
“Cristo, ti amo: ulula in questo cielo selvaggio”. Sulle poesie di Natale di Allen Tate
Pangea - Wednesday, December 24, 2025Quando morì, il 9 febbraio del 1979, Allen Tate, Poet, Critic and Teacher, come titolava il “NY Times” – evidenziando la parola “maestro” – era già morto più volte. Stava male da tempo, aveva diradato gli interventi pubblici; dal 1975 sopravviveva, in sostanza, a letto. Non gli era stato derubato il brio e una certa caustica gioia: nel ’76, a mo’ di risarcimento per il vecchio leone della letteratura americana, gli era stata conferita la “National Medal for Literature” – prima di lui, l’avevano ricevuta W.H. Auden, Marianne Moore e Vladimir Nabokov. Due anni prima, aveva onorato il centenario dalla nascita di Robert Frost con un discorso dei suoi, brillante & tonante. Amava ripetere che “In poesia tutto è possibile se si è abbastanza uomini”, una frase che reca in sé l’indole marziale, iliadica della poesia, e quella divina (“Nulla è impossibile a Dio”, sussurra l’angelo secondo l’evangelista Luca). Per parlare di poesia, di solito, accennava al giaguaro e al lupo, bestie araldiche del continente americano, e a Pascal, al “conflitto tra cuore e mente”. Qualcuno, timidamente, lo aveva proposto per il Nobel, anche se i re, è noto, rifiutano i premi.
Si può dire, in effetti, che Allen Tate, il più noto e il più frainteso tra i poeti statunitensi del secolo scorso – nel giorno dell’insediamento del Presidente Kennedy, a cui era stato doverosamente invitato, la First Lady, ‘Jakie’, lo fissò urlacchiando “Io l’ho già vista!”, scambiandolo per un attore, per via “dei biondi capelli, gli occhi azzurri, la fronte prominente che gli conferiva l’aspetto di un saggio”, come scrisse Jill Krementz, incaricato di redigere il ‘coccodrillo’ per il suddetto “NY Times” – abbia perso tutte le battaglie. Tra i conservatori, era un anarchico, era il diamante: proveniva dal vecchio Sud, volle morire a Nashville, si era laureato alla Vanderbilt, fu l’astro dei “Fugitives”, sostituì Marx – odiatissimo – a Thomas S. Eliot, il venerabile maestro. Come scrive – con scaltrita ironia – il giornalista del “NY Times”, “Tate stigmatizzava l’industrialismo americano, sosteneva che una società che investe tutto nella scienza e nelle macchine è destinata al decadimento del pensiero intellettuale”. Nessuno gli credette – aveva ragione. Al fratello – un imprenditore nel campo del carbone – dedicò una poesia, To my Brother, appunto, che dice tutto:
“Capitani d’industria, il vostro potere senza scopo
risveglia le aspre velleità del tempo:
ma tu, fratello, capitanando la tua ora,
sii zelante che i tuoi numeri sian tutti primi,
perché una falsa divisione con la scaltra matematica
non saccheggi l’interiore dimora del sangue,
il tracio, gonfio d’orgoglio, non assedi l’attico –
l’invasore che depreda il bosco sacro:
eppure il segreto primo la cui semplicità
la tua torre di macchine, per ridurla, martella,
sebbene respinta, conserva quel baluardo del mare
che spezzato lascerà libero l’indicibile furore
che sommerge chi giura di rettificare
l’infinito, ma non ha occhi né orecchie”.
Gli piaceva ricordare che da ragazzo, obbligato a impegnarsi nell’azienda di famiglia, dilapidò in una manciata di giorni la rendita che gli era stata affidata. Fallì su tutta la scala, Allen Tate – dagli anni Sessanta lo presero per una maceria del tempo antico, cosa che a lui, per altro, piaceva – gli piaceva sentirsi come il torso di Apollo decapitato. Lo dissero “il sommo sacerdote di una setta arcana” – gli piacque anche questa battuta. Era un retore invidiabile: combatteva “le spire del positivismo razionalista” facendo conferenze intorno a Emily Dickinson, Dante, John Donne. Lottò per la scarcerazione di Ezra Pound; fu il più intimo amico di Hart Crane un poeta, diceva, “le cui disperate condizioni personali non gli hanno impedito le più vaste conquiste poetiche della nostra generazione”. Aiutò Delmore Schwartz a pubblicare i suoi testi, così irti di vertigini.
Lo vollero morto, questa spina nel fianco all’ideologia progressista americana – lui aveva già rinnegato se stesso: guidato da Jacques Maritain, scelse, nel 1950, di convertirsi al cattolicesimo.

Due libri, su tutti, aiutano a comprendere Allen Tate – e soprattutto, lo ‘spirito’ americano, per lo più malcompreso dalle orde dei geopolitici odierni, che sfoggiano i loro manuali, il loro anemico casellario uso a tutto, ignorando le fondamenta della letteratura, dell’immaginario, del mito. Il primo è un romanzo, The Fathers (1938), epopea livida degli Stati Uniti del Sud: un tempo lo stampava Feltrinelli. L’altro è Ode to the Confederate Dead, il poemetto edito la prima volta nel 1927, tra i più audaci tentativi di fondere storia e poesia, impeto epico e misura ‘morale’. L’Ode ai caduti confederati, insieme ad “altre poesie”, uscì per lo ‘Specchio’ Mondadori nel 1970, a cura di Alfredo Rizzardi. L’opera di Tate veniva paragonata a quella “di un suo grande contemporaneo, il romanziere William Faulkner”; la sua poesia, tra le più possenti del secolo, era detta “aristocratica e difficile”. Tate fu invitato a Firenze per festeggiare la traduzione, tra applausi e convegni. I suoi libri sono fuori dall’orbita editoriale italica da un pezzo: Tate non è autore conveniente a questo tempo.
Tra l’altro, aveva il genio per i sonetti natalizi. Ne pubblicò alcuni, in un paio di cicli – o meglio: di cieli esistenziali – a quasi dieci anni di distanza l’uno dall’altro. I primi Sonnets at Christmas escono nel 1934: il momento, forse, più puro & selvaggio del Tate poeta. Sono, in effetti, sonetti intimi, sofferti, che marcano il tema della colpa. Nel 1942, invece, i Sonnets prendono un tono sociale, di critica totale, ruvida, al “marziale progresso” americano – inutile ricordare il contesto bellico, intorno. Poco dopo, Tate divorzierà dalla prima moglie, Caroline Gordon, scrittrice di alto talento, dopo vent’anni di matrimonio – risposandola, perché il fato è delittuoso, per poi ri-divorziare, nel ’59, e collezionare altre due mogli. Non fu avara di dolori la vita di Tate.
È difficile trovare dei poeti che sappiano ‘consuonare’ con il Natale: la festa è tanto luminosa da annientare ogni tentativo di agonizzarla per verba. È nascita che non ammette altra nascita. Grosso modo intorno agli anni natalizi di Tate, nel 1938, dal Collegio Rosmini di Domodossola, Clemente Rebora, il poeta-sacerdote, cardine del nostro canone, appunta:
“Dio sia con me in questo caro e familiare periodo di sollievo; Egli mi sia presente, ché tutto il resto è niente”.
Cos’altro possiamo dire che non ci fulmini la lingua, che non la tramuti in ciò che è: lucertola e varano. In una delle sue poesie natalizie, David Maria Turoldo scrive:
“La creazione ti grida in silenzio,
la profezia da sempre ti annuncia
ma il mistero ha ora una voce,
al tuo vagito il silenzio è più fondo.
E pure noi facciamo silenzio,
più che parole il silenzio lo canti,
il cuore ascolti quest’unico Verbo,
che ora parla con voce di uomo”.
Non è una bella poesia: il rito vanifica retorico ornamento. Poiché tutto dal Bimbo è fatto bello anche il bello muta contorni, sconfina. Nel Protovangelo di Giacomo è scritto che nel momento della Nascita “l’aria fu scolpita da stupore… immobili gli uccelli del cielo… le pecore spinte avanti stavano ferme: il pastore alzava la mano per percuoterle, ma la mano era fissa, immota… le bocche dei capri poggiate sul fiume non bevevano. Poi, d’improvviso, le cose ripresero il loro corso”. Il cosmo si blocca per fare spazio al Bimbo; la vita ghiaccia per dare vita alla Vita. È il silenzio – il pregare muto – in apnea. Creato ri-creato. Che qualcuno ci snodi il respiro, Nascita vuol dire mollare gli ormeggi. Arenarsi altrove.
***
Sonetti di Natale
I
Questo è il giorno in cui viene la Sua ora:
che mi prepari dalla testa ai piedi
lupesco nello sguardo per cogliere
il mio premio, il premio di un ingegno
che si pavoneggia. Alcuni sono felici:
bevono, mangiano, altri sono a caccia
eppure, roso dalla stanchezza, in estasi
io disputo, ingenuo, sul dilemma della stagione:
Uomo, cretina creatura dall’enorme cranio
cosa vedi oltre la caligine celeste? Ma io devo
inginocchiarmi ai Morti, devo aggregarmi a loro
mentre le campane di Natale, in raso rosso
e bianco, decorate con profili di ragazzi, esaltano
il silenzio con cui continuamente mi sfamo.
*
II
Cristo, ti amo: Tu ululi in questo cielo
selvaggio e il passato mi tormenta:
a dieci anni ho detto una bugia infame
ho fatto frustare un ragazzo nero; ma
gli anni passano, presi in un preciso baluginio,
si rovesciano come palle di Natale su un panno –
che tornino a suonare le antiche trombe
che l’antica folgore dello sguardo di Cristo
ci fulmini. Io sono sordo, io non vedo, sono
un uomo dagli inattuali sensi, inesperto
nel retroscena della conoscenza, ma so che
un incubo non ha suono, così, inerte, con le mani
sulla testa, siedo davanti al fuoco, è fine dicembre,
minacciato dai crimini da cui vorrei essere assolto.
1934
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Altri sonetti di Natale
A Denis Devlin
I
È ancora l’ora natia, ha i capelli sciolti
e neri, ma la barba ondeggia, grigia;
dieci anni fa i Suoi occhi, feroci chiodi,
perforavano la trama dei miei fallimenti:
temevo il corpo gelido, la tomba, che mi
tradisse la deriva delle contrite cordialità;
dieci anni sono sufficienti per essere storditi
dal Cristo-mummia, la testa tra le sue ginocchia.
Supponi che mi metta alla guida di un bombardiere
per spezzare il sole e sentire i suoi spettri
gemere: Ecco il giogo capitale – lascia
stare, non ci sono spettri da temere nel giorno
zenit; il sentore di un’atrocità imminente
si insinua, faina, nell’orecchio mistico.
*
II
Il giorno è finito, non c’è luogo dove andare,
venite presso il fuoco che muore;
alzatevi e invitate educatamente
le belle signore al vischio, fissatele
con occhi avidi come vecchi corvi.
Un tempo pendevano le ghirlande
di agrifoglio e Babbo Natale faceva
tintinnare le renne sulla mensola del camino.
Fate di questo bel quadretto un calendario
e pregate, sull’attenti, insieme al gregge,
per il marziale progresso della vostra stella
con vasti pensieri di commercio e società
Cinesi munti a dovere, Negri inabili al canto
e Unni, castrati, che pascolano in cerchio.
*
III
Dammi oggi una fede impersonale
di questo tipo: Il popolo Americano in armi
con polizze assicurative per i giusti e i danneggiati
combatte il mondo di cui non è parte.
Quel ragazzino di dieci anni, nel corridoio,
teneva il cappello in mano (così lo carezzava
il padre: Sarai Presidente…), ma non si sentì
male quando cadde. Nessuno gli disse
che avrebbe potuto fare l’idraulico, il falegname,
l’impiegato, l’autista di autobus, il bombardiere:
lasciate che i figli precipitino in un sonno feroce,
nello squillante squallore dell’Egeo, dove
la paura è il nemico di remoti oceani
non conquistati da Cristo: questo è il solo bene.
1942
Allen Tate
In copertina: Andrew Wyeth, Snow Hill, 1989
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