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Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato
Esiste, in letteratura, una categoria estetica dell’amabilità? E se sì, quali spazi di conoscenza dell’animo umano ci apre nella sua ordinarietà, nella sua mediocritas? Del resto, la stessa parola – mediocritas – in latino non aveva originariamente un valore dispregiativo. Indicava, piuttosto, una virtù: quella della moderazione, della giusta misura; la capacità di non cadere negli eccessi, di mantenersi nella linea media. Questa mediocritas Orazio in una famosa ode la definisce «aurea», perché alludeva a un ideale di saggezza (Aristotele in greco la chiama mesotes): l’uomo doveva ambire a quella medietà, a quell’equilibrio tra due opposti, per esaltare appunto l’umanità stessa che era in lui, misura di tutte le cose. Il controllo delle passioni, la moderazione, erano dunque un valore etico da perseguire. Poi, con la modernità qualcosa è cambiato: da un lato il romanticismo, con l’invenzione del genio e del sublime, il mito del titanismo, e a seguire il decadentismo con il dandismo anti-borghese e la dottrina nietzschiana dello Übermensch (più o meno travisata dagli esteti alla D’Annunzio); e dall’altro (o all’opposto, se vogliamo) il capitalismo industriale, con l’invenzione dell’efficienza e il mito del successo, hanno fatto assumere all’«aurea mediocritas» un significato completamente diverso, con una coloritura ironica, se non sarcastica, per dire di qualcuno che si accontenta miseramente di quel poco che ha o che è. Finché la mediocrità non è diventata il tabù per eccellenza della nostra società dei consumi, ipercompetitiva e ansiogena, dove un selvaggio darwinismo sociale punta a instillare in tutti il germe dell’eccezionalità, della rincorsa ai «15 minuti di celebrità», dove il Superuomo da supermarket è diventato alla portata di tutti (come sembrano suggerirci ogni giorno le pubblicità, che ci invitano a essere i migliori possedendo le cose migliori). C’è una parola – orrenda – che oggi definisce il mediocre: la parola «sfigato». Essere uno sfigato sembra diventata la peggiore iattura, la condanna più inesorabile. Una volta marchiato come tale, un individuo è tagliato fuori inesorabilmente. Se sei uno sfigato non puoi essere preso in considerazione, non puoi far parte del gruppo. Lo sfigato è un perdente e non c’è spazio per i perdenti in una società che fa del successo da talent-show l’unico imperativo categorico. Ma lo sfigato è però anche quello che non si conforma, quello che non contribuisce a mandare avanti il tutto come occorre. È l’anello debole o il granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio. Ed è, proprio per questo, amabile.  La letteratura ci ha consegnato, in effetti, grandiose figure di mediocri amabili. Il Leopold Bloom dell’Ulysses di James Joyce, ad esempio, è un buffone shakespeariano. È vitale, è gentile, è simpatico, in un episodio assurge perfino a una sua memorabile eroicità, quando nel pub difende le proprie origini ebraiche di fronte all’orrido Cittadino antisemita. Non conosce il rancore, non ha ambizioni, ma è generoso, pratica la misura, coltiva una cauta sessualità. È consapevole dei tradimenti della moglie, ma nel capitolo finale della fantasmagoria notturna ha una visione in cui Shakespeare lo esorta a non vendicarsi su Molly come Otello con Desdemona. Bloom è un puro di cuore. Ma soprattutto è umano. Di tutt’altro genere di umanità, ma altrettanto amabile, è lo Stepan Arkaďič Oblonskij di Lev Tolstoj, in Anna Karenina. Vorrebbe essere l’emblema di una certa superficialità e frivolezza dell’alta società russa dell’Ottocento, con il suo modo di vivere agiato, ma quel che ne viene fuori è un personaggio irresistibile. «Stiva» è un uomo futile, certo, un fanfarone dedito ai piaceri della vita (le donne, il cibo, lo champagne), un egoista, ma proprio questo suo rifiuto di impegnarsi in grandi progetti, di assumersi le responsabilità, lo rendono amabile. Non a caso il romanzo comincia dal putiferio che ha scatenato la scoperta da parte della moglie della sua tresca con l’istitutrice francese dei figli. Oblonskij è un personaggio comico, di una comicità che lo salva da tutte le sue colpe. A lui si potrebbero riferire le parole di Philip Roth in Pastorale americana:  > «Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe > dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la > gita».  La sua prima apparizione ci ricorda un altro grande personaggio russo (anche lui di amabile mediocrità), Il’ja Il’ič Oblómov, protagonista del romanzo eponimo di Ivan A. Gončarov, il proprietario terriero che trascorre le sue giornate a letto o sdraiato sul divano. Anche «Stiva» si risveglia sul divano, ignaro della bufera che sta per abbattersi sul suo matrimonio: ha fatto un sogno in cui si trovava a un banchetto in America, dove si mangiava su tavoli di vetro, «tavoli canterini che intonavano Il mio tesoro», con delle «caraffine sinuose che scoprivamo essere donne…». Un sogno tipicamente oblonskijano. Senonché quel principio di piacere che lo ha accompagnato nella notte è costretto a scontrarsi con il principio di realtà incarnato dalla moglie che gli si para davanti sventolando un biglietto, prova tangibile del suo tradimento, e un’espressione di disgusto, disperazione e rabbia. E lui che cosa fa?  > «Invece di risentirsi, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono o di > restare finanche impassibile (tutto era da preferirsi a ciò che fece!), sul > viso gli si era involontariamente stampato (“riflesso cerebrale”, si scoprì a > pensare da appassionato di fisiologia qual era) il solito, consueto, bonario e > perciò sciocco sorriso».  Un sorriso che rende furibonda la moglie. Ma quel «riflesso cerebrale» altro non è se non la rivelazione inconsulta della sua natura di uomo che rifiuta la tragedia, l’alto, il sublime (tutto ciò che invece accetta sua sorella Anna, lasciandoci la pelle).  Ancora diversa è l’amabilità di Hans Castorp, il giovane protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann, che con la sua strepitosa disponibilità pedagogica ed erotica, pronto a innamorarsi di tutto e di tutti, rappresenta l’alunno ideale che vorrebbe qualunque docente. Personaggio ordinario, certo, come spesso Mann sottolinea, ma anche una spugna capace di accogliere, metabolizzare le antinomie (da un lato l’umanista Settembrini, dall’altro il radicale antimoderno Naphta, ma al centro, soprattutto, l’eros di Madame Chauchat), insomma un individuo malleabile, che ci mostra quanto sia importante non porre difese, né argini, essere curiosi e aperti alle sollecitazioni della vita.  E come definire se non amabile anche la mediocrità di Zeno Cosini, l’inetto della Coscienza di Zeno,trasparente alter-ego dell’autore Italo Svevo, su cui, non caso, lo stesso Joyce, che fu amico di Svevo, modellò il suo Bloom? Cosini (in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci appare vicino e fraterno e adorabile. Nella sua inettitudine, nella sua nevrotica inerzia, nella sua mediocrità, vi è nascosta una vitalità sotterranea. Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche lui. Quando muore il suo antagonista Guido Speier, si accoda al funerale sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta. Perfino la scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un errore, e di un forzato accomodamento con la mediocrità.  Zeno è un personaggio che non ha in mano il suo destino, ma che si lascia trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma non è proprio in questo naufragio (che egli chiama «malattia») la sua salvezza? Nella stessa categoria estetica possiamo includere anche il rabbino Hillel (realmente esistito, ma personaggio letterario in quanto tra i protagonisti principali del Talmud). La sua contrapposizione con l’altro rabbino, il rigido e dogmatico Shammai che lo coinvolge in oltre trecento dispute fa risaltare luminosamente la sua amabilità, la sua saggezza tutta pratica, la sua apertura mentale. Hillel riconosce che la vita, nella sua mutevolezza, nella sua imprevedibilità, non può subire la costrizione di un codice scritto immutabile. Si racconta di un pagano che si presentò al maestro Shammai e gli chiese di potersi convertire alla fede ebraica, a condizione però che il rabbino gli insegnasse l’intera Torah mentre lui si reggeva su una gamba sola. Shammai lo cacciò via con un bastone. Lui allora andò da Hillel con la stessa richiesta. E Hillel gli disse:  > «Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la > Torah, il resto è solo commento. Ora va’ e imparalo».  Una delle massime di Hillel è: «non separarti dalla comunità», ovvero non desiderare di essere diverso (non c’è in questo un’eco di Kafka, del desiderio dell’agrimensore K. di entrare nel Castello?). «Ama le creature» esortava, ancora, Hillel, il rabbino umile, che praticò la «mediocrità» nel suo valore etimologico, nel senso cioè di sapersi porre nel mezzo fra gli estremi, di saper praticare quella legge della «misura» che Albert Camus indicherà, nel suo L’uomo in rivolta, come un valore di mediazione da opporre alla «dismisura» che invece conduce al nichilismo. Una misura che nasce dalla «rivolta», non dall’acquiescenza, poiché antepone l’uomo all’assoluto. Così come antepone l’uomo all’assoluto Samuel Picwick, il protagonista del Circolo Pickwick di Charles Dickens, la cui accettazione della realtà è per l’appunto basato sulla «misura». Egli è l’incarnazione stessa della bontà e della generosità. Il suo rapporto con l’inseparabile Sam Weller è paterno, i suoi piaceri sono semplici, la fiducia negli altri gli permette di scorgervi il loro lato migliore. È un viaggiatore instancabile, ma un viaggiatore nelle sfere mediane della realtà. La sua innocenza, la sua attitudine a mantenere ottimismo e umorismo anche nelle disavventure, ricorda un po’, spostandoci dalla letteratura al cinema, Jeffrey Lebowski, il protagonista del film Il grande Lebowski, dei fratelli Coen: un hippie fannullone (oblomoviano), pacifico, rilassato, inconcludente. Potremmo definirlo senza dubbio uno «sfigato», eppure è forse il personaggio più amabile e più amato della storia del cinema, al punto che il culto dei suoi ammiratori – una vera e propria setta – ha dato vita a una religione, denominata «dudeismo» (dal soprannome di Lebowski, The Dude, in italiano»). In che cosa consiste questa religione o meglio questa filosofia? Si può sintetizzare nella massima di Lebowski: «The Dude abides» («il Drugo sopporta»), un’originale commistione tra epicureismo e stoicismo.  Lebowski ci insegna a restare distaccati anche quando si è immersi nelle situazioni più assurde, a non prendersi mai sul serio, a trovare il lato positivo in ogni situazione, a saper apprezzare le piccole cose della vita (gli amici, il bowling, la marijuana, il White Russian), a ignorare le convenzioni sociali (indimenticabile la sua apparizione in vestaglia al supermercato, dove beve il latte direttamente dal cartone). Lebowski è la negazione del «sogno americano», ma è – anche – l’esaltazione del lato umano di questo fallimento. Il suo rifiuto di costruire un progetto di vita funzionale ai valori della società competitiva ne fa, in effetti, un paladino della sconfitta.  A pensarci bene, tutti questi personaggi qui ricordati, a che livello di conoscenza ci fanno pervenire? Saremmo portati a pensare che, rispetto agli Amleto, ai Raskolnikov, abbiano una capacità minore di scandaglio, di introspezione, eroi del «soprasuolo», per così dire, votati a una più prevedibile umanità. Esiste, invece, un valore sapienziale in questi personaggi che non possiedono gli altri, più tragici, più sofferti. È il valore della disponibilità, della capacità di adattamento, della comprensione, del relativismo, della misura.Perché in fondo è questo che ci insegnano soprattutto questi personaggi: non solo a farci riconoscere l’un l’altro come esseri umani, fragili limitati piccoli, ma soprattutto a non giudicare la vita ma a trovare degli interstizi in cui collocarci, a capire il significato del compromesso, ad abitare il mondo restando «fedeli alla terra». Fabrizio Coscia *Le citazioni da Anna Karenina sono tratte da Einaudi, 2017, traduzione di Claudia Zonghetti; quelle da Pastorale americana da Einaudi, 2013, traduzione di Vincenzo Mantovani; quelle di Hillel dal volume di Abraham Cohen, Il Talmud, Laterza, 1999. Ringrazio Filippo La Porta per la nostra conversazione sul tema.  L'articolo Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato  proviene da Pangea.
May 15, 2025 / Pangea