La poesia di Alessandro Ceni è poesia disinteressata alla poesia, intesa
come opera poetica (ricordo incidentalmente che Orfeo solo volgendosi e mancando
l’opera trova ispirazione e voce), lontanissima dagli altari o altarini, dal
dibattito spesso insulso tra acquarellisti e prefiche. Sono, i suoi, Mattoni per
l’altare del fuoco (titolo del libro del 2002), dove la poesia si tiene ed erge
– sta potremmo dire – in una dimensione d’innocenza, infantile e ferina, in
attesa di avvertire l’usta, di stanare e a un tempo liberare quella miracolosa
preda che l’alimenta.
Fin da qui, potremo scorgere nell’atto scrittorio di Ceni una sorta di
celebrazione, un mysterion, un’azione liturgica compiuta per la salvezza del
creato – per dargli riparo e dimora:
> “le pietre arrotondate indicano un focolare,
> presumono persone accerchiantesi in un rito
> per scrutare il volo circoscritto degli uccelli…”
Misericordia francescana, perdono dell’adultera… Come uno sciamano, chiurlo,
passera, falco o merla (penne e artigli ne sono spesso i paramenti esoterici),
s’aggira tra paduli, spiagge, dune, pinete – la memoria di un’antica Toscana, la
Versilia, l’Appennino – tra stiance e talasse, ad ascoltare il suono di voci
lontane e pacificate, ed accostarsi, accedere infine a quel posto segreto, che
sta nel cuore stesso del cosmo – e ne concede la più intima e autentica
dizione.
Potremo fin d’ora immaginarne la tessitura elementare, una materia segnica
(traccia ragniforme, arborescente), per lo più invisibile, ma carica
di un’energia vibratoria che si scarica visibilmente in ogni pronuncia, perché
ogni parola detta la trattiene tutta intorno a sé. Perché, la parola non può che
essere detta – anche se scritta –, svuotarsi e ricaricarsi ritmicamente ogni
volta che il poeta la proferisce.
Parlare, prendere parola? Proprio in quel posto? Come se da questo potesse
definirsene l’atto?
Cosa allora distingue questa pratica da quella della comunicazione ordinaria,
dalle performance quotidiane che ci consentono di abitare il mondo, avere
relazioni sociali ecc.? (Brevemente: scambi, transazioni, negoziati, chiedere
e/o ricevere informazioni, raccogliere e trasmettere pensieri, emozioni stati
d’animo…)
Per arrischiare una risposta, sicuramente maldestra, tenteremo di dire qualcosa
in merito alla posizione del poeta, al luogo da dove parla …
In diverse occasioni mi sono trovato con Alessandro a discutere di questa
faccenda. Oggi tanto più insistente, soprattutto riguardo alla responsabilità,
al ruolo dello scrittore – intellettuale (se sapessimo cosa significa questo
temine) o poeta che sia – nella società. Bigongiari (ci accomuna un affetto
inestinguibile per Piero e, per entrambi, una riconoscenza durevole),
interrogato sulla questione al Quirinale dal Presidente della Repubblica, disse,
col candore di un bimbo, che prima veniva la poesia, poi eventualmente la
politica, la società civile e tutto il resto. Alludeva forse alla solitudine,
alla disappartenenza del poeta alla città? O forse al particolare legame che la
poesia instaura, alla sua dimensione propriamente etica, a quel patto
inscindibile che, nella pronuncia, la stringe agli altri, ai lettori –
essenzialmente alla lettura, alla dizione che, rendendola operativa, ne
definisce appieno l’stanza politica.
Ceni, per parte sua, richiamava invece un barcollante Dylan Thomas (è noto
quanto il gallese indulgesse con l’alcool) che di fronte alla Società Americana
dei Poeti asseriva che del poeta la posizione propria è ovunque quella eretta…
Effetto di un passaggio evolutivo e al contempo di una misteriosa mutazione
antropologica che salda storia, parola e vita in un nesso inaggirabile, il poeta
è – potremmo azzardare – una sorta di arrivante (alla parola)che è già là e la
dice (la poesia “corre” raminga sul destriero del respiro, e sopraggiunge là
dove “si rompe il fiato”, dove trova il giusto passo della pronuncia), senza
davvero saperlo né poterne dire qualcosa. Sprovvedutamente.
Pertanto, non bisogna chiedergli niente in merito a come sia giunto alla poesia
o se possa sostarvi: né alla poesia stessa, nessun dettaglio interpretativo,
messaggi o comunicazioni, neppure spiegazioni o giustificazioni… Leggete,
leggete, diceva Celan, la comprensione arriverà (se ha da farlo). Il solo
atto che in questa posizione si compie e si richiede, la sua sola destinazione è
quella della voce, del dar voce – non il senso, la trasmissione di un messaggio:
il suo affidarsi sostanzialmente a una voce – la sua Vocazione, per così dire.
Enunciare, prendere parola, affinché ne sia giustificata la presenza facendo
lavorare il dispositivo della lingua. Che per tale affidamento si produca
qualcosa, un enunciato significativamente pragmatico resta meramente
contingente, per lo più ignoto e impronosticabile.
Voce non solo, ma anche, in questa, l’eco di antichissime movenze, canto o
danza, cadenza e ritmo, tanto intimi quanto naturali. Un discorrere senza parole
– o prima di loro –, che le parole stesse registrano come una scossa, segreta
motivazione del dato testuale: vibrazione o fremito – non la commozione né la
tristezza o la gioia – che attiva e disattiva, arresta e riparte sul filo di
un ductus che non conduce in nessun luogo. Il passo della poesia, potremo dire,
è quello mortale della vita che vi si trascrive, il battito del cuore, la
pulsazione del sangue, la sua pressione: poesia, dice Rilke, [è] invisibile
respiro, in cui ritmicamente avvengo.
Postura instabile, per lo più incerta, definita nondimeno dal dettato – gli
Stilnovisti la chiamavano dettanza, un misto di fiducia e disperazione –
dal sovvenire, dal capitare della voce – l’elemento sonoro del linguaggio,
quello slancio – quasi un Trieb vocalico – che una lunga tradizione accosta
all’immagine della corsa del cavallo. Potremo chiamarla Erfahrung,
quell’esperienza dell’andare, del viaggiare che si dà quando il vivere non è
ancora vissuto e il senso non ancora è là a racchiuderla in un viaggio, in un
racconto. Quando non c’è niente da dire, fatto o storia da riferire. Una sorta
di vertigine, di capogiro che, nel suo “non è niente”, scampa il pericolo
sommesso del Nulla e nomina l’evento inatteso – talvolta sconcertante – dello
straordinario (in cui siamo permanentemente immersi).
Pensiamo al devoto di Kafka, e a quel suo nominare… a casaccio le cose che gli
si porgono – “prima di mostrarsi a me, dice, devono essere belle e tranquille
perché la gente ne parla in questo modo”… Mal di mare sulla terra ferma.
L’oscillare del corpo, il suo ritmico accadere nella lingua, l’accostarsi al
silenzio (risonante) dell’infanzia.
L’atto allora. Il prendere parola dei poeti. Tentativo di familiarizzarsi con
quel “discorrere”, assumendolo in un dispositivo storicamente consolidato in
regole e vocaboli. Riuscendovi solo in infima parte, non possono che sospenderne
il funzionamento, disattivarne le funzioni – significazione e informazione –
generando sovente oscurità, un’insondabile cifratura che lascia nondimeno
risuonare ritmi remoti che ancora scandiscono le nostre esistenze (l’acqua del
fiume, il frusciare del vento, lo scroscio della pioggia, il susseguirsi delle
stagioni)…
La lingua, infatti, è trasmessa, la apprendiamo dalla madre (forse appartiene
solo a lei, e per questo è materna): riempiamo la bocca vuota di capezzoli con
parole che supplementano un silenzio intessuto di voci corporee, bisogni più o
meno rumorosi (ne avvertiamo spesso il riverbero nell’amore, nel pianto o nel
riso). Come il corpo, la lingua, la nostra lingua ci resta per lo più
inappropriabile, permanentemente straniera. E come di quello, se esposto,
proviamo vergogna, di questa restiamo soggetti sempre lavorati da un’infanzia
tanto sonora quanto silenziosa. Lo dimostrano i lapsus, i balbettii
dell’emozione, i rantoli della malattia, talvolta meglio i neologismi, giochi
verbali, l’indulgenza nei vernacoli.
Il poeta – e qui, dopo l’affanno di questo giro, torno ad Alessandro (che mi
perdonerà) – è così un parlante speciale, appena distinguibile da altri
lazzeroni; testimonia di questa ambigua familiarità, la rivela abbandonandone la
pratica e l’uso interrompendo i circuiti del significato e della comunicazione.
Al punto di non avere niente da dire – neppure della poesia, s’è detto – solo da
sostenere questa Unheimlichkeit della lingua, che come un’intima estraneità si
rende praticabile nel brivido di un cambio di tono, nella sospensione del fiato,
nelle pause del suono e soprattutto del senso. In quel moto segreto che ci agita
nell’ascolto, che ci lascia dolcemente oscillare, perché, come in un inno,
possiamo giubilare all’avvento di un mondo ogni volta come la prima volta.
Potremmo dire, concludendo, che per questo arcano legame musaico, la poesia è
sempre felice, celebrativa; concede sempre l’ascolto di un’altra voce, troppo
spesso silenziata da differenti esigenze… la possibilità di ricevere una
benedizione d’animale o di bimbo, per lasciarsi saggiamente assorbire dal
creato, e muoversi, creature tra creature, acconsentendo acquiescenti alla sua
irresistibile cadenza.
Mario Ajazzi Mancini
*In copertina: l’animale, il cavallo, secondo Albrecht Dürer
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> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti
> al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica
> Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio)
> “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai
> Corinzi, 12, 2)
> “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e
> l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque” (Genesi, 1, 2)
a te, che tutto è cuore.
ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori
del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor
di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella
battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello
meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di
ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla
sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità
solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il
cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore
anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa
nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor:
ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman,
offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di
esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità
teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama
questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo
spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione
caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede
della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo
studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore
l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare
ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato
panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX
sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive
che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si
protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di
unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come
brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson
1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi
Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il
primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio.
questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che
il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione
chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra
riflessione o obiettivo:
con parole tue, “essere con, essere verso”
nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le
distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai
primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà
l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola,
“l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad
abbracciare l’amore divino,
in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”
per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici,
entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la
molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi
come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte
le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio
(Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che
“nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle
cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le
cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso
I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del
cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio.
> SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38)
lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto
dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e
questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del
cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno
dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è
“ospitalità”, in cui host e guest
sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato”
(Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che
riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico
domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso
che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla
quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard
Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore,
cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per
abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il
desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del
cuore:
> “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque;
> è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua
> vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi
> griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).
per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio
secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza,
è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano
diventa capiente per accogliere Dio.
nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini
diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo,
ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa
fa della Terra la casa di una splendida finitudine:
> “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del
> planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami
> con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli
> fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno
> d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.
lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di
bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso
esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.
“Guarda là”
torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine
produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad
armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.
“e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”
quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio”
per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per
accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore
dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla
disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la
verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità,
una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica,
il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151),
del “crollare di candore”, “petto scalzo”,
> “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace,
> disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in
> ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno”
> “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si
> frana, su sé stessi di spalle”
Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella
debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).
si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,
> “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,”
nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non
trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987),
ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può
sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua
evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione
insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello
scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione
della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione
patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione,
sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima
all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi
di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria
pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione
consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive
Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di
finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil
2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un
“Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione,
sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio,
nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento.
un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando
Meister Eckhart, gravida del nulla:
> “l’indimostrabile del cosmo che vibra”
vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi
tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al
mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al
mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per
sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.
fermagenesi nel suo mentre.
> “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo”
si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo
affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita
assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della
possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera
come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con
il linguaggio, puro avvenimento,
> “ortogonale al parlato,
> è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo”
per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi
dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta
ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non
saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/
Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori
[…]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al
mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il
modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la
‘realtà’ empirica del senso comune.
> “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le
> ombre”
> “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto”
mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley
Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio
che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti,
presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente
‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante
dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono
colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in
una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in
una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di
mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto
mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano
nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le
braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella
Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate,
continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende
vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con
compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale,
orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.
più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica
non i cuori materia ma il loro rosso.
> “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio”
lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il
fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani,
se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo,
quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non
è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua
protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede,
incarnazione del sacrificio cristico,
> “sangue acceso di fiume aperto”
creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria
Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza
intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento.
Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del
“volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore,
“rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore
nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta
di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel
frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e
soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore
fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa
d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/
Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).
> “bocciolo di punta”
rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni
del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve
seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale,
nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità
del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre
dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e
istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto,
radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il
contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega
tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o
indipendentemente da essa” (Idem, 33).
penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo
di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e
gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un
tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in
una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo
bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida
Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che
sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì
assorta, ogni nuova infanzia.
Cristiana Panella
*
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Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014.
Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018.
Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura
di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.
Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo
Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018.
Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008.
L'articolo Fantasmagoria del rosso. A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi”
proviene da Pangea.
Come se la passano oggi gli scrittori? Stanno in giro per librerie? Si sono dati
alla macchia, scomparendo dalla mondanità? Oppure stanno a giornate sui social?
Ecco, piuttosto l’ultima. Dove vivono oggi gli scrittori, quelli bravi e quelli
ciuchi, quelli famosi e quelli sconosciuti? A giornate sui social a pontificare
su tutto, su ciò che conoscono e su ciò che non conoscono. Come qualsiasi
cittadino normale? Ebbene sì, come ogni persona normale. Ma è pur vero che lo
scrittore non è tanto normale, come figura sociale (non social) intendo. Ma
questa è soltanto una stupida illazione.
Personalmente passo troppo tempo su facebook e quando me ne accorgo mi faccio
schifo, ma proseguo comunque in questa oscena attività. Un amico bibliotecario,
una volta scrisse su facebook che si sarebbe allontanato per un po’ dai social
perché voleva scrivere. Alcuni discutono di tutto; altri parlano solo di libri.
E mi chiedo: esisterà in futuro qualcosa di cui scrivere che sarà fuori dai
social, dalla rete, dalle piattaforme online, dalle riviste digitali? Lo spero,
ma non credo.
Non moriremo cartacei, come non siamo morti democristiani (si diceva così una
volta…). Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire…
Dunque, in questa seconda puntata della “Vita Agrissima”, affronteremo alcune
tipologie dentro le quali gli scrittori (e si intende al solito tutta la
compagine: scriventi, poeti e poteastri, ghost, ecc.), a differenza della prima
puntata, non hanno alcun riferimento reale. Tutto quello che segue è inventato…
*
Critici e ipocriti
“Ho letto il libro di Tizio. Intanto, per me, c’è un errore sintattico alla fine
di pagina 137. Poi come fa il personaggio di Caio a parlare con quel tono? È
inverosimile”. E tu chiedi – tutto avviene tramite messaggistica, nulla è ancora
pubblico – “ma la storia? La storia è bella?”. E lo scrittore criticone risponde
che è senza infamia e senza lode, ma gli manca l’ultimo capitolo.
Il giorno dopo leggi il suo post sui social: “Quando lo stile di un autore
dimostra ancora una volta la forza della narrativa italiana. Lo conosco bene e
so che lui è maestro nel trovare il giusto tono per ogni personaggio, come
dimostra Caio in questo suo ultimo lavoro. Complimenti Tizio, è il tuo libro
migliore”…
Sipario.
*
Lecchini
Dicesi lecchino chi si complimenta in modo eccessivo, senza ragioni valide per
farlo. Di solito il lecchino agisce nei confronti di un collega più famoso o
reputato più importante, e che, a suo avviso, potrebbe aiutarlo nelle sue
prossime “mosse letterarie”.
Uno dei modi migliori è sollevare uno scrittore affranto da qualche questione
extraletteraria, confortandolo con un commento sotto al suo post malinconico,
tipo: “non ti curare di questi sfaceli quotidiani, tu hai la letteratura che ti
(ci) conforta, e in questo campo sei un maestro”.
La sottospecie è il controlecchino simpatico, cioè colui che prova a conquistare
la confidenza di uno scrittore che reputa più addentro alle cose editoriali,
usando l’ironia, lo sfottò, l’ammicco, l’occhiolino. La tattica è più sfrontata,
ma se funziona maggiormente efficace, perché l’opera di lecchinaggio tout
court stucca facilmente.
Ahimé.
*
Lamentosi
“Se un editore, dico uno, avesse compreso per tempo il senso profondo di questo
libro che ho scritto ormai 10 anni fa, forse oggi avremmo compreso meglio la
questione del [inserire un argomento a piacere]”. Questo lamento pare più adatto
alla saggistica, ma sta bene pure nei settori letterari della narrativa e della
poesia.
Il lamento non è soltanto relativo a una pubblicazione mancata, ma anche a un
libro che ha avuto poca risonanza, in cui l’editore non si è speso in promozione
e da cui l’autore auspicava maggiore eco mediatica. Solitamente ai lamentosi
viene bene anche una seconda parte di orgoglio risentito in cui scrivono:
“comunque, in un mondo editoriale caduto così in basso, sono felice di non aver
preso parte a tale riflusso commerciale”.
Olé.
*
Fenomeni
Dicesi fenomeno colui che pensa di essere più figo degli altri. La categoria è
vastissima, di cui una sottospecie, forse la peggiore, è quella dei fenomeni che
condiscono i loro post di esecrabile falsa umiltà. Tipo: “sono seduto a un
tavolino fronte mare, ho ritrovato un vecchio libro di Gogol e mi infliggo
questa medicina, mentre tutti intorno a me sono curvi sopra i loro cellulari”.
Tra i fenomeni ci sono gli assertivi, cioè quegli scrittori che credono di
essere un’autorità in materia (che ne so, di gialli, di fantasy, di qualcosa) e
tracciano post come fossero confini statuali. A puro titolo di esempio quel che
segue.
Sottotesto non scritto: [attualmente sono il miglior narratore di genere
poliziesco]. Testo del post sui social: “nel genere poliziesco una buona storia
necessita di due cose fondamentali X e Y, perché soltanto così abbiamo la storia
perfetta”. E sotto sbrodolamento di commenti entusiastici da parte dei
followers.
Evviva.
*
Ingrati
Non so se il numero degli scrittori ingrati sui social sia alto o basso.
Certamente l’ingratitudine è una delle attività più crudeli. Mettiamo che
abbiate organizzato la presentazione di un libro per conto di una casa editrice.
Avete invitato l’autore del libro e lo avete messo in contatto direttamente con
l’editore, tipo Giulio Einaudi o Elvira Sellerio (meglio citare persone
scomparse…) – è ovviamente un esempio incongruo. Ecco! Alla fine dell’evento lo
scrittore fa un bel post sui social, tagga tutti e ringrazia tutti, tranne voi.
Perché? Certi comportamenti umani sono insondabili, ma anche parecchio stronzi!
Tiè!
*
Citazionisti
“Come non essere d’accordo con questa frase di Franz Kafka: [segue frase]”.
“Come non sottoscrivere questa massima di Seneca: [segue massima]”.
“Come non emozionarsi di fronte a questa poesia di Auden: (seguono versi)”.
Grazie al pene! Non avete scelto citazioni dal Dizionario etimologico storico
dei termini medici di Enrico Marcovecchio. Kafka, Seneca, Auden. Vi piace
vincere facile eh?
Ma c’è anche chi, sui social, lancia sfide di citazioni, tipo questa:
“Indovinate chi è il mio scrittore preferito (non andate a cercare su google,
furbacchioni): Svetta su entrambi un Himalaya di vite in movimento”.
E poi gli autocitazionisti. Ecco un plausibile esempio: “Sgomento, sgomento di
una guerra ingiusta/ senza cuore avanzano coloro che non restano umani. Non sono
parole di Ghandi e nemmeno di Tolstoj, questi versi li trovate nella mia ultima
raccolta, Il cielo diviso. #nowar”.
Forza!
*
Autoprodotti
Sono coloro che hanno scritto un testo, l’hanno impaginato a piacere, hanno
scelto un’immagine autoprodotta, e hanno mandato tutto in stampa presso una
piattaforma tipografica digitale. Hanno ricevuto a casa un certo numero di copie
del loro romanzo e adesso ne lodano le qualità sui social. E sotto valanghe di
cuoricini dei parenti. I più astuti tra quelli che si autoproducono i libri,
senza un editore, sono coloro che convincono l’amic* del cuore a fare il post in
vece loro e tratteggiare tutte le qualità del racconto.
Amen!
Alessandro Agostinelli
*In copertina: un’opera di Roland Topor
L'articolo La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di
scrittori da social proviene da Pangea.
L’etichetta “pessimismo” è quella che maggiormente stritola tanto Leopardi
quanto Montale; e la loro presunta resa di fronte alla ricerca della felicità va
consolidandosi per generazioni di studenti, e (anche) di docenti. Questa gabbia
li conquide, e li riduce a teorici del “male di vivere”, del “brutto vero”,
definizioni sterili rispetto alla caratura della loro speculazione
filosofica. Tuttavia, bisogna ammettere che il recanatese e il genovese non
hanno dipinto la realtà come un felice girotondo, e l’hanno liricizzata con toni
aspri, duri, talvolta difficili da difendere e da accettare. Ma se si andasse
“più addentro”, come direbbe il Pirandello dell’Umorismo, si apprezzerebbero
sentieri carsici che conducono ad una anelata atarassia. Forse utopistica,
dunque inesistente; forse astratta, e per questo poco compresa; forse
misteriosa, ma per questo poetica.
Montale, pertanto, guarda a Leopardi come il marinaio guarda il faro nella
tempesta: non dico che ne diventi epigone, ma spesso, furtivamente, ricalca
alcuni passi e ne ripropone la veridicità con le dovute differenze. Tra tutte le
immagini, si pensi alla celebre “siepe” dell’Infinito, che si trasforma nella
“muraglia” in Meriggiare, pallido e assorto: Leopardi la valica, e con il verso
“io nel pensier mi fingo” celebra il potere dell’immaginazione, per poi
“naufragare” nella dimensione fittizia del “vago e indefinito” intrisa di
piacere eterno; Montale, invece, non vince il muro, e invoca la “divina
Indifferenza”, unico “prodigio” capace di stemperare la perenne condizione di
asfissìa e di prosciugamento, dilagante nel primo periodo ligure.
In ogni caso, “la vita è male”. Ma se nella fase giovanile degli Idilli,
l’invito leopardiano all’azione sospende il dolore, con il vagheggiare e la
perdita nell’indefinitezza, l’invito montaliano è l’inibizione, il non-agire.
Infatti, quando il poeta si muove e si volta, come nel caso di Forse un mattino
andando, si scontra con il “nulla”, con il “vuoto”, con “l’inganno consueto”:
essere indifferenti è la sola forma di “bene” saputa dal poeta degli Ossi di
seppia, pertugio che “schiude” la quiete. I limiti, dunque, non sono trampolini
per evadere dalla vita, concausa dell’infelicità umana, ma presentano “cocci
aguzzi di bottiglia” sulla loro sommità. E come se non bastasse, se il vento
leopardiano è uno “stormire” che si fonde con la “voce” dell’io poetico, il
fruscìo che subisce Montale è un’aria desertica, che inaridisce e rinsecchisce,
fino al midollo.
Da qui, la Natura “matrigna” si manifesta nelle sue espressioni più ostili:
nel Dialogo della Natura e di un islandese, l’elenco di calamità è
impressionante, in perfetta sintonia con gli effetti che il “meriggio” cocente
ha sugli “oggetti montaliani” di Spesso il male di vivere ho
incontrato. Dichiarazioni, ambedue, di una Natura totalmente indifferente, di
quel “perpetuo circuito” che si innesca senza poi curarsi della sorte umana. In
effetti, Miraggi di Montale ricalca le fasi di “produzione e distruzione”
denunciate da Leopardi: “[La Natura, NdA] che regge il mondo, lo crea e lo
distrugge/ per poi rifarlo sempre più spettrale/ e irriconoscibile”.
Ma per confermare la mia tesi – Leopardi e Montale come poeti della luce e non
del buio – vi sono affinità ottimistiche, che consentono di lenire i tormenti.
Nonostante il ricordo sia un’arma ambigua, parzialmente efficace, segna il
poetare dei due. Velleitario citare l’incipit di A Silvia, “Silvia, rimembri
ancora quel tempo”, dove il verbo “rimembrare” è colonna portante dell’intera
dissertazione; così la “vecchierella” del Sabato del villaggio, quando
“novellando vien del suo buon tempo”, e il poeta stesso quando “ricorre al
pensier” nella Sera del dì di festa (come in moltissimi altri passi dei testi
leopardiani); rimembranza che sussurra alla flebile speranza del Montale
delle Occasioni, come quando implora alla “forbice” del tempo di “non recidere
quel volto, / solo nella memoria che si sfolla”. Il tempo, dunque, non fa altro
che divorare tutto; e il contrasto tra la gioia e la sofferenza, tra la
giovinezza, quel “fior degli anni gentili”, e la vecchiaia, può essere vinto
dalla rievocazione. E bisogna fuggire la morte, quella stessa morte che pone
fine al tutto, anche al piacere. I versi finali di A Silvia risuonano:
> “e con la mano
> la fredda morte ed una tomba ignuda
> mostravi di lontano.”
Analogo è il profilo di Clizia, senhal di Irma Brandeis, nella Bufera, quando si
congeda dal poeta e scompare nel buio – l’“abisso orrido” del Canto
notturno leopardiano:
> “come quando
> ti rivolgesti e con la mano, sgombra
> la fronte dalla nube dei capelli,
> mi salutasti – per entrare nel buio.”
Ma il buio che si delinea al finire del sentiero, che Montale percorre con quel
“segreto” di disagio e incomprensione, in mezzo agli “uomini che non si
voltano”, è vinto dalla luce. E di nuovo in analogia con Leopardi, sempre
nella Bufera, si legge di una consueta Clizia salvifica, poiché lucifera,
portatrice di luce e di sole:
> “In alto, Clizia, è la tua sorte, tu
> che il mutato amor mutata serbi
> fino a che il cieco sole che in te porti
> si abbacini nell’altro e si distrugga in lui.”
Quegli “occhi” potenti come il sole, che si confondono e si mescolano per
potenza e per efficacia con la stella del giorno, primeggiano già nel primo
Leopardi. “Gli occhi ridenti e fuggitivi” di Teresa Fattorini in A Silvia, e gli
occhi efficaci del Sogno:
> “Ella negli occhi
> pur mi restava, e nell’incerto raggio
> del Sol vederla io mi credeva ancora.”
E Leopardi, non a caso, introduce la Ginestra con il passo del Vangelo di
Giovanni (III, 19), a conferma che la luce è accecante poiché rivela la Verità,
ed è spesso barattata per le tenebre, in quanto difficile da assimilare: “E gli
uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.”
Montale e Leopardi, dunque, non sono altro che due radiografi della realtà
sensibile, fonte di “affanno”. Il male non si può sconfiggere, poiché
connaturato nell’essere umano, e non bisogna fare altro che conviverci. Da qui,
il Leopardi della Ginestra e della dignità dell’uomo virtuoso, che deve emulare
il “fiore del deserto”: prima profuma le “campagne dispogliate” e poi, quando
giunge il suo momento, con estrema dignità e modestia, piegherà “il capo
innocente”, senza superbia; così, Montale e la ricerca “varco”, che in una forma
di “slancio vitalistico” ambisce titanicamente alla coesistenza con la
disperazione:
> “i silenzi in cui si vede
> in ogni ombra umana che si allontana
> qualche disturbata Divinità.”
E mentre imperano “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di
chi crede/ che la realtà sia quella che si vede”, si cerca ancora quel pertugio,
“dove s’accende/ rara la luce della petroliera”.
Davide Chindamo
L'articolo “Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce
proviene da Pangea.
Una maestria che non sempre si dimostra nelle vie maestre.
A chi, d’altronde, piace seguire i conseguiti sentieri, senza dare in oltraggio,
senza percorrere il fuorivia, l’impercorribile?
Così è della canea del ‘canone’: una volta collocati i titani, i
poeti-colonnato, i poeti al comando, il nostro Himalaya, si può scollinare
altrove. I poeti-torcia sono sempre con noi, è ovvio – Dante, Petrarca, Tasso,
Leopardi, Manzoni, Foscolo, Pascoli etc etc –; a volte occorre bivaccare con gli
oscuri. A volte – questo è Leopardi nel Parini – le imperfezioni di Lucano, un
poeta-Bacon, un poeta-Quentin Tarantino, sono preferibili alla lingua perfetta e
ben tornita di Virgilio; a volte – a volte, in voluttà d’ingegno – sfogliamo
Omero, Cicerone, Petrarca e ci capita di “non sentirmi muovere da quella lettura
in alcun modo”.
È quello il momento di andare nei fuorivia, tra i fuorilegge del linguaggio.
Da cosa dipende questo stare ai margini del canone, appena sussurrati, appena
sputacchiati, già erosi dall’oblio? Intanto, l’opera. A tratti involuta,
parziale, senza la parsimonia di darsi ai posteri, a tratti monotona (esistono
poeti-centometristi che riescono benissimo in una manciata di poesie; la lunga
distanza li strema). Poi, la fortuna. Incapacità di stare ai patti del tempo,
solitudine, infimo potere, azione in luoghi alieni alle grandi corti e alle
grandi città – che vuol dire: macinare un italiano assai poco illustre, che non
dà lustro, che giova in epigoni ed eredi –; una sorta di carattere barbarico e
lunare, a zanne piene. Poi, il caso: le astuzie della vita, i princìpi del
potere (principati, stati, nazioni hanno bisogno, tutti, del poeta vessillo,
pronto da sguainare per una paludata idea di ‘unità’ patria). Inoltre, il sesso.
Se sei femmina è raro insidiare il canone. C’è poi l’avversità – quando non:
l’avversione – a stare nei dogmi del sistema cultuale-culturale del proprio
tempo. C’è chi scrive per passatempo, chi per rabbia, chi lottando contro il
resto del mondo – chi restando nell’aureo andito dell’io, senza conforto di
confronto, latitante, ai lati.
Affascinante è il caso, ad esempio, di Barbara Torelli. Nobildonna emiliana, fu
data a Ercole Bentivoglio, condottiero bolognese già al servizio dei Medici, poi
di papa Giulio II, amico di Machiavelli, abile nel massacro e nel sopruso.
Quando morì, Barbara poté unirsi a Ercole Strozzi, letterato ferrarese, già
confidente di Lucrezia Borgia: i disegni dell’epoca lo mostrano superbo in
volto, con lunghi scarmigliati capelli, apollineo. Tre mezze lune su fondo rosso
costituivano il suo stemma nobiliare. Glielo uccisero nel giugno del 1508, in
assalto notturno, vili, in Ferrara; Barbara, rovinata dal dolore, compilò
l’unico sonetto che gli è ascritto, questo:
> Spenta è d’Amor la face, il dardo è rotto,
> e l’arco e la faretra e ogni sua possa,
> poi che ha Morte crudel la pianta scossa,
> a la cui ombra cheta io dormia sotto.
> Deh, perché non poss’io la breve fossa
> seco entrar, dove l’ha il destin condotto,
> colui che appena cinque giorni e otto
> Amor legò pria de la gran percossa?
> Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio
> intepidire, e rimpastar col pianto
> la polve, e ravvivarla a nuova vita:
> e vorrei poscia, baldanzosa e ardita,
> mostrarlo a lui, che ruppe il caro laccio,
> e dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto.
Sopravvisse alle figlie – Costanza e Ginevra – avute dal Bentivoglio, Barbara
Torelli: optò per la vita nascosta; di lei è ignota data di morte, ignoto il
luogo del sepolcro. Si può far parte della storia della letteratura con un testo
appena? Un tempo, il sonetto della Torelli era inciso nei diari delle belle,
cucito sulle loro vesti come un orizzonte del destino, come uno sfrecciare.
Vissuto pressappoco negli stessi anni di Barbara Torelli, per lo più negli
stessi luoghi, tra Modena e il cesenate, Panfilo Sasso (1455 ca. – 1527) è poeta
di inquieta potenza. Amico di Ariosto, abitò tra l’altro a Verona, scrisse
molto: la prima edizione dei Sonetti e capituli del clarissimo poeta miser
Pamphilo Sasso modenese, uscita nel 1500, conta quasi seicento testi, di cui
quattrocento sonetti. Teologo, alchimista, amava Dante: il vicario provinciale
dei Domenicani, fra’ Tommaso da Vicenza, lo accusò di eresia, scoccava il 1523.
Alcuni concittadini lo avevano denunciato al Sant’Uffizio con queste accuse:
“Nega l’esistenza del Paradiso, del Purgatorio e dell’Inferno… nega che l’anima
sia immortale… in un sonetto nega l’infallibilità della divina scienza e il
libero arbitrio”. Sasso avrebbe dovuto abiurare le proprie convinzioni durante
un’orazione pubblica: il giorno stabilito, si finse malato. Grazie ad alcune
amicizie nella curia, riuscì a scampare dalle grinfie dell’inquisitore: fu
nominato governatore del piccolo borgo di Longiano, in Romagna. Insomma, lo
confinarono. Poeta sapiente nel sondare le sconfinate ombre del cuore, in Sasso
“è spesso presente la ricerca di un linguaggio poetico originale e di notevole
complessità… è evidente la presenza di estese aree aperte a una libera e
rischiosa inventività verbale e metaforica, che si sarebbe tentati di definire
un portato residuo (ma spesso né vacuo né provinciale) della maggiore creatività
dantesca” (così Massimo Malinverni). Tra i suoi testi, ci piace questo in cui il
poeta dà il senso del proprio orgoglio, indossa il cilicio come una stola da re
ed è dal pianto monsonico mutato in fenice, il mitico uccello del fuoco:
> Sono eremita de la vita austera:
> bevo acqua de canal, mangio radice,
> abito una spelonca como fera,
> porto el cilicio e dormo a la pendice:
> i’ piango dal mattin fin a la sera
> e sol sto come passere fenice.
> Non che per questo al ciel scender mi spera;
> ma per ch’amor mi fa tanto infelice.
Altra fortuna hanno avuto le rime di Galeazzo di Tarsia (1520 ca. – 1553),
idolatrate da Giambattista Basile, che le riunì in un’edizione complessiva,
uscita nel 1617. Per arditezza di stile e genia antipetrarchesca, per la vita
disordinata, da alfiere del caos, Galeazzo fu l’idolo dei poeti barocchi, un
Marino in miniatura. Nessun mero manierismo, però, nessuna ‘grottesca’ in versi
inquinano la sua opera, livida per virtù d’ingegno: “sotto il virtuosismo noi
sentiamo presente un serio disdegno del consueto, un’appassionata aspirazione al
raro delle analogie che trascorrono fino all’assurdo, a raggiungere una verità
intima che importava al Tarsia più della letteratura” (Carlo Muscetta). Poesia,
dunque, non più a decoro di corte, ma a dilaniare il proprio cuore, stigma di
vivere da assolutisti dell’io.
Fu barone di Belmonte Calabro, improntando la propria azione al candore della
crudeltà. Tiranneggiò i sudditi, disobbedì ai superiori; la morte della moglie,
Camilla Carafa, ne esacerbò le oscurità. Confinato a Lipari – condannato alla
perdita del feudo, fu poi graziato dal viceré di Napoli Pedro Álvarez de Toledo
–, si impegnò militarmente contro Siena, per conto del viceré. Fu ucciso in
circostanze non chiare a poco più di trent’anni; sulla sua vita alligna alloro
d’ambiguità. Scrisse poco – una cinquantina di testi – per sovreccitazione. Amò
Vittoria Colonna, dedicandole un bestiario in versi; ma l’alta dama fu chiusa
alle attenzioni di un simile barbarico amante.
> Io benedico il dì che il cor m’apriste,
> man bianche e molli; e te veloce e presta
> a legarmoli poi, cresp’aurea testa;
> occhi, e più voi che di bel foco empiste
> quest’occhi miei, ond’a far poi veniste
> che del pianto la torbida tempesta
> i vaghi fiori e verd’erbe di questa
> falda di monte rese umidi e triste:
> poiché il primo desir che di voi m’ebbe,
> vestito alfin d’un amoroso lume,
> ripiglia qualità più bella e pura,
> forse come animal, che a viver ebbe
> alcun tempo col manto altra natura,
> entrò già verme ed or veste le piume.
*In copertina e nel testo: schizzi di Giovanni Francesco Barbieri detto “Il
Guercino” (1591-1666)
L'articolo “E rimpastar col pianto la polve, e ravvivarla a nuova vita”. Per un
canone avverso della poesia italiana proviene da Pangea.
Ci sono millanta poeti oggi che millantano la loro poesia: troppi, per
permettersi il lusso di continuare a brucare la terra polverosa e non alzare il
capo al Sommo Poeta, pronto a falcidiarci. Dante, l’insuperabile. Chi non
accetta di scoprire la gola, chi nicchia e cerca di sgamarla, come lo studente
che fa lo struzzo e abbassa gli occhi per non essere interrogato, non è poeta e
non ama la poesia. Chi non accetta la morte non sarà mai immortale.
Che poi il giochino viene facile: Dante è laggiù in fondo, nel mito, nel
passato, in un mondo che non c’è più, pigolano i poetini. Oggi siam tanti e gli
spazi di festa son pochi, stai fresco se dobbiamo confrontarci con i classici
(ma stiamo pure all’altroieri: Montale Luzi Zanzotto Sanguineti Caproni e
compagnia briscola). E qui scatta la mannaia di ogni avanguardia,
neoavanguardia, postavanguardia, non-avanguardia-ma-ricerca et similia: fare
tabula rasa. E potrebbe persino essere la volta buona, crollati tutti i punti di
riferimento, per cui si salvi chi può. Chi attraversa la selva oscura della
contemporaneità con cognizione di causa? Accidenti, mi sono tirata la zappa sui
piedi: di poetini che danno la mano, e forse non solo quella, al loro presunto
Virgilio d’oggidì ce ne sono fin troppi. Ma mica si prestano ad attraversare
l’inferno: cercano subito l’ascensore per i piani alti, per gli open space con
vista sui laghetti artificiali. Epperò gli editori pubblicano ciò che vendono,
della poesia non si occupano davvero più, così gli specchi diventano specchietti
per allodole, giusto per ricordarci del settore, dell’angolino in basso in fondo
alle librerie, quello spazietto da riempire tra i classici latini e il
teatro. Del resto si diventa editori per fare affari, e le scadenze sempre più
immediate impediscono di imbastire piani non si dica nemmeno stalinianamente
quinquennali, ma berlusconianamente trimestrali (cento giorni, via). Figurarsi
se i manager della carta stampata pensano al capitale simbolico da accumulare
nel corso dei decenni, al prestigio, alla rendita quando un autore finirà nei
manuali scolastici. I quali, poi, o restano cautamente fermi alla compagnia
briscola di cui sopra o tentano sortite con logiche sempre più vaghe,
confondendo le idee ai già confusi.
Che dite? Il compito di riconoscere i valori in campo spetterebbe ai critici?
No, per carità, smettetela di credere a babbo Natale. I critici non esistono
più. Oppure esistono in queste sottocategorie inutili e perniciose:
a) i critici militanti, i partigiani di una particolare idea di poesia, che poi
resta vaga perché va bene sia la prosa sia il sonetto, sia il testo
iper-retorico sia quello tendente al grado zero dello stile, sia l’approccio pop
sia l’impegno civile, qualsiasi cosa insomma purché si faccia parte di quella
nuvola di scrittori-insetti che continuano a ronzare intorno al capo del capo.
L’importante è che la poesia non sia sincera esposizione delle proprie
entraglie. E ci mancherebbe;
b) critici del post. No, non è questione di post-poesia, non ancora. E nemmeno
di post sui social, anzi. E non parlo nemmeno dei post-critici (in merito
leggetevi la Postcritica di Mariano Croce: vi farà bene). I critici del post
sono quelli che vivono della morte stessa della critica, ma continuano ad
abitarne le spoglie. Sono i critici postumi, quelli che fanno salotto attorno al
ring dove i poeti se la danno di santa ragione, pronti a intervenire solo dopo,
per premiare i vincitori. Sono quelli che ripetono ciò che si sa già (tipo:
Montale è il maggior poeta del Novecento – verità che tra l’altro sarebbe ora di
ridiscutere, ma questo un’altra volta), che non si occupano dei contemporanei
perché non è in caso di compromettersi e di rendersi responsabili,
maieuticamente, di ciò che di buono potrebbe anche venir fuori. Prima si faccia
il canone (con quali criteri: l’amichettismo e i giochi di potere? Io se ci sono
non guardo non vedo non sento non parlo, gesticola il suddetto), poi il critico
del post arriverà a incoronare il poeta e qualunque poesia proponga (tali
critici non hanno gusti difficili, anzi, non hanno gusti punto);
c) i critici accademici che, se animati dalle migliori intenzioni contro “la
cultura in scatola” (leggetevi adesso lo splendido Universitaly di Federico
Bertoni), restano comunque schiacciati dalla pila di libri che si accumula sulle
loro scrivanie e alla fine vanno un po’ a caso, pescando una volta a destra e
una volta a sinistra, una volta in alto e una volta in basso; se invece
ferocemente addestrati alle logiche del loro mondo, evitano la menoma
contaminazione col presente e preferiscono dedicarsi alla raccolta delle lettere
dell’ultimo riesumato futurista di turno, tanto loro sono accademici quindi
patentati e schifiltosi di qualsiasi immersione nella Palus Putredinis
oggidiana, in cui, francamente, non saprebbero affatto destreggiarsi: forse
meglio così, giacché farebbero soltanto danni maggiori;
d) i critici para accademici, che sono indubbiamente accademici e quindi guai a
presentarli con il titolo sbagliato, ma sono anche scrittori e intellettuali
ruspanti, scattanti di fronte a ogni possibile comparsata in tivvù, scattosi nei
social dove danno vita ai loro avatar, con cui non vanno confusi (studiosi del
dadaismo che si travestono e ballano il dadaumpa su TikTok), scazzati nei loro
stessi corsi di scrittura creativa, giacché di tesine scritte con l’IA ne han
già piene le balle o le ovaie, figurarsi di romanzi purtroppo scritti senza
l’IA;
e) i critici massimalisti, che possono sentenziare su chiunque, da Dante
compreso in giù, e affrontare qualsiasi argomento con la stessa reboante
loquacità di Cacciari, tanto i testi li guardano sempre con il binocolo, mica
impiccano lì le loro teorie, mica arrotano i versi come coltelli: qualunque
autore è una brodaglia insulsa, se solo non si adegua completamente al loro
imperscrutabile gusto.
Trovatemene uno che sappia ridimensionare qualche poeta maggiore di oggi, non
dietro l’anonimato di una giuria di premio condivisa con altri, ma con saggi
acuti, con analisi testuali, necessari altresì per addestrare lettori
competenti.
Tabula rasa, allora, dicevamo, poiché editori e critici non fanno filtro. “E se
ci pensassero i poeti stessi?” – filtra l’ultima bava di ottimismo da qualche
irriducibile novecentista caduto nel secolo sbagliato. Prendere atto: quei pochi
poeti che possono permetterselo, appunto perché arrivano fin qui con il
prestigio dovuto alle ultime onde del millennio scorso, di essere padri o madri
letterariamente non ci pensano nemmeno (e forse anche biologicamente arrancano:
intervenga il sociologo a indagare). Loro esercitano con compiacimento il potere
di scegliere, e scelgono con contezza di promuovere i mediocri, per meglio
evidenziare la loro statura letteraria e il loro potere editoriale. Fosse per
loro, applicherebbero la damnatio memoriae sistematicamente su chiunque
rivendicasse diritto di eredità (mica soldi, neh, si parla sempre di poesia) per
più antico lignaggio o per altra, irregolare, intrusione nella casata. Niente
bastardi, insomma. (Vallo a spiegare ai tali che la damnatio memoriae, appena
lasceranno la poltrona, toccherà a loro).
Ah, il malseme di Dante. Sommo poeta, pensaci tu.
*
Ma che significherebbe, oggi, tornare a volgere lo sguardo a Dante? Puro atto di
masochismo, verrebbe da sentenziare, poiché Dante è insuperabile per ovvie
ragioni: egli è la massima espressione di un mondo che non c’è più, capace di
portare a sintesi un’intera cultura. Dopo di lui, con impressionante rapidità
(già Petrarca è moderno) la sintesi si disgrega e passo dopo passo lirica,
economia, politica, scienza, medicina, filosofia e via elencando vanno
specificandosi iuxta propria principia, lungo una serie di rivoluzioni che hanno
portato dritti all’irreversibile agonia del tedio contemporaneo. Copernico,
Darwin e Freud sono i picconatori dell’antropologia occidentale, a cui
aggiungere volendo gli altri filosofi del sospetto per apparecchiarci alle
catastrofi novecentesche. Come non bastasse, appena riemersi dalle apocalissi
storiche e ideologiche, ecco l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale
adesso a consegnarci a una condizione che taluni già definiscono postumana.
Come guardare ancora a Dante, su quali fronti la sua grandezza ci interpella?
Tre questioni su tutte porrei come cartelli sulla strada di chi vorrebbe, da
poeta, tentare almeno di uscire dal labirinto della buona, patinata, mediocre
letteratura che inebetisce, e imbruttisce, l’epoca: l’ampiezza di registro
espressivo, il poema e l’esilio.
Qui, soffermiamoci sulla prima.
*
Varrà la pena ricordare ai versificatori meno avvezzi alla letteratura italiana
che Dante Alighieri non è il modello vincente della nostra tradizione. Ben
presto abbiamo tradito sì gran padre (anche se in tal caso il crimine non è solo
il parricidio letterario di generazioni successive, considerato il trattamento
riservatogli dai fratelli concittadini: del resto i luoghi comuni
dell’intellettuale che non sarà mai profeta in patria e del poeta destinato solo
a gloria postuma in qualche parte hanno radice). Ha vinto, semmai, Petrarca.
Come spiegano quelli bravi, Petrarca ha azzerato Dante (già frastornato
dall’improvviso revival del latino) e, con il beneplacito di quel curiale
grammatico del Bembo, la lirica italiana ha trovato nell’autore del Rerum
vulgarium fragmenta (volgarmente, il Canzoniere) la matrice del proprio
vocabolario. La ragione è elementare: costruire un dizionario della lingua
italiana sul repertorio vastissimo della Divina commedia (capace di aprirsi e
abbracciare tutti e tre gli stili: l’umile, il medio e il sublime) era
impraticabile. La soluzione ottimale, invece, era già pronta all’uso: la lingua
vaga, elegante, sufficientemente generica e allusiva, ma soprattutto
circoscritta, del Canzoniere. Perfetta per imbalsamare l’italiano (scritto) per
secoli, fino almeno a Leopardi, a sua volta capace del prodigio, giunti ormai al
secolo decimonono, di rispolverarlo e farlo suonare persino sorgivo. Roba da
necrofili prestidigitatori. Che poi, certo, in quello stesso secolo Dante torni
prepotentemente in auge in virtù degli umori romantici e risorgimentali è vero,
ma abbiamo dovuto re-inoculare la lingua sperimentale di Dante recuperandola
dalla finestra, via Eliot (senza dimenticare, tuttavia, l’edizione critica
delle Rime dovuta al giovane e talentuoso Contini: ma qui si è nutrita ancora
primariamente la vena lirica, attraverso lo stilnovismo mutante assorbito da
Montale. Del resto la Commedia in quei decenni veniva tagliuzzata da Croce
intento a separare l’oro della poesia dall’ottone della struttura, manco fosse
lui il miglior fabbro del parlar materno).
Dante paradisiaco secondo Moebius
Fatto sta che i conti con Dante si sono riaperti in fondo soltanto di recente.
Ma a giudicare dalla medietà patinata (aurea mediocritas?) e dal lirismo di cui
è ancora impregnato quanto meno il sottofondo comune del diffuso poetare nel
Belpaese, rinomata terra popolata di poeti a ogni latitudine, l’apertura alare
del Sommo all’interno della lingua materna ci relega al ruolo di pulcini in
ombra.
Oh, certo, di sperimentatori e di avanguardie si fa ricco il Novecento, ma
l’impressione è che vengano alla fine sempre spinti ai margini del canone,
mentre risultano vincenti ancora gli autori riconoscibili e brandizzabili, dallo
stile complessivamente monocorde, costante dall’inizio alla fine, che procede al
più per piccoli, equilibrati adattamenti. Facile, troppo facile motivare questa
tendenza, qualora fosse verificata (o storicamente, anche per pigrizia,
avallata): l’identità di un poeta si costruisce attorno all’autenticità di una
voce e per mezzo dell’abbandono di ogni orpello retorico, di ogni posa, di ogni
“canto” oggi insostenibile. Siamo nell’epoca del tono basso, dell’assenza di
pubblico, del poeta che si rivolge a un tu (in cui spesso si rispecchia sé
stesso). Siamo nell’epoca del relativismo, del pensiero debole, del male di
vivere. E siamo perciò rassegnati ai mugugni, pronti semmai a puntellare le
nostre rovine. Di costruire altre cattedrali non se ne parla nemmeno.
Diverrebbero in breve tempo chiese sconsacrate da riempire di libri insulsi, non
più in grado di consolare la carne triste dell’umanità inebetita sui display.
Siamo nell’infinita fine occidentale. Se mai passasse di qui un nuovo poeta
visionario, lo spediremmo subito all’esilio, spernacchiandolo a dovere. Dante,
più che insuperabile, è irraggiungibile. Lo si innalza, per imbalsamarne il
busto e rimuoverlo nella sua aura di perfezione. Italia, terra non solo di
poeti, ma anche di santi, ricordi che cosa scriveva Joseph Roth nella Cripta dei
cappuccini?
> “La Chiesa romana […] in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare,
> di conservare una forma. Anzi, si può dire, di dispensare una forma. In quanto
> racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento
> tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi
> figli tutt’intorno, fuori di questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e
> spazioso vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare
> l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce i peccati, già li perdona.
> Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto
> eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo
> ammette implicitamente l’imperfezione umana. Anzi, ammette l’inclinazione al
> peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al
> peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa
> romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla
> remissione. […]”.
Ridotta a parrocchia periferica zeppa di epigoni, la poesia italiana innalza
Dante e concede plenaria indulgenza a sé stessa. Così, tra nani svetta chi ha la
sigla editoriale più spessa, e per ciò stesso si potrà legittimamente
autoinserire nelle antologie, mentre rigira per l’ennesima volta la frittata dei
propri versicoli strascicati.
Ahi, serva Italia.
Andrea Temporelli
*In copertina: William Blake, The Circle of Corrupt Officials: The Devils
Tormenting Ciampolo, 1825 ca.
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L'articolo Dante, l’insuperabile. Ecco perché la poesia italiana è una
parrocchia periferica zeppa di epigoni proviene da Pangea.
Sembra che l’esistenza dello scrittore sia legata a un mercimonio col
demone. Che gli scrittori siano indemoniati, pare cosa evidente: invischiati col
male, cercano di adescare le trombe del mondo basso. Farlo in poesia è più
semplice: la brevità del verso rende fuggevole l’incontro. Esclusi Omero,
Virgilio, Dante e Baudelaire, l’inferno è una sala d’attesa per epigoni. Quanto
al romanzo, il vertice luciferino lo ha toccato Thomas Mann: misurarsi con la
perfezione significa saggiare tutte le spigolature del caso. Basta leggere
il Doctor Faustus per accorgersi di quanto uno scrittore, prima ancora di
forgiare, deve essere forgiato dalla materia del libro.
Divagazioni a parte, rendere letterario il male è sempre stato il cesello
preferito di molti artisti: si disinnesca un morbo che scalpita a suon di
metafore e aggettivi. Wallace Stevens, quel presocratico della poesia che
talvolta s’improvvisava Eraclito, scriveva che “la realtà è un cliché da cui
fuggiamo con la metafora”.
Per lo più, la letteratura è una forma di adattamento al male subito, in attesa
che il miracolo dell’opera si compia.
Per una sorta di scherzo del diavolo, Il vescovo e il ciarlatano di Manganelli,
impressionante per intelligenza, uscito per Sellerio poco più di un anno fa, è
passato inosservato.
Letteratura e psicoanalisi, nonostante nobili tentativi di risanamento,
continuano a pungolarsi in un senso e nell’altro, con esiti più terapeutici che
letterari. Eppure, non capita spesso di trovare uno scrittore, perlopiù
umbratile e refrattario alla luce, che si reca spontaneamente da uno
psicoanalista, come a seguire l’ultimo dettato del labirinto.
Ma con Manganelli andò esattamente così: consigliato da Cristina Campo, che era
rimasta colpita da Bernhard perché iniziava le sue sedute chiedendo “a che punto
è della sua tradizione?”, Manganelli decise infine di recarsi da un analista. Ma
siccome era Manganelli, si recò, se non dal migliore, almeno dal più primitivo
degli psicoanalisti: Ernst Bernhard.
Nell’intervista che apre il libro, un incendio di arguzia, Manganelli spiega
sinteticamente cosa significa avere a che fare con un uomo come Bernhard.
Incalzato dall’intervistatrice, argomenta che «la letteratura trattata come
centrale diventa molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La
letteratura è centrale solo quando si capisce che è periferica». Poi, senza
soluzione di continuità, passa in rassegna la figura di Bernhard, l’uomo che gli
ha insegnato a mentire. Dice che Bernhard amava le cartografie, che iniziava le
sedute con la lettura delle linee delle mani e con lo studio del quadro
astrologico del paziente. Tutto quello che il mondo offriva era una chiave di
lettura della realtà, priva di gerarchia: «una completa psicologizzazione del
materiale che maneggiava». Non ultimo: la lettura e consultazione continua
dell’I Ching. Non è un caso che fin dai primi incontri Manganelli si rende conto
di «avere a che fare con una impostazione topograficamente anomala dello spazio
psicologico. Improvvisamente ci si accorgeva che non si viveva in due dimensioni
ma si viveva in una quantità di dimensioni impressionanti».
La soluzione di questa terapia, come non tardò a scoprire, era innovativa, e
spalancava scenari mentali – e quindi letterari – fino ad allora impensati. Se
prima Manganelli credeva di dover affrontare un problema per risolverlo, con
Bernhard si accorse che la mossa più astuta era «portare la convivenza mentale
in luoghi imprevedibili e imprevisti». Iniziò così un colloquio in cui era in
gioco la salvezza di tutto ciò per cui esiste un individuo: il suo retaggio
simbolico, il precipitato delle sue credenze. Infine – ed è forse la cosa più
interessante, considerando la cifra stilistica di Manganelli – il suo
linguaggio. Con Bernhard l’esistenza diventava una carta geografica in cui
l’inesattezza era il criterio di interpretazione. La malattia fungeva solamente
come coordinata della nostra salute:
> «il pericolo non è di essere malati, perché credo che, in un certo senso,
> esistere sia essere malati, ma di avere una malattia non pertinente,
> incongrua. Il problema è di sostituirla con una malattia pertinente. La
> malattia giusta è ciò che noi possiamo chiamare qualche volta in un momento di
> distrazione anche “salute”».
Quando gli chiedono cosa sia rimasto di quell’incontro con Bernhard, Manganelli
non ha dubbi: il gusto della casualità. E poi: «la capacità di sostituire
sistematicamente la fede con la superstizione». Per lo scrittore la letteratura
è una sorta di superstizione, perché sa rinunciare alla verità quando serve,
«cosa che la fede non sa mai fare». Da questo punto di vista, la letteratura è
un patto con la menzogna. Come scrittore, Manganelli, che aveva già
pubblicato La letteratura come menzogna, sceglie di essere estraneo alla verità:
«la verità non ci riguarda, questa è una mia personale convinzione. La
superstizione, invece, è fatta a nostra misura».
Il vescovo e il ciarlatano è proprio questo: una mescolanza tra sacro e profano,
tra psicoanalista e scrittore, una spudorata inclinazione alla menzogna che
trasforma la verità in racconto, perché «il mentitore è il proprietario di tutte
le favole possibili» e la Storia non nacque «dall’ira di Dio, ma dalla menzogna
di Caino».
Da qui, da questo incontro pericoloso nasce quell’incrocio di possibilità che è
la letteratura. Nonostante il libro raccolga materiali eterogenei – articoli,
recensioni, interviste – il punto focale è “Jung e la letteratura”. Siamo nel
centro di convergenza di tutti i mascheramenti possibili: nel 1973 Manganelli,
invitato come professore universitario ad un convegno su psicologia e
letteratura, lancia un guanto di sfida ai relatori e persino a sé stesso,
sostenendo che la cultura distrugge la letteratura, e che la psicologia,
esplorata nelle sue ramificazioni, è l’ultima ancora di salvezza per chi vuole
ancora fondare la propria opera sul mercimonio col demone.
> «Se io trovo nella letteratura qualche cosa di vitale, di inquieto, di
> violento, appunto di eversivo perché ha a che fare con delle forze inconsce
> estremamente forti, la cultura cerca di spiegarmi che tutto questo non è
> assolutamente vero».
Questa requisitoria, lunga appena ventisei pagine, è il vero capolavoro del
Manganelli libellista: tutti i generi danzano una sarabanda infernale, tutte le
parole indossano una maschera. Potrebbe essere la trascrizione di una semplice
conferenza o l’appunto preliminare, ma anche una versione teatrale della
reazione degli ascoltatori o una confessione schizofrenica di quello che si
vorrebbe sempre dire in pubblico. Ma fondamentalmente è questo: l’atto d’accusa
della letteratura verso chi vorrebbe addomesticarla.
Andrea Muratore
L'articolo La malattia giusta. Ovvero: ecco perché leggere continuamente
Manganelli fa bene proviene da Pangea.
Nel 1929, introducendo “Trentatré artisti futuristi”, Filippo Tommaso Marinetti
esulta: “Il futurismo ha vinto su tutta la linea, nelle arti plastiche, nella
poesia, nella musica, nella architettura, nella moda femminile che esprimono con
uguale intensità il ritmo glorioso dei motori volanti della Coppa Schneider”.
Per la cronaca, la Coppa Schneider, gara di idrovolanti ideata da Jacques
Schneider – riccoide, francese, pilota di mongolfiere, amava tutto ciò che con
audacia spiccava il volo per conquistare i cieli –, quell’anno si era svolta in
Inghilterra: avevano vinto – come quasi sempre – gli inglesi; l’Italia si piazzò
seconda, merito dell’asso vicentino Tommaso Dal Molin – che sarebbe morto l’anno
dopo, sul Garda, in volo – a cavallo di un Macchi M.52.
Ad ogni modo, Marinetti aveva ragione. Il Futurismo si dimostrava la più antica,
longeva e attraente delle avanguardie, la più pervicace, in grado di sovvertire
ogni ambito dell’umano essere. Il futurismo nasce come movimento artistico per
diventare sistema ‘civico’, ‘ragione di vita’. Naturalmente, Marinetti sosteneva
che “In politica il Futurismo” era “precursore del fascismo”. L’anno dopo,
Fillia – tra i più talentuosi pittori e poeti futuristi, o meglio pittori-poeti,
nel senso della combustione alchemica delle arti – esplicitò l’assunto
marinettiano in un testo che raccontava i Rapporti tra Futurismo e Fascismo.
Questo l’attacco: “I futuristi, fin dall’avvento del fascismo al potere, hanno
rivelato la necessità di caratterizzare il cambiamento di regime con una
rivoluzione artistica – legare cioè il grande avvenimento sociale con una realtà
spirituale estetica”. I futuristi, scrive Fillia, sono “i soli a tendere verso
la realizzazione di un’autentica e originale ‘Arte Fascista’”, dacché “il
fascismo” si è imposto sulle “forze in decadenza” dopo essersi “nutrito di
principi futuristi”. In sostanza: l’estetica è la matrice della politica. (Per
uno sguardo complessivo sui manifesti futuristi, si guardi qui). Nel testo,
Fillia cita le parole del “Ministro Russo” Anatolij Lunačarskij: “La scenografia
russa è stata influenzata dal futurismo italiano”. Quell’anno, si era sparato al
cuore Vladimir Majakovskij, il grande poeta sovietico, il cantore della
Rivoluzione, nato futurista.
L’anno dopo – nel marzo del 1931 – lo stesso Fillia firma un affascinante
manifesto sulla Spiritualità futurista in cui afferma che “L’Egitto e l’Alto
Medioevo sono per noi gli esempi vivi della Storia: troviamo maggiore sanità nel
respiro di Menfi e di Bisanzio che nel respiro di Atene e di Firenze”. Il
Futurismo mira al futuro – quanto si disse allora ricalcatelo oggi: “La Macchina
genera una nuova spiritualità. È assurdo crederla priva di misteri perché ideata
dall’uomo” – rivoluzionando i canoni della “tradizione”. Nello stesso anno,
Fortunato Depero scrive un testo su Futurismo e arte pubblicitaria.
Insomma, nei Trenta il Futurismo, pur in cravatta, era più pimpante che mai.
Insieme ai “Dieci” – tra cui spiccava il genialissimo Massimo Bontempelli –
Marinetti aveva pubblicato il “Grande romanzo d’avventure” Lo zar non è morto;
nel formidabile Manifesto della cucina futurista intimava “L’abolizione della
pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”. In questo contesto, a
Gorizia, Gian Giacomo Menon aderisce al Futurismo. È poco più che un ragazzo,
studia giurisprudenza a Bologna – alla laurea, ottenuta nel ’33, ne fa seguire
un’altra, in filosofia, conseguita per “ripugnanza per il mondo giuridico” –, fa
parte della sezione giuliana futurista, fondata da Sofronio Pocarini, fratello
di Ervino Pocar, il grande traduttore di Hermann Hesse, Thomas Mann, Franz
Kafka, tra i tanti. In particolare, Menon stringe un sodalizio con l’aeropittore
Tullio Crali: hanno la stessa età – sono nati nel 1910 –, moriranno, entrambi,
allo scoccare del nuovo millennio, nel 2000. Insieme, creano Delitto azzurro,
pièce di stirpe futurista, andata in scena al Teatro Petrarca di Gorizia: testo
di Menon, scenografia di Crali, di cui però “non sono state rintracciate prove
documentali” (così Cesare Sartori, infaticabile curatore dell’opera disparata e
dispersa di Menon). Crali ricorda così Menon in blusa marinettiana:
> “scrittore, poeta… piccolo… indemoniato… si firmava ‘Dinamite’… Per lui il
> futurismo era forse una liberazione, una reazione agli studi liceali”.
La nota non è inesatta. Nel maggio del 1930, per le Edizioni di ‘Pagine blu’,
Menon esordisce alla poesia con il nottivago: ad avvolgere la copertina – di
marziale eleganza –, la fascetta griffata da Marinetti,
> “Vengo da un giro: Alessandria d’Egitto Cairo Parigi Siracusa e trovo
> finalmente il tempo di leggere con attenzione i versi di Gian Giacomo
> Menon. Ingegno indiscutibile. Sensibilità futurista. Immagini audaci”.
In realtà, il patriarca futurista non aveva voluto firmare la prefazione al
libro del giovanotto. “Non faccio prefazioni tiepide né le solite due parole
dell’uomo illustre che non servono a nulla. Spero che Gian Giacomo Menon
giungerà presto a un’opera potente sintetica e tipica che io prefazionerò allora
con entusiasmo”. Nelle sue memorie, Crali sottolinea che Menon “quando Marinetti
non gli fece la presentazione alle sue poesie… si spense come poeta”. Al
contrario: esplose. Fu, per così dire, esaudito e nel modo più pieno: ebbe in
dono la possibilità di scoprire la propria voce, scorporandola dall’epoca.
Ma torniamo al nottivago. Il libro, dedicato “A Mary/ che ha i capelli troppo
bruni/ e l’anima troppo bionda…”, nato sotto l’astro di Eraclito (così uno dei
frammenti: “Ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli
iniziati”), con estro da filastrocca crepuscolare (a tratti pare un Corazzini
corazzato, a tratti va a Bontempelli poeta), esce in poche copie, a spese
dell’autore. Il libro diventerà “leggenda” perché Menon “quasi a voler
sconfessare quella prima ingenua e giovanile prova, rastrellò, facendole
sparire, tutte le copie in circolazione”, pur regalandone, negli anni, qualcuna,
sopravvissuta al massacro, “a pochi eletti o elette” (così Sartori). Ora il
nottivago ritorna tra noi in eccezionale riproduzione anastatica per
Bibliohaus, con un testo di Sartori che ricostruisce la biografia di Menon e uno
studio di Rienzo Pellegrini su Menon futurista. È un tassello importante per la
comprensione di uno dei più ineffabili e remoti poeti del Novecento italiano,
che si aggiunge alle raccolte più importanti (cito, tra tutte, Geologia di
silenzi, edita da Anterem nel 2018 e Qui per me ora blu stampata da KappaVu nel
2013).
Il Futurismo costituisce il ‘campo di addestramento’ di Menon, è il modo in cui
impara a sgranchirsi le ossa liriche e ad allargare l’orizzonte poetico. Il
Futurismo, in fondo, infonde in Menon l’originaria energia della giovinezza.
“Convinto antimilitarista e antifascista” (Sartori), Menon si dà
all’insegnamento – storia & filosofia, allo ‘Stellini’ di Udine –, si sposa –
con l’ex allieva Silvia Sanvilli –, vive da viveur, collezionando amori
passeggeri, coltivando una ruvida diffidenza verso il regno dell’ufficialità
culturale italiana. Scrisse tantissimo, lasciando ai posteri l’implacabile mole
dei suoi testi – oltre centomila poesie, oltre un milione di versi. Nel 1966 “La
Fiera Letteraria” gli pubblicò un mannello di poesie; la nota autobiografica
tradisce una scelta di metodo, una ‘via’, più che un risentimento:
> “Nato in Austria, non lontano dal fiume che segnava il confine del
> Sessantasei, presto redento dai portatori delle carte rosse (mia nonna fece in
> tempo a confermare la vecchia delle uova), profugo in Stiria nella grande
> guerra, ho studiato a Gorizia e a Bologna. Da molti anni vivo e insegno a
> Udine. Dopo un breve esperimento giovanile, non ho pubblicato nulla di quanto
> sono venuto, foglio dopo foglio, scrivendo per una decisione di assenza
> consumata in un’amara invenzione che l’improvvisa novità dei tempi pare voglia
> sostituire”.
Era dionisiaco, leggeva Michelstaedter; nel 1998 Carlo Sgorlon cura, per
Campanotto, una sua raccolta, I binari del giallo: in questo caso, la nota
dell’autore porta lo stigma di un’aura di avverate cose: “Nella sua infanzia ha
respirato aria contadina e cristiana”. Spesso le poesie di Menon hanno una
avvenenza aurorale:
> averti come i lunghi odori della terra
> nell’alba degli aratri
> quando l’allodola scrive la sua prima parola
> come il fresco sapore del pane
> quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
> averti intatta nell’infanzia
> quando il campanile divide
> il giorno della locusta dal giorno del grillo
> a tessere i soli e le stelle
Nell’agosto del 1968, tornando, in una lettera a un’amica, al primo, avventato,
avventuroso libro (“piccolo libro” lo chiama), Menon riferisce un’esistenza
votata alla poesia, di serrate letture. La precocità da ‘eletto’ (“ti dicevo del
mio principio a undici anni”), la scelta del silenzio, un noviziato sostenuto da
esempi titanici (“pensavo, senza confronti irriverenti, ai diciassette anni
dell’assenza poetica di Valéry”) e poi le letture: Baudelaire (“trovato presto e
globale”), Rimbaud (“bevuto… sino all’ultima goccia”), Mallarmé, Sergej Esenin,
“definitivo”. “E tu alla fine, sigillo e scudo. Ogni riga, ogni insistere di
sillaba una situazione di te. Sempre e soltanto”. Anche le lettere di Menon (per
lo più disperse, nascoste, passate per diversi roghi; qui citiamo dalle
rarissime raccolte in: Gian Giacomo Menon, Poesie inedite 1968-1969, Aragno,
2013), per ritmo e per ispirazione, dicono di una vita kafkiana, cioè ancorata,
fin nei più puri approdi dell’oscuro, alla scrittura. Non ho detto letteratura –
che è già una funzione dell’evo presente, è già un soggiacere all’intenzione,
alla pulsione di massa, è già cosa da antologia scolastica, non più sangue ma
esangue – ma scrittura. Scrittura-scrittura. Scrittura.
In fondo, nonostante il ripudio – pratica comune al poeta, che nel rifiuto di sé
trova sempre la pratica dell’altrove –, Menon è rimasto un nottivago. Vaga nella
notte della poesia – rigorosamente senza lanterna, perché la luce, a volte,
impedisce alle cose di rivelarsi.
***
Da “il nottivago”
Buio
Sluccioli con veemenza,
piccola macchina
di duralluminio,
il palpito dei tuoi occhi,
che non comprendono
il meandro
della mia anima.
Come io non lo comprendo.
Triste destino:
non essere ciechi
e non vedere.
*
Sull’arcobaleno
Mi arrampicai
su per il rosso
di un arcobaleno
con l’agilità
di un gatto.
Da lassù,
con le gambe
penzolanti
nel vuoto
contemplai
il mondo.
Come è bello
il mondo
visto
dall’alto
di un arcobaleno!
*
In lontananza
Lontano lontano
sull’orizzonte
un vulcano,
innamorato
come il mio cuore,
fuma
tenacemente
solitariamente.
Le volute opaline
del fumo
si dipanano
sul lividore del cielo:
bambagia.
*
Nebbia
Hanno abbassato
un velario grigiastro
su di un frammento
della scena del mondo.
*
Il sole
Un bottone
di ottone
lucente.
Gian Giacomo Menon
*In copertina: Fortunato Depero, Grammofono, 1923
L'articolo “Scrittore, poeta, indemoniato”. Menon il Futurista, ovvero: intorno
a un libro leggendario proviene da Pangea.
Offro la mia anima martoriata alla poltrona ergonomica, alla scrivania di
laminato, alla luce gialla, al gabbiotto. La offro all’asfalto gangrenoso; al
moto ondoso dei semirimorchi, alla luna sul campanile, il tuo volto
trasfigurato. Offro al timbratore, divinità del tempo – non all’azienda, non ai
colleghi – ogni minuto di questa litania che è la mia vita.
*
Il contratto scade il trenta novembre, e ti penso. Non ho più voglia di dolore,
solo voglio il caldo buono di un qualche oblio nuovo e diverso, una scapola, un
neo, depositati nel mio letto e poi nei pensieri della giornata. Possono
accomodarsi le immagini tra queste mura di plastica e metallo, e ristorare le
sette, le otto, le nove poi le dieci.
*
Io mi ricordo! E mi sembrava un gioco così semplice la sera, nell’angolo soffuso
io con la camicia appena aperta tu ancora col cappotto freddo di strada e
profumo. Dio doveva pur star guardando, dal basso della mia anima, doveva pur
aver visto quanto ero felice: non andava bene, dovevo soffrire, dovevo vomitarmi
ancora e ancora, fino all’apice. Quando sarò umiliato tutti finalmente mi
potranno vedere.
*
Io non sono Cristo e dalla mia umiliazione nessuno trarrà alcuna salvezza. Il
risultato pratico e concreto è un lievissimo aumento percentuale dell’efficienza
nella registrazione dei semirimorchi, lavoro al quale sono tornato con malcelato
autocompiacimento. Alzo la sbarra all’ingresso del piazzale, l’autista scende,
mi dà targa e documento, io batto tutto al computer, poi è libero di
andare. Quando cala la notte la larga vallata dei container sembra un villaggio
che dorme, un gioco di bambino in cui le case di ferro sono targate MSC, Maersk,
Lilliu, Sarda Trasporti. Immagino tra quelle case la mia. Il mare è a poche
centinaia di metri, ma non ci penso mai.
*
Valentin scarica e gli chiedo una sigaretta. Vedo la torcia olimpica tatuata sul
braccio e mi metto a chiedergli se era un atleta, che atleta, ma mi risponde in
maniera dolce e sgrammaticata; annuisco senza capire. Gli sciorino le mie dieci
parole di russo chiedendomi, come in tutti questi casi, se gli faccia piacere o
meno – non importa, ne ho voglia. La sua faccia ha la forma di una pera che sta
marcendo e diventando grigia, mangiata dalle vespe.
Lui è Eugenio Sournia
*
Vorrei tenermi la sigaretta che mi ha dato Valentin per fumarmela da solo; però
decide di accenderne una anche lui e per qualche minuto si crea questa breve e
strana intimità virile, in cui entrambi tacciamo e guardiamo la cancellata di
metallo, la città che dorme al di là di quella, ormai vuota di promesse, sempre
la stessa.
*
Alla fine Valentin riparte e mi metto di nuovo a registrare i trasferimenti
della giornata. XA245RS, AE33811, XD490EE. È un lavoro intelligente e bello: non
penso mai, non penso mai, tutto il pensiero è tuo tuo e solo tuo. Mi dico un po’
di rosario e ricomincio la decina ogni volta che passa un camion e lo devo
registrare, ma ogni Ave Maria è per te, Virginia, per la tua conversione, perché
coincida col tuo ritorno, finalmente redenta, finalmente pronta, finalmente mia
davvero.
*
Poi appoggio il telefono alla base del computer e metto il timer a cinque
secondi. La luce è pessima, le pareti annerite da una melma senza nome, un
cancro in potenza. In atto, la mia faccia più stralunata possibile, mi scatto
una foto con l’unico scopo di riguardarla e riderne quando finalmente vivaddio
sarò felice. Sarà un post su Instagram da far uscire il giorno dell’uscita di un
disco, o di un libro, con una frase del tipo “il dolore è una porta”. Sono un
uomo molto stupido.
*
Insomma Dio mi guarda dal cielo fondo e nero sopra l’Intercontainer,
dall’asfalto gangrenoso, dalla scrivania di laminato, dalla luce gialla e sporca
del gabbiotto. Io se non bestemmio è solo per ingraziarmelo, una sorta di
pensiero magico che so bene non servire a niente, ma che mi è
irrinunciabile: perché comunque spero, animalmente spero, che ci sia un’assurda
imponderabile giustizia che cali da tutta questa bellezza a strapiombo.
*
Ah, anche l’anima mia fu bella, ma la deturpai col peccato: mi resta la
tenerezza. Da una macchina di tedeschi che mi passa davanti esce Bette Davis
Eyes.
Eugenio Sournia
*Eugenio Sournia vive, scrive, lavora a Livorno. È stato il leader dei Siberia,
con cui ha pubblicato tre dischi. Nel 2023 ha pubblicato l’EP “Eugenio Sournia”,
con cui ha vinto il Premio Ciampi. Lo ascoltate, in parte, qui.
In copertina: Gabriele Basilico, Dunkerque, 1984; copy Gabriele Basilico/Studio
Basilico Milano
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Nel fermento delle avanguardie primonovecentesche trova voce la stagione più
ispirata di Libero Altomare, al secolo Remo Mannoni, la cui poetica, deficitaria
ancora oggi di un’analisi sistematica, è testimonianza preziosa della policromia
di mutamenti che ha dato il via alla nascita della poesia italiana moderna. In
mancanza di un’opera esaustiva dedicata al poeta, si tenta di tracciarne in
questa sede un essenziale profilo poetico e biobibliografico, attraverso notizie
ritrovate su giornali coevi, informazioni ricavate da monografie di terzi ed il
recupero della sua stessa prosa Incontri con Marinetti e il Futurismo (Corso
Editore, Roma, 1954).
Nato a Roma nel 1883, Remo Mannoni è sin da giovanissimo parte attiva della vita
culturale del Paese, collaborando dagli inizi del Novecento con diverse riviste;
del 1903 sono, infatti, i componimenti: La palude e Cuore strano, pubblicate nel
“Marforio”; X, in “Rivista d’amore”; La città delle acque, ne “Il Paggio
d’amore”. È un anno cruciale per la poesia italiana, in cui si intersecano il
simbolismo di Pascoli e d’Annunzio, che pubblicano rispettivamente Canti di
Castelvecchio ed Alcyone, con i toni dimessi e le ambientazioni marginali di
Govoni, che nello stesso anno dà alla luce Armonia in grigio et in silenzio. Si
colloca proprio in questo diaframma la prima fase della poetica di Mannoni, che,
se da una parte è ancora strettamente legata al sonetto classico, spesso in
endecasillabi, dall’altra si tinge di riverberi crepuscolari che superano la
fase dannunziana:
> “Il mio cuore è un’antica pergamena
> dimenticata, logora, ingiallita,
> rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
> come la pelle d’una vecchia jena”.
O ancora:
> “È un triste luogo; s’ergono nell’aria
> pochi ruderi arsicci, screpolati,
> come fari ciclopici atterrati
> in cui si annida sol la procellaria”.
Non può che essere altrimenti considerando luoghi e persone frequentate dal
giovane Mannoni, che, nel “Caffè Sartoris” di Roma, ha i primi scambi culturali
con – tra gli altri – Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, Tito Marrone e
Govoni stesso. Le influenze di questo periodo confluiscono ne Il Monte: versi,
libretto di quattordici pagine stampato a Roma nel 1904, e nella più strutturata
raccolta Rime dell’Urbe e del Suburbio, stampate sempre a Roma dalle Officine
Tipografiche Italiane nel 1907, in cui si fanno già strada gli elementi di
velocità, dinamismo e progresso che caratterizzeranno il suo periodo futurista:
> “e la furia dei cocchi signorili,
> che invan frusta la Noia ed il Tempo stringe,
> gareggia con i carri, cui sospinge
> fòlgore imprigionata in fèrrei fili”.
In seguito, fonda a Roma la rivista “Primo vere” nel 1908, che avendo però
scarso successo, si interrompe al primo numero. L’anno seguente
pubblica Procellarie per la Casa Editrice della gioventù di C. Fossataro e
aderisce ufficialmente al Futurismo. Si riportano, a proposito, le sue stesse
parole:
> “Io che da qualche tempo ero in rapporti epistolari con Marinetti (per avergli
> fatto omaggio di un mio quaderno di liriche stampato a Napoli dall’editore
> Fossataro) e ricevevo in dono Poesia, ebbi naturalmente anche il Manifesto
> incendiario; così appresi che Corrado Govoni, da Ferrara e Aldo Palazzeschi da
> Firenze – due nomi a me ben noti – si erano aggregati all’originario nucleo
> milanese, sebbene entrambi godessero fama di poeti crepuscolari. In breve, il
> mio naturale temperamento e l’approfondito esame delle mie intime esigenze
> artistiche e politiche dissiparono i dubbi superstiti: la giovinezza (avevo
> venticinque anni) l’amore del nuovo e la indipendenza da ogni vincolo
> accademico fecero il resto: inviai perciò anch’io la adesione al nuovissimo
> movimento che si riprometteva di svecchiare, rivoluzionandola, tutta l’Arte
> contemporanea; e alla lettera aggiunsi la mia prima lirica futurista,
> intitolata “Apocalisse”, che piacque tanto a Marinetti sicché egli, oltre a
> pubblicarla nella sua Rassegna, alcuni anni dopo la tradusse personalmente in
> francese per l’antologia “Les Cinq Continents” di Ivan Goll (Paris, 1920).”
Sono anni di intensi cambiamenti per la poesia di Remo Mannoni, ribattezzato da
Marinetti “Libero Altomare”, che abbandona il sonetto in favore del verso
libero, acquisendo nuovo slancio. I suoi versi, ora snelli, rapidi, densi di
movimenti roboanti, si contornano di note intimistiche ed immagini surreali,
centrifugandosi in un’estetica certamente originale.
Remo Mannoni alias Libero Altomare nella truppa dei Futuristi
Non tardano ad arrivare i consensi a livello nazionale ed internazionale;
Marinetti, in occasione della prima serata futurista di Trieste scrive: “Ebbi
quella sera la gioia di far applaudire fragorosamente da 3.000 persone la vostra
bellissima poesia Desiderio”; Ricciotto Canudo nel numero di agosto 1909 del
“Mercure de France”, scrive di lui: “Le lyrisme de M. Remo Mannoni, qui doit
être très jeune, est au ontraire tout éclatant, s’élance dans les Procellarie”.
Nel gruppo futurista Altomare reincontra, tra l’altro, una vecchia conoscenza:
Umberto Boccioni, pittore che avrebbe dovuto rivoluzionare le arti plastiche,
con cui aveva condiviso una pensione in Via Muzio Clementi, nel quartiere Prati
di Roma dal 1904 al 1905. L’intesa col resto del gruppo e i bissati applausi
alle declamazioni delle sue liriche sembrano avviare il poeta sulla strada del
successo, non fosse che, all’apice della sua carriera poetica, questioni
lavorative e familiari si frappongono tra Libero Altomare e la sua produzione:
la presa di servizio come applicato in prova alla stazione di Civitavecchia,
alcuni malanni e la successiva assunzione come funzionario statale, allontanano
via via il poeta dal centro del movimento. Nondimeno, la nascita delle parole in
libertà stride con le intenzioni di Mannoni, che confessa:
> “Dalla lettura di tale linguaggio monosillabico e onomatopeico trassi subito
> la convinzione della mia incapacità di adeguarmi ad esso, ma non vi attinsi
> quella percezione pura che, l’autore (seguace dell’intuizionismo bergsoniano)
> se ne riprometteva. Mi sembrava troppo facile, ormai, diventare scrittore
> futurista. Né le mie previsioni errarono”.
Nel 1913 perde il figlio, di soli otto mesi, e cinque anni dopo sua moglie. Nel
mezzo, qualche pubblicazione su “Lacerba”. L’indole poetica è tuttavia
irrimediabilmente compromessa e Mannoni scriverà di quei tristi avvenimenti:
“Mentre così quell’intima tragedia imprimeva stigmate indelebili nella mia
subcoscienza tutti i conati di evasione nei campi del lavoro e dell’attività
artistica, da me escogitati, fallirono”.
Subentrano inoltre divergenze politiche col futurismo alle soglie della Prima
guerra, che ne determinano il definitivo distacco. Nonostante ciò, non avverrà
mai una rottura totale dei rapporti amichevoli con Marinetti, il quale
continuerà a tenere informato Altomare sulle pubblicazioni futuriste, talvolta
inviategli anche con la beffarda dedica “A Remo Mannoni – gridando – Evviva il
futurismo!”
Remo Mannoni (1883-1966)
Il poeta ritorna sulle scene, dopo anni di silenzio, nel 1931 con Fermento,
sotto il nome di Remo Mannoni e solo tra parentesi, in caratteri più modesti,
l’alter ego Libero Altomare, ormai divenuto vecchio ricordo. L’opera racchiude
tutte le fasi dell’autore, con alcune poesie già pubblicate nelle precedenti
raccolte e non passa del tutto inosservata; Vittorio Bodini in “La Voce del
Salento”, del 19 giugno 1932, recensisce Fermento scrivendo:
> “Questo poeta sente profondamente nel suo spirito il travaglio che
> caratterizza nella storia letteraria di tutti i tempi, presente passato
> futuro, la nostra poesia potenziata dalla civiltà meccanica e dal desiderio –
> volontà del Sempre Più Oltre. In una girandola tumultuosa, grandi medie
> piccole cose, robuste tenui, turbinano intorno al perno – spirito di Libero
> Altomare (Remo Mannoni), ne impressionano la sensibilità, lo inebriano del
> loro lirismo”.
Quelli di Fermento sembrano, allo stato attuale delle ricerche di chi scrive,
gli ultimi versi pubblicati a volontà del poeta, il cui carillon
sonnolento risuona ancora con furore tra le tappezzerie sbiadite.
Salvatore Giuseppe Di Spena
*
NOTTURNO GUERRESCO
Inesorabile, fredda, la luna
nel ciel di febbraio:
scimitarra d’acciaio
in agguato fra i nuvoli.
Broli deserti,
nidi imboscati,
fanali disertori…
Ma cuori di fiamma,
ali secure perlustrano
le vie dell’aria,
a disvelare l’insidia nemica.
La quotidiana fatica
della città assopita,
non tace: mormora, prega;
ansima in segreto.
Tragica vigilia d’armi,
sordo pulsare di vene
e di macchine,
tarli di opere insonni.
Per la pugna del domani
la Forza affila le armi,
la Pietà prepara le bende:
s’aprono generosi cuori e forzieri.
Volano i sogni verso le trincere! –
Sulle case, dalle porte crocifisse,
due battenti: fede, speranza …
Già squilla il sole la sua nuova diana,
s’avanza l’orifiamma dell’aurora,
dai lor bivacchi fuggono le stelle.
Bronzee voci di campane
e guerriere voci umane
invocano: Gloria!…
Scintillano guglie come baionette.
E l’orizzonte tricolore promette
un radioso meriggio di vittoria.
***
IL PASSATO
Vecchio carillon sonnolento
che riesuma fra tappezzerie sbiadite
e fetore di crisantemi sfatti
ingenue romanze di epoche lontane.
Bigotto lacrimoso
che biascica un rosario di rimorsi;
cero fumigante in eterno
sovra le bare dei giorni perduti;
cinematografia grottesca e scialba
su la tela fluttuante de la memoria.
Povero specchio infranto ai cui frantumi,
i ricordi, ogni tanto ci rispecchiano
per pescarvi con uno gesto scimmiesco
qualche arabesco di sogno
che ci solcò la fronte
***
ANTELUCANA
Brividi impercettibili
percorrono la divina
Notte, resupina
su la terra e sulle acque,
al primo impallidire
de li astri.
Sussulta più forte il Silenzio
ai passi, alle ruote, alle voci.
E Fora in cui, mute
ne la loro bruta gravità,
giacciono tutte le cose;
ma le macchine pulsanti
su tutte le vie del mondo
s’affrettano convulse
verso le mete consuete
ed il biscazziere, insonne,
azzarda l’ultima posta.
S’è nascosta la luna…
Più forte singhiozzano le fonti.
Torpidi nel lor sonno minerale,
lontani i monti
sembrano respirare
a gara con l’Oceano.
È l’ora in cui l’anime umane,
rese traslucide
come urne d’alabastro
dalla notturna tregua
sorella di morte,
rivelano fortemente
la presenza della Face
inestinguibile.
Pace sia, pace
per l’inesausto pensiero
e per l’insaziata brama,
per chi soffre e per chi ama,
per ogni oppressore
ed ogni oppresso.
Sogni, presagi,
incubi volteggiano.
Ora di gioia prenatale
per la carna sana
che anela all’alba e al meriggio;
ora in cui anche il morente
presente una nuova aurora.
***
SCALATA
Vogliamo dare la scalata al cielo!
Tutta la Terra fu corsa da noi:
corpi vibranti e parole di fulmine.
Avviluppammo i prati e le boscaglie
di ferree maglie: l’aria,
d’esili ragnatele telegrafiche;
mostri di fuoco aizzammo sui mari.
Mascherotti sublimi, palombari,
subacquee sirene, attinsero i gorghi profondi
le vertebre titaniche dei monti
scricchiolarono sotto le nostre ossa,
mutarono di colore le bianche gote polari
sotto il magnetico sguardo dei fari nittalopi.
Trasvoliamo su ruote elastiche,
ci adagiamo su carri trionfali;
ghirigori strani c’insegnano il cammino.
Divoriamo gli spazi,
ma sazi
ancora non siamo di strage.
Vogliamo dare la scalata al cielo
strappare il velo azzurro
che riveste l’androgino Mistero
Tuonare rulli di tamburi elettrici,
saettare fluidici dardi
su gli astri beffardi.
Vengano dunque i novi mostri alati:
ali di tela,
cuori di acciaio:
lo spirito gaio dell’uomo l’inciela!…
Sieno sparvieri ed angeli ribelli,
non rondinelle o nottole.
Parlino lingue babeliche,
aprano gole fameliche,
ali luciferine
stendano fino all’ultimo confine!
E noi daremo la scalata al cielo!
***
CUORE STRANO
Il mio cuore è un’antica pergamena
dimenticata, logora, ingiallita,
rosa da assiduo tarlo e raggrinzita
come la pelle d’una vecchia jena.
Ha miniature d’angeli e di donne
di demoni e di mostri, strani emblemi,
misteriose cabale, poemi
e templi dalle fulgide colonne.
E d’altre vaghe immagini è istoriata,
però lo scritto vi si legge appena.
Marcirà prima d’esser decifrata
questa lacera, vecchia pergamena.
***
L’ALBERGO DELLA NOIA
Com’è triste l’albergo della Noia!
S’inseguono le stanze allineate
in fila come celle claustrali
pei corridoi simmetrici percorsi
dai tappeti che bevono i rumori.
Tappeti grigi, grigi come l’ombre
che vegliano alle soglie delle porte,
freddi come la polvere cinerea
che si raggruma sovra le specchiere
velandone i grandi occhi allucinati.
Mobili taciturni come bare
dimenticate. – Le tignuole dormono
un sonno antico nei massicci armadi
neri. Sogghigna il lucido ferrame
come le inferriate degli ergastoli.
E poi, divani soffici avvolgenti
come il lubrico fango degli stagni;
poltrone che poltriscono, enfiate,
a braccia aperte nell’attesa vana
che vi si sdrai l’Ospite accidioso.
Le tende vellutate e le portiere
flosce, pesanti, sembrano le ali
di penduli chirotteri in letargo.
Celano forse i resti di un delitto
o qualche accoppiamento mostruoso? —
Scale di sopra, scale in basso, scale
che si perdono su, nell’infinito,
tutte a spirali tormentose come
l’anime folli che non hanno tregua.
Solo ogni tanto qualche lucernario
sgrana nell’ombra la pupilla smorta:
una nube d’ovatta insanguinata
rade i vetri stagnanti, e vi si sfiocca.
Da quanto tempo, immemore, mi aggiro
ospite involontario in mezzo ad ospiti
occulti nel castello della Noia?
Cerco invano la stanza che m’accolga,
la crisalide bigia, dove il Sogno
tessere possa qualche filo d’oro…
Innumeri orologi si accompagnano
rigidamente al ritmo del mio cuore,
accoliti devoti del silenzio:
le lancette che lacerano il tempo
segnano tutte la medesima ora!…
— Chi, di sorpresa, mi condusse qua?
Ecco la Morte, pallida, composta,
con un inchino cerimonioso
additarmi la stanza del riposo,
e lasciarmi così, senza risposta…
*In copertina: un’opera di Umberto Boccioni (1882-1916)
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dimenticato proviene da Pangea.