C’è qualcosa di più devastante di una vocazione artistica sprovvista del
talento? E secondo quale criterio il talento viene concesso o negato? Certo è
che chi ha la sventura di entrare nell’orbita del genio ne viene risucchiato e
poi distrutto, inesorabilmente. Come l’amico di Glenn Gould immaginato da Thomas
Bernhard, nel romanzo Il soccombente, che si uccide quando scopre che non potrà
mai eguagliare il talento smisurato del pianista canadese, ascoltandolo per la
prima volta suonare le Variazioni Goldberg.
> «Chiunque si sia proposto di diventare celebre e di acquistare una completa
> padronanza del pianoforte – dice il narratore – può riuscire a suonare come
> suonava Wertheimer purché si dedichi allo studio del pianoforte per i decenni
> prescritti, pensai, ma se uno con queste aspirazioni si imbatte in un Glenn
> Gould, e sente suonare un tipo come Glenn Gould, allora, pensai, se è fatto
> come Wertheimer, anche per lui è finita».
Come avrà vissuto la sua amicizia fraterna con Gustave Flaubert lo scrittore di
teatro e poeta Louis-Hyacinthe Bouilhet, compagno di classe al Collège Royal di
Rouen? Flaubert aveva del suo giudizio una fiducia assoluta, lo chiamava la sua
«coscienza letteraria». Fu Bouilhet che incoraggiò Flaubert a scrivere Madame
Bovary, ispirandosi alla vicenda reale di Delphine Delamarre e ne seguì la lunga
gestazione, tra il settembre 1851 e l’aprile 1856. Ma che cosa pensava, quando
ascoltava l’amico che gli leggeva, ogni settimana, le pagine del romanzo? Era
tormentato dall’angoscia, nello scoprire l’inconfondibile marchio del talento, o
animato da una sincera ammirazione? Erano nati lo stesso anno, il 1821, si
assomigliavano anche sorprendentemente, e per questo spesso venivano scambiati
l’uno per l’altro, eppure uno era dotato di genio, l’altro no.
Dopo la morte di Bouilhet, oltre che preoccuparsi della ristampa delle sue opere
e della messa in scena del suo teatro, Flaubert scrisse la prefazione
alle Dernières chansons, unico suo testo critico, e per anni si batterà per un
monumento a Rouen in memoria dell’amico, che oggi, però, nessuno più ricorda.
E Dino Frescobaldi, il poeta stilnovista amico di Dante, che lesse i primi canti
autografi dell’Inferno, trovati per caso in un quadernetto custodito in un
forziere in casa Alighieri, come reagì alla rivelazione del capolavoro scritto
dall’amico lontano? L’episodio ci è raccontato da Boccaccio. Circa cinque anni
dopo l’esilio di Dante, la moglie Gemma Donati cercò di ottenere le rendite che
le spettavano sui beni confiscati. Incaricò per questo un parente di cercare i
documenti necessari alla causa in un forziere che nei giorni del bando aveva
portato via da casa, per salvare «certe cose più care» da eventuali saccheggi.
Nel forziere, tra vari documenti, fu ritrovato anche un «quadernetto» che
conteneva i primi sette canti dell’Inferno. Non capendo di cosa si trattasse, la
donna decise di dare in visione quegli scritti a Frescobaldi, che naturalmente
vide subito la grandezza di quei versi e l’eccezionalità dell’opera iniziata: ne
fece alcune copie da distribuire agli amici e spedì il manoscritto a Moroello
Malaspina, in Lunigiana, dove Dante era ospite in quegli anni, affinché il poeta
fiorentino potesse continuare in esilio il capolavoro interrotto.
Che cosa deve aver provato Frescobaldi nel leggere quei primi canti
della Commedia? Si sarà portato il «quadernetto» a casa, furtivo, come se avesse
con sé un tesoro? Passò l’intera notte sveglio a lasciarsi incantare dalla
bellezza di quei versi? Forse sarà stato tentato, per qualche momento, di
rubarli, di plagiare l’amico, di approfittare della sua lontananza forzata, ma
subito dopo deve aver prevalso l’animo dell’intellettuale appassionato, la
certezza che rendere possibile la continuazione di quell’opera per mano del suo
autore sarebbe stato il dono più importante che avrebbe potuto fare all’umanità
intera. Erano suoi i primi occhi che si posavano su quei versi che milioni e
milioni di volte sarebbero stati letti nei secoli a venire. Lui ne fu il primo
ammiratore. E solo grazie a lui, al suo ritrovamento casuale, forse, Dante
riprese a comporre il suo capolavoro smarrito.
Max Brod (1884-1968)
E Max Brod, scrittore mediocre e amico fraterno di Franz Kafka, come visse la
fama postuma del genio di Praga, al di là della sua dedizione totale alla
diffusione pubblica della sua opera? Passò la vita nella convinzione di lasciare
un segno con la propria scrittura, ma oggi lo ricordiamo solo ed esclusivamente
per la sua amicizia con Kafka, e per non aver distrutto quei testi che l’amico
in punto di morte gli aveva chiesto di bruciare. Il suo vero talento fu in
effetti quello di fiutare il talento degli altri, di riconoscerlo e sostenerlo
con generosità. L’unico clamoroso errore che fece fu quello di non intuire che
proprio lui ne era sprovvisto.
Ed Heinrich Köselitz, il segretario di Nietzsche, dal filosofo ribattezzato
Peter Gast, modestissimo compositore che per tutta la vita sognò di diventare
famoso, ma che dedicò tutto il suo tempo alla trascrizione dei manoscritti di
Nietzsche, quante volte maledisse il giorno in cui ebbe deciso di trasferirsi a
Basilea per seguire i corsi di quell’eccentrico professore, o forse quello ancor
prima, quando un amico gli ebbe messo tra le mani una copia della Nascita della
tragedia, folgorandolo per sempre? Divenne il segretario personale del filosofo,
forse fu l’unico ad averne intuito la grandezza, ma la sua ambizione di
diventare un compositore fu distrutta dalla dedizione assoluta che riservò al
genio di Nietzsche.
Artista-segretario fu anche Niccolò Franco, al servizio di Pietro Aretino, che
lo accolse nella sua casa sul Canal Grande nel 1537 e inizialmente lo apprezzò
molto. Si valse della sua conoscenza del latino per collaborare proficuamente
alla stesura delle opere di Aretino, del quale fu anche compagno di bagordi. Ma
Franco si logorava segretamente d’invidia per il successo del suo signore, al
punto che decise di mettersi in proprio e di pubblicare anche lui un
epistolario, emulando quello dell’Aretino alla quale aveva collaborato. Aretino
non gradì. E l’affronto del plagio fu pagato con il volto sfregiato da una
coltellata sferrata da un sicario.
Mozart/Tom Hulce nel film di Milos Forman, Amadeus (1984)
Morì, invece, nel rogo di una clinica psichiatrica Zelda Sayre, la moglie di
Francis Scott Fitzgerald, autrice di un non memorabile romanzo Lasciami l’ultimo
valzer, e frustrata dall’immenso talento del marito. Le camere d’albergo
sfasciate, i fiumi di gin, i litigi furiosi, le feste, le scenate di gelosia,
tutto contribuì a renderli una coppia mitica. Ma lei sacrificò la sua vita al
sogno di gloria di lui. Anche Lucia, la figlia di James Joyce, ballerina di
grandi promesse, è morta in manicomio, impazzita per un autodistruttivo processo
identificativo con il padre. I primi segni della sua pazzia iniziarono nel 1930.
A trentatré anni aveva già fatto il giro dei manicomi europei. Fu presa in cura
da Jung, ma resterà il grande dolore di Joyce, il suo cruccio segreto e perenne,
e secondo alcuni critici la sua vera fonte di ispirazione. Quando lo scrittore
morì e gliene fu data notizia, Lucia commentò così:
> «Che sta facendo sottoterra quell’idiota? Quando si deciderà a uscire? Sta
> sempre a sorvegliarci».
Pure lo scrittore Klaus Mann, figlio di Thomas, conobbe il disagio psichico di
avere un padre come genio, il terribile Mago, che lo disprezzava per via della
sua omosessualità mai nascosta (a differenza della propria, che tenne segreta).
La sua vita fu segnata dall’uso costante di droghe (morfina soprattutto), che
raccontò nel romanzo Il vulcano. Morì suicida a Cannes, schiacciato
dall’ingombrante figura paterna. E infine Antonio Salieri, il compositore di
corte a Vienna, fu, secondo la fantasiosa versione del dramma di Puškin, ripresa
poi dal film di Miloš Forman, Amadeus, talmente invidioso del genio di Mozart da
arrivare all’omicidio. Realtà o fantasia non conta. Quel che conta è la
silenziosa tragedia che si consuma nei cuori dei mediocri. Magari, se non
avessero avuto la sventura di riconoscere il genio fuori di loro, accanto a
loro, avrebbero continuato a vivere coltivando l’insana illusione che quel genio
potesse dimorare anche dentro di loro, e – chissà – avrebbero potuto perfino
convincere gli altri. E invece no. Ecco che il destino, non contento di avergli
negato il bene più grande cui ambivano, gli mette sulla strada qualcuno che lo
costringe a guardare in faccia la verità.
E dunque, che cosa scatta nell’animo di un artista mediocre che entra in
contatto con un genio? L’amico o rivale o parente diventa la manifestazione
concreta dei suoi sogni di gloria infranti, delle sue ambizioni frustrate, di
tutto ciò che avrebbe voluto essere e avere, e non è stato e non ha avuto. In
quell’incontro con il genio egli entra, così, come scrive Bernhard, nella
«trappola mortale della sua vita». E una volta scattata la trappola, non può
uscirne esce.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Glenn Gould (1932-1982)
L'articolo L’incontro con il genio (o della disgrazia di essere mediocri)
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Anche se continuiamo a chiamarla «la banalità del male», il male non è mai
banale. Il male è complicato, tortuoso, tende a negare sé stesso e ha una sua
diabolica intelligenza. Del resto, la parola diábolos in greco vuol dire
«dividere», o «colui che divide». E andrebbe inteso non tanto come calunniatore
o seminatore di zizzania, quanto piuttosto come colui che scinde sé stesso in
una doppia personalità: quella che commette il male e quella che rimuove il male
commesso, oppure tende a cercare alibi, o più semplicemente a nasconderlo.
Quando la filosofa Hannah Arendt sottotitolò La banalità del male il suo celebre
reportage sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann, per spiegare come le
persone più ordinarie possano trasformarsi in carnefici e partecipi di un
sistema totalitario, possano cioè diventare funzionali a un ingranaggio
mostruoso di sopraffazione e sterminio, non poteva immaginare né che quella sua
definizione sarebbe stata così inflazionata in seguito, né che essa nasceva da
un clamoroso equivoco. Seguendo in veste di giornalista per il “New Yorker” il
processo contro Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS, nel 1961, Arendt si
trovò di fronte un grigio burocrate, inetto e poco intelligente. O almeno così
le sembrò. Eichmann, il pianificatore della Shoah, colui che aveva organizzato
il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei Lager, era
caratterizzato, agli occhi della filosofa, da un’«assenza di pensiero». Eichmann
non aveva nulla di demoniaco, né possedeva il carisma del male. Era un impiegato
incolore, il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli
altri». Le sue frasi interminabili al processo suonavano terribilmente noiose e
il suo ritornello di aver agito su ordine e prestato giuramento di fedeltà lo
facevano apparire come un uomo «spaventosamente normale».
Ma Arendt era caduta nella trappola tesa da Eichmann.
All’epoca non si conoscevano, infatti, tutti i documenti che sono emersi
successivamente sul gerarca nazista. In particolare, le cosiddette «carte
argentine», ovvero gli appunti dell’esilio, e i dialoghi e le interviste
integrali di Willem Sassen registrate sui nastri, da cui emerge un Eichmann ben
diverso: uno spietato, perverso criminale che al processo si finse «banale»,
mise in atto cioè una interpretazione, con notevoli doti da attore, per tentare
di sfuggire alla condanna a morte (tentativo, peraltro, che si rivelò inutile,
poiché i giudici israeliani non gli credettero). Quella «banalità» era, in altre
parole, una maschera.
Quando Eichmann afferma al processo di «aver obbedito a precisi ordini
superiori»; quando insiste nel dire di «non aver nutrito alcun odio personale
per le vittime», anzi, di aver addirittura dovuto mettere a tacere la propria
«sofferenza», sta solo recitando. Rimase, infatti, fino all’ultimo suo giorno
fanaticamente fedele all’ideologia nazista e antisemita. Eichmann era presente
alla Conferenza di Wansee, nel gennaio 1942, quando si decise, a tavolino, che
la questione ebraica dovesse essere risolta con lo sterminio totale. La
organizzò, quella Conferenza, e ne stese i verbali. Ne approvò le conclusioni.
Non è vero che non aveva fatto altro che «temperare le matite a un tavolo in
disparte». Eichmann era un uomo assetato di potere, che in Argentina, dove si
era rifugiato per eludere il processo di Norimberga, si vantava con i suoi
sodali nazisti superstiti, e il suo pubblico di affezionati, di aver mandato al
gas sei milioni di ebrei, cifra che lui stesso aveva ricavato tenendo la
contabilità dei trasporti. Totale era la sua abnegazione al genocidio, sadici i
suoi festeggiamenti per i progressi della Shoah (sorseggiava cognac davanti al
camino in compagnia dei suoi superiori), diffuso il terrore che seminava tra i
prigionieri dei Lager.
La capacità di Eichmann di calarsi in un ruolo dimesso e anonimo, la sua abilità
di manipolatore sociale ingannò, dunque, anche una mente sopraffina come quella
di Arendt, che, basandosi sui verbali del processo, sugli interrogatori,
raccontò a milioni di lettori un Eichmann fasullo. E, soprattutto, con quella
sua nozione di «banalità del male», ha provocato interpretazioni riduttive e
fuorvianti sulla natura stessa del nazismo e dei suoi crimini, soprattutto se si
confronta con quella che emerse invece dieci anni dopo da un altro libro, uno
sconvolgente libro, forse il più importante sulla Shoah, In quelle tenebre di
Gitta Sereny. La giornalista e storica austriaca-britannica, di origini ebree
ungheresi, raccolse i colloqui avuti nel 1971 – più di sessanta ore – nel
carcere di Düsseldorf, con Franz Stangl, il boia austriaco comandante del campo
di sterminio di Treblinka, dove più di un milione di persone trovò la
morte. Sereny, a differenza di Arendt, non si ferma all’apparente «banalità del
male» dell’ex comandante, ai suoi racconti spesso vittimistici – per quanto
Stangl fosse un individuo molto più ordinario di quello che volle dar mostra di
essere Eichmann –, ma sceglie di stanarlo e sondarlo, quel male, di guardarlo in
faccia, di confrontarsi con esso.
Sereny registra ore e ore di conversazione con Stangl, intervista a lungo anche
la moglie, e le figlie, conquistandosi la loro fiducia, e altre SS che lo hanno
conosciuto, e i sopravvissuti al Lager. Ci sono pagine insostenibili in questo
libro – alcuni racconti dei carnefici e delle vittime – perché ci immettono
dentro la macchina della morte al lavoro, senza risparmiarci nulla di
quell’orrore. Eppure, Sereny, che non deroga mai dal suo giudizio morale, che a
volte vacilla di fronte ad alcune rivelazioni sconcertanti, che non smette di
incalzare e pungolare il suo interlocutore, si lascia andare ad alcune
considerazioni inaspettate, tipo questa: riferendosi al legame di Stangl con la
moglie e al suo affetto incondizionato per le figlie, scrive: «non c’è dubbio,
qualunque cosa egli sia divenuto, ch’egli sia stato capace di amore». E a
conferma di questa intuizione, Frau Stangl, molte pagine dopo afferma:
> «Paul era un padre incredibilmente buono e amoroso. Giocava sempre con le
> bambine. Gli faceva delle bambole, e poi le aiutava a vestirle. Lavorava con
> loro; gli insegnava una quantità di cose. Loro lo adoravano tutt’e tre. Era
> sacro, per loro…».
Come spiegare questa assurda dicotomia? Stangl ha iniziato la sua carriera nel
nazismo occupandosi del “Programma Eutanasia” varato dal regime (detto anche
Aktion T4), che sperimentò pionieristicamente le prime morti per gas sui
disabili, come ampliamento di una legge del 1933 sulla sterilizzazione coatta;
poi fu nominato alla direzione del campo di sterminio di Sobibór e infine a
Treblinka. Una vita dedita allo sterminio di esseri umani, compresi centinaia di
migliaia di bambini. Eppure, era un padre amorevole, un marito premuroso. E le
sue figlie lo adoravano, e hanno continuato ad amarlo anche quando hanno
scoperto chi era e che cosa aveva fatto.
Stangl è irritante nelle sue reticenze: per tutti gli incontri si ostina a
negare le sue responsabilità, sostiene che non poteva fare altrimenti, che fu
costretto dalle circostanze, scende continuamente a patti con la sua coscienza,
svelando a Sereny il meccanismo psichico schizofrenico di difesa, «i due uomini
che era diventato» per sopravvivere, evidente in maniera agghiacciante quando si
compiace a un certo punto di aver reso Treblinka un posto «veramente bello», con
uno zoo, le panchine, i fiori. Anche la moglie, che per tanto tempo ha preferito
non sapere, rimuovere la verità, ci appare intollerabile. Eppure il metodo
perseguito da Sereny – la strategia del ragno che tesse paziente la sua tela per
bloccare la sua preda – alla fine del libro risulta vincente.
L’ultimo giorno in cui ha intervistato Stangl riesce finalmente a ottenere
un’ammissione da lui. O almeno il massimo dell’ammissione che un uomo del genere
poteva fare. «La mia colpa è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa» dice,
dopo un’estenuante pausa in cui ha riconosciuto per la prima volta la sua
responsabilità nello sterminio. Il giorno dopo, il 28 giugno 1971, Stangl muore
in prigione per un attacco di cuore. Come se l’ammissione della sua colpa lo
avesse letteralmente schiantato.
Questo malore mi ha fatto venire in mente una scena di un recente film, La zona
d’interesse, di Jonathan Glazer, che racconta Auschwitz dall’altro lato,
letteralmente, concentrandosi cioè sui carnefici, non sulle vittime: quello che
vediamo non è il Lager, ma ciò che succede nei suoi paraggi, accanto, a ridosso,
ai margini, ovvero la vita del comandante del campo Rudolf Höß e di sua moglie
Hedwig che insieme ai loro cinque figli e il cane (oltre a una numerosa servitù
locale) abitano in una casa e in un grande giardino in un terreno adiacente al
muro del Lager. Un idillio ai confini dell’inferno. Lui va a pesca con i figli,
racconta loro le fiabe per farli addormentare, lei cura le aiuole, riceve le
amiche. Insieme organizzano feste con rinfreschi e bagni in piscina. Dall’altra
parte del muro, intanto, rigorosamente fuori scena, proviene un paesaggio sonoro
attutito, ma che non si interrompe mai: grida, pianti, lamenti, colpi di mitra,
latrati di cani, ordini urlati, e soprattutto un rumore di fondo, continuo,
incessante, un borbottio metallico che si presuppone provenga dai crematori,
accompagnato da alcuni dettagli visivi che emergono dalla quotidianità della
«famigliola» tedesca: il fumo delle ciminiere e quello dei treni in arrivo che
si scorgono ai margini superiori di certe inquadrature, i bagliori notturni dei
forni che si intravedono di notte alle finestre velate dalle tende della casa
del comandante.
Il comandante ricorda molto Stangl, anche lui realizza il male con spietata
freddezza, separando il suo ruolo di criminale da quello piccolo-borghese di
padre di famiglia benevolo e marito premuroso, che persegue la sua piccola dose
di felicità, fatta di benessere, status, sicurezza, carriera, rivalsa, una
felicità molto kitsch, che si regge su un baratro di colpe, omissioni,
indifferenza, omertà. Ma mentre la moglie è inamovibile nel non voler sapere e
vedere (al punto che nasconde il muro del campo con gli alberi del suo
giardino), tutta concentrata a mantenere ciò che possiede, lui a un certo punto
del film ha un crollo fisico. Dopo aver ricevuto l’incarico di dirigere
l’“Aktion Höß”, un’operazione a lui intitolata che consiste nel trasporto di
800.000 ebrei ungheresi nei diversi Lager, partecipa a una festa con le alte
sfere del nazismo. Alla fine della serata è colto da conati di vomito sulla
scalinata interna del palazzo, ed è costretto a sostare nel buio, nascosto,
preoccupato che qualcuno possa vederlo.
A differenza di Stangl, Höß non prende consapevolezza di nulla, né si pente di
nulla, ma quel vomito indica la verità del corpo contro una mente che tacita le
sue colpe. È una verità fisica, che si ribella ai mascheramenti della coscienza.
Quando ha riassunto il suo tempo passato con Stangl, Sereny non ha avuto dubbi
nel dire che sentiva di «essere in presenza del male». Eppure Stangl era morto
ammettendo una sua colpa, o forse a causa di quello, mentre in Eichmann non ci
furono pentimento né ammissione alcuna. Ancora poco prima di essere processato
si augurava che gli egiziani e gli arabi continuassero con Israele il lavoro
iniziato da lui, sperava che i musulmani completassero lo sterminio totale che a
lui era stato impedito. Sereny non ci offre una soluzione alla «divisione»
diabolica che il male attua in chi lo compie: il male per lei resta un mistero.
Come se calasse sull’umanità dall’alto.
> «Io non credo che tutti gli uomini siano uguali, poiché la nostra
> caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi – scrive
> nell’epilogo del libro –. Ma l’individualità e la differenza non sono dovute
> soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono
> altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci.
> V’è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal
> compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il
> nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito
> determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un
> mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel
> suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo».
L’umiltà di Sereny nel non voler definire quel «nucleo» fa la differenza con
l’approccio di Arendt. Sereny rifiuta i documenti – quelli su cui invece si
concentra la filosofa – o almeno rifiuta di farne il centro della sua ricerca,
per affidarsi invece all’ascolto della parola. In questo il suo metodo è simile
a quello che Claude Lanzmann avrebbe utilizzato per il suo documentario Shoah,
uscito nel 1985. Anche Lanzmann non crede nei documenti, in particolare – da
regista – nelle immagini d’archivio. Nel suo documentario radicale, estremo,
lungo quasi dieci ore, parte da un assunto etico rigorosissimo, da cui deriva
anche un’estetica altrettanto rigorosa, ovvero quello dell’irrappresentabilità
della Shoah, dell’impossibilità di restituirne l’immagine. Da qui la polemica
con Steven Spielberg per Schindler’s List e il giudizio severo su La vita è
bella di Benigni, film che considerava entrambi detestabili perché
menzogneri. Per Lanzmann, in effetti, non c’è nulla da vedere nella Shoah – in
particolare nei campi di sterminio di Chelmno, Belzec, Sobibór, Treblinka,
Birkenau – nessuna immagine può riprodurre l’evento della «catastrofe». Un bel
paradosso per un’opera filmica, che sceglie di rinunciare al materiale di
repertorio.
Lanzmann lavora undici anni per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti
(soprattutto dei pochissimi Sonderkommando scampati alla morte), ma anche dei
testimoni, più o meno indifferenti (i contadini di Treblinka, gli abitanti di
Chelmno), i collaboratori-complici, più o meno forzati (i conduttori dei treni,
i ferrovieri, gli autisti delle SS), i carnefici stessi, e lo fa affidando alla
parola l’unica forma di restituzione possibile, proprio come aveva fatto Sereny,
spesso intervistando le stesse persone che abbiamo incontrato nel libro In
quelle tenebre (come il notevole Richard Glazer, superstite di Treblinka). Pur
sapendo che i «salvati» non hanno potuto fare realmente esperienza del Lager,
non essendo entrati nelle camere a gas, come sosteneva anche Primo Levi, e
nemmeno gli stessi «sommersi» (poiché sono morti appena arrivati, per la
stragrande maggioranza), la parola, all’interno di un simile paradosso, mantiene
la funzione fondamentale di ricostruzione della memoria. È una parola – quella
della testimonianza dei sopravvissuti – sacralizzata attraverso la sua
dissacrazione. Una parola che bisogna ascoltare insieme ai silenzi, alle
incertezze, alle interruzioni provocati dagli improvvisi crolli emotivi, con il
regista-intervistatore che incalza, incoraggia a continuare, a dire
l’indicibile; una parola accompagnata dalle lente zoomate della cinepresa su
quei volti segnati dall’inferno vissuto, quei volti che portano impresse,
indelebili, le cicatrici dell’esperienza, volti di chi è sopravvissuto, sì, ma
in qualche modo è anche morto dentro, nonostante una vita che è proseguita.
Le interviste avvengono spesso sui luoghi stessi dello sterminio, oppure, quando
il testimone si trova altrove, sono montate con le immagini di quei luoghi, così
che parola, volti e luoghi sono continuamente in dialogo tra loro. I luoghi,
però, sono come appaiono adesso (ovvero al momento della realizzazione del film,
nel 1985) e sono ripresi senza voci fuori campo, senza colonna sonora, senza
commenti aggiuntivi: le lunghe, estenuanti carrellate che riprendono i prati, i
boschi, le radure, le stazioni di Auschwitz, Treblinka, Sobibór, non
testimoniano ciò che è stato, ma ciò che è rimasto. Anche quando la macchina da
presa si inoltra all’interno dei Lager, e riprende i forni crematori, le docce,
i cortili, è il vuoto che riprende. Ma indagando quel vuoto, che fa da
contrappunto alla parola del ricordo, alla parola-testimonianza, certificando
cioè quella irrappresentabilità dell’evento raccontato (quello che è successo
non puoi vederlo, oggi non ci sono più in queste radure le montagne dei
cadaveri, il fumo dei crematori, i nazisti, gli ebrei, non c’è più niente di ciò
che stai ascoltando in quello che vedi), se ne evoca la verità con ancora più
forza.
In fondo è questa la potenza del cinema di Lanzmann: quel montaggio così
ipnotico, quei piani-sequenza, quegli indugi sugli spazi vuoti sono un racconto
a parte, il vero nucleo di quel racconto, capace di farci percepire la memoria
che i luoghi, ancor prima che le persone, conservano di ciò che è stato, con
tutto il dolore e l’orrore della Storia di un intero popolo e dei suoi singoli
individui. Ed è, forse, l’unica forma possibile di memoria su cui oggi – oggi
che i sopravvissuti stanno scomparendo – possiamo contare. Ma se il metodo di
Sereny sembra simile a quello di Lanzmann, le prospettive sono opposte. Basti
confrontare, ad esempio, le interviste alla SS Franz Suchomel, detenuto nel 1963
e processato insieme ad altre dieci guardie di Treblinka. Lanzmann e Sereny
attivano una diversa focalizzazione sulla stessa persona: mentre Lanzmann
mantiene sempre un gelido distacco, un inflessibile rifiuto morale nei confronti
dei carnefici («Signor Suchomel, non parliamo di lei, ma soltanto di Treblinka»
gli dice a un certo punto, bloccando i suoi tentativi di giustificare il fatto
che al momento della destinazione nessuno gli avesse detto che si trattava di un
campo di sterminio), Sereny mostra invece sempre il tentativo intellettuale di
accedere al cuore dei carnefici attraverso la ragione («La posizione che
Suchomel ha adottato come ammiratore degli ebrei è altrettanto notevole della
sua memoria, e psicologicamente interessante»). Proprio la ragione, così come la
misura, e lo sforzo di comprendere l’incomprensibile, e la considerazione
terenziana dell’«homo sum», rendono il libro di Sereny una degna risposta etica
all’orrore, l’unica possibile forse, per evitare, come avvertiva Nietzsche, che
lottare contro i mostri possa trasformare anche noi in un mostro.
Fabrizio Coscia
*Nota: dobbiamo allo straordinario lavoro documentale della filosofa e storica
tedesca Bettina Stangneth, raccolto nel volume La verità del male. Eichmann
prima di Gerusalemme (pubblicato nel 2011 e tradotto in Italia nel 2017 dalla
Luiss University Press), la demolizione del ritratto di Eichmann compiuto da
Hannah Arendt.
L'articolo Il mostro morale. Perché è sbagliato parlare di “banalità del male”
proviene da Pangea.
Esiste, in letteratura, una categoria estetica dell’amabilità? E se sì, quali
spazi di conoscenza dell’animo umano ci apre nella sua ordinarietà, nella
sua mediocritas? Del resto, la stessa parola – mediocritas – in latino non aveva
originariamente un valore dispregiativo. Indicava, piuttosto, una virtù: quella
della moderazione, della giusta misura; la capacità di non cadere negli eccessi,
di mantenersi nella linea media. Questa mediocritas Orazio in una famosa ode la
definisce «aurea», perché alludeva a un ideale di saggezza (Aristotele in greco
la chiama mesotes): l’uomo doveva ambire a quella medietà, a quell’equilibrio
tra due opposti, per esaltare appunto l’umanità stessa che era in lui, misura di
tutte le cose. Il controllo delle passioni, la moderazione, erano dunque un
valore etico da perseguire. Poi, con la modernità qualcosa è cambiato: da un
lato il romanticismo, con l’invenzione del genio e del sublime, il mito del
titanismo, e a seguire il decadentismo con il dandismo anti-borghese e la
dottrina nietzschiana dello Übermensch (più o meno travisata dagli esteti alla
D’Annunzio); e dall’altro (o all’opposto, se vogliamo) il capitalismo
industriale, con l’invenzione dell’efficienza e il mito del successo, hanno
fatto assumere all’«aurea mediocritas» un significato completamente diverso, con
una coloritura ironica, se non sarcastica, per dire di qualcuno che si
accontenta miseramente di quel poco che ha o che è. Finché la mediocrità non è
diventata il tabù per eccellenza della nostra società dei consumi,
ipercompetitiva e ansiogena, dove un selvaggio darwinismo sociale punta a
instillare in tutti il germe dell’eccezionalità, della rincorsa ai «15 minuti di
celebrità», dove il Superuomo da supermarket è diventato alla portata di tutti
(come sembrano suggerirci ogni giorno le pubblicità, che ci invitano a essere i
migliori possedendo le cose migliori).
C’è una parola – orrenda – che oggi definisce il mediocre: la parola «sfigato».
Essere uno sfigato sembra diventata la peggiore iattura, la condanna più
inesorabile. Una volta marchiato come tale, un individuo è tagliato fuori
inesorabilmente. Se sei uno sfigato non puoi essere preso in considerazione, non
puoi far parte del gruppo. Lo sfigato è un perdente e non c’è spazio per i
perdenti in una società che fa del successo da talent-show l’unico imperativo
categorico. Ma lo sfigato è però anche quello che non si conforma, quello che
non contribuisce a mandare avanti il tutto come occorre. È l’anello debole o il
granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio. Ed è, proprio per questo,
amabile.
La letteratura ci ha consegnato, in effetti, grandiose figure di mediocri
amabili. Il Leopold Bloom dell’Ulysses di James Joyce, ad esempio, è un buffone
shakespeariano. È vitale, è gentile, è simpatico, in un episodio assurge perfino
a una sua memorabile eroicità, quando nel pub difende le proprie origini
ebraiche di fronte all’orrido Cittadino antisemita. Non conosce il rancore, non
ha ambizioni, ma è generoso, pratica la misura, coltiva una cauta sessualità. È
consapevole dei tradimenti della moglie, ma nel capitolo finale della
fantasmagoria notturna ha una visione in cui Shakespeare lo esorta a non
vendicarsi su Molly come Otello con Desdemona. Bloom è un puro di cuore. Ma
soprattutto è umano. Di tutt’altro genere di umanità, ma altrettanto amabile, è
lo Stepan Arkaďič Oblonskij di Lev Tolstoj, in Anna Karenina. Vorrebbe essere
l’emblema di una certa superficialità e frivolezza dell’alta società russa
dell’Ottocento, con il suo modo di vivere agiato, ma quel che ne viene fuori è
un personaggio irresistibile. «Stiva» è un uomo futile, certo, un fanfarone
dedito ai piaceri della vita (le donne, il cibo, lo champagne), un egoista, ma
proprio questo suo rifiuto di impegnarsi in grandi progetti, di assumersi le
responsabilità, lo rendono amabile. Non a caso il romanzo comincia dal putiferio
che ha scatenato la scoperta da parte della moglie della sua tresca con
l’istitutrice francese dei figli. Oblonskij è un personaggio comico, di una
comicità che lo salva da tutte le sue colpe. A lui si potrebbero riferire le
parole di Philip Roth in Pastorale americana:
> «Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe
> dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la
> gita».
La sua prima apparizione ci ricorda un altro grande personaggio russo (anche lui
di amabile mediocrità), Il’ja Il’ič Oblómov, protagonista del romanzo eponimo di
Ivan A. Gončarov, il proprietario terriero che trascorre le sue giornate a letto
o sdraiato sul divano. Anche «Stiva» si risveglia sul divano, ignaro della
bufera che sta per abbattersi sul suo matrimonio: ha fatto un sogno in cui si
trovava a un banchetto in America, dove si mangiava su tavoli di vetro, «tavoli
canterini che intonavano Il mio tesoro», con delle «caraffine sinuose che
scoprivamo essere donne…». Un sogno tipicamente oblonskijano. Senonché quel
principio di piacere che lo ha accompagnato nella notte è costretto a scontrarsi
con il principio di realtà incarnato dalla moglie che gli si para davanti
sventolando un biglietto, prova tangibile del suo tradimento, e un’espressione
di disgusto, disperazione e rabbia. E lui che cosa fa?
> «Invece di risentirsi, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono o di
> restare finanche impassibile (tutto era da preferirsi a ciò che fece!), sul
> viso gli si era involontariamente stampato (“riflesso cerebrale”, si scoprì a
> pensare da appassionato di fisiologia qual era) il solito, consueto, bonario e
> perciò sciocco sorriso».
Un sorriso che rende furibonda la moglie. Ma quel «riflesso cerebrale» altro non
è se non la rivelazione inconsulta della sua natura di uomo che rifiuta la
tragedia, l’alto, il sublime (tutto ciò che invece accetta sua sorella Anna,
lasciandoci la pelle).
Ancora diversa è l’amabilità di Hans Castorp, il giovane protagonista de La
montagna incantata di Thomas Mann, che con la sua strepitosa disponibilità
pedagogica ed erotica, pronto a innamorarsi di tutto e di tutti, rappresenta
l’alunno ideale che vorrebbe qualunque docente. Personaggio ordinario, certo,
come spesso Mann sottolinea, ma anche una spugna capace di accogliere,
metabolizzare le antinomie (da un lato l’umanista Settembrini, dall’altro il
radicale antimoderno Naphta, ma al centro, soprattutto, l’eros di Madame
Chauchat), insomma un individuo malleabile, che ci mostra quanto sia importante
non porre difese, né argini, essere curiosi e aperti alle sollecitazioni della
vita.
E come definire se non amabile anche la mediocrità di Zeno Cosini, l’inetto
della Coscienza di Zeno,trasparente alter-ego dell’autore Italo Svevo, su cui,
non caso, lo stesso Joyce, che fu amico di Svevo, modellò il suo Bloom? Cosini
(in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi
lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci
appare vicino e fraterno e adorabile. Nella sua inettitudine, nella sua
nevrotica inerzia, nella sua mediocrità, vi è nascosta una vitalità sotterranea.
Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello
sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche
lui. Quando muore il suo antagonista Guido Speier, si accoda al funerale
sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con
il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta. Perfino la
scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un errore, e di un forzato
accomodamento con la mediocrità.
Zeno è un personaggio che non ha in mano il suo destino, ma che si lascia
trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma non è proprio in
questo naufragio (che egli chiama «malattia») la sua salvezza? Nella stessa
categoria estetica possiamo includere anche il rabbino Hillel (realmente
esistito, ma personaggio letterario in quanto tra i protagonisti principali del
Talmud). La sua contrapposizione con l’altro rabbino, il rigido e dogmatico
Shammai che lo coinvolge in oltre trecento dispute fa risaltare luminosamente la
sua amabilità, la sua saggezza tutta pratica, la sua apertura mentale. Hillel
riconosce che la vita, nella sua mutevolezza, nella sua imprevedibilità, non può
subire la costrizione di un codice scritto immutabile. Si racconta di un pagano
che si presentò al maestro Shammai e gli chiese di potersi convertire alla fede
ebraica, a condizione però che il rabbino gli insegnasse l’intera Torah mentre
lui si reggeva su una gamba sola. Shammai lo cacciò via con un bastone. Lui
allora andò da Hillel con la stessa richiesta. E Hillel gli disse:
> «Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la
> Torah, il resto è solo commento. Ora va’ e imparalo».
Una delle massime di Hillel è: «non separarti dalla comunità», ovvero non
desiderare di essere diverso (non c’è in questo un’eco di Kafka, del desiderio
dell’agrimensore K. di entrare nel Castello?). «Ama le creature» esortava,
ancora, Hillel, il rabbino umile, che praticò la «mediocrità» nel suo valore
etimologico, nel senso cioè di sapersi porre nel mezzo fra gli estremi, di saper
praticare quella legge della «misura» che Albert Camus indicherà, nel suo L’uomo
in rivolta, come un valore di mediazione da opporre alla «dismisura» che invece
conduce al nichilismo. Una misura che nasce dalla «rivolta», non
dall’acquiescenza, poiché antepone l’uomo all’assoluto. Così come antepone
l’uomo all’assoluto Samuel Picwick, il protagonista del Circolo Pickwick di
Charles Dickens, la cui accettazione della realtà è per l’appunto basato sulla
«misura». Egli è l’incarnazione stessa della bontà e della generosità. Il suo
rapporto con l’inseparabile Sam Weller è paterno, i suoi piaceri sono semplici,
la fiducia negli altri gli permette di scorgervi il loro lato migliore. È un
viaggiatore instancabile, ma un viaggiatore nelle sfere mediane della realtà. La
sua innocenza, la sua attitudine a mantenere ottimismo e umorismo anche nelle
disavventure, ricorda un po’, spostandoci dalla letteratura al cinema, Jeffrey
Lebowski, il protagonista del film Il grande Lebowski, dei fratelli Coen: un
hippie fannullone (oblomoviano), pacifico, rilassato, inconcludente. Potremmo
definirlo senza dubbio uno «sfigato», eppure è forse il personaggio più amabile
e più amato della storia del cinema, al punto che il culto dei suoi ammiratori –
una vera e propria setta – ha dato vita a una religione, denominata «dudeismo»
(dal soprannome di Lebowski, The Dude, in italiano»). In che cosa consiste
questa religione o meglio questa filosofia? Si può sintetizzare nella massima di
Lebowski: «The Dude abides» («il Drugo sopporta»), un’originale commistione tra
epicureismo e stoicismo.
Lebowski ci insegna a restare distaccati anche quando si è immersi nelle
situazioni più assurde, a non prendersi mai sul serio, a trovare il lato
positivo in ogni situazione, a saper apprezzare le piccole cose della vita (gli
amici, il bowling, la marijuana, il White Russian), a ignorare le convenzioni
sociali (indimenticabile la sua apparizione in vestaglia al supermercato, dove
beve il latte direttamente dal cartone). Lebowski è la negazione del «sogno
americano», ma è – anche – l’esaltazione del lato umano di questo fallimento. Il
suo rifiuto di costruire un progetto di vita funzionale ai valori della società
competitiva ne fa, in effetti, un paladino della sconfitta.
A pensarci bene, tutti questi personaggi qui ricordati, a che livello di
conoscenza ci fanno pervenire? Saremmo portati a pensare che, rispetto agli
Amleto, ai Raskolnikov, abbiano una capacità minore di scandaglio, di
introspezione, eroi del «soprasuolo», per così dire, votati a una più
prevedibile umanità. Esiste, invece, un valore sapienziale in questi personaggi
che non possiedono gli altri, più tragici, più sofferti. È il valore della
disponibilità, della capacità di adattamento, della comprensione, del
relativismo, della misura.Perché in fondo è questo che ci insegnano soprattutto
questi personaggi: non solo a farci riconoscere l’un l’altro come esseri umani,
fragili limitati piccoli, ma soprattutto a non giudicare la vita ma a trovare
degli interstizi in cui collocarci, a capire il significato del compromesso, ad
abitare il mondo restando «fedeli alla terra».
Fabrizio Coscia
*Le citazioni da Anna Karenina sono tratte da Einaudi, 2017, traduzione di
Claudia Zonghetti; quelle da Pastorale americana da Einaudi, 2013, traduzione di
Vincenzo Mantovani; quelle di Hillel dal volume di Abraham Cohen, Il Talmud,
Laterza, 1999.
Ringrazio Filippo La Porta per la nostra conversazione sul tema.
L'articolo Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato proviene
da Pangea.
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
Nell’epoca della post-letteratura, cioè di una scrittura che fa a meno della
lettura, della storia letteraria, della tradizione, dello stile, si può anche
affermare che la Bibbia è un libro «sopravvalutato». È stato fatto, lo ha detto
di recente la scrittrice premio Strega Donatella Di Pietrantonio in
un’intervista al «Corriere della sera». Se avesse detto che l’Iliade è un libro
sopravvalutato sarebbe stato lo stesso?
Nell’epoca della post-letteratura non ha nessuna importanza ricordare che
esiste, naturalmente, una sterminata bibliografia sulle radici bibliche della
cultura occidentale e sul valore letterario inestimabile di quest’opera. Si
potrebbe, anche, affermare che uno scrittore che non legga la Bibbia è, di
fatto, uno scrittore mancato, qualcuno, cioè, che si condanna da solo a
un’amputazione dell’immaginario, ma si condanna, anche, al rinnegamento perpetuo
di quei tre criteri estetici che Harold Bloom, insuperato lettore della Bibbia,
indicava come basilari per ogni libro che meriti di essere preso in
considerazione: lo splendore estetico, il vigore intellettuale e la saggezza. Ma
a che cosa serve sottolinearlo? Servirebbe, piuttosto, sostenere che nell’epoca
della post-letteratura la letteratura stessa deve essere un non-luogo facilmente
abitabile da tutti. Da qui deriva il resto. Anche il fatto che se si intende
reimmettere la Bibbia nel tritacarne del «culturale» odierno – ovvero di ciò che
Richard Millet chiama «l’alleanza dell’intrattenimento con la propaganda» –
bisogna farlo come si fa con i bambini: proponendo una lettura facile facile,
con una semplice parafrasi di alcune sue storie più famose, senza
approfondimento, nessun tentativo di analisi di qualunque genere (letteraria,
stilistica, antropologica, politica, storica).
È quello che troviamo nel libro Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della
Bibbia di Aldo Cazzullo (HarperCollins). Eccola la parola «passe-partout»,
l’esca del mercato editoriale: «romanzo». Come se la Bibbia fosse un testo
scritto da una singola persona, dall’inizio alla fine, e non una raccolta
eterogenea di libri composti in epoche diverse, da autori diversi, in lingue
diverse (ebraico e aramaico il Tanàkh e greco il Nuovo testamento), di generi
differenti, e perfino con finalità differenti. Il romanzo: basta la parola, nel
trionfo del post-letterario. Ma non è solo questo.
Non ho nulla contro Cazzullo, intendiamoci. Il suo libro non ha alcuna pretesa
critica. Se ne parlo qui è perché il suo successo di vendite mi sembra
particolarmente emblematico dei tempi che stiamo vivendo. Si potrebbe obiettare
che un libro divulgativo non può essere emblematico di alcunché, ma io credo, al
contrario, che la divulgazione non sia mai neutra, né innocua, poiché sottende
un assunto ineludibile su ciò che deve essere trasmesso e ciò che invece non
deve. Basti pensare a quanta ideologia è celata dietro la divulgazione di uno
storico come Alessandro Barbero (non mi riferisco solo alle prese di posizione
sulla guerra in Ucraina, ma alla sua dichiarazione, davanti a un uditorio di non
specialisti, che il regno di Israele non sarebbe mai esistito, asserzione basata
sulle posizioni della cosiddetta «scuola di Copenaghen», ma che ignora
volutamente tutto il dibattito storico-archeologico che a quella visione
minimalista si oppone).
Qual è, dunque, l’operazione ideologica sottesa al libro di Cazzullo? Che a un
popolo di non lettori in generale e di non lettori della Bibbia in particolare
basti offrire un grado zero della lettura, per così dire, affinché una raccolta
di testi letterari tra i più alti e complessi della tradizione occidentale (mi
riferisco, in particolare, alla Bibbia ebraica), si trasformi in un
«fattariello», in un «romanzo», in un bestseller capace di scalare le
classifiche. Con quali conseguenze? Quelle di una colossale mistificazione
culturale.
Rembrandt, Davide sfida Golia, 1655
Leggiamo, per capire, la prima pagina del libro, che inizia, giustamente, con i
primi versi di Genesi, ripresi dalla versione CEI della Bibbia:
> «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le
> tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Cazzullo chiosa così: «Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile».
E per dare solidità alla sua affermazione perentoria, aggiunge altri celebri
incipit di romanzi (ci risiamo!) della letteratura universale («Moby Dick»,
«Anna Karenina», ecc.) dimostrandone il minor impatto, al confronto.
Peccato però che quell’incipit in Genesi non esiste, non è corretto. Se Cazzullo
avesse letto Rashi, il rabbino medievale francese tra i più importanti
commentatori della Bibbia ebraica, avrebbe evitato questo topos sbagliato della
traduzione. L’ebraico Bereshit, infatti, è un costrutto che introduce una
subordinata temporale: «All’inizio della creazione del cielo e della terra da
parte di Dio…», oppure, come riporta la nuova traduzione biblica dei Millenni
Einaudi: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…». Non è solo una
questione sintattica. Nella sintassi diversa troviamo una diversa filosofia
della Creazione. La versione canonica impone un ordine cronologico della
Creazione, una gerarchia, una «bontà» razionale (prima di tutto Dio crea il
cielo e la terra, poi questo, poi quest’altro, ecc.), che invece nella versione
originale manca. Non c’è ordine, né gerarchia. E soprattutto, non c’è un
principio. Se si legge la prima frase di Genesi nella giusta traduzione (la
riprendo, come tutte le successive, sempre da Einaudi): «Quando Dio cominciò a
creare il cielo e la terra, mentre la terra era vuota e vacua, la tenebra era al
di sopra dell’abisso e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque, Dio
disse: “Sia luce!” E luce fu», misteriosamente scopriamo che l’acqua preesiste
alla luce, pur se non abbiamo alcun racconto della sua creazione. Non ci
troviamo di fronte a una cosmologia armoniosa e coerente prodotta da Dio, la
Creazione non avviene ex nihilo. Esistono già la «tenebra» e l’«abisso», e le
acque. Chi le ha create? E quando? Genesi, in realtà, nasce da questo mistero, e
negarlo vuol dire eliminare gran parte della sua complessità, per proporci una
versione più consolatoria e più rassicurante. Ma la vita – la sua origine, il
suo senso – non è né consolatoria, né rassicurante, anche se nell’epoca della
post-letteratura piace pensare che sia così.
Sarebbero innumerevoli gli esempi di «pericolosa» semplificazione disseminati
nel libro, a cominciare dalla Aqedah, l’episodio del sacrificio di Isacco, dove
esegesi ebraica, Kierkegaard, Kant, tradizione iconografica, psicoanalisi
vengono liquidati in una singola frase:
> «Ancora Dio ripete che, attraverso Abramo, offre una possibilità, propone un
> patto a tutti gli uomini».
Altro esempio riguarda uno dei momenti biblici fondamentali che troviamo sempre
in Genesi, un episodio che è il nucleo fondativo di ciò che il filosofo ebreo
Eric Weil indica come la peculiarità della nostra cultura greco-giudaica: ovvero
tutto ciò che consegue dalla capacità dimostrata dai profeti ebrei e dai
filosofi greci di domandarsi cosa fosse la giustizia e non cosa dettassero i
costumi del loro tempo. Il Signore è pronto a distruggere Sodoma per punire i
suoi abitanti che hanno peccato, quando Abramo, di fronte alla decisione del Dio
Onnipotente, lui, mortale e fragile, lui che – come si affretta a precisare con
sottile arte retorica – non è che «polvere e cenere», invece di arretrare si
avvicina al suo Dio, in maniera perfino spavalda, ma allo stesso tempo
insinuante, e gli chiede:
> «Davvero travolgerai il giusto col malvagio? Se ci fossero cinquanta giusti
> nella città, davvero travolgeresti quel luogo e non lo perdoneresti a causa di
> quei cinquanta giusti che vi sono? Lungi da te fare questa cosa: far morire il
> giusto col malvagio, così che il giusto sia trattato come il malvagio. Lungi
> da te! Forse che il giudice di tutta la terra non agirà con giustizia?».
Il Signore, di fronte alle domande di Abramo, è costretto a cedere: «Se
nell’ambito della città di Sodoma troverò cinquanta giusti, perdonerò a tutto il
luogo per causa loro». Ma Abramo non si accontenta, inizia a mercanteggiare con
il Signore! Lo induce a scendere da cinquanta a quarantacinque, a quaranta, a
trenta, a venti, a dieci. Cazzullo si limita a commentare:
> «Un dialogo così serrato, tanto da ricordare una trattativa tra mercanti in un
> suk, lo troveremo poche altre volte nella Bibbia. Non è da tutti tenere testa
> così a Dio».
Tutto qua? La trattativa da suk è, in realtà, una scena inaudita. Dio per la
prima volta è spinto a guardare dentro sé stesso, a scoprire la sua intimità, il
suo senso di giustizia. A domandarsi dove sia il Bene, al di là del proprio modo
di operare, e che cosa voglia dire «agire con giustizia». E lo fa grazie
all’uomo, al suo rifiuto di accettare come un dato di fatto ciò che proviene
dall’autorità. Abramo, in fondo, non ha alcun legame con Sodoma. La questione è
squisitamente etica. Che cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È come se qui l’uomo,
la creatura di Dio, diventasse a sua volta il creatore del suo artefice: un
rovesciamento vertiginoso, da cui proviene tutta la nostra tradizione
occidentale. Forse è troppo difficile per i lettori di Cazzullo? Non credo. Ma
nell’epoca della post-letteratura bisogna surfeggiare sulla superficie di un
testo senza osare affondi.
Rembrandt, L’agonia nel giardino, 1652 ca.
Stesso trattamento sbrigativo troviamo anche a proposito di un personaggio come
David, con la sua personalità così carismatica e contraddittoria, uomo
imprevedibile, devoto e ribelle, sensibile e spietato. Nel libro di Cazzullo
l’unico commento su David è questo:
> «Davide è davvero uno dei personaggi più interessanti della Bibbia».
Come negarlo? Ma è come dire, in un libro su Shakespeare, che Amleto è uno dei
personaggi più interessanti creati dal bardo inglese (il paragone non è casuale,
poiché David ha, in effetti, lo stesso fascino e la stessa insondabilità del
principe di Danimarca). Significa, cioè, ribadire l’ovvio. Eppure la danza quasi
orgiastica – danza di gioia – di David davanti all’Arca dell’Alleanza, che è una
delle scene più memorabili di cui è protagonista questo personaggio di
indomabile vitalità, avrebbe meritato qualcosa di più di questo commento:
> «È forse il primo e l’ultimo personaggio dell’Antico Testamento che Dio tratta
> come un figlio, e con cui Dio si comporta come un padre: un padre non
> particolarmente severo – scrive subito dopo Cazzullo –. Al punto che Davide
> talora pensa di potersi permettere tutto».
È vero, la danza di David conquista perfino Dio, spingendolo ad adottare David,
a ritenerlo come suo figlio. Ma che cosa vuol dire danzare con tutte le forze,
in perizoma di lino, davanti a Dio? Perché è questo che fa David in 2Samuele
(libro di una potenza shakespeariana), al punto da destare scandalo nella
moglie, figlia di Saul. «Che onore si è fatto oggi il re di Israele, denudandosi
come un uomo qualunque davanti alle sue serve dei suoi servi» gli dice Mikal,
sdegnata. E David risponde: «Davanti al Signore (…) danzerò e mi abbasserò ancor
di più». E questa festa che cosa produce in Dio? Un cambiamento, una scoperta
inattesa. Dopo la danza, commosso da questo omaggio, da questa gioia, il Signore
si definisce, per la prima volta nella Bibbia, «padre». Prima era il Dio degli
eserciti, spietato, massacratore di popoli, ma adesso, improvvisamente, si
scopre altro. «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» dice. Prima era il Dio
dei padri, ora è, semplicemente, il Dio padre. Senza la danza scandalosa di
David, Dio non avrebbe scoperto la sua umanità. Non ci sarebbe stato il «Padre
nostro», né il «Figlio di Dio». Da questa danza, da questo abbandono selvaggio,
da questo far festa sconsiderato, nasce il primo seme di un nuovo Dio, diverso
da tutti, perfino da sé stesso.
Una tale diversità (questa nuova umanità di Dio), viene confermata nel libro
successivo, il primo libro dei Re, in un episodio che Cazzullo non racconta:
l’incontro tra il Signore e il profeta Elia, quando l’apparizione divina è
descritta come «la voce di un silenzio sottile». È un’immagine bellissima, che
in ebraico, letteralmente, può essere restituita anche con «il suono di un tenue
silenzio». Non nel vento impetuoso si trova Dio, non nel terremoto, non nel
fuoco, ma nel «suono del silenzio», che la King James Version rende ancor più
memorabile, con «una piccola voce tranquilla» («a still small voice»).
Questa deminutio è sorprendente (fa venire in mente il capitolo 48 del Tao: «Chi
cerca il Tao, ogni giorno toglie qualcosa»), considerato che il Signore è stato,
come si è detto, prima dell’incontro con David, un dio terribile, vendicativo,
geloso, un «dio degli eserciti». Quando Elia sente quella «voce di un silenzio
sottile» si copre il volto con il mantello. Perché? Forse perché, come si dice
in Esodo, «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita»? O perché, più
semplicemente, il silenzio di Dio – quel suono del silenzio che bisogna imparare
a indagare – mette paura più di ogni altra cosa?
In effetti, la Bibbia è l’unico testo sacro che prevede anche l’assenza di Dio,
il suo silenzio (è lo stesso silenzio che spinge Saul al suicidio). A volte,
infatti, Dio parla solo attraverso ciò che gli uomini hanno scritto di Lui. È il
caso del libro di Neemia, che pure non viene nominato nel bestseller di
Cazzullo.Neemia, l’alto funzionario del re Artaserse, è un personaggio biblico
di fondamentale importanza. «Davanti all’assemblea degli uomini e delle donne e
di quanti erano in grado d’intendere» egli esegue la lettura integrale della
Torah sulla piazza di Gerusalemme dinanzi alla porta delle Acque, dall’alba fino
a mezzogiorno. È una lettura che esorcizza, appunto, il silenzio di Dio.
Impossibile non pensare a Kafka che sogna di leggere l’intera Educazione
sentimentale senza interruzione per tanti giorni e notti che risultassero
necessari, in una grande sala piena di gente fino a «farne riecheggiare le
pareti»; o al comico americano Andy Kaufman, che legge integralmente Il grande
Gatsby di fronte a un pubblico sbalordito (è solo un caso che siano entrambi
ebrei?). Del resto, se Flaubert è lo scrittore che inaugura la letteratura
moderna (a proposito, ho letto poco tempo fa un’intervista, sempre sul
«Corsera», allo scrittore e editor Carlo Carabba, il quale affermava che
Flaubert è uno scrittore sopravvalutato), il libro di Neemia anticipa un
passaggio cruciale che sarà altrettanto importante per l’arte narrativa, a
partire almeno da Henry James: il passaggio dal narratore onnisciente al
narratore inattendibile. Quando inizia il libro di Neemia leggiamo:
> «Nel mese di Chislèv dell’anno ventesimo, mi trovavo nella cittadella di Susa,
> quando giunse Chananì, uno dei miei fratelli, con altri uomini di Giuda».
È la prima volta nel Tanàkh che ci imbattiamo in un libro interamente scritto in
prima persona (se si eccettuano alcuni tra i libri sapienziali e i profetici,
che appartengono a generi diversi). Ci sono alcuni episodi rintracciabili
altrove, ma si tratta di narrazioni di secondo grado, inserti o profezie
innestate in un contesto narrativo e storico (è il caso di Daniele, ad
esempio). Qui ci troviamo, invece, di fronte a una novità assoluta. E il fatto
che avvenga alla fine della Bibbia ebraica (le Cronache sono solo un riepilogo
di fatti precedenti) non può essere un caso. Il Libro di Neemia è di
indubitabile importanza, sia perché ci restituisce in maniera icastica, e molto
più efficacemente di tanti saggi storici e politici, la psicologia di un popolo,
l’ossessione anche dell’attuale stato ebraico per la «difesa» (ecco la
descrizione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, dopo l’esilio
babilonese: «Da quel giorno, metà dei miei giovani era impegnata nel lavoro,
mentre l’altra metà, armata di lance, scudi, archi e corazze, stava dietro tutta
la casa di Giuda che costruiva il muro. Chi portava pesi svolgeva il suo lavoro,
sollevando il peso con una mano e tenendo la lancia con l’altra. Tutti i
costruttori lavoravano con la spada legata ai fianchi»), sia perché la scelta
della prima persona prefigura un drastico ridimensionamento.
Rembrandt, Cristo presentato al popolo, 1655
Neemia, attraverso la prima persona, può rivelare a noi lettori le sue
intenzioni che tiene nascoste agli interlocutori, ma allo stesso tempo
circoscrive ciò che avviene al suo punto di vista. La sparizione del «narratore
onnisciente» non può accadere senza conseguenze. Genesi, e tutto il Pentateuco,
attraverso la terza persona disponevano uno scenario in cui il protagonista
assoluto era Dio, che interveniva attivamente, parlava, esercitava un dominio
tirannico, aiutava il suo popolo oppure sfogava su di esso la sua collera. Qui,
invece, Dio è assente. O meglio, è presente solo dalla prospettiva di Neemia,
che lo prega, lo invoca, lo nomina al suo popolo. Ma di fatto Dio non risponde,
non compare, non agisce. Se ne sta nascosto. Narrare in prima persona – è questo
che ci rivela il libro di Neemia – vuol dire esporsi al rischio di farsi carico
della storia. Dio è presente solo nei suoi rotoli che divengono legge, nella
lettura che Neemia compie di tutta la Torah davanti al suo popolo. Neemia è un
tramite che si assume le responsabilità di provvedere agli ebrei a suo nome. La
prima persona ha, di fatto, escluso Dio, che ha delegato il suo potere all’io
narrante. Ma l’io narrante non è affidabile. Si tratta, dunque, di un acquisto,
da un lato, e di una perdita dall’altro. Ne è una prova il fatto che il lungo
elenco dei rimpatriati ebrei dall’esilio babilonese censito prima nel libro di
Esdra e poi in Neemia in alcune parti non coincidono. A chi dare credito? Tutta
la storia della narrativa futura si giocherà in questa discrepanza di
censimenti, e nell’ambiguità che essa comporta.
L’assenza di Dio prosegue anche in quello che è uno dei miei libri preferiti del
Tanàkh, il libro di Rut. Non so se sia il più bello della Bibbia ebraica, ma
sicuramente è quello più incantevole, più sobrio – un poemetto in prosa – e
anche il più sottilmente eversivo. Cazzullo ci restituisce, come sempre, una
fedele parafrasi e nient’altro. Eppure la forza dell’amore che emana da questo
testo, un amore inteso non come passione, ma come cura, come «chessed», cioè
come fedeltà all’alleanza, è così rivoluzionaria, anche nella sua coraggiosa
trasgressione della legge divina e morale, che rinunciare al commento equivale a
rinunciare a una delle ricchezze sapienziali più rare che ci siano mai state
donate.
> «Perché dovunque tu andrai, io andrò; dovunque tu pernotterai, io pernotterò;
> il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio. Dove tu morirai, io
> morirò e là sarò sepolta».
Questa meravigliosa dichiarazione d’amore non è pronunciata a un amante, ma a
una suocera, la suocera che Rut, la vedova moabita, sceglie di seguire a
Betlemme, in Israele, lasciando la sua terra e la sua religione. La virtù di Rut
è nel dire sì, nell’accettare la migrazione, il cambiamento, il ripudio,
assecondando solo la sua voce interiore (quella voce evocata da John Keats nella
sua Ode a un usignolo, la voce che «trovò una strada/ nel cuore triste di Ruth
quando, ammalata di nostalgia/ se ne stava in lacrime nel grano straniero»). Con
lei scopriamo che nella vita nulla va giudicato, nemmeno ciò che ci appare
indegno o sbagliato (come la rinuncia a sé stessi o l’amore per qualcuno molto
più in avanti negli anni, come Booz, l’uomo a cui, in un’audace incursione
notturna, Rut scopre non i piedi, come scrive Cazzullo leggendo alla lettera il
testo, ma i suoi genitali, in segno di disponibilità sessuale), perché ogni
gesto di questo personaggio, ogni sua azione, ci inducono a scoprire qualcosa di
inatteso, come la tolleranza, l’accettazione piena dell’altro, la solidarietà
femminile, l’erotismo naturale, la devozione e il rispetto reciproci.
Il libro di Rut è scritto quasi certamente da una donna, dove le donne sono
protagoniste assolute: gli uomini sono poco più che comparse e Dio stesso un
silenzioso spettatore. Quasi come se la luce emanata dalla grazia e dalla forza
femminile oscurasse tutto il resto. Ma nell’epoca della post-letteratura queste
riflessioni sono inutili complicazioni, che allontanerebbero i lettori. La
risonanza della parola letteraria è un ostacolo da eliminare. Per lo stesso
motivo, la tradizione talmudica, che commenta all’infinito il testo sacro,
spingendosi perfino a ipotizzare l’assenza di Dio, o a disputare sul suo senso
di giustizia, è bandita del tutto. Appartiene a un’altra era, quella della
critica, dell’ermeneutica, che non esiste più.
L’ultima domanda che bisogna porsi, allora, è questa: si possono amare la
letteratura e la lettura senza amare e leggere la Bibbia? Rispondo con un
aneddoto che mi pare significativo. Il 10 agosto 1938 si tenne a Parigi il XV
Congresso psicoanalitico internazionale, poco prima dello scoppio della Seconda
guerra. La versione finale e completa dell’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e
la religione monoteistica era in tipografia in Olanda. Freud stesso, vecchio e
malato di cancro, in esilio a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali,
mandò al congresso parigino la figlia Anna perché lo rappresentasse leggendo
pubblicamente un brano della terza parte del libro, il capitolo intitolato «Il
progresso della spiritualità». Anna Freud lesse, dunque, le seguenti righe in
nome del padre:
> «Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il
> popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo
> si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli
> interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro
> nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro
> rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di
> Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di
> aprire a Jabneh la prima scuola della Torah. Da allora in poi furono la Sacra
> Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il
> popolo disperso».
La Bibbia ebraica è, direi, soprattutto questo: la «gemma preziosa» di un
«tesoro nascosto»: una letteratura che ha garantito l’identità e la
sopravvivenza di un popolo, nonostante la diaspora, le persecuzioni e i genocidi
subiti nella sua millenaria storia. Freud lo ricorda poco prima della Shoah,
come avvertimento o premonizione, chissà. La letteratura, la lettura profonda, i
grandi testi della tradizione, sono l’unica difesa che possiamo opporre alla
barbarie. Oggi come ieri. Ma forse è troppo tardi per ricordarlo. Quel tesoro
nascosto lo stiamo già perdendo.
Fabrizio Coscia
*I disegni in copertina e nell’articolo sono di Rembrandt; in copertina: “Cristo
crocefisso tra i ladroni”, 1653
L'articolo Il tesoro nascosto. Ovvero: in difesa della Bibbia, per amore della
letteratura proviene da Pangea.