Esiste, in letteratura, una categoria estetica dell’amabilità? E se sì, quali
spazi di conoscenza dell’animo umano ci apre nella sua ordinarietà, nella
sua mediocritas? Del resto, la stessa parola – mediocritas – in latino non aveva
originariamente un valore dispregiativo. Indicava, piuttosto, una virtù: quella
della moderazione, della giusta misura; la capacità di non cadere negli eccessi,
di mantenersi nella linea media. Questa mediocritas Orazio in una famosa ode la
definisce «aurea», perché alludeva a un ideale di saggezza (Aristotele in greco
la chiama mesotes): l’uomo doveva ambire a quella medietà, a quell’equilibrio
tra due opposti, per esaltare appunto l’umanità stessa che era in lui, misura di
tutte le cose. Il controllo delle passioni, la moderazione, erano dunque un
valore etico da perseguire. Poi, con la modernità qualcosa è cambiato: da un
lato il romanticismo, con l’invenzione del genio e del sublime, il mito del
titanismo, e a seguire il decadentismo con il dandismo anti-borghese e la
dottrina nietzschiana dello Übermensch (più o meno travisata dagli esteti alla
D’Annunzio); e dall’altro (o all’opposto, se vogliamo) il capitalismo
industriale, con l’invenzione dell’efficienza e il mito del successo, hanno
fatto assumere all’«aurea mediocritas» un significato completamente diverso, con
una coloritura ironica, se non sarcastica, per dire di qualcuno che si
accontenta miseramente di quel poco che ha o che è. Finché la mediocrità non è
diventata il tabù per eccellenza della nostra società dei consumi,
ipercompetitiva e ansiogena, dove un selvaggio darwinismo sociale punta a
instillare in tutti il germe dell’eccezionalità, della rincorsa ai «15 minuti di
celebrità», dove il Superuomo da supermarket è diventato alla portata di tutti
(come sembrano suggerirci ogni giorno le pubblicità, che ci invitano a essere i
migliori possedendo le cose migliori).
C’è una parola – orrenda – che oggi definisce il mediocre: la parola «sfigato».
Essere uno sfigato sembra diventata la peggiore iattura, la condanna più
inesorabile. Una volta marchiato come tale, un individuo è tagliato fuori
inesorabilmente. Se sei uno sfigato non puoi essere preso in considerazione, non
puoi far parte del gruppo. Lo sfigato è un perdente e non c’è spazio per i
perdenti in una società che fa del successo da talent-show l’unico imperativo
categorico. Ma lo sfigato è però anche quello che non si conforma, quello che
non contribuisce a mandare avanti il tutto come occorre. È l’anello debole o il
granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio. Ed è, proprio per questo,
amabile.
La letteratura ci ha consegnato, in effetti, grandiose figure di mediocri
amabili. Il Leopold Bloom dell’Ulysses di James Joyce, ad esempio, è un buffone
shakespeariano. È vitale, è gentile, è simpatico, in un episodio assurge perfino
a una sua memorabile eroicità, quando nel pub difende le proprie origini
ebraiche di fronte all’orrido Cittadino antisemita. Non conosce il rancore, non
ha ambizioni, ma è generoso, pratica la misura, coltiva una cauta sessualità. È
consapevole dei tradimenti della moglie, ma nel capitolo finale della
fantasmagoria notturna ha una visione in cui Shakespeare lo esorta a non
vendicarsi su Molly come Otello con Desdemona. Bloom è un puro di cuore. Ma
soprattutto è umano. Di tutt’altro genere di umanità, ma altrettanto amabile, è
lo Stepan Arkaďič Oblonskij di Lev Tolstoj, in Anna Karenina. Vorrebbe essere
l’emblema di una certa superficialità e frivolezza dell’alta società russa
dell’Ottocento, con il suo modo di vivere agiato, ma quel che ne viene fuori è
un personaggio irresistibile. «Stiva» è un uomo futile, certo, un fanfarone
dedito ai piaceri della vita (le donne, il cibo, lo champagne), un egoista, ma
proprio questo suo rifiuto di impegnarsi in grandi progetti, di assumersi le
responsabilità, lo rendono amabile. Non a caso il romanzo comincia dal putiferio
che ha scatenato la scoperta da parte della moglie della sua tresca con
l’istitutrice francese dei figli. Oblonskij è un personaggio comico, di una
comicità che lo salva da tutte le sue colpe. A lui si potrebbero riferire le
parole di Philip Roth in Pastorale americana:
> «Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe
> dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la
> gita».
La sua prima apparizione ci ricorda un altro grande personaggio russo (anche lui
di amabile mediocrità), Il’ja Il’ič Oblómov, protagonista del romanzo eponimo di
Ivan A. Gončarov, il proprietario terriero che trascorre le sue giornate a letto
o sdraiato sul divano. Anche «Stiva» si risveglia sul divano, ignaro della
bufera che sta per abbattersi sul suo matrimonio: ha fatto un sogno in cui si
trovava a un banchetto in America, dove si mangiava su tavoli di vetro, «tavoli
canterini che intonavano Il mio tesoro», con delle «caraffine sinuose che
scoprivamo essere donne…». Un sogno tipicamente oblonskijano. Senonché quel
principio di piacere che lo ha accompagnato nella notte è costretto a scontrarsi
con il principio di realtà incarnato dalla moglie che gli si para davanti
sventolando un biglietto, prova tangibile del suo tradimento, e un’espressione
di disgusto, disperazione e rabbia. E lui che cosa fa?
> «Invece di risentirsi, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono o di
> restare finanche impassibile (tutto era da preferirsi a ciò che fece!), sul
> viso gli si era involontariamente stampato (“riflesso cerebrale”, si scoprì a
> pensare da appassionato di fisiologia qual era) il solito, consueto, bonario e
> perciò sciocco sorriso».
Un sorriso che rende furibonda la moglie. Ma quel «riflesso cerebrale» altro non
è se non la rivelazione inconsulta della sua natura di uomo che rifiuta la
tragedia, l’alto, il sublime (tutto ciò che invece accetta sua sorella Anna,
lasciandoci la pelle).
Ancora diversa è l’amabilità di Hans Castorp, il giovane protagonista de La
montagna incantata di Thomas Mann, che con la sua strepitosa disponibilità
pedagogica ed erotica, pronto a innamorarsi di tutto e di tutti, rappresenta
l’alunno ideale che vorrebbe qualunque docente. Personaggio ordinario, certo,
come spesso Mann sottolinea, ma anche una spugna capace di accogliere,
metabolizzare le antinomie (da un lato l’umanista Settembrini, dall’altro il
radicale antimoderno Naphta, ma al centro, soprattutto, l’eros di Madame
Chauchat), insomma un individuo malleabile, che ci mostra quanto sia importante
non porre difese, né argini, essere curiosi e aperti alle sollecitazioni della
vita.
E come definire se non amabile anche la mediocrità di Zeno Cosini, l’inetto
della Coscienza di Zeno,trasparente alter-ego dell’autore Italo Svevo, su cui,
non caso, lo stesso Joyce, che fu amico di Svevo, modellò il suo Bloom? Cosini
(in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi
lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci
appare vicino e fraterno e adorabile. Nella sua inettitudine, nella sua
nevrotica inerzia, nella sua mediocrità, vi è nascosta una vitalità sotterranea.
Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello
sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche
lui. Quando muore il suo antagonista Guido Speier, si accoda al funerale
sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con
il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta. Perfino la
scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un errore, e di un forzato
accomodamento con la mediocrità.
Zeno è un personaggio che non ha in mano il suo destino, ma che si lascia
trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma non è proprio in
questo naufragio (che egli chiama «malattia») la sua salvezza? Nella stessa
categoria estetica possiamo includere anche il rabbino Hillel (realmente
esistito, ma personaggio letterario in quanto tra i protagonisti principali del
Talmud). La sua contrapposizione con l’altro rabbino, il rigido e dogmatico
Shammai che lo coinvolge in oltre trecento dispute fa risaltare luminosamente la
sua amabilità, la sua saggezza tutta pratica, la sua apertura mentale. Hillel
riconosce che la vita, nella sua mutevolezza, nella sua imprevedibilità, non può
subire la costrizione di un codice scritto immutabile. Si racconta di un pagano
che si presentò al maestro Shammai e gli chiese di potersi convertire alla fede
ebraica, a condizione però che il rabbino gli insegnasse l’intera Torah mentre
lui si reggeva su una gamba sola. Shammai lo cacciò via con un bastone. Lui
allora andò da Hillel con la stessa richiesta. E Hillel gli disse:
> «Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la
> Torah, il resto è solo commento. Ora va’ e imparalo».
Una delle massime di Hillel è: «non separarti dalla comunità», ovvero non
desiderare di essere diverso (non c’è in questo un’eco di Kafka, del desiderio
dell’agrimensore K. di entrare nel Castello?). «Ama le creature» esortava,
ancora, Hillel, il rabbino umile, che praticò la «mediocrità» nel suo valore
etimologico, nel senso cioè di sapersi porre nel mezzo fra gli estremi, di saper
praticare quella legge della «misura» che Albert Camus indicherà, nel suo L’uomo
in rivolta, come un valore di mediazione da opporre alla «dismisura» che invece
conduce al nichilismo. Una misura che nasce dalla «rivolta», non
dall’acquiescenza, poiché antepone l’uomo all’assoluto. Così come antepone
l’uomo all’assoluto Samuel Picwick, il protagonista del Circolo Pickwick di
Charles Dickens, la cui accettazione della realtà è per l’appunto basato sulla
«misura». Egli è l’incarnazione stessa della bontà e della generosità. Il suo
rapporto con l’inseparabile Sam Weller è paterno, i suoi piaceri sono semplici,
la fiducia negli altri gli permette di scorgervi il loro lato migliore. È un
viaggiatore instancabile, ma un viaggiatore nelle sfere mediane della realtà. La
sua innocenza, la sua attitudine a mantenere ottimismo e umorismo anche nelle
disavventure, ricorda un po’, spostandoci dalla letteratura al cinema, Jeffrey
Lebowski, il protagonista del film Il grande Lebowski, dei fratelli Coen: un
hippie fannullone (oblomoviano), pacifico, rilassato, inconcludente. Potremmo
definirlo senza dubbio uno «sfigato», eppure è forse il personaggio più amabile
e più amato della storia del cinema, al punto che il culto dei suoi ammiratori –
una vera e propria setta – ha dato vita a una religione, denominata «dudeismo»
(dal soprannome di Lebowski, The Dude, in italiano»). In che cosa consiste
questa religione o meglio questa filosofia? Si può sintetizzare nella massima di
Lebowski: «The Dude abides» («il Drugo sopporta»), un’originale commistione tra
epicureismo e stoicismo.
Lebowski ci insegna a restare distaccati anche quando si è immersi nelle
situazioni più assurde, a non prendersi mai sul serio, a trovare il lato
positivo in ogni situazione, a saper apprezzare le piccole cose della vita (gli
amici, il bowling, la marijuana, il White Russian), a ignorare le convenzioni
sociali (indimenticabile la sua apparizione in vestaglia al supermercato, dove
beve il latte direttamente dal cartone). Lebowski è la negazione del «sogno
americano», ma è – anche – l’esaltazione del lato umano di questo fallimento. Il
suo rifiuto di costruire un progetto di vita funzionale ai valori della società
competitiva ne fa, in effetti, un paladino della sconfitta.
A pensarci bene, tutti questi personaggi qui ricordati, a che livello di
conoscenza ci fanno pervenire? Saremmo portati a pensare che, rispetto agli
Amleto, ai Raskolnikov, abbiano una capacità minore di scandaglio, di
introspezione, eroi del «soprasuolo», per così dire, votati a una più
prevedibile umanità. Esiste, invece, un valore sapienziale in questi personaggi
che non possiedono gli altri, più tragici, più sofferti. È il valore della
disponibilità, della capacità di adattamento, della comprensione, del
relativismo, della misura.Perché in fondo è questo che ci insegnano soprattutto
questi personaggi: non solo a farci riconoscere l’un l’altro come esseri umani,
fragili limitati piccoli, ma soprattutto a non giudicare la vita ma a trovare
degli interstizi in cui collocarci, a capire il significato del compromesso, ad
abitare il mondo restando «fedeli alla terra».
Fabrizio Coscia
*Le citazioni da Anna Karenina sono tratte da Einaudi, 2017, traduzione di
Claudia Zonghetti; quelle da Pastorale americana da Einaudi, 2013, traduzione di
Vincenzo Mantovani; quelle di Hillel dal volume di Abraham Cohen, Il Talmud,
Laterza, 1999.
Ringrazio Filippo La Porta per la nostra conversazione sul tema.
L'articolo Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato proviene
da Pangea.
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Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
Nell’epoca della post-letteratura, cioè di una scrittura che fa a meno della
lettura, della storia letteraria, della tradizione, dello stile, si può anche
affermare che la Bibbia è un libro «sopravvalutato». È stato fatto, lo ha detto
di recente la scrittrice premio Strega Donatella Di Pietrantonio in
un’intervista al «Corriere della sera». Se avesse detto che l’Iliade è un libro
sopravvalutato sarebbe stato lo stesso?
Nell’epoca della post-letteratura non ha nessuna importanza ricordare che
esiste, naturalmente, una sterminata bibliografia sulle radici bibliche della
cultura occidentale e sul valore letterario inestimabile di quest’opera. Si
potrebbe, anche, affermare che uno scrittore che non legga la Bibbia è, di
fatto, uno scrittore mancato, qualcuno, cioè, che si condanna da solo a
un’amputazione dell’immaginario, ma si condanna, anche, al rinnegamento perpetuo
di quei tre criteri estetici che Harold Bloom, insuperato lettore della Bibbia,
indicava come basilari per ogni libro che meriti di essere preso in
considerazione: lo splendore estetico, il vigore intellettuale e la saggezza. Ma
a che cosa serve sottolinearlo? Servirebbe, piuttosto, sostenere che nell’epoca
della post-letteratura la letteratura stessa deve essere un non-luogo facilmente
abitabile da tutti. Da qui deriva il resto. Anche il fatto che se si intende
reimmettere la Bibbia nel tritacarne del «culturale» odierno – ovvero di ciò che
Richard Millet chiama «l’alleanza dell’intrattenimento con la propaganda» –
bisogna farlo come si fa con i bambini: proponendo una lettura facile facile,
con una semplice parafrasi di alcune sue storie più famose, senza
approfondimento, nessun tentativo di analisi di qualunque genere (letteraria,
stilistica, antropologica, politica, storica).
È quello che troviamo nel libro Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della
Bibbia di Aldo Cazzullo (HarperCollins). Eccola la parola «passe-partout»,
l’esca del mercato editoriale: «romanzo». Come se la Bibbia fosse un testo
scritto da una singola persona, dall’inizio alla fine, e non una raccolta
eterogenea di libri composti in epoche diverse, da autori diversi, in lingue
diverse (ebraico e aramaico il Tanàkh e greco il Nuovo testamento), di generi
differenti, e perfino con finalità differenti. Il romanzo: basta la parola, nel
trionfo del post-letterario. Ma non è solo questo.
Non ho nulla contro Cazzullo, intendiamoci. Il suo libro non ha alcuna pretesa
critica. Se ne parlo qui è perché il suo successo di vendite mi sembra
particolarmente emblematico dei tempi che stiamo vivendo. Si potrebbe obiettare
che un libro divulgativo non può essere emblematico di alcunché, ma io credo, al
contrario, che la divulgazione non sia mai neutra, né innocua, poiché sottende
un assunto ineludibile su ciò che deve essere trasmesso e ciò che invece non
deve. Basti pensare a quanta ideologia è celata dietro la divulgazione di uno
storico come Alessandro Barbero (non mi riferisco solo alle prese di posizione
sulla guerra in Ucraina, ma alla sua dichiarazione, davanti a un uditorio di non
specialisti, che il regno di Israele non sarebbe mai esistito, asserzione basata
sulle posizioni della cosiddetta «scuola di Copenaghen», ma che ignora
volutamente tutto il dibattito storico-archeologico che a quella visione
minimalista si oppone).
Qual è, dunque, l’operazione ideologica sottesa al libro di Cazzullo? Che a un
popolo di non lettori in generale e di non lettori della Bibbia in particolare
basti offrire un grado zero della lettura, per così dire, affinché una raccolta
di testi letterari tra i più alti e complessi della tradizione occidentale (mi
riferisco, in particolare, alla Bibbia ebraica), si trasformi in un
«fattariello», in un «romanzo», in un bestseller capace di scalare le
classifiche. Con quali conseguenze? Quelle di una colossale mistificazione
culturale.
Rembrandt, Davide sfida Golia, 1655
Leggiamo, per capire, la prima pagina del libro, che inizia, giustamente, con i
primi versi di Genesi, ripresi dalla versione CEI della Bibbia:
> «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le
> tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Cazzullo chiosa così: «Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile».
E per dare solidità alla sua affermazione perentoria, aggiunge altri celebri
incipit di romanzi (ci risiamo!) della letteratura universale («Moby Dick»,
«Anna Karenina», ecc.) dimostrandone il minor impatto, al confronto.
Peccato però che quell’incipit in Genesi non esiste, non è corretto. Se Cazzullo
avesse letto Rashi, il rabbino medievale francese tra i più importanti
commentatori della Bibbia ebraica, avrebbe evitato questo topos sbagliato della
traduzione. L’ebraico Bereshit, infatti, è un costrutto che introduce una
subordinata temporale: «All’inizio della creazione del cielo e della terra da
parte di Dio…», oppure, come riporta la nuova traduzione biblica dei Millenni
Einaudi: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…». Non è solo una
questione sintattica. Nella sintassi diversa troviamo una diversa filosofia
della Creazione. La versione canonica impone un ordine cronologico della
Creazione, una gerarchia, una «bontà» razionale (prima di tutto Dio crea il
cielo e la terra, poi questo, poi quest’altro, ecc.), che invece nella versione
originale manca. Non c’è ordine, né gerarchia. E soprattutto, non c’è un
principio. Se si legge la prima frase di Genesi nella giusta traduzione (la
riprendo, come tutte le successive, sempre da Einaudi): «Quando Dio cominciò a
creare il cielo e la terra, mentre la terra era vuota e vacua, la tenebra era al
di sopra dell’abisso e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque, Dio
disse: “Sia luce!” E luce fu», misteriosamente scopriamo che l’acqua preesiste
alla luce, pur se non abbiamo alcun racconto della sua creazione. Non ci
troviamo di fronte a una cosmologia armoniosa e coerente prodotta da Dio, la
Creazione non avviene ex nihilo. Esistono già la «tenebra» e l’«abisso», e le
acque. Chi le ha create? E quando? Genesi, in realtà, nasce da questo mistero, e
negarlo vuol dire eliminare gran parte della sua complessità, per proporci una
versione più consolatoria e più rassicurante. Ma la vita – la sua origine, il
suo senso – non è né consolatoria, né rassicurante, anche se nell’epoca della
post-letteratura piace pensare che sia così.
Sarebbero innumerevoli gli esempi di «pericolosa» semplificazione disseminati
nel libro, a cominciare dalla Aqedah, l’episodio del sacrificio di Isacco, dove
esegesi ebraica, Kierkegaard, Kant, tradizione iconografica, psicoanalisi
vengono liquidati in una singola frase:
> «Ancora Dio ripete che, attraverso Abramo, offre una possibilità, propone un
> patto a tutti gli uomini».
Altro esempio riguarda uno dei momenti biblici fondamentali che troviamo sempre
in Genesi, un episodio che è il nucleo fondativo di ciò che il filosofo ebreo
Eric Weil indica come la peculiarità della nostra cultura greco-giudaica: ovvero
tutto ciò che consegue dalla capacità dimostrata dai profeti ebrei e dai
filosofi greci di domandarsi cosa fosse la giustizia e non cosa dettassero i
costumi del loro tempo. Il Signore è pronto a distruggere Sodoma per punire i
suoi abitanti che hanno peccato, quando Abramo, di fronte alla decisione del Dio
Onnipotente, lui, mortale e fragile, lui che – come si affretta a precisare con
sottile arte retorica – non è che «polvere e cenere», invece di arretrare si
avvicina al suo Dio, in maniera perfino spavalda, ma allo stesso tempo
insinuante, e gli chiede:
> «Davvero travolgerai il giusto col malvagio? Se ci fossero cinquanta giusti
> nella città, davvero travolgeresti quel luogo e non lo perdoneresti a causa di
> quei cinquanta giusti che vi sono? Lungi da te fare questa cosa: far morire il
> giusto col malvagio, così che il giusto sia trattato come il malvagio. Lungi
> da te! Forse che il giudice di tutta la terra non agirà con giustizia?».
Il Signore, di fronte alle domande di Abramo, è costretto a cedere: «Se
nell’ambito della città di Sodoma troverò cinquanta giusti, perdonerò a tutto il
luogo per causa loro». Ma Abramo non si accontenta, inizia a mercanteggiare con
il Signore! Lo induce a scendere da cinquanta a quarantacinque, a quaranta, a
trenta, a venti, a dieci. Cazzullo si limita a commentare:
> «Un dialogo così serrato, tanto da ricordare una trattativa tra mercanti in un
> suk, lo troveremo poche altre volte nella Bibbia. Non è da tutti tenere testa
> così a Dio».
Tutto qua? La trattativa da suk è, in realtà, una scena inaudita. Dio per la
prima volta è spinto a guardare dentro sé stesso, a scoprire la sua intimità, il
suo senso di giustizia. A domandarsi dove sia il Bene, al di là del proprio modo
di operare, e che cosa voglia dire «agire con giustizia». E lo fa grazie
all’uomo, al suo rifiuto di accettare come un dato di fatto ciò che proviene
dall’autorità. Abramo, in fondo, non ha alcun legame con Sodoma. La questione è
squisitamente etica. Che cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È come se qui l’uomo,
la creatura di Dio, diventasse a sua volta il creatore del suo artefice: un
rovesciamento vertiginoso, da cui proviene tutta la nostra tradizione
occidentale. Forse è troppo difficile per i lettori di Cazzullo? Non credo. Ma
nell’epoca della post-letteratura bisogna surfeggiare sulla superficie di un
testo senza osare affondi.
Rembrandt, L’agonia nel giardino, 1652 ca.
Stesso trattamento sbrigativo troviamo anche a proposito di un personaggio come
David, con la sua personalità così carismatica e contraddittoria, uomo
imprevedibile, devoto e ribelle, sensibile e spietato. Nel libro di Cazzullo
l’unico commento su David è questo:
> «Davide è davvero uno dei personaggi più interessanti della Bibbia».
Come negarlo? Ma è come dire, in un libro su Shakespeare, che Amleto è uno dei
personaggi più interessanti creati dal bardo inglese (il paragone non è casuale,
poiché David ha, in effetti, lo stesso fascino e la stessa insondabilità del
principe di Danimarca). Significa, cioè, ribadire l’ovvio. Eppure la danza quasi
orgiastica – danza di gioia – di David davanti all’Arca dell’Alleanza, che è una
delle scene più memorabili di cui è protagonista questo personaggio di
indomabile vitalità, avrebbe meritato qualcosa di più di questo commento:
> «È forse il primo e l’ultimo personaggio dell’Antico Testamento che Dio tratta
> come un figlio, e con cui Dio si comporta come un padre: un padre non
> particolarmente severo – scrive subito dopo Cazzullo –. Al punto che Davide
> talora pensa di potersi permettere tutto».
È vero, la danza di David conquista perfino Dio, spingendolo ad adottare David,
a ritenerlo come suo figlio. Ma che cosa vuol dire danzare con tutte le forze,
in perizoma di lino, davanti a Dio? Perché è questo che fa David in 2Samuele
(libro di una potenza shakespeariana), al punto da destare scandalo nella
moglie, figlia di Saul. «Che onore si è fatto oggi il re di Israele, denudandosi
come un uomo qualunque davanti alle sue serve dei suoi servi» gli dice Mikal,
sdegnata. E David risponde: «Davanti al Signore (…) danzerò e mi abbasserò ancor
di più». E questa festa che cosa produce in Dio? Un cambiamento, una scoperta
inattesa. Dopo la danza, commosso da questo omaggio, da questa gioia, il Signore
si definisce, per la prima volta nella Bibbia, «padre». Prima era il Dio degli
eserciti, spietato, massacratore di popoli, ma adesso, improvvisamente, si
scopre altro. «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» dice. Prima era il Dio
dei padri, ora è, semplicemente, il Dio padre. Senza la danza scandalosa di
David, Dio non avrebbe scoperto la sua umanità. Non ci sarebbe stato il «Padre
nostro», né il «Figlio di Dio». Da questa danza, da questo abbandono selvaggio,
da questo far festa sconsiderato, nasce il primo seme di un nuovo Dio, diverso
da tutti, perfino da sé stesso.
Una tale diversità (questa nuova umanità di Dio), viene confermata nel libro
successivo, il primo libro dei Re, in un episodio che Cazzullo non racconta:
l’incontro tra il Signore e il profeta Elia, quando l’apparizione divina è
descritta come «la voce di un silenzio sottile». È un’immagine bellissima, che
in ebraico, letteralmente, può essere restituita anche con «il suono di un tenue
silenzio». Non nel vento impetuoso si trova Dio, non nel terremoto, non nel
fuoco, ma nel «suono del silenzio», che la King James Version rende ancor più
memorabile, con «una piccola voce tranquilla» («a still small voice»).
Questa deminutio è sorprendente (fa venire in mente il capitolo 48 del Tao: «Chi
cerca il Tao, ogni giorno toglie qualcosa»), considerato che il Signore è stato,
come si è detto, prima dell’incontro con David, un dio terribile, vendicativo,
geloso, un «dio degli eserciti». Quando Elia sente quella «voce di un silenzio
sottile» si copre il volto con il mantello. Perché? Forse perché, come si dice
in Esodo, «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita»? O perché, più
semplicemente, il silenzio di Dio – quel suono del silenzio che bisogna imparare
a indagare – mette paura più di ogni altra cosa?
In effetti, la Bibbia è l’unico testo sacro che prevede anche l’assenza di Dio,
il suo silenzio (è lo stesso silenzio che spinge Saul al suicidio). A volte,
infatti, Dio parla solo attraverso ciò che gli uomini hanno scritto di Lui. È il
caso del libro di Neemia, che pure non viene nominato nel bestseller di
Cazzullo.Neemia, l’alto funzionario del re Artaserse, è un personaggio biblico
di fondamentale importanza. «Davanti all’assemblea degli uomini e delle donne e
di quanti erano in grado d’intendere» egli esegue la lettura integrale della
Torah sulla piazza di Gerusalemme dinanzi alla porta delle Acque, dall’alba fino
a mezzogiorno. È una lettura che esorcizza, appunto, il silenzio di Dio.
Impossibile non pensare a Kafka che sogna di leggere l’intera Educazione
sentimentale senza interruzione per tanti giorni e notti che risultassero
necessari, in una grande sala piena di gente fino a «farne riecheggiare le
pareti»; o al comico americano Andy Kaufman, che legge integralmente Il grande
Gatsby di fronte a un pubblico sbalordito (è solo un caso che siano entrambi
ebrei?). Del resto, se Flaubert è lo scrittore che inaugura la letteratura
moderna (a proposito, ho letto poco tempo fa un’intervista, sempre sul
«Corsera», allo scrittore e editor Carlo Carabba, il quale affermava che
Flaubert è uno scrittore sopravvalutato), il libro di Neemia anticipa un
passaggio cruciale che sarà altrettanto importante per l’arte narrativa, a
partire almeno da Henry James: il passaggio dal narratore onnisciente al
narratore inattendibile. Quando inizia il libro di Neemia leggiamo:
> «Nel mese di Chislèv dell’anno ventesimo, mi trovavo nella cittadella di Susa,
> quando giunse Chananì, uno dei miei fratelli, con altri uomini di Giuda».
È la prima volta nel Tanàkh che ci imbattiamo in un libro interamente scritto in
prima persona (se si eccettuano alcuni tra i libri sapienziali e i profetici,
che appartengono a generi diversi). Ci sono alcuni episodi rintracciabili
altrove, ma si tratta di narrazioni di secondo grado, inserti o profezie
innestate in un contesto narrativo e storico (è il caso di Daniele, ad
esempio). Qui ci troviamo, invece, di fronte a una novità assoluta. E il fatto
che avvenga alla fine della Bibbia ebraica (le Cronache sono solo un riepilogo
di fatti precedenti) non può essere un caso. Il Libro di Neemia è di
indubitabile importanza, sia perché ci restituisce in maniera icastica, e molto
più efficacemente di tanti saggi storici e politici, la psicologia di un popolo,
l’ossessione anche dell’attuale stato ebraico per la «difesa» (ecco la
descrizione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, dopo l’esilio
babilonese: «Da quel giorno, metà dei miei giovani era impegnata nel lavoro,
mentre l’altra metà, armata di lance, scudi, archi e corazze, stava dietro tutta
la casa di Giuda che costruiva il muro. Chi portava pesi svolgeva il suo lavoro,
sollevando il peso con una mano e tenendo la lancia con l’altra. Tutti i
costruttori lavoravano con la spada legata ai fianchi»), sia perché la scelta
della prima persona prefigura un drastico ridimensionamento.
Rembrandt, Cristo presentato al popolo, 1655
Neemia, attraverso la prima persona, può rivelare a noi lettori le sue
intenzioni che tiene nascoste agli interlocutori, ma allo stesso tempo
circoscrive ciò che avviene al suo punto di vista. La sparizione del «narratore
onnisciente» non può accadere senza conseguenze. Genesi, e tutto il Pentateuco,
attraverso la terza persona disponevano uno scenario in cui il protagonista
assoluto era Dio, che interveniva attivamente, parlava, esercitava un dominio
tirannico, aiutava il suo popolo oppure sfogava su di esso la sua collera. Qui,
invece, Dio è assente. O meglio, è presente solo dalla prospettiva di Neemia,
che lo prega, lo invoca, lo nomina al suo popolo. Ma di fatto Dio non risponde,
non compare, non agisce. Se ne sta nascosto. Narrare in prima persona – è questo
che ci rivela il libro di Neemia – vuol dire esporsi al rischio di farsi carico
della storia. Dio è presente solo nei suoi rotoli che divengono legge, nella
lettura che Neemia compie di tutta la Torah davanti al suo popolo. Neemia è un
tramite che si assume le responsabilità di provvedere agli ebrei a suo nome. La
prima persona ha, di fatto, escluso Dio, che ha delegato il suo potere all’io
narrante. Ma l’io narrante non è affidabile. Si tratta, dunque, di un acquisto,
da un lato, e di una perdita dall’altro. Ne è una prova il fatto che il lungo
elenco dei rimpatriati ebrei dall’esilio babilonese censito prima nel libro di
Esdra e poi in Neemia in alcune parti non coincidono. A chi dare credito? Tutta
la storia della narrativa futura si giocherà in questa discrepanza di
censimenti, e nell’ambiguità che essa comporta.
L’assenza di Dio prosegue anche in quello che è uno dei miei libri preferiti del
Tanàkh, il libro di Rut. Non so se sia il più bello della Bibbia ebraica, ma
sicuramente è quello più incantevole, più sobrio – un poemetto in prosa – e
anche il più sottilmente eversivo. Cazzullo ci restituisce, come sempre, una
fedele parafrasi e nient’altro. Eppure la forza dell’amore che emana da questo
testo, un amore inteso non come passione, ma come cura, come «chessed», cioè
come fedeltà all’alleanza, è così rivoluzionaria, anche nella sua coraggiosa
trasgressione della legge divina e morale, che rinunciare al commento equivale a
rinunciare a una delle ricchezze sapienziali più rare che ci siano mai state
donate.
> «Perché dovunque tu andrai, io andrò; dovunque tu pernotterai, io pernotterò;
> il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio. Dove tu morirai, io
> morirò e là sarò sepolta».
Questa meravigliosa dichiarazione d’amore non è pronunciata a un amante, ma a
una suocera, la suocera che Rut, la vedova moabita, sceglie di seguire a
Betlemme, in Israele, lasciando la sua terra e la sua religione. La virtù di Rut
è nel dire sì, nell’accettare la migrazione, il cambiamento, il ripudio,
assecondando solo la sua voce interiore (quella voce evocata da John Keats nella
sua Ode a un usignolo, la voce che «trovò una strada/ nel cuore triste di Ruth
quando, ammalata di nostalgia/ se ne stava in lacrime nel grano straniero»). Con
lei scopriamo che nella vita nulla va giudicato, nemmeno ciò che ci appare
indegno o sbagliato (come la rinuncia a sé stessi o l’amore per qualcuno molto
più in avanti negli anni, come Booz, l’uomo a cui, in un’audace incursione
notturna, Rut scopre non i piedi, come scrive Cazzullo leggendo alla lettera il
testo, ma i suoi genitali, in segno di disponibilità sessuale), perché ogni
gesto di questo personaggio, ogni sua azione, ci inducono a scoprire qualcosa di
inatteso, come la tolleranza, l’accettazione piena dell’altro, la solidarietà
femminile, l’erotismo naturale, la devozione e il rispetto reciproci.
Il libro di Rut è scritto quasi certamente da una donna, dove le donne sono
protagoniste assolute: gli uomini sono poco più che comparse e Dio stesso un
silenzioso spettatore. Quasi come se la luce emanata dalla grazia e dalla forza
femminile oscurasse tutto il resto. Ma nell’epoca della post-letteratura queste
riflessioni sono inutili complicazioni, che allontanerebbero i lettori. La
risonanza della parola letteraria è un ostacolo da eliminare. Per lo stesso
motivo, la tradizione talmudica, che commenta all’infinito il testo sacro,
spingendosi perfino a ipotizzare l’assenza di Dio, o a disputare sul suo senso
di giustizia, è bandita del tutto. Appartiene a un’altra era, quella della
critica, dell’ermeneutica, che non esiste più.
L’ultima domanda che bisogna porsi, allora, è questa: si possono amare la
letteratura e la lettura senza amare e leggere la Bibbia? Rispondo con un
aneddoto che mi pare significativo. Il 10 agosto 1938 si tenne a Parigi il XV
Congresso psicoanalitico internazionale, poco prima dello scoppio della Seconda
guerra. La versione finale e completa dell’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e
la religione monoteistica era in tipografia in Olanda. Freud stesso, vecchio e
malato di cancro, in esilio a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali,
mandò al congresso parigino la figlia Anna perché lo rappresentasse leggendo
pubblicamente un brano della terza parte del libro, il capitolo intitolato «Il
progresso della spiritualità». Anna Freud lesse, dunque, le seguenti righe in
nome del padre:
> «Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il
> popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo
> si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli
> interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro
> nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro
> rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di
> Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di
> aprire a Jabneh la prima scuola della Torah. Da allora in poi furono la Sacra
> Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il
> popolo disperso».
La Bibbia ebraica è, direi, soprattutto questo: la «gemma preziosa» di un
«tesoro nascosto»: una letteratura che ha garantito l’identità e la
sopravvivenza di un popolo, nonostante la diaspora, le persecuzioni e i genocidi
subiti nella sua millenaria storia. Freud lo ricorda poco prima della Shoah,
come avvertimento o premonizione, chissà. La letteratura, la lettura profonda, i
grandi testi della tradizione, sono l’unica difesa che possiamo opporre alla
barbarie. Oggi come ieri. Ma forse è troppo tardi per ricordarlo. Quel tesoro
nascosto lo stiamo già perdendo.
Fabrizio Coscia
*I disegni in copertina e nell’articolo sono di Rembrandt; in copertina: “Cristo
crocefisso tra i ladroni”, 1653
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