È un sublime omaggio all’immaginario anglosassone quello che Ignacio Peyró –
direttore dell’Istituto Cervantes, saggista e giornalista per “El Pais” – regala
al lettore con il suo ultimo Anglofilia. Piccolo glossario sentimentale della
cultura inglese (Graphe.it edizioni). Un libro-miniera (versione breve di quella
spagnola che supera le mille pagine) che attraverso uno stile intrigante e
raffinato compone un elegante ed eccentrico mosaico della englishness mischiando
umorismo ed erudizione, profondità ed acume per raccontare il grande mito di
un’Inghilterra eterna capace di essere icona di stile, riferimento letterario e
santuario estetico. Definendo un personalissimo e luccicante alfabeto della Gran
Bretagna: dalla A di Alcol alla B di Big Ben, passando per la R di Rolls Royce,
fino alla P di Pub. Ne emerge un gioiello letterario che regala a chi legge il
fascino di quella Gran Bretagna dello spirito, paradiso perduto di tutti gli
anglofili. Un immaginario sentimentale ed estetico (prima che politico e morale)
che nelle pagine di Peyró viene immortalato senza nostalgia o pedanteria, ma con
grande cultura, eleganza e fantasia.
Che cos’è per lei l’anglofilia? E come la ha vissuta?
È più un’esperienza accumulata da generazioni che un’esperienza personale.
Probabilmente è qualcosa che ormai si è andata perdendo con il tempo. In tutta
Europa c’è stato un innamoramento per la politica, le istituzioni e le abitudini
britanniche dal Settecento al Novecento. Da loro abbiamo copiato in gran parte
la stampa, il parlamentarismo… e perfino lo snobismo e l’imperialismo. Ma c’è
stata anche una grande seduzione britannica attraverso i costumi: la moda, i
giochi – pensiamo al calcio. Così, l’Inghilterra è riuscita a far sì che
“inglese” per molto tempo fosse una sorta di titolo di prestigio oltre che
un’origine. Il paradosso è che molte cose che sembrano al cento per cento
britanniche hanno in realtà origini continentali. La mia generazione – sono del
1980 – è tra le ultime ad aver vissuto quella che è stata un’abitudine molto
europea e poco contestata all’anglofilia.
Come nasce questo libro(sia nella versione spagnola che in quella italiana)?
Ero un giovane giornalista spagnolo che voleva scrivere. Ho sempre voluto
scrivere, è la mia vocazione. Ho scritto libri per altri, non ce n’era ancora
nessuno in libreria che portasse il mio nome. Così sono andato da un editore con
varie proposte: scelse questa. Mi ci concentrai per diversi anni e gli consegnai
un libro di 1100 pagine: dovevo fare qualcosa per attirare l’attenzione. La
selezione italiana è di poco più di 400. La genesi, diciamo, spirituale è più
semplice: sui giornali finivo sempre per scrivere di cose britanniche, il tema
giunse da sé.
Quali lemmi della versione originale avrebbe voluto aggiungere?
Non aggiungerei nulla. Così come è fatta, la selezione è ottima.
Che ruolo hanno avuto nobiltà e aristocrazia, a cui dedica uno splendido
paragrafo nella sua opera, nella formazione dell’anglofilia e di una certa idea
delle englishness?
L’importante, più che la nobiltà e l’aristocrazia, è la capacità dei britannici,
nel corso della storia, di generare élite sociali positive. Lo fanno a partire
dall’ideale del gentleman – che ha molto a che vedere con il gentiluomo del
Rinascimento italiano – e dalla scuola. Così, si può essere un gentleman, con un
ideale aristocratico, indipendentemente dalle proprie origini.
Leggendo le voci “Alcol”, “Cabine telefoniche” e “Big Ben”, tra le altre, in
pochi dettagli emerge la capacità di dare vita ad un immaginario anglosassone
affascinante che oltre a raccontare sa anche “intrattenere”. A quali dei lemmi
della sua opera è più legato e quali la hanno più divertita nella loro
scrittura? E perché?
Una delle peculiarità del mondo britannico è che può essere, oltre che molto
iconico, particolarmente narrativo; all’interno di questa narrazione c’è sempre
un forte umorismo, ricco di aneddoti e ironia. Questo è un libro di libri, di
erudizione festosa, e mi sono divertito moltissimo a scriverlo quasi quindici
anni fa. In effetti, vorrei ampliarlo nell’edizione spagnola da 1100 pagine…
Secondo lei come è cambiato il mito anglofilo con la Brexit? O è iniziato a
decadere ben prima?
C’è sempre stato un rapporto conflittuale tra Regno Unito e continente. Questo
non vuol dire che non sia stato ricco: pensiamo al Grand Tour, ad Agincourt, a
Verdun… La Brexit è un passo in più in questa storia di incontri e scontri.
L’anglofilia ha una sua età dell’oro, che va dalla fine del XVIII secolo fino
alla metà del XX, con Churchill e la Seconda guerra. Poi ci sarà un’altra
anglofilia, pop. Esiste ancora un’anglofilia, per così dire, d’immagine:
automobili, arredamento, abbigliamento. L’anglofilia come libertà, istituzioni e
letteratura è meno presente, in parte per il successo che hanno avuto alcune sue
esportazioni come la monarchia parlamentare, la tolleranza, la stampa o i
romanzi leggibili.
Ignacio Peyró è l’attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, dopo aver
diretto quello di Londra
Come valuta la narrazione del finis britanniae che è propria di questi anni?
È una narrazione che non esiste solo all’esterno, ma soprattutto all’interno del
Regno Unito, e che proviene dal dopo-sbornia post-imperiale. In effetti, gran
parte di questa cattiva assimilazione è alla base della Brexit. Lo disse un
Segretario di Stato degli Stati Uniti: si tratta di trovare un nuovo ruolo nel
mondo.
La visita di Re Carlo in Italia ha suscitato molto clamore. Sta ritornando una
marcata anglofilia in Italia e in Europa?
L’Italia è stata un paese molto anglofilo, così come la Gran Bretagna ha preso
molto dall’Italia con il Grand Tour: idee di arredamento e arte (classicismo e
neoclassicismo), modi e urbanità, il gusto per il passato… Ma la Brexit è stata
una cattiva scelta che ha allontanato le simpatie anglofile dal mondo.
Come si sono declinate in letteratura e in estetica questa anglofilia e
anglofobia?
L’anglofobia ha a che fare (cibo e clima a parte) con la critica a ciò che viene
percepito come materialismo inglese. È una critica in realtà più filosofica.
L’antiliberale tende a essere antibritannico. L’anglofilia, invece, può essere
molto alta o molto bassa: ha a che vedere con le istituzioni, la politica, la
libertà e la tolleranza… e anche con abitudini come la caccia o le giacche.
Dal “Telegraph” a personalità come Macmillan e Disraeli poche cose hanno
rappresentato la britishness come i Tory e il mondo conservatore. Come vede oggi
lo stato del mito di questa antichissima classe dirigente che ha incarnato
l’anima più autentica del potere britannico?
Il partito Tory era la cosa più solida della Gran Bretagna. Ed era, in effetti,
il grande partito politico del mondo britannico, almeno il modello per gli
altri, soprattutto nell’ambito della destra. Era “il partito della nazione”,
benché sappiamo che in una democrazia una cosa del genere non è possibile né
auspicabile. Ma era un partito capace di integrare numerose sensibilità. Ora ha
avuto un’eresia postmoderna con Nigel Farage.
Da spagnolo di cultura europea come ha vissuto il confronto con il mondo e la
cultura britannica come direttore del Cervantes di Londra?
La storiografia classica britannica, quella whig, contempla la creazione
dell’Inghilterra moderna in lotta contro la Spagna e il Papato. Così, siamo
stati nemici metafisici, nonostante Castiglia e Inghilterra avessero molto in
comune e, come sottolinea Sir John Elliott, l’impero britannico si sia ispirato
a quello spagnolo. Dal XIX secolo esiste una certa visione un po’ folkloristica
della Spagna, coerente con uno sguardo anglosassone che guardava con
condiscendenza il resto del mondo. Questo è cambiato progressivamente nelle
ultime generazioni.
Quali sono gli scrittori e registi contemporanei in cui ritrova ancora oggi il
mito (o l’ethos se vogliamo) britannico?
Oh, beh, ce ne sono molti. Cito gli appena scomparsi Roger Scruton, Auberon
Waugh… ma anche John Le Carré. È una cultura di grande prosa e narrazione.
Oggi è direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, è in lavorazione un dizionario
sentimentale se non italiano almeno romano?
Josep Pla, grande scrittore catalano, osò affrontare tutta l’Italia – è
sorprendente che le sue Lettere dall’Italia non siano tradotte – tranne Roma. Mi
sembra una scelta saggia. Invece di scrivere un libro molto grande e pieno di
altri libri come quello che ho fatto sulla Gran Bretagna, vorrei farne uno molto
breve, un arabesco, con una bibliografia minima – cosa quasi impossibile – su
questo paese meraviglioso.
Francesco Subiaco
L'articolo Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo).
Dialogo con Ignacio Peyró proviene da Pangea.