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Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni
La poesia di Alessandro Ceni è poesia disinteressata alla poesia, intesa come opera poetica (ricordo incidentalmente che Orfeo solo volgendosi e mancando l’opera trova ispirazione e voce), lontanissima dagli altari o altarini, dal dibattito spesso insulso tra acquarellisti e prefiche. Sono, i suoi, Mattoni per l’altare del fuoco (titolo del libro del 2002), dove la poesia si tiene ed erge – sta potremmo dire – in una dimensione d’innocenza, infantile e ferina, in attesa di avvertire l’usta, di stanare e a un tempo liberare quella miracolosa preda che l’alimenta.  Fin da qui, potremo scorgere nell’atto scrittorio di Ceni una sorta di celebrazione, un mysterion, un’azione liturgica compiuta per la salvezza del creato – per dargli riparo e dimora:  > “le pietre arrotondate indicano un focolare, > presumono persone accerchiantesi in un rito > per scrutare il volo circoscritto degli uccelli…” Misericordia francescana, perdono dell’adultera… Come uno sciamano, chiurlo, passera, falco o merla (penne e artigli ne sono spesso i paramenti esoterici), s’aggira tra paduli, spiagge, dune, pinete – la memoria di un’antica Toscana, la Versilia, l’Appennino – tra stiance e talasse, ad ascoltare il suono di voci lontane e pacificate, ed accostarsi, accedere infine a quel posto segreto, che sta nel cuore stesso del cosmo – e ne concede la più intima e autentica dizione.  Potremo fin d’ora immaginarne la tessitura elementare, una materia segnica (traccia ragniforme, arborescente), per lo più invisibile, ma carica di un’energia vibratoria che si scarica visibilmente in ogni pronuncia, perché ogni parola detta la trattiene tutta intorno a sé. Perché, la parola non può che essere detta – anche se scritta –, svuotarsi e ricaricarsi ritmicamente ogni volta che il poeta la proferisce.  Parlare, prendere parola? Proprio in quel posto?  Come se da questo potesse definirsene l’atto?    Cosa allora distingue questa pratica da quella della comunicazione ordinaria, dalle performance quotidiane che ci consentono di abitare il mondo, avere relazioni sociali ecc.? (Brevemente: scambi, transazioni, negoziati, chiedere e/o ricevere informazioni, raccogliere e trasmettere pensieri, emozioni stati d’animo…) Per arrischiare una risposta, sicuramente maldestra, tenteremo di dire qualcosa in merito alla posizione del poeta, al luogo da dove parla …  In diverse occasioni mi sono trovato con Alessandro a discutere di questa faccenda. Oggi tanto più insistente, soprattutto riguardo alla responsabilità, al ruolo dello scrittore – intellettuale (se sapessimo cosa significa questo temine) o poeta che sia – nella società. Bigongiari (ci accomuna un affetto inestinguibile per Piero e, per entrambi, una riconoscenza durevole), interrogato sulla questione al Quirinale dal Presidente della Repubblica, disse, col candore di un bimbo, che prima veniva la poesia, poi eventualmente la politica, la società civile e tutto il resto. Alludeva forse alla solitudine, alla disappartenenza del poeta alla città? O forse al particolare legame che la poesia instaura, alla sua dimensione propriamente etica, a quel patto inscindibile che, nella pronuncia, la stringe agli altri, ai lettori – essenzialmente alla lettura, alla dizione che, rendendola operativa, ne definisce appieno l’stanza politica.   Ceni, per parte sua, richiamava invece un barcollante Dylan Thomas (è noto quanto il gallese indulgesse con l’alcool) che di fronte alla Società Americana dei Poeti asseriva che del poeta la posizione propria è ovunque quella eretta… Effetto di un passaggio evolutivo e al contempo di una misteriosa mutazione antropologica che salda storia, parola e vita in un nesso inaggirabile, il poeta è – potremmo azzardare – una sorta di arrivante (alla parola)che è già là e la dice (la poesia “corre” raminga sul destriero del respiro, e sopraggiunge là dove “si rompe il fiato”, dove trova il giusto passo della pronuncia), senza davvero saperlo né poterne dire qualcosa. Sprovvedutamente. Pertanto, non bisogna chiedergli niente in merito a come sia giunto alla poesia o se possa sostarvi: né alla poesia stessa, nessun dettaglio interpretativo, messaggi o comunicazioni, neppure spiegazioni o giustificazioni… Leggete, leggete, diceva Celan, la comprensione arriverà (se ha da farlo). Il solo atto che in questa posizione si compie e si richiede, la sua sola destinazione è quella della voce, del dar voce – non il senso, la trasmissione di un messaggio: il suo affidarsi sostanzialmente a una voce – la sua Vocazione, per così dire. Enunciare, prendere parola, affinché ne sia giustificata la presenza facendo lavorare il dispositivo della lingua.  Che per tale affidamento si produca qualcosa, un enunciato significativamente pragmatico resta meramente contingente, per lo più ignoto e impronosticabile. Voce non solo, ma anche, in questa, l’eco di antichissime movenze, canto o danza, cadenza e ritmo, tanto intimi quanto naturali. Un discorrere senza parole – o prima di loro –, che le parole stesse registrano come una scossa, segreta motivazione del dato testuale: vibrazione o fremito – non la commozione né la tristezza o la gioia – che attiva e disattiva, arresta e riparte sul filo di un ductus che non conduce in nessun luogo. Il passo della poesia, potremo dire, è quello mortale della vita che vi si trascrive, il battito del cuore, la pulsazione del sangue, la sua pressione: poesia, dice Rilke, [è] invisibile respiro, in cui ritmicamente avvengo. Postura instabile, per lo più incerta, definita nondimeno dal dettato – gli Stilnovisti la chiamavano dettanza, un misto di fiducia e disperazione – dal sovvenire, dal capitare della voce – l’elemento sonoro del linguaggio, quello slancio – quasi un Trieb vocalico – che una lunga tradizione accosta all’immagine della corsa del cavallo. Potremo chiamarla Erfahrung, quell’esperienza dell’andare, del viaggiare che si dà quando il vivere non è ancora vissuto e il senso non ancora è là a racchiuderla in un viaggio, in un racconto.  Quando non c’è niente da dire, fatto o storia da riferire. Una sorta di vertigine, di capogiro che, nel suo “non è niente”, scampa il pericolo sommesso del Nulla e nomina l’evento inatteso – talvolta sconcertante – dello straordinario (in cui siamo permanentemente immersi). Pensiamo al devoto di Kafka, e a quel suo nominare… a casaccio le cose che gli si porgono – “prima di mostrarsi a me, dice, devono essere belle e tranquille perché la gente ne parla in questo modo”… Mal di mare sulla terra ferma. L’oscillare del corpo, il suo ritmico accadere nella lingua, l’accostarsi al silenzio (risonante) dell’infanzia.  L’atto allora. Il prendere parola dei poeti. Tentativo di familiarizzarsi con quel “discorrere”, assumendolo in un dispositivo storicamente consolidato in regole e vocaboli. Riuscendovi solo in infima parte, non possono che sospenderne il funzionamento, disattivarne le funzioni – significazione e informazione – generando sovente oscurità, un’insondabile cifratura che lascia nondimeno risuonare ritmi remoti che ancora scandiscono le nostre esistenze (l’acqua del fiume, il frusciare del vento, lo scroscio della pioggia, il susseguirsi delle stagioni)… La lingua, infatti, è trasmessa, la apprendiamo dalla madre (forse appartiene solo a lei, e per questo è materna): riempiamo la bocca vuota di capezzoli con parole che supplementano un silenzio intessuto di voci corporee, bisogni più o meno rumorosi (ne avvertiamo spesso il riverbero nell’amore, nel pianto o nel riso). Come il corpo, la lingua, la nostra lingua ci resta per lo più inappropriabile, permanentemente straniera. E come di quello, se esposto, proviamo vergogna, di questa restiamo soggetti sempre lavorati da un’infanzia tanto sonora quanto silenziosa. Lo dimostrano i lapsus, i balbettii dell’emozione, i rantoli della malattia, talvolta meglio i neologismi, giochi verbali, l’indulgenza nei vernacoli.  Il poeta – e qui, dopo l’affanno di questo giro, torno ad Alessandro (che mi perdonerà) – è così un parlante speciale, appena distinguibile da altri lazzeroni; testimonia di questa ambigua familiarità, la rivela abbandonandone la pratica e l’uso interrompendo i circuiti del significato e della comunicazione. Al punto di non avere niente da dire – neppure della poesia, s’è detto – solo da sostenere questa Unheimlichkeit della lingua, che come un’intima estraneità si rende praticabile nel brivido di un cambio di tono, nella sospensione del fiato, nelle pause del suono e soprattutto del senso. In quel moto segreto che ci agita nell’ascolto, che ci lascia dolcemente oscillare, perché, come in un inno, possiamo giubilare all’avvento di un mondo ogni volta come la prima volta.  Potremmo dire, concludendo, che per questo arcano legame musaico, la poesia è sempre felice, celebrativa; concede sempre l’ascolto di un’altra voce, troppo spesso silenziata da differenti esigenze… la possibilità di ricevere una benedizione d’animale o di bimbo, per lasciarsi saggiamente assorbire dal creato, e muoversi, creature tra creature, acconsentendo acquiescenti alla sua irresistibile cadenza. Mario Ajazzi Mancini *In copertina: l’animale, il cavallo, secondo Albrecht Dürer L'articolo Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea
Fantasmagoria del rosso.  A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi”
> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti > al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica > Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio) > “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai > Corinzi, 12, 2) > “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e > l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque”  (Genesi, 1, 2) a te, che tutto è cuore.  ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor: ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman, offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson 1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio. questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra riflessione o obiettivo:  con parole tue, “essere con, essere verso” nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola, “l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad abbracciare l’amore divino, in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”  per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici, entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio (Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che “nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio. > SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38) lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è “ospitalità”, in cui host e guest sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato” (Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore, cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del cuore:  > “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; > è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua > vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi > griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).  per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza, è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano diventa capiente per accogliere Dio.  nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo, ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa fa della Terra la casa di una splendida finitudine: > “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del > planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami > con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli > fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno > d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.  lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.  “Guarda là”  torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.  “e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”  quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio” per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità, una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica, il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151), del “crollare di candore”, “petto scalzo”,  > “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace, > disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in > ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno” > “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si > frana, su sé stessi di spalle” Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).  si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,  > “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,” nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987), ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione, sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil 2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un “Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione, sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio, nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento. un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando Meister Eckhart, gravida del nulla:  > “l’indimostrabile del cosmo che vibra” vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.  fermagenesi nel suo mentre.  > “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo” si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con il linguaggio, puro avvenimento,  > “ortogonale al parlato, > è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo” per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/ Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori […]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la ‘realtà’ empirica del senso comune. > “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le > ombre” > “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto” mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti, presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente ‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate, continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale, orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.  più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica non i cuori materia ma il loro rosso. > “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio” lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani, se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo, quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede, incarnazione del sacrificio cristico,  > “sangue acceso di fiume aperto” creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento. Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del “volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore, “rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/ Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).  > “bocciolo di punta” rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale, nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto, radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o indipendentemente da essa” (Idem, 33).  penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì assorta, ogni nuova infanzia. Cristiana Panella * Riferimenti bibliografici Agostino, Le confessioni. Testo latino a fronte. A cura di Maria Bettetini. Trad. di Carlo Carena. Torino: Einaudi, 2000. Agostino, Commento ai Salmi. A cura di Manlio Simonetti. Milano: Mondadori, 1989. Barsotti, Divo, La mistica della riparazione. Pref. di Giuseppe Gioia. Melara: Edizioni Parva, 2002. Bibbia. Progetto e direzione di Enzo Bianchi. A cura di Mario Cucca et al. Trad. di Enzo Bianchi et al. Torino: Einaudi, 2023. Bignozzi, Isabella, Fermagenesi. Quarta di copertina di Mara Cini. Verona: Anterem Edizioni, 2025. Cirlot, Veronica et al. (a cura di) La mistica cristiana (vol. 2). Progetto editoriale di Francesco Zambon. I Meridiani. Milano: Mondadori, 2021. Chrétien, Jean-Louis, L’effroi du beau. Parigi: Les Éditions du Cerf, 1987. Chrétien, Jean-Louis, La voix nue. Phénoménologie de la promesse. Parigi: Les Éditions de Minuit, 1990. Chrétien, Jean-Louis, L’appel et la réponse. Parigi : Les Éditions de Minuit, 1992. Chrétien, Jean-Louis, La joie spacieuse. Essai sur la dilatation. Parigi : Les Éditions de Minuit, 2007. Gerson, Jean, Teologia mistica. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini. Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline, 1992. Giovanni della Croce, Opere complete. Prefaz. di P. Emilio José Martίnez González. Introd. di Federico Ruiz. Roma: OCD, 2020.  Henry, Michel, Incarnation. Une philosophie de la chair. Parigi: Seuil, 2000. Henry, Michel, Fenomenologia materiale. A cura di Pietro d’Oriano. Milano: Guerini e Associati, 2001. Henry, Michel, Parole del Cristo, Brescia: Queriniana, 2003. Henry, Michel, Auto-donation, Parigi : Beauchesne, 2004. Hillman, James, L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Milano: Adelphi, 2002. Lala, Ismail, “Turning Religious Experience into Reality: The Spiritual Power of Himma”, Religions, 14 (3), 385, 2023. Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014. Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018. Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.  Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018. Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008. L'articolo Fantasmagoria del rosso.  A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi” proviene da Pangea.
November 6, 2025 / Pangea
La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di scrittori da social
Come se la passano oggi gli scrittori? Stanno in giro per librerie? Si sono dati alla macchia, scomparendo dalla mondanità? Oppure stanno a giornate sui social? Ecco, piuttosto l’ultima. Dove vivono oggi gli scrittori, quelli bravi e quelli ciuchi, quelli famosi e quelli sconosciuti? A giornate sui social a pontificare su tutto, su ciò che conoscono e su ciò che non conoscono. Come qualsiasi cittadino normale? Ebbene sì, come ogni persona normale. Ma è pur vero che lo scrittore non è tanto normale, come figura sociale (non social) intendo. Ma questa è soltanto una stupida illazione. Personalmente passo troppo tempo su facebook e quando me ne accorgo mi faccio schifo, ma proseguo comunque in questa oscena attività. Un amico bibliotecario, una volta scrisse su facebook che si sarebbe allontanato per un po’ dai social perché voleva scrivere. Alcuni discutono di tutto; altri parlano solo di libri. E mi chiedo: esisterà in futuro qualcosa di cui scrivere che sarà fuori dai social, dalla rete, dalle piattaforme online, dalle riviste digitali? Lo spero, ma non credo. Non moriremo cartacei, come non siamo morti democristiani (si diceva così una volta…). Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che interessa tutti: come andrà a finire… Dunque, in questa seconda puntata della “Vita Agrissima”, affronteremo alcune tipologie dentro le quali gli scrittori (e si intende al solito tutta la compagine: scriventi, poeti e poteastri, ghost, ecc.), a differenza della prima puntata, non hanno alcun riferimento reale. Tutto quello che segue è inventato… *  Critici e ipocriti “Ho letto il libro di Tizio. Intanto, per me, c’è un errore sintattico alla fine di pagina 137. Poi come fa il personaggio di Caio a parlare con quel tono? È inverosimile”. E tu chiedi – tutto avviene tramite messaggistica, nulla è ancora pubblico – “ma la storia? La storia è bella?”. E lo scrittore criticone risponde che è senza infamia e senza lode, ma gli manca l’ultimo capitolo. Il giorno dopo leggi il suo post sui social: “Quando lo stile di un autore dimostra ancora una volta la forza della narrativa italiana. Lo conosco bene e so che lui è maestro nel trovare il giusto tono per ogni personaggio, come dimostra Caio in questo suo ultimo lavoro. Complimenti Tizio, è il tuo libro migliore”… Sipario. * Lecchini Dicesi lecchino chi si complimenta in modo eccessivo, senza ragioni valide per farlo. Di solito il lecchino agisce nei confronti di un collega più famoso o reputato più importante, e che, a suo avviso, potrebbe aiutarlo nelle sue prossime “mosse letterarie”. Uno dei modi migliori è sollevare uno scrittore affranto da qualche questione extraletteraria, confortandolo con un commento sotto al suo post malinconico, tipo: “non ti curare di questi sfaceli quotidiani, tu hai la letteratura che ti (ci) conforta, e in questo campo sei un maestro”. La sottospecie è il controlecchino simpatico, cioè colui che prova a conquistare la confidenza di uno scrittore che reputa più addentro alle cose editoriali, usando l’ironia, lo sfottò, l’ammicco, l’occhiolino. La tattica è più sfrontata, ma se funziona maggiormente efficace, perché l’opera di lecchinaggio tout court stucca facilmente. Ahimé. * Lamentosi “Se un editore, dico uno, avesse compreso per tempo il senso profondo di questo libro che ho scritto ormai 10 anni fa, forse oggi avremmo compreso meglio la questione del [inserire un argomento a piacere]”. Questo lamento pare più adatto alla saggistica, ma sta bene pure nei settori letterari della narrativa e della poesia. Il lamento non è soltanto relativo a una pubblicazione mancata, ma anche a un libro che ha avuto poca risonanza, in cui l’editore non si è speso in promozione e da cui l’autore auspicava maggiore eco mediatica. Solitamente ai lamentosi viene bene anche una seconda parte di orgoglio risentito in cui scrivono: “comunque, in un mondo editoriale caduto così in basso, sono felice di non aver preso parte a tale riflusso commerciale”. Olé. * Fenomeni Dicesi fenomeno colui che pensa di essere più figo degli altri. La categoria è vastissima, di cui una sottospecie, forse la peggiore, è quella dei fenomeni che condiscono i loro post di esecrabile falsa umiltà. Tipo: “sono seduto a un tavolino fronte mare, ho ritrovato un vecchio libro di Gogol e mi infliggo questa medicina, mentre tutti intorno a me sono curvi sopra i loro cellulari”. Tra i fenomeni ci sono gli assertivi, cioè quegli scrittori che credono di essere un’autorità in materia (che ne so, di gialli, di fantasy, di qualcosa) e tracciano post come fossero confini statuali. A puro titolo di esempio quel che segue. Sottotesto non scritto: [attualmente sono il miglior narratore di genere poliziesco]. Testo del post sui social: “nel genere poliziesco una buona storia necessita di due cose fondamentali X e Y, perché soltanto così abbiamo la storia perfetta”. E sotto sbrodolamento di commenti entusiastici da parte dei followers. Evviva.  * Ingrati Non so se il numero degli scrittori ingrati sui social sia alto o basso. Certamente l’ingratitudine è una delle attività più crudeli. Mettiamo che abbiate organizzato la presentazione di un libro per conto di una casa editrice. Avete invitato l’autore del libro e lo avete messo in contatto direttamente con l’editore, tipo Giulio Einaudi o Elvira Sellerio (meglio citare persone scomparse…) – è ovviamente un esempio incongruo. Ecco! Alla fine dell’evento lo scrittore fa un bel post sui social, tagga tutti e ringrazia tutti, tranne voi. Perché? Certi comportamenti umani sono insondabili, ma anche parecchio stronzi! Tiè! *  Citazionisti “Come non essere d’accordo con questa frase di Franz Kafka: [segue frase]”. “Come non sottoscrivere questa massima di Seneca: [segue massima]”. “Come non emozionarsi di fronte a questa poesia di Auden: (seguono versi)”. Grazie al pene! Non avete scelto citazioni dal Dizionario etimologico storico dei termini medici di Enrico Marcovecchio. Kafka, Seneca, Auden. Vi piace vincere facile eh? Ma c’è anche chi, sui social, lancia sfide di citazioni, tipo questa: “Indovinate chi è il mio scrittore preferito (non andate a cercare su google, furbacchioni): Svetta su entrambi un Himalaya di vite in movimento”.  E poi gli autocitazionisti. Ecco un plausibile esempio: “Sgomento, sgomento di una guerra ingiusta/ senza cuore avanzano coloro che non restano umani. Non sono parole di Ghandi e nemmeno di Tolstoj, questi versi li trovate nella mia ultima raccolta, Il cielo diviso. #nowar”. Forza!  * Autoprodotti Sono coloro che hanno scritto un testo, l’hanno impaginato a piacere, hanno scelto un’immagine autoprodotta, e hanno mandato tutto in stampa presso una piattaforma tipografica digitale. Hanno ricevuto a casa un certo numero di copie del loro romanzo e adesso ne lodano le qualità sui social. E sotto valanghe di cuoricini dei parenti. I più astuti tra quelli che si autoproducono i libri, senza un editore, sono coloro che convincono l’amic* del cuore a fare il post in vece loro e tratteggiare tutte le qualità del racconto. Amen! Alessandro Agostinelli *In copertina: un’opera di Roland Topor L'articolo La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di scrittori da social proviene da Pangea.
October 24, 2025 / Pangea
“Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce
L’etichetta “pessimismo” è quella che maggiormente stritola tanto Leopardi quanto Montale; e la loro presunta resa di fronte alla ricerca della felicità va consolidandosi per generazioni di studenti, e (anche) di docenti. Questa gabbia li conquide, e li riduce a teorici del “male di vivere”, del “brutto vero”, definizioni sterili rispetto alla caratura della loro speculazione filosofica. Tuttavia, bisogna ammettere che il recanatese e il genovese non hanno dipinto la realtà come un felice girotondo, e l’hanno liricizzata con toni aspri, duri, talvolta difficili da difendere e da accettare. Ma se si andasse “più addentro”, come direbbe il Pirandello dell’Umorismo, si apprezzerebbero sentieri carsici che conducono ad una anelata atarassia. Forse utopistica, dunque inesistente; forse astratta, e per questo poco compresa; forse misteriosa, ma per questo poetica.  Montale, pertanto, guarda a Leopardi come il marinaio guarda il faro nella tempesta: non dico che ne diventi epigone, ma spesso, furtivamente, ricalca alcuni passi e ne ripropone la veridicità con le dovute differenze. Tra tutte le immagini, si pensi alla celebre “siepe” dell’Infinito, che si trasforma nella “muraglia” in Meriggiare, pallido e assorto: Leopardi la valica, e con il verso “io nel pensier mi fingo” celebra il potere dell’immaginazione, per poi “naufragare” nella dimensione fittizia del “vago e indefinito” intrisa di piacere eterno; Montale, invece, non vince il muro, e invoca la “divina Indifferenza”, unico “prodigio” capace di stemperare la perenne condizione di asfissìa e di prosciugamento, dilagante nel primo periodo ligure. In ogni caso, “la vita è male”. Ma se nella fase giovanile degli Idilli, l’invito leopardiano all’azione sospende il dolore, con il vagheggiare e la perdita nell’indefinitezza, l’invito montaliano è l’inibizione, il non-agire. Infatti, quando il poeta si muove e si volta, come nel caso di Forse un mattino andando, si scontra con il “nulla”, con il “vuoto”, con “l’inganno consueto”: essere indifferenti è la sola forma di “bene” saputa dal poeta degli Ossi di seppia, pertugio che “schiude” la quiete. I limiti, dunque, non sono trampolini per evadere dalla vita, concausa dell’infelicità umana, ma presentano “cocci aguzzi di bottiglia” sulla loro sommità. E come se non bastasse, se il vento leopardiano è uno “stormire” che si fonde con la “voce” dell’io poetico, il fruscìo che subisce Montale è un’aria desertica, che inaridisce e rinsecchisce, fino al midollo.  Da qui, la Natura “matrigna” si manifesta nelle sue espressioni più ostili: nel Dialogo della Natura e di un islandese, l’elenco di calamità è impressionante, in perfetta sintonia con gli effetti che il “meriggio” cocente ha sugli “oggetti montaliani” di Spesso il male di vivere ho incontrato. Dichiarazioni, ambedue, di una Natura totalmente indifferente, di quel “perpetuo circuito” che si innesca senza poi curarsi della sorte umana. In effetti, Miraggi di Montale ricalca le fasi di “produzione e distruzione” denunciate da Leopardi: “[La Natura, NdA] che regge il mondo, lo crea e lo distrugge/ per poi rifarlo sempre più spettrale/ e irriconoscibile”. Ma per confermare la mia tesi – Leopardi e Montale come poeti della luce e non del buio – vi sono affinità ottimistiche, che consentono di lenire i tormenti. Nonostante il ricordo sia un’arma ambigua, parzialmente efficace, segna il poetare dei due. Velleitario citare l’incipit di A Silvia, “Silvia, rimembri ancora quel tempo”, dove il verbo “rimembrare” è colonna portante dell’intera dissertazione; così la “vecchierella” del Sabato del villaggio, quando “novellando vien del suo buon tempo”, e il poeta stesso quando “ricorre al pensier” nella Sera del dì di festa (come in moltissimi altri passi dei testi leopardiani); rimembranza che sussurra alla flebile speranza del Montale delle Occasioni, come quando implora alla “forbice” del tempo di “non recidere quel volto, / solo nella memoria che si sfolla”. Il tempo, dunque, non fa altro che divorare tutto; e il contrasto tra la gioia e la sofferenza, tra la giovinezza, quel “fior degli anni gentili”, e la vecchiaia, può essere vinto dalla rievocazione. E bisogna fuggire la morte, quella stessa morte che pone fine al tutto, anche al piacere. I versi finali di A Silvia risuonano: > “e con la mano  > la fredda morte ed una tomba ignuda  > mostravi di lontano.”  Analogo è il profilo di Clizia, senhal di Irma Brandeis, nella Bufera, quando si congeda dal poeta e scompare nel buio – l’“abisso orrido” del Canto notturno leopardiano: > “come quando  > ti rivolgesti e con la mano, sgombra  > la fronte dalla nube dei capelli,  > mi salutasti – per entrare nel buio.” Ma il buio che si delinea al finire del sentiero, che Montale percorre con quel “segreto” di disagio e incomprensione, in mezzo agli “uomini che non si voltano”, è vinto dalla luce. E di nuovo in analogia con Leopardi, sempre nella Bufera, si legge di una consueta Clizia salvifica, poiché lucifera, portatrice di luce e di sole:  > “In alto, Clizia, è la tua sorte, tu  > che il mutato amor mutata serbi  > fino a che il cieco sole che in te porti  > si abbacini nell’altro e si distrugga in lui.”  Quegli “occhi” potenti come il sole, che si confondono e si mescolano per potenza e per efficacia con la stella del giorno, primeggiano già nel primo Leopardi. “Gli occhi ridenti e fuggitivi” di Teresa Fattorini in A Silvia, e gli occhi efficaci del Sogno: > “Ella negli occhi  > pur mi restava, e nell’incerto raggio  > del Sol vederla io mi credeva ancora.” E Leopardi, non a caso, introduce la Ginestra con il passo del Vangelo di Giovanni (III, 19), a conferma che la luce è accecante poiché rivela la Verità, ed è spesso barattata per le tenebre, in quanto difficile da assimilare: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.” Montale e Leopardi, dunque, non sono altro che due radiografi della realtà sensibile, fonte di “affanno”. Il male non si può sconfiggere, poiché connaturato nell’essere umano, e non bisogna fare altro che conviverci. Da qui, il Leopardi della Ginestra e della dignità dell’uomo virtuoso, che deve emulare il “fiore del deserto”: prima profuma le “campagne dispogliate” e poi, quando giunge il suo momento, con estrema dignità e modestia, piegherà “il capo innocente”, senza superbia; così, Montale e la ricerca “varco”, che in una forma di “slancio vitalistico” ambisce titanicamente alla coesistenza con la disperazione:  > “i silenzi in cui si vede  > in ogni ombra umana che si allontana  > qualche disturbata Divinità.” E mentre imperano “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di chi crede/ che la realtà sia quella che si vede”, si cerca ancora quel pertugio, “dove s’accende/ rara la luce della petroliera”. Davide Chindamo L'articolo “Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce proviene da Pangea.
October 23, 2025 / Pangea
“E rimpastar col pianto la polve, e ravvivarla a nuova vita”. Per un canone avverso della poesia italiana
Una maestria che non sempre si dimostra nelle vie maestre.  A chi, d’altronde, piace seguire i conseguiti sentieri, senza dare in oltraggio, senza percorrere il fuorivia, l’impercorribile? Così è della canea del ‘canone’: una volta collocati i titani, i poeti-colonnato, i poeti al comando, il nostro Himalaya, si può scollinare altrove. I poeti-torcia sono sempre con noi, è ovvio – Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi, Manzoni, Foscolo, Pascoli etc etc –; a volte occorre bivaccare con gli oscuri. A volte – questo è Leopardi nel Parini – le imperfezioni di Lucano, un poeta-Bacon, un poeta-Quentin Tarantino, sono preferibili alla lingua perfetta e ben tornita di Virgilio; a volte – a volte, in voluttà d’ingegno – sfogliamo Omero, Cicerone, Petrarca e ci capita di “non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo”.  È quello il momento di andare nei fuorivia, tra i fuorilegge del linguaggio.  Da cosa dipende questo stare ai margini del canone, appena sussurrati, appena sputacchiati, già erosi dall’oblio? Intanto, l’opera. A tratti involuta, parziale, senza la parsimonia di darsi ai posteri, a tratti monotona (esistono poeti-centometristi che riescono benissimo in una manciata di poesie; la lunga distanza li strema). Poi, la fortuna. Incapacità di stare ai patti del tempo, solitudine, infimo potere, azione in luoghi alieni alle grandi corti e alle grandi città – che vuol dire: macinare un italiano assai poco illustre, che non dà lustro, che giova in epigoni ed eredi –; una sorta di carattere barbarico e lunare, a zanne piene. Poi, il caso: le astuzie della vita, i princìpi del potere (principati, stati, nazioni hanno bisogno, tutti, del poeta vessillo, pronto da sguainare per una paludata idea di ‘unità’ patria). Inoltre, il sesso. Se sei femmina è raro insidiare il canone. C’è poi l’avversità – quando non: l’avversione – a stare nei dogmi del sistema cultuale-culturale del proprio tempo. C’è chi scrive per passatempo, chi per rabbia, chi lottando contro il resto del mondo – chi restando nell’aureo andito dell’io, senza conforto di confronto, latitante, ai lati.  Affascinante è il caso, ad esempio, di Barbara Torelli. Nobildonna emiliana, fu data a Ercole Bentivoglio, condottiero bolognese già al servizio dei Medici, poi di papa Giulio II, amico di Machiavelli, abile nel massacro e nel sopruso. Quando morì, Barbara poté unirsi a Ercole Strozzi, letterato ferrarese, già confidente di Lucrezia Borgia: i disegni dell’epoca lo mostrano superbo in volto, con lunghi scarmigliati capelli, apollineo. Tre mezze lune su fondo rosso costituivano il suo stemma nobiliare. Glielo uccisero nel giugno del 1508, in assalto notturno, vili, in Ferrara; Barbara, rovinata dal dolore, compilò l’unico sonetto che gli è ascritto, questo: > Spenta è d’Amor la face, il dardo è rotto, > e l’arco e la faretra e ogni sua possa, > poi che ha Morte crudel la pianta scossa, > a la cui ombra cheta io dormia sotto. > Deh, perché non poss’io la breve fossa > seco entrar, dove l’ha il destin condotto, > colui che appena cinque giorni e otto > Amor legò pria de la gran percossa? > Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio > intepidire, e rimpastar col pianto > la polve, e ravvivarla a nuova vita: > e vorrei poscia, baldanzosa e ardita, > mostrarlo a lui, che ruppe il caro laccio, > e dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto. Sopravvisse alle figlie – Costanza e Ginevra – avute dal Bentivoglio, Barbara Torelli: optò per la vita nascosta; di lei è ignota data di morte, ignoto il luogo del sepolcro. Si può far parte della storia della letteratura con un testo appena? Un tempo, il sonetto della Torelli era inciso nei diari delle belle, cucito sulle loro vesti come un orizzonte del destino, come uno sfrecciare.  Vissuto pressappoco negli stessi anni di Barbara Torelli, per lo più negli stessi luoghi, tra Modena e il cesenate, Panfilo Sasso (1455 ca. – 1527) è poeta di inquieta potenza. Amico di Ariosto, abitò tra l’altro a Verona, scrisse molto: la prima edizione dei Sonetti e capituli del clarissimo poeta miser Pamphilo Sasso modenese, uscita nel 1500, conta quasi seicento testi, di cui quattrocento sonetti. Teologo, alchimista, amava Dante: il vicario provinciale dei Domenicani, fra’ Tommaso da Vicenza, lo accusò di eresia, scoccava il 1523. Alcuni concittadini lo avevano denunciato al Sant’Uffizio con queste accuse: “Nega l’esistenza del Paradiso, del Purgatorio e dell’Inferno… nega che l’anima sia immortale… in un sonetto nega l’infallibilità della divina scienza e il libero arbitrio”. Sasso avrebbe dovuto abiurare le proprie convinzioni durante un’orazione pubblica: il giorno stabilito, si finse malato. Grazie ad alcune amicizie nella curia, riuscì a scampare dalle grinfie dell’inquisitore: fu nominato governatore del piccolo borgo di Longiano, in Romagna. Insomma, lo confinarono. Poeta sapiente nel sondare le sconfinate ombre del cuore, in Sasso “è spesso presente la ricerca di un linguaggio poetico originale e di notevole complessità… è evidente la presenza di estese aree aperte a una libera e rischiosa inventività verbale e metaforica, che si sarebbe tentati di definire un portato residuo (ma spesso né vacuo né provinciale) della maggiore creatività dantesca” (così Massimo Malinverni). Tra i suoi testi, ci piace questo in cui il poeta dà il senso del proprio orgoglio, indossa il cilicio come una stola da re ed è dal pianto monsonico mutato in fenice, il mitico uccello del fuoco: > Sono eremita de la vita austera: > bevo acqua de canal, mangio radice, > abito una spelonca como fera, > porto el cilicio e dormo a la pendice: > i’ piango dal mattin fin a la sera > e sol sto come passere fenice. > Non che per questo al ciel scender mi spera; > ma per ch’amor mi fa tanto infelice. Altra fortuna hanno avuto le rime di Galeazzo di Tarsia (1520 ca. – 1553), idolatrate da Giambattista Basile, che le riunì in un’edizione complessiva, uscita nel 1617. Per arditezza di stile e genia antipetrarchesca, per la vita disordinata, da alfiere del caos, Galeazzo fu l’idolo dei poeti barocchi, un Marino in miniatura. Nessun mero manierismo, però, nessuna ‘grottesca’ in versi inquinano la sua opera, livida per virtù d’ingegno: “sotto il virtuosismo noi sentiamo presente un serio disdegno del consueto, un’appassionata aspirazione al raro delle analogie che trascorrono fino all’assurdo, a raggiungere una verità intima che importava al Tarsia più della letteratura” (Carlo Muscetta). Poesia, dunque, non più a decoro di corte, ma a dilaniare il proprio cuore, stigma di vivere da assolutisti dell’io. Fu barone di Belmonte Calabro, improntando la propria azione al candore della crudeltà. Tiranneggiò i sudditi, disobbedì ai superiori; la morte della moglie, Camilla Carafa, ne esacerbò le oscurità. Confinato a Lipari – condannato alla perdita del feudo, fu poi graziato dal viceré di Napoli Pedro Álvarez de Toledo –, si impegnò militarmente contro Siena, per conto del viceré. Fu ucciso in circostanze non chiare a poco più di trent’anni; sulla sua vita alligna alloro d’ambiguità. Scrisse poco – una cinquantina di testi – per sovreccitazione. Amò Vittoria Colonna, dedicandole un bestiario in versi; ma l’alta dama fu chiusa alle attenzioni di un simile barbarico amante.  > Io benedico il dì che il cor m’apriste, > man bianche e molli; e te veloce e presta > a legarmoli poi, cresp’aurea testa; > occhi, e più voi che di bel foco empiste > quest’occhi miei, ond’a far poi veniste > che del pianto la torbida tempesta > i vaghi fiori e verd’erbe di questa > falda di monte rese umidi e triste: > poiché il primo desir che di voi m’ebbe, > vestito alfin d’un amoroso lume, > ripiglia qualità più bella e pura, > forse come animal, che a viver ebbe > alcun tempo col manto altra natura, > entrò già verme ed or veste le piume. *In copertina e nel testo: schizzi di Giovanni Francesco Barbieri detto “Il Guercino” (1591-1666) L'articolo “E rimpastar col pianto la polve, e ravvivarla a nuova vita”. Per un canone avverso della poesia italiana proviene da Pangea.
October 21, 2025 / Pangea
Dante, l’insuperabile. Ecco perché la poesia italiana è una parrocchia periferica zeppa di epigoni
Ci sono millanta poeti oggi che millantano la loro poesia: troppi, per permettersi il lusso di continuare a brucare la terra polverosa e non alzare il capo al Sommo Poeta, pronto a falcidiarci. Dante, l’insuperabile. Chi non accetta di scoprire la gola, chi nicchia e cerca di sgamarla, come lo studente che fa lo struzzo e abbassa gli occhi per non essere interrogato, non è poeta e non ama la poesia. Chi non accetta la morte non sarà mai immortale. Che poi il giochino viene facile: Dante è laggiù in fondo, nel mito, nel passato, in un mondo che non c’è più, pigolano i poetini. Oggi siam tanti e gli spazi di festa son pochi, stai fresco se dobbiamo confrontarci con i classici (ma stiamo pure all’altroieri: Montale Luzi Zanzotto Sanguineti Caproni e compagnia briscola). E qui scatta la mannaia di ogni avanguardia, neoavanguardia, postavanguardia, non-avanguardia-ma-ricerca et similia: fare tabula rasa. E potrebbe persino essere la volta buona, crollati tutti i punti di riferimento, per cui si salvi chi può. Chi attraversa la selva oscura della contemporaneità con cognizione di causa? Accidenti, mi sono tirata la zappa sui piedi: di poetini che danno la mano, e forse non solo quella, al loro presunto Virgilio d’oggidì ce ne sono fin troppi. Ma mica si prestano ad attraversare l’inferno: cercano subito l’ascensore per i piani alti, per gli open space con vista sui laghetti artificiali. Epperò gli editori pubblicano ciò che vendono, della poesia non si occupano davvero più, così gli specchi diventano specchietti per allodole, giusto per ricordarci del settore, dell’angolino in basso in fondo alle librerie, quello spazietto da riempire tra i classici latini e il teatro. Del resto si diventa editori per fare affari, e le scadenze sempre più immediate impediscono di imbastire piani non si dica nemmeno stalinianamente quinquennali, ma berlusconianamente trimestrali (cento giorni, via). Figurarsi se i manager della carta stampata pensano al capitale simbolico da accumulare nel corso dei decenni, al prestigio, alla rendita quando un autore finirà nei manuali scolastici. I quali, poi, o restano cautamente fermi alla compagnia briscola di cui sopra o tentano sortite con logiche sempre più vaghe, confondendo le idee ai già confusi. Che dite? Il compito di riconoscere i valori in campo spetterebbe ai critici? No, per carità, smettetela di credere a babbo Natale. I critici non esistono più. Oppure esistono in queste sottocategorie inutili e perniciose:  a) i critici militanti, i partigiani di una particolare idea di poesia, che poi resta vaga perché va bene sia la prosa sia il sonetto, sia il testo iper-retorico sia quello tendente al grado zero dello stile, sia l’approccio pop sia l’impegno civile, qualsiasi cosa insomma purché si faccia parte di quella nuvola di scrittori-insetti che continuano a ronzare intorno al capo del capo. L’importante è che la poesia non sia sincera esposizione delle proprie entraglie. E ci mancherebbe; b) critici del post. No, non è questione di post-poesia, non ancora. E nemmeno di post sui social, anzi. E non parlo nemmeno dei post-critici (in merito leggetevi la Postcritica di Mariano Croce: vi farà bene). I critici del post sono quelli che vivono della morte stessa della critica, ma continuano ad abitarne le spoglie. Sono i critici postumi, quelli che fanno salotto attorno al ring dove i poeti se la danno di santa ragione, pronti a intervenire solo dopo, per premiare i vincitori. Sono quelli che ripetono ciò che si sa già (tipo: Montale è il maggior poeta del Novecento – verità che tra l’altro sarebbe ora di ridiscutere, ma questo un’altra volta), che non si occupano dei contemporanei perché non è in caso di compromettersi e di rendersi responsabili, maieuticamente, di ciò che di buono potrebbe anche venir fuori. Prima si faccia il canone (con quali criteri: l’amichettismo e i giochi di potere? Io se ci sono non guardo non vedo non sento non parlo, gesticola il suddetto), poi il critico del post arriverà a incoronare il poeta e qualunque poesia proponga (tali critici non hanno gusti difficili, anzi, non hanno gusti punto);  c) i critici accademici che, se animati dalle migliori intenzioni contro “la cultura in scatola” (leggetevi adesso lo splendido Universitaly di Federico Bertoni), restano comunque schiacciati dalla pila di libri che si accumula sulle loro scrivanie e alla fine vanno un po’ a caso, pescando una volta a destra e una volta a sinistra, una volta in alto e una volta in basso; se invece ferocemente addestrati alle logiche del loro mondo, evitano la menoma contaminazione col presente e preferiscono dedicarsi alla raccolta delle lettere dell’ultimo riesumato futurista di turno, tanto loro sono accademici quindi patentati e schifiltosi di qualsiasi immersione nella Palus Putredinis oggidiana, in cui, francamente, non saprebbero affatto destreggiarsi: forse meglio così, giacché farebbero soltanto danni maggiori;  d) i critici para accademici, che sono indubbiamente accademici e quindi guai a presentarli con il titolo sbagliato, ma sono anche scrittori e intellettuali ruspanti, scattanti di fronte a ogni possibile comparsata in tivvù, scattosi nei social dove danno vita ai loro avatar, con cui non vanno confusi (studiosi del dadaismo che si travestono e ballano il dadaumpa su TikTok), scazzati nei loro stessi corsi di scrittura creativa, giacché di tesine scritte con l’IA ne han già piene le balle o le ovaie, figurarsi di romanzi purtroppo scritti senza l’IA;  e) i critici massimalisti, che possono sentenziare su chiunque, da Dante compreso in giù, e affrontare qualsiasi argomento con la stessa reboante loquacità di Cacciari, tanto i testi li guardano sempre con il binocolo, mica impiccano lì le loro teorie, mica arrotano i versi come coltelli: qualunque autore è una brodaglia insulsa, se solo non si adegua completamente al loro imperscrutabile gusto. Trovatemene uno che sappia ridimensionare qualche poeta maggiore di oggi, non dietro l’anonimato di una giuria di premio condivisa con altri, ma con saggi acuti, con analisi testuali, necessari altresì per addestrare lettori competenti. Tabula rasa, allora, dicevamo, poiché editori e critici non fanno filtro. “E se ci pensassero i poeti stessi?” – filtra l’ultima bava di ottimismo da qualche irriducibile novecentista caduto nel secolo sbagliato. Prendere atto: quei pochi poeti che possono permetterselo, appunto perché arrivano fin qui con il prestigio dovuto alle ultime onde del millennio scorso, di essere padri o madri letterariamente non ci pensano nemmeno (e forse anche biologicamente arrancano: intervenga il sociologo a indagare). Loro esercitano con compiacimento il potere di scegliere, e scelgono con contezza di promuovere i mediocri, per meglio evidenziare la loro statura letteraria e il loro potere editoriale. Fosse per loro, applicherebbero la damnatio memoriae sistematicamente su chiunque rivendicasse diritto di eredità (mica soldi, neh, si parla sempre di poesia) per più antico lignaggio o per altra, irregolare, intrusione nella casata. Niente bastardi, insomma. (Vallo a spiegare ai tali che la damnatio memoriae, appena lasceranno la poltrona, toccherà a loro). Ah, il malseme di Dante. Sommo poeta, pensaci tu. * Ma che significherebbe, oggi, tornare a volgere lo sguardo a Dante? Puro atto di masochismo, verrebbe da sentenziare, poiché Dante è insuperabile per ovvie ragioni: egli è la massima espressione di un mondo che non c’è più, capace di portare a sintesi un’intera cultura. Dopo di lui, con impressionante rapidità (già Petrarca è moderno) la sintesi si disgrega e passo dopo passo lirica, economia, politica, scienza, medicina, filosofia e via elencando vanno specificandosi iuxta propria principia, lungo una serie di rivoluzioni che hanno portato dritti all’irreversibile agonia del tedio contemporaneo. Copernico, Darwin e Freud sono i picconatori dell’antropologia occidentale, a cui aggiungere volendo gli altri filosofi del sospetto per apparecchiarci alle catastrofi novecentesche. Come non bastasse, appena riemersi dalle apocalissi storiche e ideologiche, ecco l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale adesso a consegnarci a una condizione che taluni già definiscono postumana. Come guardare ancora a Dante, su quali fronti la sua grandezza ci interpella? Tre questioni su tutte porrei come cartelli sulla strada di chi vorrebbe, da poeta, tentare almeno di uscire dal labirinto della buona, patinata, mediocre letteratura che inebetisce, e imbruttisce, l’epoca: l’ampiezza di registro espressivo, il poema e l’esilio.  Qui, soffermiamoci sulla prima. * Varrà la pena ricordare ai versificatori meno avvezzi alla letteratura italiana che Dante Alighieri non è il modello vincente della nostra tradizione. Ben presto abbiamo tradito sì gran padre (anche se in tal caso il crimine non è solo il parricidio letterario di generazioni successive, considerato il trattamento riservatogli dai fratelli concittadini: del resto i luoghi comuni dell’intellettuale che non sarà mai profeta in patria e del poeta destinato solo a gloria postuma in qualche parte hanno radice). Ha vinto, semmai, Petrarca. Come spiegano quelli bravi, Petrarca ha azzerato Dante (già frastornato dall’improvviso revival del latino) e, con il beneplacito di quel curiale grammatico del Bembo, la lirica italiana ha trovato nell’autore del Rerum vulgarium fragmenta (volgarmente, il Canzoniere) la matrice del proprio vocabolario. La ragione è elementare: costruire un dizionario della lingua italiana sul repertorio vastissimo della Divina commedia (capace di aprirsi e abbracciare tutti e tre gli stili: l’umile, il medio e il sublime) era impraticabile. La soluzione ottimale, invece, era già pronta all’uso: la lingua vaga, elegante, sufficientemente generica e allusiva, ma soprattutto circoscritta, del Canzoniere. Perfetta per imbalsamare l’italiano (scritto) per secoli, fino almeno a Leopardi, a sua volta capace del prodigio, giunti ormai al secolo decimonono, di rispolverarlo e farlo suonare persino sorgivo. Roba da necrofili prestidigitatori. Che poi, certo, in quello stesso secolo Dante torni prepotentemente in auge in virtù degli umori romantici e risorgimentali è vero, ma abbiamo dovuto re-inoculare la lingua sperimentale di Dante recuperandola dalla finestra, via Eliot (senza dimenticare, tuttavia, l’edizione critica delle Rime dovuta al giovane e talentuoso Contini: ma qui si è nutrita ancora primariamente la vena lirica, attraverso lo stilnovismo mutante assorbito da Montale. Del resto la Commedia in quei decenni veniva tagliuzzata da Croce intento a separare l’oro della poesia dall’ottone della struttura, manco fosse lui il miglior fabbro del parlar materno).  Dante paradisiaco secondo Moebius Fatto sta che i conti con Dante si sono riaperti in fondo soltanto di recente. Ma a giudicare dalla medietà patinata (aurea mediocritas?) e dal lirismo di cui è ancora impregnato quanto meno il sottofondo comune del diffuso poetare nel Belpaese, rinomata terra popolata di poeti a ogni latitudine, l’apertura alare del Sommo all’interno della lingua materna ci relega al ruolo di pulcini in ombra.  Oh, certo, di sperimentatori e di avanguardie si fa ricco il Novecento, ma l’impressione è che vengano alla fine sempre spinti ai margini del canone, mentre risultano vincenti ancora gli autori riconoscibili e brandizzabili, dallo stile complessivamente monocorde, costante dall’inizio alla fine, che procede al più per piccoli, equilibrati adattamenti. Facile, troppo facile motivare questa tendenza, qualora fosse verificata (o storicamente, anche per pigrizia, avallata): l’identità di un poeta si costruisce attorno all’autenticità di una voce e per mezzo dell’abbandono di ogni orpello retorico, di ogni posa, di ogni “canto” oggi insostenibile. Siamo nell’epoca del tono basso, dell’assenza di pubblico, del poeta che si rivolge a un tu (in cui spesso si rispecchia sé stesso). Siamo nell’epoca del relativismo, del pensiero debole, del male di vivere. E siamo perciò rassegnati ai mugugni, pronti semmai a puntellare le nostre rovine. Di costruire altre cattedrali non se ne parla nemmeno. Diverrebbero in breve tempo chiese sconsacrate da riempire di libri insulsi, non più in grado di consolare la carne triste dell’umanità inebetita sui display.  Siamo nell’infinita fine occidentale. Se mai passasse di qui un nuovo poeta visionario, lo spediremmo subito all’esilio, spernacchiandolo a dovere. Dante, più che insuperabile, è irraggiungibile. Lo si innalza, per imbalsamarne il busto e rimuoverlo nella sua aura di perfezione. Italia, terra non solo di poeti, ma anche di santi, ricordi che cosa scriveva Joseph Roth nella Cripta dei cappuccini? > “La Chiesa romana […] in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare, > di conservare una forma. Anzi, si può dire, di dispensare una forma. In quanto > racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento > tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi > figli tutt’intorno, fuori di questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e > spazioso vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare > l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce i peccati, già li perdona. > Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto > eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo > ammette implicitamente l’imperfezione umana. Anzi, ammette l’inclinazione al > peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al > peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa > romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla > remissione. […]”. Ridotta a parrocchia periferica zeppa di epigoni, la poesia italiana innalza Dante e concede plenaria indulgenza a sé stessa. Così, tra nani svetta chi ha la sigla editoriale più spessa, e per ciò stesso si potrà legittimamente autoinserire nelle antologie, mentre rigira per l’ennesima volta la frittata dei propri versicoli strascicati. Ahi, serva Italia. Andrea Temporelli *In copertina: William Blake, The Circle of Corrupt Officials: The Devils Tormenting Ciampolo, 1825 ca. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dante, l’insuperabile. Ecco perché la poesia italiana è una parrocchia periferica zeppa di epigoni proviene da Pangea.
October 20, 2025 / Pangea
La malattia giusta. Ovvero: ecco perché leggere continuamente Manganelli fa bene
Sembra che l’esistenza dello scrittore sia legata a un mercimonio col demone. Che gli scrittori siano indemoniati, pare cosa evidente: invischiati col male, cercano di adescare le trombe del mondo basso. Farlo in poesia è più semplice: la brevità del verso rende fuggevole l’incontro. Esclusi Omero, Virgilio, Dante e Baudelaire, l’inferno è una sala d’attesa per epigoni. Quanto al romanzo, il vertice luciferino lo ha toccato Thomas Mann: misurarsi con la perfezione significa saggiare tutte le spigolature del caso. Basta leggere il Doctor Faustus per accorgersi di quanto uno scrittore, prima ancora di forgiare, deve essere forgiato dalla materia del libro.  Divagazioni a parte, rendere letterario il male è sempre stato il cesello preferito di molti artisti: si disinnesca un morbo che scalpita a suon di metafore e aggettivi. Wallace Stevens, quel presocratico della poesia che talvolta s’improvvisava Eraclito, scriveva che “la realtà è un cliché da cui fuggiamo con la metafora”. Per lo più, la letteratura è una forma di adattamento al male subito, in attesa che il miracolo dell’opera si compia.  Per una sorta di scherzo del diavolo, Il vescovo e il ciarlatano di Manganelli, impressionante per intelligenza, uscito per Sellerio poco più di un anno fa, è passato inosservato. Letteratura e psicoanalisi, nonostante nobili tentativi di risanamento, continuano a pungolarsi in un senso e nell’altro, con esiti più terapeutici che letterari.  Eppure, non capita spesso di trovare uno scrittore, perlopiù umbratile e refrattario alla luce, che si reca spontaneamente da uno psicoanalista, come a seguire l’ultimo dettato del labirinto.  Ma con Manganelli andò esattamente così: consigliato da Cristina Campo, che era rimasta colpita da Bernhard perché iniziava le sue sedute chiedendo “a che punto è della sua tradizione?”, Manganelli decise infine di recarsi da un analista. Ma siccome era Manganelli, si recò, se non dal migliore, almeno dal più primitivo degli psicoanalisti: Ernst Bernhard. Nell’intervista che apre il libro, un incendio di arguzia, Manganelli spiega sinteticamente cosa significa avere a che fare con un uomo come Bernhard. Incalzato dall’intervistatrice, argomenta che «la letteratura trattata come centrale diventa molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La letteratura è centrale solo quando si capisce che è periferica». Poi, senza soluzione di continuità, passa in rassegna la figura di Bernhard, l’uomo che gli ha insegnato a mentire. Dice che Bernhard amava le cartografie, che iniziava le sedute con la lettura delle linee delle mani e con lo studio del quadro astrologico del paziente. Tutto quello che il mondo offriva era una chiave di lettura della realtà, priva di gerarchia: «una completa psicologizzazione del materiale che maneggiava». Non ultimo: la lettura e consultazione continua dell’I Ching. Non è un caso che fin dai primi incontri Manganelli si rende conto di «avere a che fare con una impostazione topograficamente anomala dello spazio psicologico. Improvvisamente ci si accorgeva che non si viveva in due dimensioni ma si viveva in una quantità di dimensioni impressionanti». La soluzione di questa terapia, come non tardò a scoprire, era innovativa, e spalancava scenari mentali – e quindi letterari – fino ad allora impensati. Se prima Manganelli credeva di dover affrontare un problema per risolverlo, con Bernhard si accorse che la mossa più astuta era «portare la convivenza mentale in luoghi imprevedibili e imprevisti». Iniziò così un colloquio in cui era in gioco la salvezza di tutto ciò per cui esiste un individuo: il suo retaggio simbolico, il precipitato delle sue credenze. Infine – ed è forse la cosa più interessante, considerando la cifra stilistica di Manganelli – il suo linguaggio. Con Bernhard l’esistenza diventava una carta geografica in cui l’inesattezza era il criterio di interpretazione. La malattia fungeva solamente come coordinata della nostra salute:  > «il pericolo non è di essere malati, perché credo che, in un certo senso, > esistere sia essere malati, ma di avere una malattia non pertinente, > incongrua. Il problema è di sostituirla con una malattia pertinente. La > malattia giusta è ciò che noi possiamo chiamare qualche volta in un momento di > distrazione anche “salute”».  Quando gli chiedono cosa sia rimasto di quell’incontro con Bernhard, Manganelli non ha dubbi: il gusto della casualità. E poi: «la capacità di sostituire sistematicamente la fede con la superstizione». Per lo scrittore la letteratura è una sorta di superstizione, perché sa rinunciare alla verità quando serve, «cosa che la fede non sa mai fare». Da questo punto di vista, la letteratura è un patto con la menzogna. Come scrittore, Manganelli, che aveva già pubblicato La letteratura come menzogna, sceglie di essere estraneo alla verità: «la verità non ci riguarda, questa è una mia personale convinzione. La superstizione, invece, è fatta a nostra misura».  Il vescovo e il ciarlatano è proprio questo: una mescolanza tra sacro e profano, tra psicoanalista e scrittore, una spudorata inclinazione alla menzogna che trasforma la verità in racconto, perché «il mentitore è il proprietario di tutte le favole possibili» e la Storia non nacque «dall’ira di Dio, ma dalla menzogna di Caino». Da qui, da questo incontro pericoloso nasce quell’incrocio di possibilità che è la letteratura. Nonostante il libro raccolga materiali eterogenei – articoli, recensioni, interviste – il punto focale è “Jung e la letteratura”. Siamo nel centro di convergenza di tutti i mascheramenti possibili: nel 1973 Manganelli, invitato come professore universitario ad un convegno su psicologia e letteratura, lancia un guanto di sfida ai relatori e persino a sé stesso, sostenendo che la cultura distrugge la letteratura, e che la psicologia, esplorata nelle sue ramificazioni, è l’ultima ancora di salvezza per chi vuole ancora fondare la propria opera sul mercimonio col demone.  > «Se io trovo nella letteratura qualche cosa di vitale, di inquieto, di > violento, appunto di eversivo perché ha a che fare con delle forze inconsce > estremamente forti, la cultura cerca di spiegarmi che tutto questo non è > assolutamente vero».  Questa requisitoria, lunga appena ventisei pagine, è il vero capolavoro del Manganelli libellista: tutti i generi danzano una sarabanda infernale, tutte le parole indossano una maschera. Potrebbe essere la trascrizione di una semplice conferenza o l’appunto preliminare, ma anche una versione teatrale della reazione degli ascoltatori o una confessione schizofrenica di quello che si vorrebbe sempre dire in pubblico. Ma fondamentalmente è questo: l’atto d’accusa della letteratura verso chi vorrebbe addomesticarla.   Andrea Muratore L'articolo La malattia giusta. Ovvero: ecco perché leggere continuamente Manganelli fa bene proviene da Pangea.
October 17, 2025 / Pangea
“Scrittore, poeta, indemoniato”. Menon il Futurista, ovvero: intorno a un libro leggendario
Nel 1929, introducendo “Trentatré artisti futuristi”, Filippo Tommaso Marinetti esulta: “Il futurismo ha vinto su tutta la linea, nelle arti plastiche, nella poesia, nella musica, nella architettura, nella moda femminile che esprimono con uguale intensità il ritmo glorioso dei motori volanti della Coppa Schneider”. Per la cronaca, la Coppa Schneider, gara di idrovolanti ideata da Jacques Schneider – riccoide, francese, pilota di mongolfiere, amava tutto ciò che con audacia spiccava il volo per conquistare i cieli –, quell’anno si era svolta in Inghilterra: avevano vinto – come quasi sempre – gli inglesi; l’Italia si piazzò seconda, merito dell’asso vicentino Tommaso Dal Molin – che sarebbe morto l’anno dopo, sul Garda, in volo – a cavallo di un Macchi M.52.  Ad ogni modo, Marinetti aveva ragione. Il Futurismo si dimostrava la più antica, longeva e attraente delle avanguardie, la più pervicace, in grado di sovvertire ogni ambito dell’umano essere. Il futurismo nasce come movimento artistico per diventare sistema ‘civico’, ‘ragione di vita’. Naturalmente, Marinetti sosteneva che “In politica il Futurismo” era “precursore del fascismo”. L’anno dopo, Fillia – tra i più talentuosi pittori e poeti futuristi, o meglio pittori-poeti, nel senso della combustione alchemica delle arti – esplicitò l’assunto marinettiano in un testo che raccontava i Rapporti tra Futurismo e Fascismo. Questo l’attacco: “I futuristi, fin dall’avvento del fascismo al potere, hanno rivelato la necessità di caratterizzare il cambiamento di regime con una rivoluzione artistica – legare cioè il grande avvenimento sociale con una realtà spirituale estetica”. I futuristi, scrive Fillia, sono “i soli a tendere verso la realizzazione di un’autentica e originale ‘Arte Fascista’”, dacché “il fascismo” si è imposto sulle “forze in decadenza” dopo essersi “nutrito di principi futuristi”. In sostanza: l’estetica è la matrice della politica. (Per uno sguardo complessivo sui manifesti futuristi, si guardi qui). Nel testo, Fillia cita le parole del “Ministro Russo” Anatolij Lunačarskij: “La scenografia russa è stata influenzata dal futurismo italiano”. Quell’anno, si era sparato al cuore Vladimir Majakovskij, il grande poeta sovietico, il cantore della Rivoluzione, nato futurista.  L’anno dopo – nel marzo del 1931 – lo stesso Fillia firma un affascinante manifesto sulla Spiritualità futurista in cui afferma che “L’Egitto e l’Alto Medioevo sono per noi gli esempi vivi della Storia: troviamo maggiore sanità nel respiro di Menfi e di Bisanzio che nel respiro di Atene e di Firenze”. Il Futurismo mira al futuro – quanto si disse allora ricalcatelo oggi: “La Macchina genera una nuova spiritualità. È assurdo crederla priva di misteri perché ideata dall’uomo” – rivoluzionando i canoni della “tradizione”. Nello stesso anno, Fortunato Depero scrive un testo su Futurismo e arte pubblicitaria.  Insomma, nei Trenta il Futurismo, pur in cravatta, era più pimpante che mai. Insieme ai “Dieci” – tra cui spiccava il genialissimo Massimo Bontempelli – Marinetti aveva pubblicato il “Grande romanzo d’avventure” Lo zar non è morto; nel formidabile Manifesto della cucina futurista intimava “L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”. In questo contesto, a Gorizia, Gian Giacomo Menon aderisce al Futurismo. È poco più che un ragazzo, studia giurisprudenza a Bologna – alla laurea, ottenuta nel ’33, ne fa seguire un’altra, in filosofia, conseguita per “ripugnanza per il mondo giuridico” –, fa parte della sezione giuliana futurista, fondata da Sofronio Pocarini, fratello di Ervino Pocar, il grande traduttore di Hermann Hesse, Thomas Mann, Franz Kafka, tra i tanti. In particolare, Menon stringe un sodalizio con l’aeropittore Tullio Crali: hanno la stessa età – sono nati nel 1910 –, moriranno, entrambi, allo scoccare del nuovo millennio, nel 2000. Insieme, creano Delitto azzurro, pièce di stirpe futurista, andata in scena al Teatro Petrarca di Gorizia: testo di Menon, scenografia di Crali, di cui però “non sono state rintracciate prove documentali” (così Cesare Sartori, infaticabile curatore dell’opera disparata e dispersa di Menon). Crali ricorda così Menon in blusa marinettiana:  > “scrittore, poeta… piccolo… indemoniato… si firmava ‘Dinamite’… Per lui il > futurismo era forse una liberazione, una reazione agli studi liceali”. La nota non è inesatta. Nel maggio del 1930, per le Edizioni di ‘Pagine blu’, Menon esordisce alla poesia con il nottivago: ad avvolgere la copertina – di marziale eleganza –, la fascetta griffata da Marinetti, > “Vengo da un giro: Alessandria d’Egitto Cairo Parigi Siracusa e trovo > finalmente il tempo di leggere con attenzione i versi di Gian Giacomo > Menon. Ingegno indiscutibile. Sensibilità futurista. Immagini audaci”. In realtà, il patriarca futurista non aveva voluto firmare la prefazione al libro del giovanotto. “Non faccio prefazioni tiepide né le solite due parole dell’uomo illustre che non servono a nulla. Spero che Gian Giacomo Menon giungerà presto a un’opera potente sintetica e tipica che io prefazionerò allora con entusiasmo”. Nelle sue memorie, Crali sottolinea che Menon “quando Marinetti non gli fece la presentazione alle sue poesie… si spense come poeta”. Al contrario: esplose. Fu, per così dire, esaudito e nel modo più pieno: ebbe in dono la possibilità di scoprire la propria voce, scorporandola dall’epoca.  Ma torniamo al nottivago. Il libro, dedicato “A Mary/ che ha i capelli troppo bruni/ e l’anima troppo bionda…”, nato sotto l’astro di Eraclito (così uno dei frammenti: “Ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli iniziati”), con estro da filastrocca crepuscolare (a tratti pare un Corazzini corazzato, a tratti va a Bontempelli poeta), esce in poche copie, a spese dell’autore. Il libro diventerà “leggenda” perché Menon “quasi a voler sconfessare quella prima ingenua e giovanile prova, rastrellò, facendole sparire, tutte le copie in circolazione”, pur regalandone, negli anni, qualcuna, sopravvissuta al massacro, “a pochi eletti o elette” (così Sartori). Ora il nottivago ritorna tra noi in eccezionale riproduzione anastatica per Bibliohaus, con un testo di Sartori che ricostruisce la biografia di Menon e uno studio di Rienzo Pellegrini su Menon futurista. È un tassello importante per la comprensione di uno dei più ineffabili e remoti poeti del Novecento italiano, che si aggiunge alle raccolte più importanti (cito, tra tutte, Geologia di silenzi, edita da Anterem nel 2018 e Qui per me ora blu stampata da KappaVu nel 2013).   Il Futurismo costituisce il ‘campo di addestramento’ di Menon, è il modo in cui impara a sgranchirsi le ossa liriche e ad allargare l’orizzonte poetico. Il Futurismo, in fondo, infonde in Menon l’originaria energia della giovinezza. “Convinto antimilitarista e antifascista” (Sartori), Menon si dà all’insegnamento – storia & filosofia, allo ‘Stellini’ di Udine –, si sposa – con l’ex allieva Silvia Sanvilli –, vive da viveur, collezionando amori passeggeri, coltivando una ruvida diffidenza verso il regno dell’ufficialità culturale italiana. Scrisse tantissimo, lasciando ai posteri l’implacabile mole dei suoi testi – oltre centomila poesie, oltre un milione di versi. Nel 1966 “La Fiera Letteraria” gli pubblicò un mannello di poesie; la nota autobiografica tradisce una scelta di metodo, una ‘via’, più che un risentimento: > “Nato in Austria, non lontano dal fiume che segnava il confine del > Sessantasei, presto redento dai portatori delle carte rosse (mia nonna fece in > tempo a confermare la vecchia delle uova), profugo in Stiria nella grande > guerra, ho studiato a Gorizia e a Bologna. Da molti anni vivo e insegno a > Udine. Dopo un breve esperimento giovanile, non ho pubblicato nulla di quanto > sono venuto, foglio dopo foglio, scrivendo per una decisione di assenza > consumata in un’amara invenzione che l’improvvisa novità dei tempi pare voglia > sostituire”.   Era dionisiaco, leggeva Michelstaedter; nel 1998 Carlo Sgorlon cura, per Campanotto, una sua raccolta, I binari del giallo: in questo caso, la nota dell’autore porta lo stigma di un’aura di avverate cose: “Nella sua infanzia ha respirato aria contadina e cristiana”. Spesso le poesie di Menon hanno una avvenenza aurorale: > averti come i lunghi odori della terra > nell’alba degli aratri > quando l’allodola scrive la sua prima parola > come il fresco sapore del pane > quando la falce riposa all’ombra dei gelsi > averti intatta nell’infanzia > quando il campanile divide > il giorno della locusta dal giorno del grillo > a tessere i soli e le stelle Nell’agosto del 1968, tornando, in una lettera a un’amica, al primo, avventato, avventuroso libro (“piccolo libro” lo chiama), Menon riferisce un’esistenza votata alla poesia, di serrate letture. La precocità da ‘eletto’ (“ti dicevo del mio principio a undici anni”), la scelta del silenzio, un noviziato sostenuto da esempi titanici (“pensavo, senza confronti irriverenti, ai diciassette anni dell’assenza poetica di Valéry”) e poi le letture: Baudelaire (“trovato presto e globale”), Rimbaud (“bevuto… sino all’ultima goccia”), Mallarmé, Sergej Esenin, “definitivo”. “E tu alla fine, sigillo e scudo. Ogni riga, ogni insistere di sillaba una situazione di te. Sempre e soltanto”. Anche le lettere di Menon (per lo più disperse, nascoste, passate per diversi roghi; qui citiamo dalle rarissime raccolte in: Gian Giacomo Menon, Poesie inedite 1968-1969, Aragno, 2013), per ritmo e per ispirazione, dicono di una vita kafkiana, cioè ancorata, fin nei più puri approdi dell’oscuro, alla scrittura. Non ho detto letteratura – che è già una funzione dell’evo presente, è già un soggiacere all’intenzione, alla pulsione di massa, è già cosa da antologia scolastica, non più sangue ma esangue – ma scrittura. Scrittura-scrittura. Scrittura.  In fondo, nonostante il ripudio – pratica comune al poeta, che nel rifiuto di sé trova sempre la pratica dell’altrove –, Menon è rimasto un nottivago. Vaga nella notte della poesia – rigorosamente senza lanterna, perché la luce, a volte, impedisce alle cose di rivelarsi.  *** Da “il nottivago” Buio Sluccioli con veemenza, piccola macchina di duralluminio, il palpito dei tuoi occhi, che non comprendono il meandro della mia anima. Come io non lo comprendo. Triste destino: non essere ciechi e non vedere. * Sull’arcobaleno Mi arrampicai su per il rosso di un arcobaleno con l’agilità di un gatto. Da lassù, con le gambe penzolanti nel vuoto contemplai il mondo. Come è bello il mondo visto dall’alto di un arcobaleno! * In lontananza Lontano lontano sull’orizzonte un vulcano, innamorato come il mio cuore, fuma tenacemente solitariamente. Le volute opaline del fumo si dipanano sul lividore del cielo: bambagia. * Nebbia Hanno abbassato un velario grigiastro su di un frammento della scena del mondo. * Il sole Un bottone di ottone lucente. Gian Giacomo Menon *In copertina: Fortunato Depero, Grammofono, 1923 L'articolo “Scrittore, poeta, indemoniato”. Menon il Futurista, ovvero: intorno a un libro leggendario proviene da Pangea.
October 16, 2025 / Pangea
Ballata dell’Intercontainer
Offro la mia anima martoriata alla poltrona ergonomica, alla scrivania di laminato, alla luce gialla, al gabbiotto. La offro all’asfalto gangrenoso; al moto ondoso dei semirimorchi, alla luna sul campanile, il tuo volto trasfigurato. Offro al timbratore, divinità del tempo – non all’azienda, non ai colleghi – ogni minuto di questa litania che è la mia vita. * Il contratto scade il trenta novembre, e ti penso. Non ho più voglia di dolore, solo voglio il caldo buono di un qualche oblio nuovo e diverso, una scapola, un neo, depositati nel mio letto e poi nei pensieri della giornata. Possono accomodarsi le immagini tra queste mura di plastica e metallo, e ristorare le sette, le otto, le nove poi le dieci.  * Io mi ricordo! E mi sembrava un gioco così semplice la sera, nell’angolo soffuso io con la camicia appena aperta tu ancora col cappotto freddo di strada e profumo. Dio doveva pur star guardando, dal basso della mia anima, doveva pur aver visto quanto ero felice: non andava bene, dovevo soffrire, dovevo vomitarmi ancora e ancora, fino all’apice. Quando sarò umiliato tutti finalmente mi potranno vedere. * Io non sono Cristo e dalla mia umiliazione nessuno trarrà alcuna salvezza. Il risultato pratico e concreto è un lievissimo aumento percentuale dell’efficienza nella registrazione dei semirimorchi, lavoro al quale sono tornato con malcelato autocompiacimento. Alzo la sbarra all’ingresso del piazzale, l’autista scende, mi dà targa e documento, io batto tutto al computer, poi è libero di andare. Quando cala la notte la larga vallata dei container sembra un villaggio che dorme, un gioco di bambino in cui le case di ferro sono targate MSC, Maersk, Lilliu, Sarda Trasporti. Immagino tra quelle case la mia. Il mare è a poche centinaia di metri, ma non ci penso mai. * Valentin scarica e gli chiedo una sigaretta. Vedo la torcia olimpica tatuata sul braccio e mi metto a chiedergli se era un atleta, che atleta, ma mi risponde in maniera dolce e sgrammaticata; annuisco senza capire. Gli sciorino le mie dieci parole di russo chiedendomi, come in tutti questi casi, se gli faccia piacere o meno – non importa, ne ho voglia. La sua faccia ha la forma di una pera che sta marcendo e diventando grigia, mangiata dalle vespe.  Lui è Eugenio Sournia * Vorrei tenermi la sigaretta che mi ha dato Valentin per fumarmela da solo; però decide di accenderne una anche lui e per qualche minuto si crea questa breve e strana intimità virile, in cui entrambi tacciamo e guardiamo la cancellata di metallo, la città che dorme al di là di quella, ormai vuota di promesse, sempre la stessa.  * Alla fine Valentin riparte e mi metto di nuovo a registrare i trasferimenti della giornata. XA245RS, AE33811, XD490EE. È un lavoro intelligente e bello: non penso mai, non penso mai, tutto il pensiero è tuo tuo e solo tuo. Mi dico un po’ di rosario e ricomincio la decina ogni volta che passa un camion e lo devo registrare, ma ogni Ave Maria è per te, Virginia, per la tua conversione, perché coincida col tuo ritorno, finalmente redenta, finalmente pronta, finalmente mia davvero. * Poi appoggio il telefono alla base del computer e metto il timer a cinque secondi. La luce è pessima, le pareti annerite da una melma senza nome, un cancro in potenza. In atto, la mia faccia più stralunata possibile, mi scatto una foto con l’unico scopo di riguardarla e riderne quando finalmente vivaddio sarò felice. Sarà un post su Instagram da far uscire il giorno dell’uscita di un disco, o di un libro, con una frase del tipo “il dolore è una porta”. Sono un uomo molto stupido. * Insomma Dio mi guarda dal cielo fondo e nero sopra l’Intercontainer, dall’asfalto gangrenoso, dalla scrivania di laminato, dalla luce gialla e sporca del gabbiotto. Io se non bestemmio è solo per ingraziarmelo, una sorta di pensiero magico che so bene non servire a niente, ma che mi è irrinunciabile: perché comunque spero, animalmente spero, che ci sia un’assurda imponderabile giustizia che cali da tutta questa bellezza a strapiombo.  * Ah, anche l’anima mia fu bella, ma la deturpai col peccato: mi resta la tenerezza. Da una macchina di tedeschi che mi passa davanti esce Bette Davis Eyes. Eugenio Sournia *Eugenio Sournia vive, scrive, lavora a Livorno. È stato il leader dei Siberia, con cui ha pubblicato tre dischi. Nel 2023 ha pubblicato l’EP “Eugenio Sournia”, con cui ha vinto il Premio Ciampi. Lo ascoltate, in parte, qui.  In copertina: Gabriele Basilico, Dunkerque, 1984; copy Gabriele Basilico/Studio Basilico Milano L'articolo Ballata dell’Intercontainer proviene da Pangea.
October 15, 2025 / Pangea
Il mio cuore è una iena. Vita in versi di Remo Mannoni, il futurista dimenticato
Nel fermento delle avanguardie primonovecentesche trova voce la stagione più ispirata di Libero Altomare, al secolo Remo Mannoni, la cui poetica, deficitaria ancora oggi di un’analisi sistematica, è testimonianza preziosa della policromia di mutamenti che ha dato il via alla nascita della poesia italiana moderna. In mancanza di un’opera esaustiva dedicata al poeta, si tenta di tracciarne in questa sede un essenziale profilo poetico e biobibliografico, attraverso notizie ritrovate su giornali coevi, informazioni ricavate da monografie di terzi ed il recupero della sua stessa prosa Incontri con Marinetti e il Futurismo (Corso Editore, Roma, 1954).  Nato a Roma nel 1883, Remo Mannoni è sin da giovanissimo parte attiva della vita culturale del Paese, collaborando dagli inizi del Novecento con diverse riviste; del 1903 sono, infatti, i componimenti: La palude e Cuore strano, pubblicate nel “Marforio”; X, in “Rivista d’amore”; La città delle acque, ne “Il Paggio d’amore”. È un anno cruciale per la poesia italiana, in cui si intersecano il simbolismo di Pascoli e d’Annunzio, che pubblicano rispettivamente Canti di Castelvecchio ed Alcyone, con i toni dimessi e le ambientazioni marginali di Govoni, che nello stesso anno dà alla luce Armonia in grigio et in silenzio. Si colloca proprio in questo diaframma la prima fase della poetica di Mannoni, che, se da una parte è ancora strettamente legata al sonetto classico, spesso in endecasillabi, dall’altra si tinge di riverberi crepuscolari che superano la fase dannunziana:  > “Il mio cuore è un’antica pergamena > dimenticata, logora, ingiallita, > rosa da assiduo tarlo e raggrinzita > come la pelle d’una vecchia jena”.  O ancora:  > “È un triste luogo; s’ergono nell’aria > pochi ruderi arsicci, screpolati, > come fari ciclopici atterrati > in cui si annida sol la procellaria”. Non può che essere altrimenti considerando luoghi e persone frequentate dal giovane Mannoni, che, nel “Caffè Sartoris” di Roma, ha i primi scambi culturali con – tra gli altri – Sergio Corazzini, Fausto Maria Martini, Tito Marrone e Govoni stesso. Le influenze di questo periodo confluiscono ne Il Monte: versi, libretto di quattordici pagine stampato a Roma nel 1904, e nella più strutturata raccolta Rime dell’Urbe e del Suburbio, stampate sempre a Roma dalle Officine Tipografiche Italiane nel 1907, in cui si fanno già strada gli elementi di velocità, dinamismo e progresso che caratterizzeranno il suo periodo futurista:  > “e la furia dei cocchi signorili, > che invan frusta la Noia ed il Tempo stringe, > gareggia con i carri, cui sospinge > fòlgore imprigionata in fèrrei fili”. In seguito, fonda a Roma la rivista “Primo vere” nel 1908, che avendo però scarso successo, si interrompe al primo numero. L’anno seguente pubblica Procellarie per la Casa Editrice della gioventù di C. Fossataro e aderisce ufficialmente al Futurismo. Si riportano, a proposito, le sue stesse parole: > “Io che da qualche tempo ero in rapporti epistolari con Marinetti (per avergli > fatto omaggio di un mio quaderno di liriche stampato a Napoli dall’editore > Fossataro) e ricevevo in dono Poesia, ebbi naturalmente anche il Manifesto > incendiario; così appresi che Corrado Govoni, da Ferrara e Aldo Palazzeschi da > Firenze – due nomi a me ben noti – si erano aggregati all’originario nucleo > milanese, sebbene entrambi godessero fama di poeti crepuscolari. In breve, il > mio naturale temperamento e l’approfondito esame delle mie intime esigenze > artistiche e politiche dissiparono i dubbi superstiti: la giovinezza (avevo > venticinque anni) l’amore del nuovo e la indipendenza da ogni vincolo > accademico fecero il resto: inviai perciò anch’io la adesione al nuovissimo > movimento che si riprometteva di svecchiare, rivoluzionandola, tutta l’Arte > contemporanea; e alla lettera aggiunsi la mia prima lirica futurista, > intitolata “Apocalisse”, che piacque tanto a Marinetti sicché egli, oltre a > pubblicarla nella sua Rassegna, alcuni anni dopo la tradusse personalmente in > francese per l’antologia “Les Cinq Continents” di Ivan Goll (Paris, 1920).” Sono anni di intensi cambiamenti per la poesia di Remo Mannoni, ribattezzato da Marinetti “Libero Altomare”, che abbandona il sonetto in favore del verso libero, acquisendo nuovo slancio. I suoi versi, ora snelli, rapidi, densi di movimenti roboanti, si contornano di note intimistiche ed immagini surreali, centrifugandosi in un’estetica certamente originale. Remo Mannoni alias Libero Altomare nella truppa dei Futuristi Non tardano ad arrivare i consensi a livello nazionale ed internazionale; Marinetti, in occasione della prima serata futurista di Trieste scrive: “Ebbi quella sera la gioia di far applaudire fragorosamente da 3.000 persone la vostra bellissima poesia Desiderio”; Ricciotto Canudo nel numero di agosto 1909 del “Mercure de France”, scrive di lui: “Le lyrisme de M. Remo Mannoni, qui doit être très jeune, est au ontraire tout éclatant, s’élance dans les Procellarie”. Nel gruppo futurista Altomare reincontra, tra l’altro, una vecchia conoscenza: Umberto Boccioni, pittore che avrebbe dovuto rivoluzionare le arti plastiche, con cui aveva condiviso una pensione in Via Muzio Clementi, nel quartiere Prati di Roma dal 1904 al 1905. L’intesa col resto del gruppo e i bissati applausi alle declamazioni delle sue liriche sembrano avviare il poeta sulla strada del successo, non fosse che, all’apice della sua carriera poetica, questioni lavorative e familiari si frappongono tra Libero Altomare e la sua produzione: la presa di servizio come applicato in prova alla stazione di Civitavecchia, alcuni malanni e la successiva assunzione come funzionario statale, allontanano via via il poeta dal centro del movimento. Nondimeno, la nascita delle parole in libertà stride con le intenzioni di Mannoni, che confessa:  > “Dalla lettura di tale linguaggio monosillabico e onomatopeico trassi subito > la convinzione della mia incapacità di adeguarmi ad esso, ma non vi attinsi > quella percezione pura che, l’autore (seguace dell’intuizionismo bergsoniano) > se ne riprometteva. Mi sembrava troppo facile, ormai, diventare scrittore > futurista. Né le mie previsioni errarono”.  Nel 1913 perde il figlio, di soli otto mesi, e cinque anni dopo sua moglie. Nel mezzo, qualche pubblicazione su “Lacerba”. L’indole poetica è tuttavia irrimediabilmente compromessa e Mannoni scriverà di quei tristi avvenimenti: “Mentre così quell’intima tragedia imprimeva stigmate indelebili nella mia subcoscienza tutti i conati di evasione nei campi del lavoro e dell’attività artistica, da me escogitati, fallirono”. Subentrano inoltre divergenze politiche col futurismo alle soglie della Prima guerra, che ne determinano il definitivo distacco. Nonostante ciò, non avverrà mai una rottura totale dei rapporti amichevoli con Marinetti, il quale continuerà a tenere informato Altomare sulle pubblicazioni futuriste, talvolta inviategli anche con la beffarda dedica “A Remo Mannoni – gridando – Evviva il futurismo!” Remo Mannoni (1883-1966) Il poeta ritorna sulle scene, dopo anni di silenzio, nel 1931 con Fermento, sotto il nome di Remo Mannoni e solo tra parentesi, in caratteri più modesti, l’alter ego Libero Altomare, ormai divenuto vecchio ricordo. L’opera racchiude tutte le fasi dell’autore, con alcune poesie già pubblicate nelle precedenti raccolte e non passa del tutto inosservata; Vittorio Bodini in “La Voce del Salento”, del 19 giugno 1932, recensisce Fermento scrivendo: > “Questo poeta sente profondamente nel suo spirito il travaglio che > caratterizza nella storia letteraria di tutti i tempi, presente passato > futuro, la nostra poesia potenziata dalla civiltà meccanica e dal desiderio – > volontà del Sempre Più Oltre. In una girandola tumultuosa, grandi medie > piccole cose, robuste tenui, turbinano intorno al perno – spirito di Libero > Altomare (Remo Mannoni), ne impressionano la sensibilità, lo inebriano del > loro lirismo”. Quelli di Fermento sembrano, allo stato attuale delle ricerche di chi scrive, gli ultimi versi pubblicati a volontà del poeta, il cui carillon sonnolento risuona ancora con furore tra le tappezzerie sbiadite. Salvatore Giuseppe Di Spena * NOTTURNO GUERRESCO Inesorabile, fredda, la luna nel ciel di febbraio: scimitarra d’acciaio in agguato fra i nuvoli. Broli deserti, nidi imboscati, fanali disertori… Ma cuori di fiamma, ali secure perlustrano le vie dell’aria, a disvelare l’insidia nemica. La quotidiana fatica della città assopita, non tace: mormora, prega; ansima in segreto. Tragica vigilia d’armi, sordo pulsare di vene e di macchine, tarli di opere insonni. Per la pugna del domani la Forza affila le armi, la Pietà prepara le bende: s’aprono generosi cuori e forzieri. Volano i sogni verso le trincere! –  Sulle case, dalle porte crocifisse, due battenti: fede, speranza … Già squilla il sole la sua nuova diana, s’avanza l’orifiamma dell’aurora, dai lor bivacchi fuggono le stelle. Bronzee voci di campane e guerriere voci umane invocano: Gloria!… Scintillano guglie come baionette. E l’orizzonte tricolore promette un radioso meriggio di vittoria. *** IL PASSATO Vecchio carillon sonnolento che riesuma fra tappezzerie sbiadite e fetore di crisantemi sfatti ingenue romanze di epoche lontane. Bigotto lacrimoso che biascica un rosario di rimorsi; cero fumigante in eterno sovra le bare dei giorni perduti; cinematografia grottesca e scialba su la tela fluttuante de la memoria. Povero specchio infranto ai cui frantumi, i ricordi, ogni tanto ci rispecchiano per pescarvi con uno gesto scimmiesco qualche arabesco di sogno che ci solcò la fronte *** ANTELUCANA Brividi impercettibili percorrono la divina Notte, resupina su la terra e sulle acque, al primo impallidire de li astri. Sussulta più forte il Silenzio ai passi, alle ruote, alle voci. E Fora in cui, mute ne la loro bruta gravità, giacciono tutte le cose; ma le macchine pulsanti su tutte le vie del mondo s’affrettano convulse verso le mete consuete ed il biscazziere, insonne, azzarda l’ultima posta. S’è nascosta la luna… Più forte singhiozzano le fonti. Torpidi nel lor sonno minerale, lontani i monti sembrano respirare a gara con l’Oceano. È l’ora in cui l’anime umane, rese traslucide come urne d’alabastro dalla notturna tregua sorella di morte, rivelano fortemente la presenza della Face inestinguibile. Pace sia, pace per l’inesausto pensiero e per l’insaziata brama, per chi soffre e per chi ama, per ogni oppressore ed ogni oppresso. Sogni, presagi, incubi volteggiano. Ora di gioia prenatale per la carna sana che anela all’alba e al meriggio; ora in cui anche il morente presente una nuova aurora. *** SCALATA              Vogliamo dare la scalata al cielo! Tutta la Terra fu corsa da noi:  corpi vibranti e parole di fulmine.  Avviluppammo i prati e le boscaglie  di ferree maglie: l’aria, d’esili ragnatele telegrafiche; mostri di fuoco aizzammo sui mari.  Mascherotti sublimi, palombari, subacquee sirene, attinsero i gorghi profondi  le vertebre titaniche dei monti  scricchiolarono sotto le nostre ossa,  mutarono di colore le bianche gote polari  sotto il magnetico sguardo dei fari nittalopi. Trasvoliamo su ruote elastiche, ci adagiamo su carri trionfali; ghirigori strani c’insegnano il cammino.    Divoriamo gli spazi,   ma sazi   ancora non siamo di strage. Vogliamo dare la scalata al cielo   strappare il velo azzurro   che riveste l’androgino Mistero    Tuonare rulli di tamburi elettrici,    saettare fluidici dardi   su gli astri beffardi. Vengano dunque i novi mostri alati:   ali di tela,   cuori di acciaio:   lo spirito gaio dell’uomo l’inciela!… Sieno sparvieri ed angeli ribelli,    non rondinelle o nottole.   Parlino lingue babeliche,   aprano gole fameliche,    ali luciferine   stendano fino all’ultimo confine! E noi daremo la scalata al cielo! *** CUORE STRANO Il mio cuore è un’antica pergamena dimenticata, logora, ingiallita, rosa da assiduo tarlo e raggrinzita come la pelle d’una vecchia jena. Ha miniature d’angeli e di donne di demoni e di mostri, strani emblemi, misteriose cabale, poemi e templi dalle fulgide colonne. E d’altre vaghe immagini è istoriata, però lo scritto vi si legge appena. Marcirà prima d’esser decifrata questa lacera, vecchia pergamena. *** L’ALBERGO DELLA NOIA  Com’è triste l’albergo della Noia! S’inseguono le stanze allineate in fila come celle claustrali pei corridoi simmetrici percorsi dai tappeti che bevono i rumori. Tappeti grigi, grigi come l’ombre che vegliano alle soglie delle porte, freddi come la polvere cinerea che si raggruma sovra le specchiere velandone i grandi occhi allucinati. Mobili taciturni come bare dimenticate. – Le tignuole dormono un sonno antico nei massicci armadi neri. Sogghigna il lucido ferrame come le inferriate degli ergastoli. E poi, divani soffici avvolgenti come il lubrico fango degli stagni; poltrone che poltriscono, enfiate, a braccia aperte nell’attesa vana che vi si sdrai l’Ospite accidioso. Le tende vellutate e le portiere flosce, pesanti, sembrano le ali di penduli chirotteri in letargo. Celano forse i resti di un delitto o qualche accoppiamento mostruoso? — Scale di sopra, scale in basso, scale che si perdono su, nell’infinito, tutte a spirali tormentose come l’anime folli che non hanno tregua. Solo ogni tanto qualche lucernario sgrana nell’ombra la pupilla smorta: una nube d’ovatta insanguinata rade i vetri stagnanti, e vi si sfiocca. Da quanto tempo, immemore, mi aggiro ospite involontario in mezzo ad ospiti occulti nel castello della Noia? Cerco invano la stanza che m’accolga, la crisalide bigia, dove il Sogno tessere possa qualche filo d’oro… Innumeri orologi si accompagnano rigidamente al ritmo del mio cuore, accoliti devoti del silenzio: le lancette che lacerano il tempo segnano tutte la medesima ora!…  — Chi, di sorpresa, mi condusse qua? Ecco la Morte, pallida, composta, con un inchino cerimonioso additarmi la stanza del riposo, e lasciarmi così, senza risposta… *In copertina: un’opera di Umberto Boccioni (1882-1916) L'articolo Il mio cuore è una iena. Vita in versi di Remo Mannoni, il futurista dimenticato proviene da Pangea.
October 10, 2025 / Pangea