
selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza,
nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione
di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce
viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese
protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora
qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un
essere vivente.
Vincenzo Gambardella
L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di
Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero
per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di
Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di
Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di
Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta
l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio
un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto
lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di
quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli
chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il
linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura
carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé
stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi
bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio
essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la
nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e
altro, e lei ha risposto. (a.c.)
Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era
presso Dio, e il verbo ero io.”
La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo,
battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio
come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di
pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di
associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che
secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la
scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di
massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione
standard e ci portano lontani da noi stessi.
Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a
pronunciare la parola poesia.
L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono
imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:
“Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato,
scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di
queste è la parola poesia.”
Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo
esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro
la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli:
dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.
Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso
e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la
collana era una macchina da scrivere.”
L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di
Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da
Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana
sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima
risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole,
i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi
fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa
sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso
il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni
istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono
le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee.
A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a
venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I
dizionari si sa non stanno mai fermi.
Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della
distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si
deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di
maniera.” Esiste un punto d’equilibrio?
È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo
necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una
vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega
che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da
ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un
“sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.
Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un
idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una
“una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della
protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia
gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate
dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se
essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di
Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della
vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”.
Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è
anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia
trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma
anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare.
Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la
propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini
un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.
Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi
e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura
invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare
all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e
bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile?
Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei
vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse
mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un
grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo
sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un
pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda:
“Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un
libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra
i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi
capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in
modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in
quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile?
Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre
sorridono a chi non rientra in facili classificazioni.
Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande
è: “essere stati bambini che cosa significa”?
Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e
conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a
guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di
capire come vanno le cose.
Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg,
Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris,
Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo
scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla
delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa?
La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e
voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza
rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le
prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono
l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la
possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no.
Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario
che li mette in fila.” Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra
il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice?
È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa
sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da
quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la
consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre
persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo
stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e
sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse
però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando
a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile.
Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio
– Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona?
È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino
nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto,
rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non
ce lo si perdona.
antonio coda
*In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under
Ground”, 1886
L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura
per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da
Pangea.
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un
lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici.
Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera,
e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi
senza farne mostra o parola.
Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e
di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve
qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un
guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte –
sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle
botteghe.
Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che
se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un
libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto,
contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per
soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare
nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio
dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con
una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza
niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il
male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una
cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare
falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di
azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che
concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante
abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.
D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera
cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un
po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente
depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è
ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire,
esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.
Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una
disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto,
recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo
senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che
eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne
dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento
l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma
nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al
punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le
sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non
messe brutalmente in pedissequo elenco.
L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite,
prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in
prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità
di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore.
Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di
denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben
presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non
tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di
essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.
Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato
nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di
colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la
voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e
carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e
soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima –
forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella
in questo umano cammino.
Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e
cauto, ma tale, di dialogo tra noi.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole
L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e
questioni affini proviene da Pangea.
Nella tradizione cristiana i testi biblici sono ritenuti «ispirati». A onore del
vero non sono tanto i testi, ma i loro autori, i cosiddetti agiografi, ad essere
ispirati, cioè assistiti dallo Spirito santo allorché hanno composto quelle
pagine che non smettono di generare la fede. Lo Spirito non cancella l’umanità
dello scrittore, anzi la lascia intatta: le asperità e le goffaggini del greco
di Marco emergono in modo evidente, eppure in quella lingua è scritto un Vangelo
fra i più vivaci, capace di farci toccare con mano il mistero di Gesù, Cristo e
Figlio di Dio.
Analoga alla tradizione teologica è la tradizione poetica. Anche il poeta è
ispirato allorché riesce a trovare le parole giuste per dire quanto alberga nel
suo cuore. Indubbiamente il poeta non è assistito dallo Spirito santo, né quanto
fissa sulla carta appartiene ai testi generatori della fede, eppure la sua opera
ha una stretta parentela con testi biblici, i testi ispirati per eccellenza.
In occasione del XXI Festival Biblico di Vicenza del 2025, Roberta Rocelli e
Davide Brullo hanno affidato a trentatré poeti l’arduo compito di rielaborare
altrettanti Salmi. È nato così un piccolo volume (Salterio dei Poeti) che
propone le riappropriazioni dei testi ispirati e poetici della Bibbia, i Salmi.
Non si tratta di nuove traduzioni della grande raccolta dell’Antico Testamento,
ma piuttosto di trentatré personalissime riscritture di quei poemi. Brullo
propone all’inizio non tanto un’introduzione, ma una serie di aforismi
graffianti che dicono bene il senso della raccolta: «Agli “esperti” preferiamo
gli untori del linguaggio» (13); «Salmeggiare non da salomonici, ma come i
salmoni, a ritroso, verso il ghiacciaio, il celestiale» (14).
Chi scrive di professione è biblista, sicché da tempo mi dedico allo studio dei
testi sacri, prediligendo proprio i Salmi. Chi scrive è pure, per grazia di Dio,
un credente che da più di quaranta anni prega ogni giorno con le parole dei
Salmi e dal 2000 recita il Salterio come libro, cioè rispettando l’ordine delle
composizioni: inizio con il Salmo 1 ai primi vespri della domenica e termino con
il Salmo 151 (sì, il Salmo «fuori dal numero», attestato solo in greco ma,
guarda caso, ritrovato anche a Qumran) all’ora media del sabato della seconda
settimana, per ricominciare da capo, quella stessa sera. Ma chi scrive è anche
un prete cattolico che durante l’ordinazione ha promesso al vescovo di essere
fedele alla preghiera della liturgia delle ore, interamente costruita sui Salmi;
in quei versetti ritrovo quanto nella vita quotidiana sperimento e soprattutto
le molte persone che incontro con le loro vicende, le loro gioie e le loro
angosce, i loro slanci e le loro frenate; pregando il Salterio porto quelle
persone davanti al Signore, il Dio misterioso che non smette di affascinare e di
coinvolgere uomini e donne: «La liturgia delle ore si articola intorno al
salterio – parola che, letteralmente, salva il mondo – lo innesta al primo
giorno, gli dà il sollievo dell’ultimo» (14).
Per questi complessi intrecci la raccolta Salterio dei Poeti mi ha catturato.
Vorrei semplicemente dare parola a tre impressioni sgorgate nel mio cuore
durante la lettura di queste poesie.
Ho apprezzato, in primo luogo, il fine lavorio di traduzione. Qualcuno ha inteso
offrire una versione personale. E lo ha fatto in maniera magistrale,
filologicamente impeccabile, aggiungendo un «di più», il di più della
sensibilità poetica, l’«unzione del linguaggio». È il caso di Davide Brullo che
ha riscritto il Salmo 151. L’inizio è folgorante: «Minuscolo ero tra i miei
fratelli/ il più giovane nella casa di mio padre/ di mio padre le pecore portavo
ai pascoli». “Minuscolo” è molto più di “piccolo” e apparenta l’ultimo Salmo
della Settanta (la versione greca dell’Antico Testamento) alla scrittura
minuscola, cioè quotidiana, meno solenne dell’onciale, ma veicolo prezioso per
la diffusione della Parola. Più avanti il poeta rende così l’affermazione del
Salmo: «il Dio che tutto ode ed esaudisce». Brullo introduce uno sdoppiamento
adeguato; un unico verbo greco è riproposto in uno splendido allargamento che ne
esalta l’intensità: non solo “esaudire”, ma “tutto udire” (la totalità
dell’ascolto in enfatica posizione iniziale non sfugge) e per questo “esaudire”.
E ancora, Brullo sceglie di tradurre sempre “Dio” il termine greco kyrios:
un’opzione che radica nella confidenza con il mistero dell’Altissimo, ma insieme
ne esprime il timore che nemmeno osa il più familiare “Signore”.
L’intensità della relazione con Dio osa parole forti e concise, concentra i
discorsi in domande dirette, accumula i verbi dentro una tensione nervosa,
lascia sempre le frasi aperte, senza punto finale. È la riscrittura del Salmo 22
di Giancarlo Pontiggia: «Io grido,/ e non mi ascolti: grido/ il giorno e la
notte,/e non per mia rancura» (v. 2). «Non andartene/ da questo lenguaio di
assillo:/ non un cagnazzo che mi aiuti» (v. 11). E poi rivolta a sé: «Vivrai in
lui,/ mia anima:/ e tu servilo,/mio legno,/ seme» (v. 30). Anche la relazione
con sé è quasi violenta in rapporto a Dio, come dice Tiziana Cera Rosco,
riscrivendo il Salmo 51: «Annegami/ Fammi sbranare dal centro di questo petto/
L’iniquità che mi protegge offendendoti/ Flettimi, spezzami, raschiami/ Scorzami
da questa pelle». E di nuovo invocando l’Altissimo: «Riconoscimi bianco, spezza
ogni osso/ Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me». Anche Valentino Fossati
rende la parola rarefatta: un rigo e poi il bianco, un altro rigo con due parole
e ancora il bianco; in questo modo ridisegna il Salmo 79: «Entrarono o Dio//
genti estranee// come discendenti del tuo Regno». E nella presentazione degli
oranti: «E i tuoi servi/ abbandonati// (brandelli)//…/…// dov’è il dio vostro?//
perché?».
Giambattista Tiepolo, Davide con la testa di Golia, 1717 ca.
Nella preghiera non si può fingere, perché ci si pone davanti a Dio in verità,
anche con espressioni forti. Con parole decise Giuliano Ladolfi riscrive il
Salmo 143: «Comprendimi e rispondi alla mia supplica./ Puoi forse giudicare/ la
mia fragilità?». Lo scavo interiore giunge alle profondità dell’angoscia:
«Dentro di me si agita un nemico,/ mi tortura, mi sgomenta e mi distrugge;/ io
vivo nelle tenebre/ quasi fossi già morto». La radicalità del male non toglie,
tuttavia, la fiducia nella potenza del Signore. Così conclude il poeta: «I miei
fantasmi si dilegueranno/ a un semplice tuo cenno/ e io riprenderò a
servirti/con l’infinita gioia del mio spirito».
Insomma, ancora una volta l’ispirazione accomuna il testo biblico e il testo
poetico e dice la verità dell’uomo: un’apertura all’esterno, verso l’altro da
sé, verso il reale e la sua trascendenza a cui si accorda credito e a cui,
soprattutto, si concede di fare irruzione presso di sé.
Un fecondo dialogo, una contaminazione necessaria.
Matteo Crimella
*Matteo Crimella è dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e
professore straordinario di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale di Milano; insegna anche presso lo Studio Teologico
del Pontificio Istituto Missioni Estere di Monza.
**In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, 1630 ca.
L'articolo “Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione
dei Salmi proviene da Pangea.
Un angelo mite. Così poteva apparire a chi lo sentiva parlare o agli occhi di
chi ne guardava il viso per la prima volta. Solo all’apparenza serafico il suo
sguardo, affilato come un taglierino dalla lama bianca in grado di riconoscere,
discernere, sondare e far emergere il nudo vero da ciò cui si interessava. Il
‘reale’, innanzitutto, ha cercato Giovanni Raboni, «l’ovvietà dei fatti»
scriveva al termine di un sonetto in Ogni terzo pensiero (1993), tutto per
tornare a «benedire» il «vero», il peso netto della sua gioia cercata ogni
giorno al sollevarsi della «saracinesca del forno». Un vero che da un lato si
declina in ricerca poetica, dall’altro in critica, attività letteraria parallela
e forse complementare al percorso di poeta che lo ha portato a scrivere
instancabilmente di romanzi, poesia, premi letterari, figure della letteratura
italiana e internazionale e spesso anche del mercato editoriale, cercando sempre
di restituire una visione puntuale, aderente al contesto storico, nel rispetto
aureo della ‘qualità letteraria’ di cui Raboni è stato uno strenuo difensore.
Anche, e soprattutto, quando ciò su cui posava attenzione e sguardo non lo
convinceva:
> «[…] partirei dal caso più macroscopico: la spropositata esaltazione e
> monumentalizzazione della figura di Eugenio Montale».
Sul poeta degli Ossi di seppia Raboni tornerà più volte, in una di queste
ammetterà che Montale è considerato «con unanimità impressionante e un po’
sinistra, il maggior poeta del secolo. È, secondo me, meno grande di almeno tre
poeti infinitamente meno acclamati di lui: Clemente Rebora, Delio Tessa e
Umberto Saba; e non mi sembra affatto sicuro che sia più grande di Giuseppe
Ungaretti, di Vittorio Sereni o di Mario Luzi».
Non un iconoclasta o un detrattore a priori, ma uno che orientava il proprio
gusto (e non solo su questo basava il suo giudizio) attraverso lo studio diretto
delle opere degli autori, e non sull’onda di una réclame che poteva venire ora
dalla tv, ora da giornali e riviste o ancora dai Premi Letterari — di cui oggi
si ricorda poco l’articolo dal titolo “Ma gli autentici premi letterari nascono
solo da discussioni libere” che uscì nel 1997 sul “Corriere della Sera” circa le
dimissioni di Raboni dal Premio Viareggio, di cui si riporta qui uno stralcio:
> «Da una decina d’anni, uno più uno meno, avevo deciso di dimettermi da tutte
> le giurie di premi letterari di cui facevo parte (escluso lo Strega, che non
> considero un premio ma un rito mondano al quale non ha alcun senso né credere
> né sottrarsi) perché mi ero convinto che fosse praticamente impossibile
> sfuggire alla logica di pressioni, compromessi, giochi di potere,
> cortocircuiti fra ambizioni personali e interessi politico-editoriali da cui
> essi erano, in varia misura ma senza vere eccezioni, condizionati. Poi, l’anno
> scorso, sono venuto meno al mio proposito e ho accettato di entrare nella
> nuova giuria del Viareggio presieduta (e selezionata) da Cesare Garboli, […]
> con qualche speranza di realizzarvi almeno in parte il mio vecchio sogno di un
> lavoro serio, sereno e pacato, al quale ciascuno possa dare il proprio
> contributo specifico di interessi e di conoscenze e nel corso del quale si
> arrivi per gradi a un’opinione comune confrontando fra loro le singole
> opinioni, mettendole davvero in discussione, convincendo gli altri ma anche
> lasciandosi convincere: che sarebbe poi, credo, l’unica condizione “interna”
> capace di rendere gradevole e sensato il lavoro di una giuria e, dunque,
> culturalmente utile un premio letterario […]. Mi sembra, alla luce della
> riunione dell’anno scorso e di quella di quest’anno, che niente di tutto ciò
> sia avvenuto. Ciascuno dei membri della giuria è arrivato con un’idea (non
> importa se sua o di qualcun altro) e con quella è ripartito […]».
Sono coraggiose considerazioni che mancano nell’attuale panorama culturale
italiano, sebbene sia convinto che da parte di molti addetti ai lavori, e non,
qualcosa di simile sia spesso venuto in mente. A mancare oggi è così quella
salutare condizione di libertà, viva e urgente di chi, con parole audaci e
oneste, sappia dire elegantemente, senza inutili scandali, il marcio dei
meccanismi culturali italiani; o sappia scrivere di letteratura non solo quando
è comodo al recensore di turno, ma sedendosi in più scomodi scranni per
ammettere o meno quando il ‘valore’ di un’opera incontra felicemente il nero
della carta stampata. Certo, non è un compito cui tutti possono adempiere — dal
quale è quasi certo si dovranno poi sostenere certe conseguenze —, ci vuole
innanzitutto quello che Raboni stesso definiva «orecchio»: diciamo tatto per la
qualità, come un buon sarto che sa riconoscere la stoffa e quando questa è
finemente lavorata, insieme a una non meno importante e lucente curiositas,
quell’attitudine da rabdomante costituita per metà da intuito e metà da
esperienza:
> «Dobbiamo proprio lasciare che i lettori (come, in genere, ogni altra
> categoria di consumatori) preferiscano i sottoprodotti ai prodotti di
> qualità?» si domandava Raboni in un altro articolo: «O, peggio ancora,
> dobbiamo sforzarci di credere che abbiano ragione? Credo di no; credo che la
> funzione della critica sia quella di ricordare, a costo di apparire pedanti e
> noiosi, quali sono e dove sono i valori».
Emerge chiaro da queste parole il compito da lui assunto, voluto da un lato per
destino e dall’altro per volontà, e tutto solo per rendere testimonianza di un
bene più alto, giusto, da consegnare ai «lettori del futuro»: una parola, una
sequenza cinematografica, uno spettacolo teatrale che sappia sinceramente
entrare in rapporto con l’umano sentire, mettendolo in ginocchio per mostrarne
le zone più sinistre, facendolo ardere di passione o elevandolo a uno stato di
grazia. Insomma, permettere un certo grado di conoscenza e non di
intrattenimento — cosa non da poco visto che spesso si vive vacillando e in
continua sete di sapere chi si è, cosa si sta vivendo e cosa ci attende. Una
bellissima conferma di questa ammirevole intelligenza critica, oserei definirla
quasi socratica, Raboni ce la consegna in un articolo uscito su “Il Messaggero”
nel 1987, in risposta a Giorgio Barberi Squarotti:
> «[…] devo confessare che la visione – cui l’intero articolo di Barberi
> Squarotti si ispira – della letteratura universale come un tempio affollato di
> statue armoniose e severe fra i cui piedistalli si agita, oscena e impotente,
> una folla di nani iconoclasti, mi è parsa di una comicità irresistibile. […]
> Decisamente più importante, per me, è opporre alla concezione statica e
> sacrale, che fa da sottofondo all’articolo di Squarotti, una concezione
> dinamica della letteratura secondo la quale ogni giudizio, ogni valore deve
> continuamente tornare in gioco, essere ripensato, rivissuto, sottratto a
> qualsiasi luogo comune e qualsiasi principio di autorità. Si tratta (per
> ricorrere a mia volta a una metafora e rischiare così, lealmente, la mia dose
> di ridicolo) di sostituire all’immagine del tempio ad aria condizionata,
> popolato di statue intoccabili, l’immagine di un luogo aperto e polveroso,
> confuso e cruento, arena o circo o campo di battaglia gremito di presenze
> inquietanti e fraterne. Anche se molti sono morti cento o trecento o mille
> anni fa, a noi non tocca venerarli come statue ma amarli come si amano i vivi.
> Amarli, cioè lottare giorno dopo giorno con loro sapendo che un giorno potrà
> anche succederci di non trovarli, di non capirli, di non amarli più».
È commovente con quanta limpidezza ed efficacia di metafora le parole appena
lette arrivino al punto. Ma a dire di questo inesausto scrutare non è solo la
sua prosa giornalistica o saggistica, sono anche i versi delle sue raccolte a
partire da Gesta Romanorum (1967) ad arrivare a Quare tristis (1998), da un lato
compattati dalla gabbia metrica — soprattutto nelle ultime — dove la tendenza al
verso lungo e libero delle prime opere torna, ma lo slancio viene gestito dal
computo sillabico per frangersi in sonorità nel rispetto della rima, senza però
interrompere la significazione che riprende poi a capo il suo discorso
cominciato come una unica frase, un solo lungo periodo. È a partire da Versi
guerrieri e amorosi (1990), proseguendo poi con Ogni terzo pensiero (1993) e
arrivando a Quare tristis che la ricerca di Raboni si qualifica in tal senso,
tutto per quella brama di assimilare il verso alla prosa che nel poeta di Milano
ha una ragione ben precisa: l’amore viscerale per La Recherche di Proust, da lui
anche tradotta integralmente, e nella quale il francese scrive per periodi
complessi e lunghi anche pagine, tra proposizioni subordinate, subordinate di
subordinate e incisi vari. Valga come esempio un sonetto tratto da Quare
tristis:
“Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare
che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della diaspora – e si desta
allora, non lo senti? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma
un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome”.
D’altro lato, da Gesta Romanorum a Canzonette mortali (1986), i versi sono
lasciati liberi di fluire per unità di senso, dal breve al lungo, dove l’accapo
non è casuale e l’interruzione è data quando il respiro sembra volersi
interrompere, riprendere fiato e ricominciare con intensità nuova e contigua.
Proprio Canzonette mortali rappresenta un unicum all’interno della produzione
letteraria di Giovanni Raboni, è una parentesi che segna un momento di distacco
dai temi cari, il «vero», Milano, la periferia, la morte, una svolta improvvisa
dovuta all’incontro con la giovane Patrizia Valduga avvenuto il 23 gennaio 1981:
una finestra dall’intensissima vitalità erotica in cui la parola non teme di
confrontarsi con temi comunemente considerati volgari – o agiti solo
nell’intimità dei propri letti – perché di quelli, in forza di una ritrovata
adolescenza sessuale o una corrispondenza di amorosi sensi, si nutre, o meglio
da quella forza i termini sono nutriti di nuova linfa: «Mi deliziavo ai tuoi
racconti/ d’amore solitario (“andare in bagno”/ lo chiamavi). Ma avevo un bel
pregarti:/ preferivi il mio cazzo, le mie mani». O ancora: «Nel bar pieno, fra
gente/ giovane che mi guarda e ti saluta,/ il tuo bisbiglio spudorato,/ docile,
rauco: vuoi che te lo succhi?». Non solo un’apparente e sfacciata sconcezza dove
a parlare è il corpo del poeta – i cui antecedenti mi sembra di ravvisare in
alcuni lirici greci, Archiloco e Saffo in primis («Sei giunta, e hai fatto
bene;/ avevo voglia di te./ Hai placato i miei sensi/ che ardevano d’amore»
scriveva Saffo, o Archiloco: «Palpandole tutto il bel corpo allora/ sul suo
biondo pelo/ lasciai venire la mia bianca forza») –, ma anche momenti di
contemplazione pura nei quali a erodere un poco la grazia del momento è, spesso,
il timore dell’abbandono dovuto alla disparità d’età (lui 49 anni, quando si
conoscono, lei appena 28enne), o la consapevolezza di invecchiare per gradi
differenti:
> “Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
> dopo l’altro ti lascio, anima mia.
> Per gelosia di vecchio, per paura
> di perderti – o perché
> avrò smesso di vivere, soltanto.
> Però sto fermo, intanto,
> come sta fermo un ramo
> su cui sta fermo un passero, m’incanto…”
Molto altro sarebbe opportuno dire, ma basti quanto letto ad abbozzare un
ritratto incerto, l’affresco sorgivo di un maestro non da contemplare, per
parafrasare le sue parole, ma da amare come persona viva, in modo imperfetto e
sicuri di non aver ancora detto a riguardo l’ultima parola.
Fabio Barone
Bibliografia:
Bruno Gentili e Carmine Catenacci (a cura di), I poeti del canone lirico nella
Grecia antica, Milano, Feltrinelli Editore, 2010;
Giovanni Raboni, L’opera poetica, collana «I Meridiani», Milano, Mondadori,
2006;
Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema
teatro, Milano, Mondadori, 2019
L'articolo “Fra il niente e il cuore”. Giovanni Raboni, il poeta che lottava per
amore proviene da Pangea.
Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle
montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap,
dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare
quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi
personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato
soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di
finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è
niente da fare: la sfida la vinci o la perdi.
Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor
Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non
scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al
volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A
destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori
preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale,
col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori
Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere
“pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente
corpo.
> “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non
> appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato,
> siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo,
> contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua,
> continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno
> infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una
> continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive
> perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra
> dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non
> dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e
> sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo
> somministrarcela da soli.”
Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si
condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei
quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come
anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri
dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce
chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano
fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha
appena ucciso.
L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota
decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente
dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala,
dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento,
una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione
furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in
cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti.
Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono
evidenti.
> “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A
> chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e
> minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno,
> perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire
> ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te
> stesso? No. E allora lui ha vinto.
>
> Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a
> Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i
> biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un
> attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da
> mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.”
Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di
fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che
sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il
cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a
semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere
ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una
di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su
cui soprassedere, facendo finta di niente.
La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di
schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi
istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli
anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine
maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo
può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna
edulcorazione. Nessuna salvezza.
Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di
violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa”
partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa
Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi
dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è
più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando
al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si
dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare,
dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da
inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta
persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri
inferni privati.
> “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e
> che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso
> lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero
> accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati
> lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da
> generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non
> bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di
> singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno
> allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali
> che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò
> sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando
> con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò
> i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento
> e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro
> […]”
Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi
che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente
sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è
quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un
brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare
del trauma. Consideralo un neo comunitario.
Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del
baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è
fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo,
vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a
vincere mai, almeno ai punti.
Vincenzo Montisano
*In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012
L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un
libro devastante proviene da Pangea.
In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un
programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra
Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E
allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri
ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea
condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi
chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure,
non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un
uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia
ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua
laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata.
Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso
degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel
romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di
volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire
dalle viscere in subbuglio.
Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in
merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei
sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso –
sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato
per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e
allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla
lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la
qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già
guadagnato la mia stima?
Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto
attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando
a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni
libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno
scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera,
ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura
tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per
leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare
tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti
gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura.
Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che
per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato
scritto da Alessio Arena?
L’incipit:
> “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava
> lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per
> pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi
> qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la
> salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”
La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il
romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di
Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una
lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo
o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni,
allucinazioni comprese.
È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare
nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no
diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca.
O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla
lingua scritta del romanzo.
Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite
il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio
Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime
quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è
ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e
in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e
ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo
quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il
balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di
conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la
consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia
degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse
scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine
e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile
scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro
pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due
paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che
si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica
senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si
propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due
di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la
fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una
tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la
frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico
Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra
de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di
viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.”
A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I
complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili,
specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione
di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto
quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello
che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della
gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia
logica.
Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un
secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto
risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì
poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è
stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il
piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai
deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa
lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e
il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo
sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la
scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a
suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le
note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo
visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati
da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo,
perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.”
Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e
valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il
caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto
appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il
romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero
soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di
piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a
mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome
da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro?
Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla
centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle
comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una
tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe
sentito imprevedibilmente deluso?
Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato:
“Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la
Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo
del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di
qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi
per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi,
ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve
essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente
incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina
scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e
decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati,
la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più
incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o
l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei
castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e
sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie
inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e
soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua,
oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo,
Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.”
Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea,
sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo.
D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a
raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere
nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza
personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un
quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha
appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli
che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito
posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo
seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti
commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura
esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel
romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro
quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore
stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che
disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno
dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei
singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a
punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in
quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me
dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di
assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società
pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che
non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura
di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro
della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la
smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà
voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.”
Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come
si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così
all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un
abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in
quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al
proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia
della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere
guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora
che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite
lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad
Alessio Arena ho già scritto troppo.
antonio coda
*In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli
L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha
importunato Alessio Arena proviene da Pangea.
Parole: piccoli ceselli sulla pelle pietrigna del tempo. Fiammanti agguati, di
feroci simmetrie, che abbrancano prede fatte di vento. Mosse a un crudore aspro
o leni, appoggiate o impugnate, deposte, in profferta come doni votivi testimoni
di una fragilità che elegge Dio.
Parole derelitte come costole spolpate dal sole. Parole dipinte con estro
tonale, giustapposte, squillanti, stemperate o scialbe.
Parole fuori traccia, inedite e da sommossa, futili, banali, raccogliticce. Che
mordono la carne come stiletti, che lambiscono appena come fiati di petalo, come
un caldo contatto di pelle… Che sanciscono distanze, che abbreviano o
circonloquiscono in modo infame. Come incunaboli di fioriture, laceri stracci,
arazzi superbi, protendersi di dita rattrappite verso l’impellenza del sole;
sequele di futili, pedissequi rilievi, insignificanti, giocose, gratuite, nudate
e sofferte. Che avvengono e non avvengono, numinose e sapienti come antico
delubro, fitte di semenza o sterili come le greppie del potere. Occulte o
palmari. Parole abbrivio di lagnanze, petulanti tracce egotiche di parventi
ragioni, disilluse e bestiali, perentorie come carcasse da mattatoio, celestiali
e senza macchia. Parole argilla del boia e arcolai di salubri raggi.
Ogni linguaggio è territorio animale… Ma per ogni parola, detta o non detta, si
adultera o corrompe ciò che designa: intrasferibile verità e atavica condanna.
Per ogni parola, scelta e ragionata, prolettica e ventrale, la meridiana del
pieno meriggio si sgretola come osso tra le zanne di una bestia.
Il giorno è una stele che detta pene e vantaggi, la notte non appartiene a
nessuno, solo a un varco di stelle che, compassate, trafiggono solitudine
antica. E le parole lì, adiacenti a un desiderio, una promessa, un pianto
incistato in gola. Mentre la fatica del mondo si compie e le vite si estenuano
fino all’ultimo singhiozzo di luce lecita.
Possono far libera un’anima o condannarla alla pazzia, secchi gerani scossi
dalle mani di un uomo senza più un uscio per entrare o uscire dalla propria
appartenenza.
Ho visto creature, punite da un obolo di misericordia, brandire le parole e
scucire il velo dell’ipocrisia. Creature che non possono incontrarsi senza prima
smarrirsi dentro sé, perché è vero: solo ci si incontra, smarrendo la strada. Là
dove la parola evoca una disorna traccia, la geniale omissione dell’intero
oggettuale, scheletro astratto del contingente che fu o che sarà, che di un
oggetto ne fa mille e di mille uno.
Parole che appendono la lebbra delle fiamme a polverosi registri. Parole che
inseguono sentori: pugni che stringono il vento o mungono il sangue dalle lame.
Parole derelitte al centro di un’idea inesplicabile che si aggira sola al mondo
come una creatura. Parole come colli di bianchi cigni, come retrattili artigli,
ottuse come liti, angoli acuti senza porzione d’arco discreto. Legittime e
legittimate. Su arazzi di religioni e simili a stampelle d’un pensiero storpio.
Che giustificano il delitto seriale, che deprecano un tozzo rubato, enfie e
vacue, puntute e abissali… Che disegnano la silhouette di un’identità gettata
nei fatti. Che sfogliano paesaggi con le dita sottili di un visibile nascosto.
Parole, sono solo parole, ma si può dover morire per dar loro un senso.
Il poeta le sceglie, chi voce non ha le subisce, tutti le usiamo senza troppo
tema di sbagliare, con quotidiano, usato abuso che niente aggiunge e niente sa
di verità e bellezza.
Parole come un delitto perfetto di omissioni. Che molto dicono col raggiro di
non dire e di pletore d’opinioni e fatti desunti. Stagionali come abiti, eterne
come una rosa dipinta o cantata.
Parole di polvere su cubitale polvere di parole. Scritte sull’acqua, figlie
della muta e di mimesi psicotiche dettate, a cliché, dalla paranoia del
potere. Come spine confitte di ordini eseguiti, sogni nel sogno e rime eterne
col nostro rimosso, discorsi allo specchio di un turgore che olezza di carogna.
Parole enormi come cattedrali e che non significano un metro, parole esigue che
affoltano di vuoto. Cannibali e sottili come un’ostia. Rune di un’esistenza
sequestrata dal cielo. Ce ne sono di puntiformi e di simili a enormi bacini,
come soffitte e come sacrari, o infiniti contenitori in cui derubricare scomode
posizioni, a cumuli, con surrettizi, epidermici giudizi figli d’apocrifa
antonomasia.
Ne sfoggiamo di trite e ne defalchiamo di essenziali. Talvolta ne azzecchiamo
qualcuna, ma come per un lancio di dadi, un gioco di bussolotti.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: disegni di Peter Paul Rubens (1577-1640)
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come un’ostia” proviene da Pangea.