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“Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli
Homo Poeticus  In un momento come questo, nel quale il gesto di scrivere libri ha perso ormai totalmente di senso, tanto che forse sarebbe meglio il contrario, la poesia resta l’ultimo baluardo a proteggere questa sacra vocazione, l’unico presidio in difesa di un tempio troppo spesso profanato in maniera ingiusta; si tratta di un’esperienza, una delle pochissime fra quelle una volta elettive, che ancora e per fortuna non è scesa alla portata di tutti, o di chiunque intenda farsi chiamare autore o autrice perché ha espettorato qualcosa su un foglio cartaceo o digitale. Tutto questo è successo se non altro perché il verso ha delle regole, una musicalità, una complessità anche strutturale, cose che vanno imparate e poi rispettate, concetti estetici che costitutivamente non possono essere alla portata di prosatori pedestri e occasionali.  Il poeta vero e di talento autentico sa rispettare le regole della composizione in modo naturale e ignaro: il genio è anche padronanza tecnica sublime ma inconsapevole. In più la poesia ha anche una storia, che la rende unica, e ogni opera in versi si colloca in un fluire atemporale, mentre invece, oggi, chi scrive, non considera niente e nessuno oltre sé, pensa di essere il primo e l’unico al mondo, trascurando il fatto che prima di lui ci sono stati Pablo Neruda, Josif Brodskij, Sylvia Plath, e Emily Dickinson. E la poesia è protetta non solo delle regole imposte dal metro, ma anche da quell’istanza autoriale unica nel redigere l’opera, che è qualcosa che anima solamente il poeta, il quale si distingue per la sua voce innocente, la limpida spontaneità, la grazia sorprendente. Tutte cose totalmente antitetiche rispetto alla meschinità borghese, contro la quale la silloge di poesie ci regala un sentire di nuovo, nudo e puro, una fresca lettura delle più banali movenze della vita, alla luce di una superiore sensibilità. Concetti unici, che fanno di quelle parole una sorta di osservatorio distintivo, una peculiare finestra sulle cose, a cui consegue una diversa visione del mondo.  Ben lontano da qualunque eventuale soluzione consolatoria, il poeta vero mischia con naturalezza il comico e il tragico della vita, la storia del mondo, e gli eventi personali. Vede le cose basse ancora più dal basso, e sa elevarle ancora più dell’alto. Si sente perseguitato da guardoni curiosi e cinici, e provocato continuamente dalla bruttezza e dalla volgarità dei suoi contemporanei. Offeso da tutto ciò si scava una tana dentro di sé, e nello sforzo lirico, emette un segnale di sola andata, come un’antenna che spara messaggi nello spazio disabitato del cosmo. Crea nuove sensibilità nelle coscienze, attraverso il recupero di sentimenti antichi, è drammatico in senso classico, ma ciò nonostante sa anche innovare, costringe i lettori a comprenderlo, superando così l’invisibile e pigra immobilità che ci impedisce spesso di capire noi stessi. Tutto questo privilegio nel sentire non è ripagato con la gloria e con la ricchezza, ma al contrario, il poeta ottiene in cambio solo un grande dolore ed una irreversibile solitudine. (Sandro Bonvissuto) ** Dal vostro al mio esilio Oh, voi immortali poeti d’ogni dove: poeti d’oltre oceano e della madre Russia. Poeti impanicati e poeti sbeffeggiati nascosti e salvati in ogni angolo del mondo; poeti suicidati e poeti martoriati nella Storia, io vi dico: non solo nel libro di Davide è il mio esilio, ma nei vostri libri! In tutti i vostri libri che traboccano versi intoccabili, io ritrovo vita e respiro e seppur solo – seppur solo! – attraverso le parole d’ogni tempo: libero. Perché l’epoca è adesso nella lettura d’un sacro verso; qui e ora, nella letteratura che dà senso al più profondo isolamento. *                                                                         a Gian Ruggero Manzoni Quell’uomo sconosciuto ha ucciso uomini, è stato nei servizi segreti, ha conosciuto Pier Vittorio Tondelli. Quell’uomo un giorno mi ha osservato si è avvicinato, e con un atto di umiltà e rispetto mi ha stretto la mano. Quell’uomo si chiama Gian Ruggero Manzoni e crede in dio. Cosa pensa di Amelia Rosselli e di Borges non lo so, ma li ha conosciuti. E quella notte, quando ci siamo salutati, mi ha detto: «È come se ci conoscessimo da sempre». * Del dolore ne conosco la rosa lo stelo e la spina. Del dolore forse avverto la causa, ma è il suo silenzio o il suo grido ciò che mi affascina e mi riavvicina a dio. Nel dolore riconosco una sequela, un qualcosa di tradito, un petalo spezzato all’improvviso dal tormento. Ma è il dolore della mente, il silenzio dell’anima, quello più inquietante. E quel poeta che ne soffre ancora, considerato pazzo da qualcuno, in realtà sta tessendo un poema d’amore. Con le sue parole rende vero un profumo, colora le rose d’un rosso potente; ne incarna il sangue, ne ribolle. Dunque, che sia la tua rosa la causa di tutto questo poetare? Di tutto questo soffrire? La tua rosa alchemica, la mia alchemica rosa, che nascondiamo da sempre al mondo ma non a un amico di una sera soltanto. Perché quel nostro incontro di poeti, oltre a dare il senso alla scusa di uno sfogo, permette al cuore di rinascere; come quando una musa ti ama per davvero. Giorgio Anelli *I testi, compresa l’introduzione, sono tratti dall’ultimo libro di Giorgio Anelli, “Rosa alchemica, alchemica rosa”, Ensemble, 2025 *In copertina: Peter van der Doort, Amphiteatrum sapientiae aeternae, XVI sec. L'articolo “Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli proviene da Pangea.
September 22, 2025 / Pangea
Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi, invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era, brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida. La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.  Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.  Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati, corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per rivestire un vuoto, il nulla.  I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le “Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza, pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso di disincantato incanto – uno schianto.  Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su “Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver “fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”. Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23 giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a “Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di «Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a spingerlo al sequestro”. Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del 1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi – gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’ che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.  Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini, Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads. Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.  Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella nudità.  Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello spirito.  Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi, puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è stato offerto per sempre.  Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre *A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8 dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi – di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni. L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea
Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo nome, presa senza sapere bene perché. Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario? Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il silenzio. Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta. Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato dall’editore calabrese Meligrana. La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese. > «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter > scambiare qualche parola con lui.» Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è relativo: > «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli > anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure > travolgere. > > Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il > soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.» Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono “magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri, di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo. Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al lettore.  > Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e > incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla > testa. > «Dobbiamo rapirlo!» > «Chi?» > «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.» Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine, viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di moda. Silvano Calzini L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da Pangea.
September 12, 2025 / Pangea
“Confessioni del lupo”. Una silloge di Federico Italiano
Si dice che l’uomo abbia imparato a cacciare dal lupo, osservando il modo in cui questo si muove in gruppo, concepisce il terreno, annusa l’aria, spazializza la sua fame e il suo destino. Cacciare, in fondo, significa mappare e mappare implica disegno e misura. Disegnare, a sua volta, ci insegna a pensare in termini di futuro e passato, di desiderio e fine. In un certo senso, il lupo ci ha reso poeti.  Il ciclo Confessioni del lupo raccoglie i frammenti di un’elegia esplosa e scheggiata in onore di questo animale, in cui ancora collettivamente e simbolicamente riconosciamo diverse apoteosi: ferocia e tenerezza, intelligenza e istinto, fiuto e indipendenza. Quel mosaico di forme variopinte e a volte grottesche, il cane, non sarebbe il nostro più devoto alleato, con il suo affetto che sembra sfidare ogni logica, se non avessimo, seguendo i nostri capricci, riscritto il destino genetico del lupo. Dovessimo sparire dalla faccia della terra, anche il prodotto della nostra selezione artificiale sparirebbe con noi. Il cane tornerebbe alla sua unica e vera dimensione possibile, tornerebbe a essere lupo – o comunque un animale molto simile al Canis lupus, come vividamente immaginato da Richard Jefferies in After London (1885) uno dei primi romanzi post-apocalittici dell’era moderna, dove branchi ferali vagano in un’Inghilterra riconquistata dalla natura. Nel mio ciclo, il lupo si confonde, come in una pittura rupestre, con elementi umani. Se lì si intreccia, si fonde con il carbone applicato, il sangue, il fuoco che ha guidato il disegno, con la luce millenaria imprigionata nelle rocce calcaree; qui, si mischia con la marmellata di mirtilli, l’asfalto, il seme schizzato sulle lenzuola. Nella poesia finale del ciclo, ho immaginato un lupo – uno di quelli realmente reintrodotti negli anni Novanta del secolo scorso nel parco di Yellowstone –il suo iniziale disorientamento, il panico di fronte all’ignota sensazione della fame, fino al primo morso, alla successiva diminuzione della popolazione di cervi. Pare che i biologi si fossero messi le mani nei capelli all’inizio, incerti sulla bontà del loro progetto, finché, dopo un paio d’anni, videro gli alberi crescere, non più decimati sul nascere dai troppi erbivori ingordi. E con gli alberi ai bordi dei fiumi tornarono i castori, e con le loro dighe nuove popolazioni di insetti e uccelli, finché persino il corso dei fiumi cambiò. Il lupo non aveva solo rinvigorito l’ecosistema: aveva trasformato persino la geografia del parco. Il ciclo Confessioni del lupo è tratto da un libro in fieri. Mi piace pensare a questa raccolta, alla quale lavoro dai primi mesi del 2023, come a una sintesi dei due libri precedenti, Habitat e La grande nevicata, con cui andrebbe a formare una sorta di trilogia. Non so se la parola “sintesi”, con quel retrogusto hegeliano, sia davvero quella giusta per definirne l’identità, ma è vero che in queste pagine ritornano sia la riflessione ecologica e topografica che ha animato Habitat, sia quella meteorologica e memoriale che contraddistingue La grande nevicata. La differenza è che in questi testi più recenti emerge con maggiore forza – e una certa virulenza – la dimensione elegiaca, intesa tanto come lamento quanto come celebrazione. Forse ciò è dovuto al mio ritorno a Rilke, così pervasivo e dominante negli ultimi due anni: un ritorno esplicitato in modo un po’ ironico, ma non per questo meno radicale e sentito nello pseudo-sonetto Saggio sugli angeli e, soprattutto, in Borgeby. Questo toponimo, di non facile ubicazione, rimanda alla cittadina svedese dove il poeta soggiornò per un certo periodo, nel 1904, e da cui inviava lettere cariche di attesa per le meraviglie policromatiche e dinamiche dell’autunno che si sarebbero presto rivelate. Rilke veniva dall’estate calda, monotona e statica di Roma e non vedeva l’ora di immergersi nei cieli in subbuglio dell’autunno nordico. Quella mia poesia è, a suo modo, una lettera a un destinatario non nominato – una lettera priva dei caratteri riconoscibili della corrispondenza – in cui gli accenni a una quotidianità claustrofobica si intrecciano a frammenti di geografie fluide, umane e non-umane. Federico Italiano ritratto da Dino Ignani La poesia – anche quella più difficile o apparentemente inutile – è radicata nella realtà, possiede una propria causalità, simile al suono generato dal vento che attraversa la “Æolian lyre”, l’arpa eolia, evocata da Shelley nella sua Defence of Poetry. Essa nasce dall’incontro tra due realtà oggettive che, interagendo, si trasformano, si traducono, generando una terza entità, un terzo oggetto, la poesia stessa. Questa, a sua volta, darà vita a ulteriori pieghe del reale. In tal senso, la poesia non solo agisce sulla realtà, la poesia è realtà. Federico Italiano[1] Borgeby Provai a percorre tutti i fiumi di Francia  sulla carta limnologica a colazione – c’era la Loira in blu, l’Aveyron  in rosa, la Mosella in verde  e tutti i tributari,  tutti gli affluenti,  nei loro correspettivi colori. Mappai le vene di un mammifero  immenso, squartato e deposto  sul tavolo autoptico della Storia ma finito il caffè mi alzai,  feci andare il lavastoviglie  e dimenticai i fiumi,  il prosciutto, la Francia e il sangue, per scrivere di un poeta vegetariano  che da Borgeby in Svezia mandava  lunghe lettere alla moglie  sull’autunno imminente,  sul vento che non cessa, sul turgore  dei frutti, sulle cicogne più giovani  ormai indistinguibili da quelle più anziane. * Saggio sugli angeli Le ossa degli angeli si flettono elastiche  ma si possono fagliare se esposte  troppo a lungo all’atmosfera terrestre. Sono un mix di cellule e collagene, come le nostre, solo che al posto dei fosfati hanno uranio  espulso dalla supernova Tycho.  Simile a quello degli uccelli, il loro sterno è ampio,  a forma di ascia, con un osso biforcuto  sotto il collo: non fosse per le piume sulle ali  e i così biondi boccoli, ne aprirei con piacere uno  lungo il torace per capire cosa si nasconda lì  dentro – se una stufa celeste, un ingranaggio divino – cosa gli faccia splendere madreperla la cute insinuando la finzione del sangue sulle gote. * Confessioni del lupo 1. La notte è un mostro gigante  che ho sfamato  centinaia di volte  bruciandomi le mani e il pube. Ho il pelo radioattivo,  sono un pericolo. Le viscere della terra – una mucosa che si prende gioco di me.  * 3. impronte latenti Con l’eloquio di una perdita còlta  in flagrante, l’umidità mi ha tradito svelando al lampadario  e a tutte le finestre dirimpetto gli esiti della mia pressione, strani  fischi nel mio sistema di valvole,  le crepe nelle mie guarnizioni,  l’odore di caviale sui lenzuoli  e il beneficio atteso di uno schizzo,  di una goccia – una nota, una bozza d’essere. * 4. lupo vegano Quando nel cielo scomparvero tutte le pecorelle  intimorite dal mio gioire nel guardarle smisi di provare piacere con gli occhi  e rinnegai Dio-Lupo  dedicandomi a funghi psicotropi e arbusti aromatici  per lenire l’acidità nel mio stomaco  e l’infiammarsi dei miei pensieri grigi. Un mattino, passato l’inverno, le greggi tornarono  in cielo, infinite pecorelle candide come neve,  ma non avevo più gli occhi per contemplarle  né avidità nei lombi, estinta  era la gioia indivisibile  di chi divora il giorno senza masticare  e non teme il suo vero colore. * 5. die Füchse brauen [le volpi fanno la birra] Quando dai boschi sale la bruma o la foschia  ammanta brughiere e villaggi  dicono sia colpa delle volpi  che fabbricano birra nelle loro tane come se quei loschi canidi rossi  sappiano discernere il malto  dal luppolo. Che ingenui –  le nebbie salgono dalle mie lingue quando ansimo per raffreddarmi il sangue. * 6. Aldo Leopold Solamente la montagna ha vissuto  così a lungo da capire davvero – dicono – il mio ululare. Ah, ma si sbagliano: per ogni mio lamento c’è un lupo  oltre il bosco che si interroga e risponde un filo d’erba che si piega, un sassolino che scricchiola  sotto le mie zampe contratte nel canto una foglia che cadendo cambia direzione e colpisce un efemerottero mentre ispeziona il suo stagno una lepre che medita immobile sulla fine dei giorni  e un assiolo solitario che si eccita. * 7. Pelle  aggrottata  lingua del passato,  duna, radioattiva spiaggia  intertidale, pergamena o lenzuolo, ti indosserò fino alla fine, senza cedere nulla,  neanche un millimetro, neanche una molecola, pel- le. * 10.                                                                          Yellowstone National Park Mi reintrodussero senza darmi istruzioni  vagai senza una mappa guaendo  e fornicando per sconforto con l’orrore  dei crinali negli occhi  e il pelo che si rizzava a ogni alito  di vento o al ronzio di un calabrone. Non sapevo neanche cosa fosse la fame finché  qualcosa si contorse e m’inondò di saliva le mascelle: un profilo tondo –  una coscia,  vicino al ruscello,  ben tornita – le mie pupille  s’espansero e addentai un futuro di sangue.  Dopo qualche inverno si ridussero i cervi i germogli perdurarono, divennero  alberi, crescendo lungo le rive,  i castori  ebbero legna per le loro dighe –  nicchie per marmotte e idrofile – un giorno  vidi un astore inchinarsi al mio passaggio.  La mia fame assestava il corso dei fiumi  fortificava colline e spargeva fiori  nel verde indiviso delle vallate ogni mio morso  dava agli alberi il tempo  di fare corteccia, mettere muscoli  resistere al vento, cambiare le topografie. *Per gentile concessione si riproducono parte dell’introduzione di Federico Italiano e una selezione di testi, pubblicati integralmente nell’ultimo numero di “Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025) In copertina: schizzo preparatorio di Rubens per “La caccia al lupo e alla volpe” (1616 ca.) -------------------------------------------------------------------------------- [1] Federico Italiano ha pubblicato, tra l’altro, “Nella costanza” (Atelier, 2003); “L’invasione dei granchi giganti” (Marietti, 2010), “Habitat” (Elliot, 2020), “La grande nevicata” (Donzelli, 2023). Ha tradotto, tra gli altri, Jan Wagner (per Bompiani e Einaudi), Michael Krüger e Durs Grünbein; è tradotto in inglese, spagnolo, ungherese, ebraico, svedese e un certo numero di altre lingue. Lo trovate anche qui: http://www.federicoitaliano.com L'articolo “Confessioni del lupo”. Una silloge di Federico Italiano proviene da Pangea.
September 11, 2025 / Pangea
Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo, “Caleidoscopio-Poe”
Era una notte d’autunno ferma come pietra, in cui il cielo, soffocato da nembi plumbei, sembrava non respirare più. In quei decadenti quartieri, l’aria – sottile e mefitica – si insinuava nei polmoni come un siero etereo e maligno, ma Toby Dammit pareva insensibile a ogni influsso del mondo materiale. L’universo intero era per lui divenuto un teatro desolato, illuminato appena dal chiarore esitante d’una luna che mai trovava riflesso nel mare tempestoso e caotico della sua mente. Camminava a passi pesanti e incerti, tanto lungo la strada che conduceva alla taverna quanto nei meandri oscuri del suo pensiero. Pareva immerso in un abisso senza eco, dove le ombre – ora beffarde e malevole, ora supplichevoli – s’intrecciavano con ciò che ancora rimaneva della realtà. I suoi occhi non erano più strumenti di visione: erano vetrine velate, cieche, come quelle d’un emporio abbandonato, svuotato da tempo d’ogni cosa da offrire, d’ogni vita, d’ogni luce. Un battito cupo, sommerso, pulsava nei recessi più profondi del suo cranio: un suono indistinto, simile al rantolo d’una morte mai compiuta, o d’una fiamma che consuma senza spegnersi. Poi, come accade nei sogni più infausti, anche quel battito cessò. Nei suoi sogni – che non erano sogni ma presagi – tornava sempre lei: la sua Morella. Ma era una presenza umbratile e di sortilegio. Una figura di velo e silenzio, eternamente sospesa in quegli antri interiori che solo il delirio riesce a popolare. Non parlava mai: lo guardava con occhi di vetro e tenebra, come un’onda staccatasi da un mare antico e senza rive. Sembrava scolpita nel gesso, una statua fissata per sempre nell’atto d’ammonire. Ma le sue parole – o quel che di esse Toby immaginava – risonavano senza tregua nella sua mente franta: “Tu mi hai violata, e ora è un plutonico vincolo che ci unisce… Per l’eternità.” Ogni passo nel regno del sogno lo conduceva più vicino a lei, e più lontano da se stesso. La sua mente era uno specchio ridotto in schegge, e in ogni frammento si specchiava la sua perdizione. Se Morella fosse stata solo una visione onirica dissolta all’alba, l’avrebbe forse benedetta. Ma ella era un emblema, un delirio, un simbolo della febbre perpetua dell’anima. Un tormento reso carne solo per strappargliela. La malattia che la consumava anche lui. E nei sogni la sua presenza era ancora più tormentosa, come se fosse messaggera di una colpa che lui non poteva risarcire. La vita di Toby, in quel tempo, si era tramutata in una sequenza di frammenti d’inferno, un dedalo intricato di presenze spettrali che si moltiplicavano e confondevano fino a dissolversi in un aggregato informe, al di là di qualsiasi cognizione sensoriale. Era un delirio costante, slogata dal solco di ciò che è reale e tangibile, e proiettata in incubi di forme vaghe e torturartici della sua anima. Non vi era più un ordine, né un principio che potesse guidarlo attraverso il mondo dei vivi; tutto ciò che lo circondava era ormai piegato e stravolto dalla sua mente, scivolando incessantemente tra la sostanza e l’irreale. La realtà – quel qualcosa che prima gli sembrava tangibile e immutabile – ora gli appariva come una distorsione maligna, un’eco vuota che si perdeva nell’abissale spessore dei suoi sogni febbrili e deliranti, e mentre l’immaginazione s’impossessava di lui, il confine tra ciò che era e ciò che non lo era si annullava, svaniva, lasciando dietro di sé un unico, indefinibile spirito di disfacimento. In questo magma di visioni oniriche e tormenti, un’altra figura tornava a ripresentarsi con una presenza quasi sacra, ma al contempo impossibile da concepire senza disperazione. Ella era Berenice, eppure non lo era, e Toby, tormentato dal contrasto tra la sua mente che definiva, la carne percepita, e l’anima ardentemente bramata, non era pari al dare a questa apparizione né nome né forma, se non come un’epifania di un mondo in cui le leggi dell’umano non avevano più alcun statuto. Non era corpo, né spirito, ma una cosa sola, eppure l’uno e l’altro in un abbraccio mostruoso. Berenice – no, non Berenice, ma piuttosto l’idea di Berenice – si rivelava in Toby come la quintessenza del desiderio e della distruzione, un’immagine forgiata dall’assenza, dall’impossibile. I suoi denti – quegli incredibili, perfetti, insostenibilmente bianchi denti – risplendevano in lui come simbolo di una purezza assoluta e irraggiungibile, come frammenti di un potere divino che, invece di elevare, annientava. Ogni scintillio di essi nella sua mente era una visione abbacinante che lo condannava a un’agonia, ne era certo, non avrebbe mai avuto fine. Non erano denti, ma strumenti erinnici… O sigilli. Sigilli che lo legavano a un desiderio oscuro e carnale, ad una fame che non avrebbe mai potuto essere saziata, un appetito che bruciava d’assenza e tormento. In uno dei suoi più recenti incubi, incubi che non erano più sogno ma continua reiterazione di visioni infernali, Toby trovava il corpo di Morella, disteso nel suo sepolcro, e senza pensare, senza fermarsi, mosso da un impulso che non avrebbe potuto spiegare nemmeno se lo avesse voluto, si avventava sulla sua tomba, riesumandola, liberandola da quella fredda prigione. Ma ciò che il suo corpo toccava non era più Morella, era Berenice. Berenice. L’ossessione si compiva. La figura che giaceva davanti a lui era l’esatto contrario di quello che il nome evocava: era la carne di una donna morta, eppure viva di un’altra forma di vita, quella che si alimentava non di sangue, ma di desiderio inestinguibile.Toby non toccava più la morte di Morella, ma la morte di Berenice, che pure non era mai stata viva, se non nell’abisso della sua fantasia più contorta. Nell’allucinato stato di quell’ultima notte, poi, aveva rivisto sua madre nel letto di morte ed aveva avuto una timida erezione. In quell’istante di suprema decadenza, un fremito lo attraversava: non d’affetto, non di pietà, ma d’un impulso mostruoso, silenzioso, indegno. Ed è in quell’abisso che le figure di Berenice e della madre si erano confuse e fuse, divenendo una sola cosa. Toby avvertiva l’indicibile, il vergognoso, l’orrido: il desiderio di ciò che lo aveva generato. Lì, in quell’attimo, il male, il desiderio, il peccato e l’ossessione si erano fatte una sola cosa, e Toby non aveva più visto né la madre né l’amata, ma solo l’orrore ineffabile di aver amato ciò che lo aveva partorito, ciò che avrebbe dovuto elevarlo e invece lo faceva assoggettato a un desiderio oscuro e nefando, profanatore. In quell’orrore il demone della perversità, gli faceva bramare un passo oltre verso il precipizio, verso la rovina di sé. * Nella taverna, luogo malfamato e di perdizione, l’aria greve di fumo recava risa sguaiate e chiacchiere rumorose e moleste. Toby si sedette davanti a un bicchiere di vino che sembrava l’unico filo di salvezza rimasto tra lui e la follia. Lì, nella penombra di quello scantinato pieno di avvinazzati, la Berenice del suo delirio gli si avvicinò, ma non per parlare. Gli si fece più vicina, come se ogni passo che compiva in direzione di lui fosse un passo verso la sua fine. E quando il volto di Berenice si avvicinò al suo, i suoi occhi divennero fiaccole sataniche, la bocca si spalancò e Toby vide i denti uscirne come artigli affilati: “Mi desideri? Mi desideri ancora?”. Toby ebbe un singulto e sgranando gli occhi tornò alla realtà con lo sguardo fisso su un avventore che lo squadrava incuriosito dalla scena. Il silenzio fu rotto dalle squille bronzine della Chiesa di Saint Sebastian: due rintocchi simili a scossoni nel suo corpo stravolto. Un gatto gli si strusciò alle caviglie. Era nero come un monito e aveva occhi di giada che lo guardavano grandi e profondi. Lo prese per la collottola e se lo pose in grembo per carezzarlo, ma il gatto lo graffiò con l’impeto dinamico di due artigliate profonde su una mano. Non vedeva più dall’ira e lo scagliò lontano da sé. Quello urtò il fianco contro una colonna di legno e si allontanò con incedere malfermo. Toby bevve ancora e ancora e poi uscì in strada in preda ai fumi dell’alcol. I suoi passi risuonavano in modo tetro per le viuzze del borgo. Era quasi giunto a casa ma vide un vecchio cencioso e sporco, dal volto butterato e lo sguardo dilavato, che girava un angolo verso di lui. Non vi badò e il vecchio lo superò proseguendo d’opposta banda alle spalle di Toby. Ma l’orrido più ripugnante si presentò nelle sembianze di un secondo vecchio, identico al primo, che voltò lo stesso angolo incedendo a sua volta in sua direzione. La scena si ripeté talché poté contare sette vecchi identici. Sentiva di perdere la ragione e corse forsennatamente verso casa lasciandosi alle spalle quella vista insostenibile. Giunto davanti al portone fece per cercare le chiavi ma non le trovò. Si vuotò le tasche, frugò la giacca: niente. Dovevano essergli cadute o alla taverna o durante la corsa. Il campanile batté tre rintocchi. Un gatto, anche questo nero, gli si strusciò alle caviglie. La sua corporatura corrispondeva a quella del gatto della taverna, anzi avrebbe potuto essere lo stesso, senonché aveva un’orbita vuota come un cratere nero e un solo occhio azzurro come ghiaccio in una notte di luna. Ne rimase inorridito. Tornò sui suoi passi. In quell’istante comparve in sembianze umane una creatura di cui percepì malvagità estranea a questo mondo, come un gelido refolo da lui a sé. La figura, allampanata in abito scuro elegante si tolse la mantella dello stesso colore ma con una federa cremisi che guizzò nella luce dei lampioni. Fece un inchino e si presentò. Disse di essere un creditore d’anime. Un gentiluomo vecchia maniera che stringeva patti che nessuno dotato di ragione non avrebbe potuto credere allettanti. Un commerciante, a suo modo, solo che vendeva sogni rendendoli realtà. Era come se lo conoscesse ma lo vedesse per la prima volta. Un sogno ormai passato bussò alle porte della sua mente ma lo ricacciò via! Del resto la sua ragione era sfibrata, allo stremo, febbricitante e caotica da tempo, e confondeva i sogni con la realtà, anche per la sua grave dipendenza dall’alcol. “Hai dimenticato queste”, disse l’uomo che gli si stagliava davanti come un basilisco e fece tintinnare appese a due dita le chiavi di casa di Toby. Poi aggiunse: “Hai un desiderio? Com’è vero che sei di carne e ossa, io lo esaudirò.” Lo fissava con occhi di brace carichi di una inquieta attesa. “Se quanto dici è vero. Riporta a me la mia amata Morella. “Sei sicuro di quanto hai chiesto?” “Sì” disse in modo sicuro e stentoreo. “È già qui. Voltati.” Morella era alle sue spalle, alta e bella, la pelle di cera e gli occhi intensi che lo guardavano con un amore velato di angoscia. Non parlava. Restava muta e lo fissava. Inclinò il viso un po’ di lato e versò lacrime arricciando la bocca come se fosse sofferente di una sofferenza innominabile. Poi disse: “Mi sono svegliata e non c’eri. Ti ho cercato… Perché l’hai fatto?” La sua voce era come ovatta intrisa di un liquido. “Morella mia, di che parli?” Le si avvicinò ma lei indietreggiava. Il commerciante d’anime si trasse di tasca un foglio e lo lasciò cadere a terra. Toby guardò sul marciapiede e vide che era un foglio piegato, simile a un sottile cencio di carta lisa. “Raccogli quel foglio. Leggilo, mio amato, creatura infelice,” disse Morella in un sussurro gorgogliante.” L’uomo nerovestito aveva un ghigno feroce stampato in faccia: “Diciamo che quella è una copia del predente accordo. Leggi, leggi pure miserando!” Lui corse con gli occhi sulle righe e capì. Le righe parevano vergate con grafia elegante nel sangue ormai secco e brunito: Bene. Il patto è compiuto. Hai promesso: dovrai restare nella tua dimora con Morella almeno fino al terzo rintocco di questa notte e poi sarete sempre insieme, felici, la sua malattia regredirà e avrete un futuro assieme. Facile, no? Ma, bada bene, se non rispetterai il patto i tuoi incubi peggiori si faranno carne nella tua amata Morella, col suggello del destino della Berenice che sempre sogni. E tu sai cosa hai fatto e continuerai a fare a Berenice. La tua anima sarà dannata nella colpa. Per sempre. Il viso di Morella si fece una smorfia di terrore e pena, spalancò la bocca e un rivo denso e rubino le scese le labbra: non aveva un solo dente. Il misterioso commerciante d’anime aprì la mano destra e ne rovesciò il contenuto sul piancito: ne cadde uno spicinio di denti macchiati di sangue. “Ma… Ma Berenice mi appariva solo in sogno! Non è reale, io non ho colpa, non l’ho fatto davvero!” “Hai la tua Berenice nel corpo di Morella. Prenditela e affoga nella colpa! L’hai sempre desiderata, in fondo. O no?” Improvvisamente ricordò tutto. Si era svegliato nel letto accanto a Morella come con la vivida traccia mnemonica di quello che credeva esser stato un incubo.  Era davvero sicuro di aver sognato tutto? Ma non importava più: sogno o realtà, tutto si compenetrava sinistramente, come in una farragine di attimi indistinguibili. Sul tavolo di cucina un foglio in evidenza campeggiava come un’azzurra, viva bestiola alla luce lunare filtrante dalla finestra. Un richiamo tenace come una voce da un lembo d’Aldilà lo spingeva verso il foglio, come se fosse un oggetto sacro e importante. Vi era posto sopra un calamaio come per metterlo in evidenza.  Il richiamo dell’alcol però l’aveva subito rapito e distratto torcendogli le budella, e si era recato come ogni sera alla taverna per lenire il suo tormento nell’alcol. Morella dormiva, serena, con volto bambino, per la prima dopo tante notti di agonia. Le aveva baciato candidamente la fronte che per una volta non scottava. Felice se n’era compiaciuto ed era andato dietro alle lusinghe dell’alcol. Come ogni sera. Un rintocco dal campanile della piazza era risuonato cupo nell’etere. Non è la vita tutta un sogno dentro al sogno? Massimo Triolo *In copertina: poster di “Toby Dammit”, episodio filmato da Federico Fellini da “Tre passi nel delirio” (1968), tratto dall’opera di Edgar Allan Poe L'articolo Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo, “Caleidoscopio-Poe” proviene da Pangea.
September 8, 2025 / Pangea
“Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a Marco Maraldi
Caro Marco Maraldi,  le scrivo col cuore in mano per ringraziarla della parola di cui si è fatto carico, parola nuova che ha avuto animo di scrivere, quasi pronunciare, e che dilaga a fiotti, incessantemente, dalle pagine del suo libro Assalti (Fallone Editore, 2025). > “senza scendere non troverai nel temporale > delle ustioni un’impronta solo tua” > > Tutto è morto > qui – le galassie > hanno preso anche la neve. > Tutto è morto > e insepolto tutto è > morto perché non fa > silenzio, > qualcosa ancora tace. > Sulle reni scucite il vestito > batte piano > il calendario di un’ascesa infinita. > Non hanno trovato impronte > nell’inverno della cenere.  Parola escatologica, cercata lontano, dopo la fine. Prima della parola sfinita, appena un attimo prima della sua manifestazione ultima, insomma all’origine e prima… diciamo prima di Hopkins, prima di Ungaretti, prima di Péguy, prima di Rebora, prima di Eliot, prima di Turoldo, prima di Testori, prima di Luzi.  > “Baciami che io… ti segno dammi il pane… del collo, i milligrammi del respiro… > la sostanza… non sono vergine… sono grande e ho una potenza che gli altri… non > mi credono… ti voglio mostrare… baciami che io… ti segno che ti marchio a… > febbre… non lo nascondere così… ti riconosco ci sarà… tempo… ci sarà un segno > per ammazzarci nella polvere”. Più che una preghiera è una confessione, o quello che resta, imploso nel sentimento di verità raggiunto. Sentire come evento, come fulmine, o saetta che avverte l’effetto impareggiabile del mistero. Arrivo perfetto e imprevisto, temuto. Luce che sbianca nella luce altra e incandescente del dire. “[…] custodisci il fiore dell’origine […]” (pag. 48). Spirito di ferro fuso, o rosa pura scossa dal vento, sul ciglio di una voragine. L’impeto dell’essere, investiti da questo, del sentirsi destinati a questo. Ogni fulminazione sembra l’ultima e invece rappresenta un avvento, in quanto parola che si sta significando nell’attimo stesso del dire, dello stare sul limite e toccarlo: Dio è frantumato, invocato, attraversato, abbracciato, scandito, immaginato. Nella prospettiva del mondo attuale “che risponde al progressivo cancellarsi di Dio come Unico oggetto d’amore” (Michel de Certeau). Perciò esporsi significa testimoniare (malgrado tutto!), raggiungere uno sconfinamento, affinché il vissuto possa vivere negli altri, non gli ipocriti lettori (sebbene fratelli), ma voce rivolta a buone volontà incarnate nel sapere, o della visione alimentata dal sapere; spalancate, comunque, sul petto di Dio battente al suolo: voce offerta con slancio. > “Sei solo un’eco della divinazione. Non essere riconsegnato alla volgarità di > avere un nome. Nessuno in te all’infuori di me – i fiori della grazia sono > brace in bocca. Hanno cieli negli occhi e chiodo notturno. Tu rinasci > nel senzanome. Dormi adesso, dormi – le parole sono piene di punte”. Risuonano l’argento e l’azzurro dei Salmi (l’argento che riflette e l’azzurro che assorbe il lampo della luce perenne). Che forza! Riecheggia tutto in sillabe di sonagli che scoprono un canto scavato, scoperto laggiù, nel tempo (il prima che dicevo, il prima che indica una radice mistica), e ora raggiunto. Poesia che nasce per essere Lui, non come Lui. Insomma chiedere l’impossibile, perché è Lui che fa. > “C’è una lingua che non vuol parlare, > infatti vuole solo accadere”. Questi i due versi in esergo. Poi, a stringere i tempi, o l’intero spazio poetico, che ha ansia di anticipare, ecco che si annuncia il riconsegnato. All’elenco delle parole redatte dal profondo prefatore del libro, Lorenzo Chiuchiù, e cioè esilio, rivolta, sacrificio, verginità, aggiungo un’altra parola-chiave: riconsegna. Chi è il riconsegnato? Etimologicamente: ri è il prefisso che restituisce e ripete il segno che sigilla, e l’azione del donare. La riconsegna è all’amore, e la parola è un’offerta. Adesso c’è un nuovo pensiero da fermare sulla carta, che equivale a un’immersione. Non è poesia comune, sta piantata nel cuore, ed è strumento di ricerca e di strazio. Che sia desiderio?, che si voglia dar fibra, adoperandosi così a un desiderio d’infinito? Giacché c’è un grido dopo ogni segno d’interpunzione, come a dire: finché ho fiato io ti cerco, io ti nomino. Il suo bussare batte e ribatte alla porta senza tregua, per conoscere, ecco il perché, l’esigenza, della parola, del discorso poetico.  Discorso impervio, eppure proprio da qui viene la spinta a capire, a cercare d’interpretare una forma che pur nel suo espressionismo appare calibrata ad alzare arcate su arcate architettoniche di pietre e fango, capaci di stare contro il cielo, in rigoroso e innamorato disegno. Confesso: di fronte a questo, io avverto la mia povertà, la mia miseria, ho paura di violare tutta questa bellezza, tutta questa grazia! > “Stelle del digiuno latte > del firmamento, c’è > l’ignoto a penetrare l’universo > della fronte, quando anche il pane della terra riceve la sostanza > > sei solo e questa sete è già un miracolo. Sei nato riconsegnato, ed ecco: un > non-pensiero si annida lì, colpevole nel sangue ascetico. Sei nato > riconsegnato: con le sillabe in lotta e una lama che divora. Non hai chiuso > gli occhi, poi ti abbiamo medicato le mani, ferite d’inchiostro… non ci hai > avvertito (– bevi: questo è il destino; – bevi: è vino che ustiona; – benedici > il flagello: questa è la carezza”. P. S. Il nascere, ovvero: l’uomo e la parola si rinnovano. Ce n’è bisogno, ché senza la poesia ogni cosa è spenta, ogni cosa è inutile. Alla riconsegna si lega il tema dell’evento, va sottolineato. Sempre citando de Certeau, si può dire che “il libro preserva un segreto che non possiede”. Il che è il massimo della relazione. Splendido! Vincenzo Gambardella *In copertina: Giorgio Morandi, Vasi su un tavolo, 1931  L'articolo “Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a Marco Maraldi proviene da Pangea.
September 6, 2025 / Pangea
“I cataclismi dell’anima”. Felice Mastroianni, poeta
È acqua sorgiva la poesia di Felice Mastroianni, un ruscello limpido che sgorga da un lembo del Reventino e rinfresca il secondo Novecento italiano. Nato a Platania (CZ) nel 1914, si forma tra il ginnasio di Catanzaro e il liceo di Nicastro, dove conseguirà la maturità classica, formazione che getterà le basi dell’immaginario archetipico mediterraneo del poeta e che germoglierà poi in quella “soave grecità” di cui saranno impregnati i suoi versi.  Negli anni Trenta si laurea in lettere classiche a Napoli e comincia a pubblicare i primi saggi, tra cui L’Infinito leopardiano (Tip. Gigliotti, Nicastro 1935) e Coscienza cristiana di Ulisse dantesco (E. Patitucci, Castrovillari 1939); al contempo si dedica all’insegnamento, attività che svolgerà per tutta la vita.  Arriva nel vespro degli anni il vero esordio poetico sulla scena nazionale, durante il periodo napoletano. Scrive egli stesso, a tal proposito, nella premessa de L’arcata sul sereno (La Procellaria, Reggio Calabria 1963), con lo stesso pudore e gli stessi toni sommessi dei suoi versi, quasi come a giustificarsi della pubblicazione:  > “Chi come noi, avendo costantemente nutrito, intimo e vivo, l’amore della > poesia si decide finalmente […] a romperla col naturale e lungo timore della > stampa, non è più certamente perdonabile, perché, con la giovinezza, gli è > venuta anche meno la condizione indispensabile che fa volentieri indulgenti i > lettori verso i ‘peccati’ di quella irrevocabile età. Ma, in compenso, ha > dalla sua una certa scusante, di non essere stato, cioè, capace, suo malgrado, > di tenere più a lungo segreto quell’indomabile amore nativo.” Rotto il silenzio, la stagione poetica di Mastroianni prosegue per oltre un ventennio, pubblicando in vita: Favoloso è il vento (prefazione di Mario Stefanile, Ed. Maia, Siena 1964); Lucciole sul granturco (Rebellato, Padova 1965); Tre poesie(Il Baretti, Napoli 1966); Il vento dopo mezzodì (prefazione di Mario Luzi, Quaderni di “Persona”, Roma 1968); Il riso delle Naiadi (con lettera-prefazione di Vittorio Sereni, Rebellato, Padova 1971); Luna santa luna (Rebellato, Padova 1974); Quaderno di un’estate (Karavà­as, Atene 1975); Primavera (Difros, Atene 1977); La favola di Eutichio (Delphica Tetradia, Atene 1982).  Alla sua morte, sopraggiunta nel 1982 a Lamezia Terme, seguiranno: Quest’ombra sul terreno (Ed. Ligeia, Lamezia Terme 1983, riedita da Rubbettino, Soveria Mannelli 2021), che raccoglie gran parte dei componimenti in italiano; Trilogia neoellenica (Delphica Tetradia, Atene 1983 anch’essa riedita sempre da Rubbettino, Soveria Mannelli 2014), che raccoglie le sue liriche in greco; ‘U cantu ‘ngola (Il canto in gola) (Rubbettino, Soveria Mannelli 2001); Il pane degli anni. Memoria d’una sorgiva (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003). Gli opuscoli delle poesie giovanili, risalenti agli anni Quaranta: Frammenti (Patitucci, Castrovillari 1941), Notturno(Patitucci, Castrovillari 1942), Alba lontana (Patitucci, Castrovillari 1942), nonché tutti i saggi pubblicati, sono stati recentemente raccolti dall’editore Rubbettino, che ha reso così disponibile la fruizione dell’intera opera del poeta (F. Mastroianni, Poesie giovanili, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021; F. Mastroianni, Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021). * Pretenziosa sarebbe in questa sede un’analisi completa della poetica di Felice Mastroianni, data la vastità della sua produzione, che si dipana attraverso due decenni fluendo in più lingue; d’obbligo, invece, risulta tracciarne le coordinate principali, i segni essenziali e la contestualizzazione nel panorama letterario coevo, se non altro in onore di quel: “perché il vento/ non si porti via tutto/ di me”, che in maniera drammaticamente umana apre la raccolta Favoloso è il vento. I versi di Mastroianni, essenziali, puri, lontani da ardui giochi intellettualistici e privi di retorica o cerebralismi, rappresentano la necessità di un ritorno alla condizione ancestrale dello spirito dell’uomo, in un tempo e in un luogo in cui l’esatta direzione della società faticava a comprendersi. Il Meridione del boom economico, nei primi decenni della Prima Repubblica, la Calabria del secondo dopoguerra, assumono l’aspetto di una chimera dal corpo tecnologicamente sviluppato, ma dalla testa goffamente industrializzata; le tradizioni e i ritmi del mondo contadino, acremente condannato perché considerato nemico del progresso, non trovano più spazio nel modello moderno di società, ed alle classi sociali più povere non resta che vivere nell’ombra del mito dello sviluppo, estraniati dalle proprie radici. La polverizzazione dei sentimenti, sostituiti dalla corsa al consumismo, trova medicina nella nitidezza di una poesia genuina, spontanea, che accompagna come un’ombra il poeta. Riguardo ai suoi versi, che riempiono senza artifici la pagina bianca, Felice Mastroianni in un intervento del 1982 scrive: > “Non ho mai avuto l’uzzolo né la capacità di sperimentalismi, convinto che la > poesia, quando c’è veramente, non ha bisogno che della propria verità. Ad un > certo punto ho sentito, questo sì, l’esigenza d’altro strumento linguistico, > scrivendo e pubblicando ad Atene tre raccolte in lingua neo-greca, come > ricerca e realizzazione d’un congeniale mezzo di espressione spontanea. […] Al > punto in cui sono giunto, senza convenzionale dichiarazione delle mie ragioni > poetiche, posso soltanto affermare con umiltà e senso di responsabilità che, > almeno in parte, son riuscito nell’intento vero e proprio della poesia: quello > cioè d’una esperienza non oziosa ma motivata da seria e sofferta > partecipazione all’inesauribile ritmo del cuore delle cose e dell’anima > umana.” I paesaggi di una Platania vergine, le montagne, i fiumi, l’erba, le stelle, la luna, la fede e gli affetti sono incarnazione – per questo attuali e necessariamente in vita, non rimandi nostalgici – dell’antica favola del mondo magnogreco e permangono, sebbene con diverse sfumature, per tutta la sua produzione poetica. Assonanze, per contenuti e versi sciolti, vi sono tra le liriche degli anni Sessanta di Mastroianni e il primo Franco Costabile di Via degli ulivi, contiguo di terra e di anima, al quale, con fraterno cordoglio, dedicherà in occasione della sua morte Ultima notizia della poesia, originariamente contenuta in Luna santa luna: “T’avevo mandato dei versi, non ne seppi nulla. Eri entrato nel silenzio che precede i cataclismi dell’anima.  Avessi potuto tenderti la mano,  parlarti tra un ricordo e l’altro  delle albe dei nostri paesi. Non era non era di maleficio l’acqua dei nostri monti, così pura, che t’aveva stillato in cuore la cara menzogna di cui vivesti, come d’un unico amore. Altra fontana fu quella della mala sorte. Ti penso su una strada irraggiungibile. Eri solo, con la tua verità. E fosti un cuore d’oro, di fanciullo che s’adonta d’essere stato dimenticato in un àndito buio”. Il canto di Mastroianni non assume i toni gravi e severi del secondo Costabile, né – sempre per contiguità di terra e di anima –, l’enfasi civile di Rocco Scotellaro. La sua poesia resta un rosario recitato in silenzio, al crepuscolo, una voce fioca ma lucida, fissa, mai intermittente. La sua voce, certamente mediterranea, appartiene però ad un coro più grande, nato lontano dalla metropoli, che cerca l’essenza della vita nei luoghi immaginifici dell’infanzia, dove tutto si compie e null’altro diventa necessario. C’è un filo che lega l’Italia da Nord a Sud, che passa dal “C’è un giardino chiaro, fra mura basse,/ di erba secca e di luce, che cuoce adagio/ la sua terra. È una luce che sa di mare./ Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli/ e ne scuoti il ricordo” di Pavese, al “Perché siamo al di qua delle Alpi/ su questa piccola balza/ perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre/ ci scalda il sole sulla porta/ mamma e figlio sulla porta/ noi con gli occhi che il gelo ha consacrati/ a vedere tanta luce ed erba” di Zanzotto, al “È sull’orto/ che avvalla coi castagni/ a ghiaie d’anguille/ la terrazza dei miei mattini/ di mele odorose,/ delle mie sere/ d’organetti e di lumi/ da aie lontane,/ e delle notti/ magiche, immense notti/ di luce/ e di remote fontane” di Mastroianni. * La piena maturità della poesia di Felice Mastroianni si contraddistingue per l’utilizzo del neogreco, che non si marginalizza a mero esercizio di stile, ma diventa scelta etica nei confronti di una lingua che porta nell’anima. L’integrazione nel panorama intellettuale greco è totale; diversi critici e poeti ellenici spendono parole generose per Mastroianni. Febo Delfi, nella prefazione di Quaderno di un’estate, scrive:  > “Con questa raccolta Felice Mastroianni si colloca nell’eletta schiera dei > poeti neogreci, ed è uno dei nostri per sangue e spirito. Si naturalizza poeta > ellenico. Accogliamolo e diamogli il benvenuto come un vero fratello.”. Epilogo chiude il trittico in lingua ellenica, ultima pubblicazione in vita di Mastroianni, che vista dagli occhi dei posteri assume i connotati di un presagio di morte. È congedo e al tempo stesso risposta, forse nemmeno voluta, alla coppia di versi in apertura della sua prima raccolta: “Può salvarci dai giorni che saranno/ la pietà del passato?” Ma se un ritorno alle sorgenti del mattino non ci è consentito, nel segreto dell’alba, il poeta ci augura di spaccare la mandorla della vita, per sentire ancora il profumo della sua anima pura. Salvatore Giuseppe Di Spena *** IL FILO DELLA RONCOLA Tempo malcerto tra sopravvivenze e nuove fiorite  questo tempo di vertigine che ci estranea dal cuore della terra.  Abbiamo scordato il volto delle stagioni. Sono profili sfuggevoli gli stessi tuoi arnesi. Ne seguo i contorni a ritrovare un ritmo perduto, mi parla una vita: la tua vita, certa come cupa radice, scavata come la cote ove s’è arrotata la tua pazienza  sul filo della roncola e della falce fienaia. Tempo di timore. Il timore che mi trattiene presso il muro di cinta della casa paterna, ove ho rinnovato negli anni la parabola del figliuol prodigo, a palparne le pietre malferme, le crepe, marginate ferite  coperte d’erbe, a spiarne di nuove, a piegarmi in un vano struggimento di fare puntello della mia vita. * * * FIORIRANNO DI RONDINI ALTRI CIELI Che senso avrebbe accorgersi di nidi d’improvviso deserti, ancora tiepidi di piume, se non per porre mente che qualcosa è accaduto anche per noi, più che un riflusso d’ali di là dagli orizzonti nel segreto d’un’alba. Fioriranno di rondini altri cieli nell’alterna ventura del mondo. E noi qui come tonti a bere le piogge d’autunno con queste sere povere di gridi. Nella scorza dell’inverno scorderemo la menzogna del sole. * * * ETERNO L’ANDARE? Nel cammino senza tempo quest’ombra sul terreno non è che un istante. E poi avverrà con la morte ch’io mi risvegli mio Dio oltre il cerchio dell’ombra al sereno d’un eterno mattino di Te sfavillante. S’arresterà il cammino o senza fine è l’andare dell’anima, Signore, al Tuo sublime splendore? * * * L’ANTICO GIOCO Ritenta il gioco antico  delle tue sere di bimbo. Copriti di terra gli occhi  e i ginocchi e le mani e fa’ che il sapore dell’erbe t’entri nel sangue,  sapore d’oblio. Fa’ che il sole al tramonto  non ti distingua dalle cose,  e dall’erbe succhia la tua nuova vita. Tramonta anche tu nel sole,  naufrago nel sapore della terra. * * * VENTO D’ISOLE D’ORO Ancora seppellita la mia sorte  in sabbia d’anni e di naufragi. E invano ritorni a queste rive vento d’isole d’oro. Ho scordato gli azzurri sentieri. Ora, in albe d’insonnia vi ripenso e sussulta, isole d’oro, il cuore alla risacca. * * * EPILOGO Qui finisce – come un gioco, come un’illusione – il mio canto ellenico, il canto di «Eutichio» («Eutichio» mi chiamano  i fratelli poeti greci). E verrà il vento a cancellare la mia voce e la favola di «Eutichio». Felice Mastroianni *In copertina: opera di Vincenzo Gemito (1852-1929) L'articolo “I cataclismi dell’anima”. Felice Mastroianni, poeta proviene da Pangea.
September 5, 2025 / Pangea
“Tutto il suo pudore”. Cedere all’inconfessabile: la poesia di Goliarda Sapienza
Il lutto confonde, agita, scuote. La fine di tutto genera inevitabilmente un nuovo inizio, almeno per chi resta. Paradossalmente, il lutto crea sempre vita nuova. > “Non ho potuto e in piedi  > sono rimasta. Difficile  > è cadere”. Ci sono opere che trovano un posto nel panorama letterario non appena vengono concepite, altre invece devono aspettare decenni. Ogni libro ha il suo tempo. Quello di Ancestrale è stato lungo: composto nel 1953 da Goliarda Sapienza, all’epoca trentenne, vide la luce soltanto dopo più di mezzo secolo, nel 2013, grazie alla cura di Angelo Pellegrino per La vita felice. Nel 2025 Einaudi lo ripropone in un’edizione più aggiornata ed estesa, arricchita con nuovi apparati critici – sempre a cura di Pellegrino, con Postfazione di Maria Grazia Calandrone. Si tratta “dell’atto di nascita dell’esistenza letteraria” della scrittrice siciliana. La sua prima raccolta poetica, primo grido della sua anima, febbrile e forte germoglio della sua voce nel mondo. Un atto fondativo, laboratorio di immagini e ossessioni che annuncia la sua futura scrittura, e che esploderà poi nell’Arte della gioia. Quest’opera, pur meritando attenzione fin dagli anni Cinquanta, ricevette opinioni contrastanti dalla critica. Inizialmente annegata dall’indifferenza e dal rigetto di alcuni, come Mario Alicata e Cesare Garboli, venne in seguito apprezzata da altri come Anna Banti e Roberto Longhi. Goliarda aveva ben compreso che la disapprovazione di Alicata – detentore dell’egemonia culturale del partito – significava l’esclusione da case editrici, riviste e giornali e da tutto un ambiente di sinistra di cui faceva parte, se non altro per origine familiare, anche se, già a quel tempo, con posizioni fortemente critiche. I tentativi editoriali dunque cessarono in fretta, com’era tipico per la scrittrice, la quale, stanca di lanciarsi all’inseguimento degli editori, cominciava un nuovo lavoro. Nell’Introduzione al volume di Einaudi, Angelo Pellegrino racconta di come Goliarda avrebbe potuto, a quel tempo, farsi fare una plaquette per far circolare il testo tra amici e conoscenti, e invece non lo fece: “il suo pudore non poteva superare certi scogli. E questa raccolta era tutto il suo pudore”. L’intera raccolta rimase nascosta, e le poesie diventarono così una forma di comunicazione destinata a rivelarsi soltanto agli amici. A lui, infatti, le offrì come un segreto, da custodire nell’intimità. E lo erano: erano il segreto del suo lutto, quello primario, quello che annienta e distrugge, apparentemente tutto, per portare alla luce qualcosa di nuovo. Gli inizi letterari di Goliarda Sapienza presero le prime forme dall’esigenza di esprimersi dopo la morte della madre. Voleva fare l’attrice; non la scrittrice. Ma, si sa, le emozioni più forti cedono il passo all’inconfessabile, e spesso è il trauma della perdita a spalancare le porte dell’arte, a far fiorire ciò che resta inespresso quando le ossa si spezzano. La madre di Goliarda, Maria Giudice, morì nel freddo e corto mese di febbraio del ’53. Fu accudita dalla figlia, che rinunciò a molte tournée teatrali per starle vicino, e che quando scoprì che alla donna, gravemente diabetica, non rimanevano più di sei mesi di vita, le aprì un conto nella pasticceria più vicina. Questo il loro rapporto. > “Mi muore il giorno > e il gesto s’è perduto > fra il fumo e il lampadario > Un segno nero > già traccia intorno a me > cupo abbandono” Ancestrale si compone di una natura così intima che fa quasi paura. Durò un decennio l’elaborazione di questo grave lutto, al quale si aggiunsero nuove perdite, altre mancanze. L’abbandono di molte idee e speranze trasmesse dai genitori, il distacco dalla Sicilia, l’impossibilità di fare teatro o di recitare nel cinema, e la crisi del suo rapporto affettivo, nata dall’incomprensione, dalla percezione di non essere vista. Si tratta di una delle raccolte poetiche più personali che si possano leggere, un viaggio all’interno delle emozioni, che prendono contatto con ogni parte dell’autrice, svelandone drammi, sofferenze, contraddizioni, desideri e bugie. Questa silloge diventa una storia, una fiaba dove si racconta che i morti e i vivi danzano in cerchio, dove la luna mente, e si ha paura di ricordare. In questo “fare disfare ancora rifare”, “[…] un lutto stretto/ avvolge i tetti del mare”, scava tra i tendini, come un verme, si nutre del sangue nelle vene e raggela i sentimenti. Il dolore annulla ogni certezza, tutto ciò che resta è la consapevolezza di soffrire, di vedere l’irrefrenabile sgretolarsi della vita attorno a noi: “Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi di medusa/ aggrappata alla sabbia/ lontana dal mare”. “Verrà a me e non può mancare”: scrivere poesia è esigenza, non si arresta. Goliarda Sapienza lo fa con un linguaggio essenziale, puro e a tratti crudo. Sono versi spogli, privi di aggettivi, senza fronzoli, che prediligono i verbi all’infinito:  > “Separare congiungere  > spargere all’aria  > racchiudere nel pugno  > trattenere  > fra le labbra il sapore  > dividere  > i secondi dai minuti  > discernere nel cadere  > della sera  > questa sera da ieri  > da domani”. Una scrittura primordiale, nascente, che arriva nel punto più profondo: è questo che impone il lutto, il dolore – il niente. Non chiede altro, le priorità si ristabiliscono, tutto ciò che prima era necessario pare superfluo, il sole e le stelle si spengono, e ci si sente vuoti. È una scrittura ridotta all’osso, quella di Sapienza, e allo stesso tempo è precisa come un bisturi – emozionale, magmatica, sembra seguire i battiti del cuore. > “È compiuto. È concluso. È terminato. > È consumato l’incendio. S’è fermato. > S’è chiuso il cerchio pietrificato. > Il tempo s’è fermato. È consumato > il delitto. S’è bruciato > il ricordo. L’ansia è cessata. > Una coltre di lava ha sigillato > ogni cranio ogni orbita svuotata. > > S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare > il silenzio di lava. Le formiche > girano intorno al rogo spento impazzite”. Sono versi taglienti, ricchi di sangue, immagini contraddittorie, alimentati dal paradosso. Perché è paradossale vivere un sentimento che non si riesce a esprimere (“[…] Non sapevo il dolore d’esser muta/ il dolore di piangere e gridare/ senza voce/ contro un muro danzante di sorrisi”), per cui non si trovano parole (“Ascolta non c’è parola per questo/ non c’è parola per seppellire una voce/già fredda nel suo sudario/ di raso e gelsomino”). È paradossale continuare a cercare chi non può più rispondere – chi non riesce a sentire, chi è troppo lontano: “Vedi non ho parole eppure resto/ a te accanto. Non ho voce eppure/ muovo le labbra. Non ho fiato eppure/ vivo e ti guardo. E forse è questo/ che volevo da te, muta restare/ al tuo fianco ascoltando la tua voce/ il tuo passo scandire le mie ore”. Restare fedeli a un recinto sacro, eppure vuoto. L’intimità di questa raccolta è disarmante: un continuo dialogo tra un “io” e un “tu” inconciliabili, eppure indistinguibili, per questo indivisibili. La prima persona singolare contraddistingue la maggior parte dei componimenti, e in molti di essi è proprio presente in funzione di quel “tu”. È questo che accade quando il dolore arriva senza bussare: la nostra vita ci pare impossibile da affrontare. Così l’assenza diviene viva presenza, il vuoto è insostenibile: strenuamente, con le unghie e con i denti lottiamo per riempirlo con la nostalgia per qualcosa che non c’è più, abbandonandoci totalmente all’altro – a chi non ci può più guidare, sostenere, accarezzare. > “Vorrei all’ombra del tuo > sguardo > sostare e con la > mano disegnare > la tua voce > che cala verso > me a raccontare. > > Vorrei al ritmo > del verso > abbandonarmi ma > il tempo stringe > e devo correre > ancora”. Quando perdiamo un amore – una madre, un padre, un compagno, un cane – perdiamo una parte di noi, per sempre. Bisogna ricostruire: si sente, in sottofondo, una grande consapevolezza di sé nei versi di Sapienza. Del proprio corpo, delle proprie contraddizioni, dei propri sentimenti. Della nuova direzione che occorre prendere, anche se ancora non la si conosce: “Ho camminato sul ciglio/ dei miei sogni. Sbattuta/ dall’onda nera delle tue occhiaie./ Risucchiata/ dal gorgo del tuo fiato/ Non posso tornare”. Il titolo di questa raccolta è la chiave della sua intera lettura, secondo Pellegrino. Inizialmente doveva essere Informazione biologica, poi I luoghi ancestrali della memoria. Certo, è evidente la volontà, per Goliarda, di un ritorno all’ancestralità attraverso le proprie origini come i genitori e la terra, ma anche la necessità di costruire un nuovo mondo a partire da queste origini. Un mondo solo suo, composto in dieci anni, con sofferenza, memoria, distacco e sentimento. C’è tanto mare, in questo mondo. Ci sono alghe, meduse, ci sono gli scogli, il sole e la luna. C’è la Sicilia, quella terra per lei madre: alla fine del libro è presente una raccolta intitolata Siciliane – pubblicata per la prima volta da Il Girasole edizioni nel 2012 –, in cui troviamo poesie composte soltanto nel dialetto isolano. Sono, a coronare il tutto, l’espressione di un’anima pura, libera dai pregiudizi, sola nel suo vibrante coraggio. Con Ancestrale, Goliarda Sapienza non recita solo un dolore, ma fonda una voce che ancora oggi non smette di bruciare. > “E va beni. Facemu cuntu > ca’ un ni canuscemu. > Comu si’ un avissimu jucatu > nsemmula nna rina. > Eppuru lu sai ca m’aiutasti > a scavari na fossa > finu a quannu tuccammu > l’acqua nnu funnu. > L’acqua du mari”. Anna Taravella  *** A mia madre Quando tornerò sarà notte fonda Quando tornerò saranno mute le cose Nessuno m’aspetterà in quel letto di terra Nessuno m’accoglierà in quel silenzio di terra Nessuno mi consolerà per tutte le parti già morte che porto in me con rassegnata impotenza Nessuno mi consolerà per quegli attimi perduti per quei suoni scordati che da tempo viaggiano al mio fianco e fanno denso il respiro, melmosa la lingua Quando verrò solo una fessura basterà a contenermi e nessuna mano spianerà la terra sotto le guance gelide e nessuna mano si opporrà alla fretta della vanga al suo ritmo indifferente per quella fine estranea, ripugnante Potessi in quella notte vuota posare la mia fronte sul tuo seno grande di sempre Potessi rivestirmi del tuo braccio e tenendo nelle mani il tuo polso affilato da pensieri acuminati da terrori taglienti potessi in quella notte risentire il mio corpo lungo il tuo possente materno spossato da parti tremendi schiantato da lunghi congiungimenti Ma troppo tarda la mia notte e tu non puoi aspettare oltre E nessuno spianerà la terra sotto il mio fianco nessuno si opporrà alla fretta che prende gli uomini davanti a una bara. Goliarda Sapienza L'articolo “Tutto il suo pudore”. Cedere all’inconfessabile: la poesia di Goliarda Sapienza proviene da Pangea.
September 4, 2025 / Pangea
“Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è poeta, un vero poeta”
Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una rivoluzione, di un bivio più che di una conversione. Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante, questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa, solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre (l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’, praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata – come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla tragedia.  Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero, di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre, l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese – Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe, in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile… Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire, tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon: dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo 10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99, cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano, aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma, l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di Paul Celan.  Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio: > dentro di noi come uova di mosca > dileguarsi con i congegni per le madri astrali > stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento > sbarrati e neri nei sai > quando il tempo delle città apre le sue botole > un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici > profilo di cifre marginali > e l’uomo con le ascelle fiorite > esperto di addii al livello dei grani > abbandonato alla legge > piomba nelle orine animali impastate di erba > e altri dopo con ossature di tela > il cuore sospeso all’aperto > un chilometro più lungo della vita > scattano oltre i canali sui denti della neve > a risvegliare le controcorrenti dei pesci > la contesa dei corni > e altri azzurri di punta con occhi di metallo > annotano la fuga ostile dei giorni > al seguito dei cani gonfiati dalla luna > dentro di noi covare la nostra profezia > spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra > all’orlo dei cieli domestici > insicuri sui nettari sulle croste del sangue > predatori da gioco > barattare con le lacrime l’insolenza delle parole Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa… accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite 1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante, 2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.  Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto. Pretendono l’audacia chiamata dedizione.   La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale, compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di spudorato pudore? Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele, immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori) non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago, il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60, tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se non ricordo male, a Marsilio. Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di Menon? Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito» ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco) Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando, che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come un ‘fratello gemello separato alla nascita’. «Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti, tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo, la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan (poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una lingua «a nord del futuro». E ancora:  > «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non > crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna, > poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità; > è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per > sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio > la poesia».  Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:  > «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre. > Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un > disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito». Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica di Menon? Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso (credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso di un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva (o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce, elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore, godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che fa». Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il ‘personaggio’ Menon. Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando, sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido. Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon. Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così, citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo «pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie: «nido del sagittario un grillo ha cantato non più di un bisbiglio nella pena dell’essere (…) coltivatore di ansie uomo solo vado con bagagli di vento, speranze di infanzia, i segni lasciati sul cuore dalla tua mano (…) terra lenta dell’erpice fatiche di una vita si scardina il sasso dalla zolla nello spavento della locusta invidia di più forti ali e l’erba resta sospesa nel vento questa stagione di prove non si appoggia a stelle matematiche impotenti nei giri assegnati contro il caldo furore del sangue che tira il grido dalla sua parte e ogni perdizione non confondermi nell’istante della resa non giudicarmi se l’occhio si fa vetro sulla parete offesa dalla rinuncia tutto umano è il piede che incontra il suo ostacolo il braccio che decide di abbassare lo scudo». Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci resta da scoprire di Gian Giacomo Menon? Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni (“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del “fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα), quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina, saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non ce l’ha difficilmente se lo può dare. Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito; ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici; quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale del Simposio. Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’ Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere ‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo classico ‘Stellini’ di Udine. Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo. I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi, promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere. A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del nostro paese? Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo. Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire, provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo! L'articolo “Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è poeta, un vero poeta” proviene da Pangea.
August 30, 2025 / Pangea
“Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri
Il primo ad unirli fu il visionario, l’anticipatore: Pier Paolo Pasolini. Fece incontrare Alda Merini e Michele Pierri sulle pagine della rivista “Paragone”. Era il 1953 e Pasolini scrisse un lungo articolo intitolato Una linea orfica, in cui accostava le loro opere nel segno dell’orfismo. La giovanissima Alda (che all’epoca aveva appena 22 anni) era rimasta abbagliata dalla lettura del De Consolatione di Pierri, uscito per Schwarz, dove era altresì apparso il suo Tu sei Pietro.Non sapeva nulla di lui, solo che aveva 54 anni, viveva a Taranto con la moglie e i numerosi figli ed esercitava la professione di chirurgo. Dopo quasi trent’anni da quell’incontro sulla carta, nel 1981, è Giacinto Spagnoletti a favorire il loro contatto, una loro collaborazione poetica. Chiede a Pierri di mettere mano alla produzione di Alda Merini per cercare di ottenere una raccolta che ne segni il ritorno sulla scena editoriale. Alda vive un momento di grande difficoltà: reduce da dieci anni trascorsi in manicomio, completamente sola nella sua casa milanese di Ripa Ticinese: il marito è continuamente ricoverato in ospedale e le sue quattro figlie vivono lontane. Quando Spagnoletti pronuncia il nome di Pierri, per lei è un momento quasi epifanico. L’idea di ritrovare il compagno di orfismo, di potersi affidare alle sue attenzioni, la rassicura e la rallegra immensamente. E così, la sera in cui arriva la telefonata dell’ormai ottantenne poeta tarantino, Alda lo accoglie con una delle sue frasi leggendarie “Buonasera, Michele, sono Alda Merini. Sono trent’anni che aspetto questa telefonata.” Possiamo immaginare lo stupore di Michele Pierri nell’udire queste parole, ironiche ed immediate, che attraversano i fili del telefono come saette. Il medico-poeta è un uomo estremamente riservato, vive immerso nel silenzio e nella concentrazione. Ha recentemente perso l’amata moglie Aminta, dopo una lunga malattia che l’ha paralizzata a letto per undici anni, e intorno a lui si muove una grande famiglia di ben dieci figli.  Tra Alda e Michele vi sono ben mille chilometri di distanza e 32 anni di differenza. Lei ha 51 anni, lui 83. Ma siamo nel paese dell’anima, dove dubbi e distanze diventano materia di confronto serrato, dialogo profondo tra poeti. Il loro appuntamento telefonico diventa un momento di pura felicità per entrambi, un luogo di incontro, di intima fiducia. Alle volte Alda appoggia il telefono sul calorifero, si mette al pianoforte, e fino all’una di notte dedica a Michele le romanze più dolci che conosce. Pierri è profondamente colpito dalla situazione di profonda miseria in cui versa quella poetessa milanese che lui ha sempre considerato di eccezionale valore. L’idea che le sue figlie chiamino “mamma” altre donne, a cui sono state affidate a seguito dei suoi ricoveri in manicomio, gli fa sanguinare il cuore. Rivolge i suoi pensieri anche al marito, gravemente malato, che non può più sostenerla. Tra Taranto e Milano inizia così una fitta corrispondenza nutrita di lettere, poesie e telefonate interurbane. La loro relazione diventa di dominio familiare a causa delle bollette telefoniche, da un milione, due milioni, quattro milioni e mezzo di lire. Conti vertiginosi… ma quel legame è diventato troppo prezioso perché possa finire.  Il marito di Alda, Ettore Carniti, comprende che questo è forse il germe di un’unione più forte e ne è quasi sollevato: quel medico potrebbe essere un importante punto di riferimento per la moglie, quando lui non ci sarà più… Ormai piegato da un cancro ai polmoni, da un infarto e da una gamba amputata, una sera, verso la fine, chiede ad Alda di parlare con Pierri e riesce a pronunciare parole immense, che vanno dritte al cuore: “Le affido mia moglie, ne abbia cura e le faccia da padre.” L’agonia di Ettore termina il 7 luglio 1983. Alda attraversa il mare della perdita. Gli antichi fantasmi rischiano di tornare nella sua mente ma l’intima amicizia con Pierri, ormai nutrita da una lunga fiducia, riesce a salvarla.  Alda e Michele si concedono ora una maggiore tenerezza, sentono che possono appartenersi, possono parlare dell’alchimia che li unisce, un’alchimia profonda che fonde amicizia, stima reciproca, bisogno di conoscersi, toccarsi, amarsi. Un lungo ed inedito amore telefonico sta per diventare “vera vita”?  Michele è il più prudente, sente pienamente la responsabilità che si è assunto, ma esita a proiettarsi di nuovo al fianco di una donna. Alda, che vive i sentimenti molto istintivamente, parla senza esitazione d’amore. “Cesare amò Cleopatra,/ io amo Pierri divino/ che non conduce nessuna guerra,/ che è solo condottiero di nostalgia”, scrive nelle Satire della Ripa, che esce nel 1983, grazie al corposo lavoro di selezione operato da Pierri. Arriviamo così al 1984: l’anno della rinascita (e non solo letteraria), che passa attraverso La terra santa, il capolavoro di Alda Merini. Anche Michele Pierri è protagonista di un’importante pubblicazione. Si tratta di una sua antologia personale che raccoglie una selezione di versi composti tra il 1945 e il 1983: il titolo è Passare il ponte da sola, con 16 inediti del 1983. Qui compare Alda Merini, con due poesie a lei esplicitamente dedicate. Nella poesia Ma questo nuovo aprile si legge “Il tuo seno scoperto/ una finestra aperta/ sulla vita futura/ adorando il presente”. Pare la prospettiva di un’unione che possa conciliare il futuro con un presente ancora vivo e sanguinante (dove forse si cela l’amata Aminta, a cui Pierri resterà sempre profondamente legato). Il fatto che Michele stia coltivando il definitivo desiderio di concretizzare il loro legame in qualcosa di più che una telefonata è confermato dall’altro componimento a lei dedicato, Due poesie: “Due poesie che per grazia/ s’incontrano non possono/ non abbracciarsi”. Paiono le parole di un libro già scritto… Michele la aiuta, le invia dei vaglia per salvarla dallo sfratto e dal rischio di vedersi tagliare luce, telefono, gas. Ma le condizioni economiche di Alda sono ben oltre la soglia critica e, un giorno, pensando di racimolare qualche lira, subaffitta una stanza del suo bilocale a Charles, un barbone del Naviglio. Saputa la cosa, Pierri si decide, butta il cuore oltre l’ostacolo e le invia un telegramma di sole tre parole: “Ti sposo subito”. Da Milano Centrale, Alda parte dunque in treno alla volta di Taranto, attraversa l’Italia ed i mille chilometri che la dividono da Michele, l’uomo che si staglia nella sua mente come un mito, un eroe sublime. È sedotta dalle sue qualità, quelle che ha conosciuto nei loro lunghi convegni telefonici: la sua monumentale rettitudine morale e la sua tendenza ascetica e meditativa. Come racconta nella sua biografia Reato di vita: > “Quando era venuto a prendermi alla stazione …io non l’avevo mai visto di > persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro anni ci > eravamo ardentemente amati al telefono”. Il 6 ottobre 1984, nella Chiesa del SS. Crocifisso di Taranto, Michele Pierri e Alda Merini si sposano. Lui ha 85 anni, lei 53. Per quattro anni, a Taranto, Alda fu una sposa felice. Ogni mattina Michele arrivava nella loro stanza con il caffè, una rosa e una poesia d’amore sul vassoio… Scrivevano, si consultavano, si recitavano versi. Quegli anni furono tra i più creativi di Alda Merini, un momento di crescita umana e poetica, in cui la sua maturità artistica, già attraversata da esperienze gravi e dolorose, si coniuga ad un maggior rigore formale, certamente ispirato da Pierri. Ogni tanto lei e Michele salivano a Milano Su quel treno di Taranto, infinito, che Alda canterà più avanti con tanta malinconia, dopo la morte di Pierri, avvenuta nel 1988. Rivolgendosi all’amico editore Vanni Scheiwiller, scriverà  > Su quel treno di Taranto, infinito > dove guarirà l’ombra della mia giovinezza > io tornerò un giorno. > Tornerò, Vanni, dall’amore che ho perso > tra gli ulivi gaudenti della terra, > tornerò presso il suo vecchio corpo… > e quando il sole mi guariva le tempie, > o Vanni, io pregavo il Signore > che mi facesse morire con lui. “Erano una coppia favolosa”, scrive Maria Corti, attenta e fondamentale curatrice dell’opera di Merini, “poeti di rilievo entrambi, che ti venivano a trovare, ti donavano i loro testi e ti lasciavano nelle stanze il senso di una epifania”. È proprio questo il senso che si respira tra le righe dei versi che Alda ha dedicato a Michele, il suo “grande guru bianco… di straordinaria bellezza, anche se già ottantenne”, ma eterno ragazzo nel cuore:  > Forse tu hai dentro il tuo corpo > un seme di grande ragione, > ma le tue labbra gaudenti > che sanno di tanta ironia > hanno morso più baci > di quanto ne voglia il Signore… > E le tue mani roventi > nude, di maschio deciso > hanno dato più abbracci > di quanto ne valga una messe, > eppure il mio cuore ti canta, > o sposo novello. Un grande amore che si fa poesia, malgrado le maldicenze e le ipocrisie di quanti non lo compresero “Quanta gente Michele ha messo la bocca/ tra i nostri inguini,/ gli inguini dei nostri sogni…”. I farisei non capiranno mai cosa sia una follia d’amore ebbe a scrivere Merini nella Mistica d’amore. Ma, dopotutto, a poco conta il loro giudizio di fronte a questo verso: “Pierri, se morirò/ ricordati che io ebbi l’audacia di amarti”.  Marilena Garis *In copertina: Alda Merini e Alberto Casiraghy in un ritratto fotografico di Giorgio Matticchio L'articolo “Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri proviene da Pangea.
August 28, 2025 / Pangea