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Italia, una Repubblica fondata sulla vendetta. Dialogo con Giampiero Mughini
È una straordinaria resa dei conti con il nostro passato e la nostra Storia (politica, culturale e sociale), quella che Giampiero Mughini, regala ai lettori con il suo Controstoria dell’Italia. Dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi (Bompiani, 2024). Un viaggio a ritroso in oltre settant’anni di vita politica e culturale – mischiando storia e memoria, critica e indagine – tra libri, immaginari e personaggi che hanno cambiato e condizionato la storia italiana. Dagli aneliti fratricidi e i camaleontismi che hanno accompagnato il dopoguerra alle guerriglie ideologiche degli anni Settanta passando per i linciaggi mediatici della Seconda Repubblica. Tra Pasolini, Bilenchi, Ramelli, Craxi e Berlusconi. Un testo in cui Mughini, intellettuale, scrittore, giornalista e grande maestro di gusto e di pensiero, ha ricostruito  la storia d’Italia oltre ataviche ripartizioni e lottizzazioni, mostrandone le complessità e profondità aldilà di pregiudizi atavici e ancestrali antagonismi. Mostrando i fenomeni più complessi e le figure più discusse del nostro patrimonio storico culturale attraverso la lente non dell’ideologia o del moralismo, bensì tramite un approccio capace di restituire ad essi la loro irriducibile complessità e la loro ineludibile umanità. Ne emerge un documento personale e collettivo, fatto di tanti voci e personaggi che in qualche modo pone finalmente le condizioni fondamentali per una vera pacificazione (senza giustificazionismi o strumentalizzazioni) per la nostra storia nazionale.  Questo 25 aprile sono caduti gli ottant’anni dalla Liberazione. Secondo lei come è stato affrontato nel nostro Paese il tema della “guerra civile”?  L’ondata di speranze portate dalla Liberazione aveva favorito l’idea che con la fine del ventennio fascista ci sarebbe stata una palingenesi che avrebbe costruito una sorta di paradiso terrestre. Tanto che io stesso mi portai dietro per molti anni l’idea che l’antifascismo ci avrebbe condotto verso un futuro radioso e perfetto. Però con gli anni capii che la storia è fatta di ambiguità, di complessità, di esperienze e persone. Tutti fattori che non possono essere riassunti nella logica bene/male, luce/ombra, buoni/cattivi, uomini e no. Ci sono, infatti, troppe sfumature intermedie nella realtà e ridurre tale complessità a questi facili dualismi è un gravissimo errore. Un errore che spesso ci ha impedito di comprendere la storia del nostro Paese a causa di vecchie nostalgie e deleterie sacralizzazioni. A distanza di ottant’anni credo, infatti, che possiamo convenire che con il 25 aprile del 1945 non iniziò nessuno paradiso terrestre, ma finì per fortuna una tragica e sanguinosa guerra civile in cui ci furono tanti morti e tante ragioni diverse, alcune giuste altre sbagliate, che però a distanza di ottant’anni non bisogna strumentalizzare, bensì studiare e capire. Credo, infatti, che non serva più continuare a dividersi e a rievocare, con troppa retorica, i fantasmi della Storia. Servirebbe, invece,solo cercare di affrontarli senza pregiudizi e preconcetti. Cercando di confrontarci finalmente con le numerose sfumature del nostro passato. Ma… c’è ancora nel nostro Paese un anelito fratricida? No, io credo che non ci sia (per fortuna) un anelito fratricida nella società italiana. C’è però molta gente che, purtroppo, ancora si avvantaggia di quella divisione, e che appena può cerca di avvalersi di essa per i propri scopi. Cercando di sfruttare una polarizzazione, fascismo-antifascismo, che nel 2025 non esiste e non conta niente, per fini strumentali. Purtroppo, la Repubblica Italiana pur lasciandosi alle spalle un ventennio maledetto e nefasto quanto a sopraffazioni e violenze, è nata, infatti, nel peggiore dei modi. Marchiata a sua volta dal gusto del sangue, dalla vendetta, dall’odio reciproco delle fazioni, dall’esaltazione che della guerra civile facevano quelli che l’avevano vinta (e per fortuna) grazie agli aerei da bombardamento e ai carri armati degli americani. E del resto a tutt’oggi, quanti di quelli che nel linguaggio pubblico diffuso cianciano di “fascismo” e di “anti-fascismo” sanno di che cosa stanno parlando? Essi ignorano, infatti, quanto fosse stato intricato e complesso il reticolato della storia politica e morale dell’Italia del Novecento.  A proposito di tale ambiguità mi ha colpito l’episodio del cameriere e di suo padre che compare nel libro, indicativo delle contraddizioni del dopoguerra. Può raccontarcelo? E che insegnamento ci dà quell’aneddoto? Ma sa, i miei genitori erano separati e io andavo a pranzo da mio padre un paio di volte al mese. Papà parlava poco, pochissimo, giusto l’indispensabile. Con il passare degli anni diventai uno studente della sinistra radicale nella versione propria degli anni Sessanta. E sebbene tale visione fosse agli antipodi della ideologia di mio padre mai, mai una volta, lui obiettò qualcosa alle mie sfuriate di sinistra radicale, che pure erano ben note nella città in cui vivevo. Lo fece solo una volta. E qui veniamo alla sua domanda. In quella occasione eravamo andati a pranzare con mio padre in un ristorante dove i camerieri erano entrati in sciopero contro il loro datore di lavoro, e il capo cameriere (leader degli scioperanti) era venuto a salutare mio padre. Nel momento in cui lui venne al nostro tavolo io giovane studente di sinistra guardai con estasi quello che mi appariva come un vero ribelle. Quando lui si allontanò mio padre mi disse, però, poche parole: “Sei un settario. Quel cameriere che ti piaceva così tanto perché in sciopero era stato a suo tempo un manganellatore, e io l’ho espulso dal Partito Nazionale Fascista.” Parole che, a ripetermele oggi che sono passati circa sessant’anni, mi trafiggono ancora come mi trafissero allora per quanto erano inappellabili. Del resto, sempre le poche parole che pronunziava mio padre mi trafiggevano.  Com’era suo padre? Era una brava persona. E posso dire che oggi a distanza di tanti anni solo a questo tengo, anche io: ad essere una brava persona. Tutto il resto (destra e sinistra incluse) è cianfrusaglia.  Perché dice che la cultura degli anni del dopoguerra era solo illusoriamente fatta di uomini nuovi e costruita ex novo?  L’idea che noi ventenni bevemmo a gran sorsate negli anni Sessanta, ossia che a guerra conclusa e a Liberazione avvenuta si fosse manifestata in Italia una cultura radicalmente nuova, animata da uomini che avevano poco se non niente a che vedere con la storia culturale del ventennio, era un’idea che non valeva nulla. Né più né meno dell’idea, sussurrata una volta nientedimeno che dal nostro maestro, Norberto Bobbio, che affermava che il fascismo non avesse avuto una sua “cultura”. Una tesi che sembrava volesse dire che durante il ventennio non ci fosse stata in Italia una vita culturale degna di questo nome, non ci fossero stati scrittori, pittori, architetti, riviste di cultura che avessero lasciato delle tracce. E lo dico senza nulla togliere a quello che rappresentò per tutti noi ventenni la lettura dei Quaderni che Antonio Gramsci era andato stilando in una cella fascista e che l’editore torinese Giulio Einaudi aveva pubblicato dal 1948 al 1951. Certo che era un uomo nuovo l’Antonio Gramsci i cui scritti potevamo finalmente leggere perché il Tribunale speciale fascista aveva sì racchiuso il suo corpo, ma non era riuscito a spegnere il suo cervello. Solo che non tutto della cultura italiana dell’immediato secondo dopoguerra cominciava e finiva con Gramsci. Anzi. Non erano uomini nuovi o comunque radicalmente diversi da quel che erano stati nel ventennio dei creatori dal gran risalto quali l’architetto e designer Giò Ponti, il prodigioso scrittore Alberto Savinio nonché il suo imponente fratello Giorgio De Chirico, il giornalista e editore Leo Longanesi, e Mino Maccari. Non lo era Romano Bilenchi o Elio Vittorini, e neppure quel Bruno Munari che fin dal 1930 era andato trasformando in oro tutto quel che creava. Come non lo erano l’architetto Luigi Moretti, il cui genio per essere lui rimasto fascista sino all’ultimo (è morto a sessantasei anni nel 1973) viene ricordato una volta sì e cinque no. Persino Vitaliano Brancati che già durante il ventennio aveva preso a scrostare da sé l’iniziale sua venerazione di Mussolini non lo era; come non lo erano Rossellini e Visconti. Oppure pensiamo, sempre in questo senso, ai Longhi, ai Praz, agli Ungaretti. Ciò deve farci riflettere. La storia, specie quella della cultura, è sempre più complessa di quanto la immaginiamo o di come vorremmo che fosse. Poi non parliamo del delitto più torvo compiuto dalle ricostruzioni culturali in auge nell’immediato secondo dopoguerra. Quale? Quello per cui si spiegava tutto e ogni cosa in nome della partizione avversante tra l’Italia dei tempi dominati dal fascismo e l’Italia sopravvenuta dopo la Liberazione. Una partizione talmente secca da aver cancellato d’un colpo solo una delle avanguardie più frastornanti e geniali dell’intero Novecento europeo, quel futurismo marinettiano che per trent’anni s’era completamente avviluppato con il fascismo e con la sua topografia ideale.Furono, infatti, così cancellati i libri creativamente strepitosi di Fortunato Depero (un altro che rimase fascistissimo fino all’ultimo), i quadri di Mario Sironi, il succulento libro di esaltazione della “cucina futurista” a firma di Marinetti e Fillia. Per fortuna qualcosa sta cambiando e le ragioni dell’arte possono essere riscoperte. Quale è l’orgoglio e il fondale che accompagna questa controstoria di cui parla nel libro? E perché ha scritto questo testo? Quello di cui sono più orgoglioso e che costituisce il vero significato della “controstoria” che ho scritto è il tentativo di rimuovere via via i presupposti di quella guerra civile che aveva insanguinato l’Italia tra il 1943 e il 1945, e di cui sono stati in molti ad avere nel dopoguerra come una sorta di nostalgia. E dunque darsi ad affrontare ciascun personaggio rilevante, ciascun momento politico della nostra storia, ciascun comparto della nostra scena culturale non con l’aria di chi ha già etichettato tutto, ma con la volontà di andare scoprendone ogni volta un versante rimasto nascosto e offrirlo a un lettore che non sia accecato dalle sue convinzioni. Tutto l’opposto della cancel culture che ripete ad ogni riga ossessivamente le stesse prosopopee e sempre quelle, e cioè fondamentalmente che il Bene è meglio del Male. E questo tanto più oggi che le topografie del Novecento cui ci eravamo abituati sono saltate tutte. Solo che questo darsi addosso reciproco è divenuto per molti una necessità ossessiva, incuranti come sono che da tempo siamo entrati in un nuovo millennio della storia umana. Anzi tale condizione è divenuta, quasi, una mania nell’attuale sistema politico-partitico italiano, dove in mancanza di meglio le parti contrapposte (quali parti poi esattamente?) non la smettono di alimentare ogni volta inesauribili litigi su questioni emotive e insignificanti. Tutte questioni che ti sbattono addosso se entri in uno studio televisivo a commentare il presente e che mi fanno appisolare al solo rievocarle. Uno degli ultimi capitoli è quello su Silvio Berlusconi. Le volevo chiedere come Silvio Berlusconi ha cambiato la politica italiana, la politica dei partiti, e l’immaginario italiano? Nei primi anni Novanta i partiti ansimavano e allora la figura di quest’uomo talmente ricco, talmente potente e se non anche talmente abile ha preso il sopravvento.  Lei crede che ormai i partiti non esistano più? Avevano cominciato a non esistere già allora. Un partito, del resto, per esistere deve essere fatto da uomini che hanno delle certezze assolute e che sulla base di quelle certezze assolute si comportano e agiscono giorno per giorno seguendo una determinata visione. Tutto questooggi non esiste. Da Berlusconi in poi la scena politica italiana sarebbe divenuta, invece, il teatro di un unico e asfissiante referendum politico e morale pro o contro Berlusconi, il teatro di una inesausta e rabbiosa colluttazione permanente tra berlusconiani estatici e antiberlusconiani ostinatissimi.  Secondo lei, dal ricordo che sta emergendo della figura di Sergio Ramelli allo sdoganamento dei pregiudizi su Bettino Craxi, si sta cercando di costruire una narrazione unificante nella società italiana? Purtroppo, prima il nome di Sergio Ramelli non veniva neppure pronunciato, tanto che per alcuni era uno che era morto quasi per un’infezione sconosciuta. Invece, adesso onestamente sono contento di notare che il nome di Ramelli viene pronunciato… e questa è una grande fortuna. Per quanto riguarda Craxi, vorrei sottolineare che è morto da esule della nostra patria, mentre qualcuno diceva che era un latitante… Anche se non sfugge, o almeno non sfugge a chi ha un occhio minimamente esercitato, che sia stato uno dei grandi uomini politici della nostra epoca. Per tale motivo sono soddisfatto che finalmente gli stiano tributando l’attenzione e il rispetto che merita e che avrebbe meritato soprattutto nell’ultima fase della sua vita.  In questo senso, quali sono stati, gli eventi che hanno accompagnato questa sua presa di coscienza, questa sua evoluzione oltre la logica dello scontro frontale degli anni Sessanta e Settanta? Moltissimi. Lei ha citato giustamente un evento come  la morte di Ramelli, ma in quegli anni furono troppi gli episodi che mi fecero prendere coscienza di quella situazione insostenibile che si stava sviluppando in Italia. Iniziai a sentire, col passare degli anni, sempre di più la cognizione di quest’aria fratricida di cui abbiamo parlato e che volevo superare. Ed anche da questa cognizione nacque Compagni addio. Un testo che in tale ottica segnò uno spartiacque tanto nella mia vita quanto nei miei libri. Ci sono varie personalità in questa Controstoria dell’Italia, descritte anche con toni letterari, ma quali sono stati, dei personaggi citati nel testo, quelli che l’hanno più colpita, che l’hanno più cambiata? Tanti, talmente tanti, che non riuscirei ad elencarli tutti. Certamente non posso non citare una figura come Norberto Bobbio, che è stato per un lungo momento un personaggio nel quale io ho visto un mio riferimento. Ma ce ne sono tanti altri. Nella politica, forse, le direi Ugo La Malfa, una figura che stimavo molto. Però è estremamente difficile scegliere. Lei ha detto che la morte di Giovanni Gentile non è così diversa dall’omicidio di Matteotti. Perché? Mi pare evidente, anche perché non riesco a comprendere in che cosa tali morti dovrebbero essere diverse. Giovanni Gentile non aveva fatto nulla di male, semplicemente è stato un filosofo e un intellettuale che ha continuato ad essere dalla parte che aveva sostenuto per oltre vent’anni. Matteotti, allo stesso modo, aveva semplicemente fatto un discorso alla Camera, presentando la sua coerente e intransigente visione politica. Entrambi sono stati uccisi da una violenza cieca, fratricida, crudele solo perché erano visti come dei simboli da distruggere. Ma dietro quei simboli c’erano grandi uomini che avevano cercato di cambiare il loro paese e che sono stati uccisi da innocenti. Quindi sono due morti che si somigliano, che si somigliano pazzescamente. Pertanto porto a queste due figure il medesimo profondo rispetto che meritano. Francesco Subiaco L'articolo Italia, una Repubblica fondata sulla vendetta. Dialogo con Giampiero Mughini proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea
Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con Luciano Lanna
Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa (ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero della cultura):  Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna. Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana? La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore. E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero inattuale”. Ovvero? Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del presentismo anticipando scenari a venire.   Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?  Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che  > “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è > indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo > all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una > rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”. Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo? Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate. Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso. Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della riflessione novecentesca europea. Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e nello specifico dell’egemonia culturale?  E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe, dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”, tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce – “metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo, conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi, guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante di “via editoriale alla metapolitica”. Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto? Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico, era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don Giussani e i suoi amici.  Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana (da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)? Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno, Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro Carlo Mazzantini.  Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale paradigma è la chiave del pensiero delnociano? La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:  > “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un > processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i > tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque > possibile combattere”.  Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.  Augusto Del Noce (1910-1989) Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo autore? Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo” nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare nella interpretazione della modernità. A quale frase e citazione di Del Noce è più legato? Senz’altro a questa:  > “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla > ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde > invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi > resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la > scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”. Francesco Subiaco *In copertina: un’opera di Nicolas De Staël L'articolo Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con Luciano Lanna proviene da Pangea.
April 23, 2025 / Pangea
Monaco 1938: il bluff di Hitler. Dialogo con Maurizio Serra
Pochi eventi come gli accordi di Monaco del 1938, tra inglesi, francesi, italiani e tedeschi sul destino della Cecoslovacchia hanno goduto di una fama tanto sinistra quanto superficiale. Tale evento, infatti, fu un momento chiave della storia europea in cui processi decennali, sfide politiche, miscalculations dei principali governi, bluff e sottili trame diplomatiche si intersecarono delineando un complesso mosaico non riassumibile in facili stereotipi. Un evento brillantemente ricostruito e approfondito dall’ambasciatore Maurizio Enrico Serra, primo italiano Immortale di Francia, saggista e biografo dei grandi protagonisti del Novecento letterario italiano, nel suo Scacco alla pace. Monaco 1938 (Neri Pozza, 2024). Un saggio che porta il lettore nel centro di questo snodo cruciale, tramite una documentatissima e affascinante immersione nell’Europa tra le due guerre. Monaco è, infatti, un grande affresco storico, politico, diplomatico e intellettuale, un testo che oltre che ricostruire i nodi, i meandri e le sismografie che hanno accompagnato gli accordi del 1938 riesce a rivelare le logiche, i propositi e le psicologie dei protagonisti di quell’Europa. Un ritratto epocale, ricco di voci, personaggi, dettagli, segreti che ci racconta con il ritmo e lo stile del grande romanzo, ma con il rigore, l’esattezza e la puntualità della migliore tradizione storiografica italiana ed europea, un momento cruciale della storia delle relazioni internazionali del primo Novecento oltre facili pregiudizi e superficiali moralismi. Dai successi pirrici di Chamberlain alla foga di Daladier, dalle trame di Mussolini agli appetiti di Hitler, tra scena e retroscena. Senza dimenticare il ruolo di comprimari come Saint-John Perse, il poeta che avrebbe ricevuto il Nobel per la letteratura (all’epoca segretario del ministero degli esteri a Quai d’Orsay), o Ciano, Attolico, Anfuso. Per meglio comprendere attualità e nodi di quell’evento abbiamo intervistato l’autore. Quali sono le novità e i caratteri distintivi di questo suo saggio sulla crisi di Monaco rispetto a precedenti ricostruzioni? Ho cercato di fornire al lettore una visione d’insieme di tutti gli aspetti che a Monaco finirono per intrecciarsi, in modo da approfondire alcuni aspetti di una pagina decisiva della storia europea, soffermandomi su aspetti tradizionalmente poco analizzati. Quali? In primo luogo, il tentativo di seppellire una certa retorica che accompagnò la crisi cecoslovacca. Anche se Hitler riuscì a impadronirsi dei territori germanofoni, e a fare (dopo l’apparizione trionfale a Vienna l’anno precedente) il suo ingresso, seppur ritardato, a Praga il 15 marzo 1939, questa resa dei conti con il suo passato di oscuro agitatore austro-boemo non era più così importante per lui. L’odiato termine Österreich, con l’Annessione dell’Austria, era stato abolito per essere sostituito da Ostmark, ossia «marca orientale», un termine che indicava come non si trattasse certo della sbandierata unione dell’Austria al Reich tedesco, quanto di una pura e semplice annessione al ribasso. Lo stesso vale per il moncone ceco, che divenne ancor più spregiativamente il Protektorat o protettorato. Anche gli Auslandsdeutsche, ossia i tedeschi dei Sudeti, di Memel, Danzica e delle altre marche, che Hitler fingeva di voler proteggere, sarebbero diventati cittadini di classe inferiore rispetto a quelli del Reich tedesco: Reichsdeutsche o Altdeutsche.  Quale fu il vero intento che mosse l’imperialismo nazista aldilà di facili propagande? La vera motivazione fu, invece, il potenziale militare e industriale che si trovava al di là della catena montuosa dell’Erzgebirge, i “Monti metalliferi” al confine tra la Germania e la Boemia. I carri armati di fabbricazione ceca erano allora superiori in quantità e qualità agli equivalenti tedeschi e, nel 1940, si calcola che un terzo dei mezzi corazzati della Wehrmacht, pronti a rovesciarsi sul fronte occidentale dopo aver sbaragliato la Polonia, fossero prodotti dalle industrie Škoda. Durante la guerra, Hitler non visitò più Vienna o Praga, tanto meno le rovine di Varsavia. L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia non erano altro che i rami del grande albero da abbattere: l’Unione Sovietica. La posizione del Führer era insomma l’esatto contrario di quella di Stalin, che, subito dopo il 1945, acconsenti alla neutralità dell’Austria come merce di scambio con l’Occidente, ma fece degli altri due Stati il perno della sua morsa sull’Europa centrale e orientale. Cosa insegnò Monaco ai vincitori di Yalta?  All’inizio della guerra fredda, Monaco non insegnò alcunché all’Occidente, con la sola eccezione del generale Charles De Gaulle, che non riuscì tuttavia a far sentire la sua voce. Winston Churchill, ad esempio, con quelle frasi lapidarie di cui era gran maestro, liquidò la «condotta fatale» di Chamberlain e Daladier. Tuttavia, egli abbandonò a sua volta non a Hitler ma a… Stalin, nella sostanziale indifferenza degli Stati Uniti, la Cecoslovacchia ridiventata formalmente indipendente, la Jugoslavia monarchica dell’esercito partigiano cetnico, il governo polacco in esilio a Londra e i territori tedeschi occupati dall’Armata rossa, che presero il nome improbabile di Repubblica democratica tedesca (DDR). La conferenza di Jalta (febbraio 1945) e quella di Potsdam (luglio-agosto 1945) replicarono la ferrea logica di Monaco circa la divisione del continente: i “grandi” avrebbero deciso per i “piccoli”, che dovevano nuovamente piegare la testa. Solo nel 1989-1990, una nuova primavera dei popoli avrebbe riunito le due Europe nella speranza che diventassero una sola, sulla base dell’appassionato desiderio di intrepidi testimoni e combattenti come i miei indimenticabili amici François Fejtő e Predrag Matvejević, oltre a Czesław Miłosz, Leszek Kolakowski, Václav Havel, Milan Kundera e numerosi altri. Secondo lei esiste oggi una “sindrome di Monaco” verso le autocrazie? Se Monaco è seppellita con tutto quel che ha rappresentato di pernicioso nella storia europea, continuiamo a vivere all’ombra di una sindrome di fatalismo e d’impotenza pronta a riapparire periodicamente nelle crisi geo-strategiche. Cechi e slovacchi, oggi pacificamente divisi, lo ricordano bene, visto che per regolare la sorte della Primavera di Praga, nel 1968, non vi fu neanche bisogno di una conferenza ma della pura e semplice atonia della comunità internazionale, assortita di proteste retoriche di fronte alla condotta della potenza egemone, che non era più la Germania hitleriana ma agiva allo stesso modo. Il che pone il problema dell’atteggiamento delle democrazie nei riguardi della forza, e del pacifismo di fronte alla brutalità. La sola risposta efficace consiste nella fermezza che si appoggia sul ricorso, se necessario, alla cosiddetta violenza legittima nei modi (e nei limiti) previsti dal diritto internazionale. Rispondere all’aggressione con la passività non può che incoraggiare le dittature e le loro ambizioni funeste. In tal senso, “Monaco” è divenuto un canone negativo. I casi si sono moltiplicati, dopo di allora, dentro e fuori il nostro continente: dai conflitti nella ex Jugoslavia, così mal gestiti da parte occidentale, fino alla crisi ucraina la lista è lunga. Lo storico non può interpretare l’attualità, che esige altri strumenti d’approccio. Può solamente esporre gli avvenimenti di una data epoca quanto più obiettivamente possibile, affinché donne e uomini di buona volontà possano oggi trarne le conclusioni appropriate. Il testo scritto in francese è stato curato in italiano da Antonio De Francesco. Come è stato il lavoro di adattamento e traduzione? Antonio Di Francesco, che tra l’altro sta scrivendo un libro sulla Milano del primo Ottocento, ha svolto un lavoro eccellente ed è stato un piacere lavorare con lui.  Perché “Scacco alla pace”? In quanto è inevitabile che nonostante l’effetto che può aver avuto la minaccia della guerra, all’epoca essa era più che una eventualità concreta, essenzialmente, una minaccia, uno stratagemma di una complessa partita a scacchi nel quadro europeo. Che cosa si riproponeva di fermare Monaco in realtà? Non fermare un’invasione. Hitler non avrebbe potuto assolutamente invadere la Cecoslovacchia nelle condizioni in cui si trovava nel 1938, e ancor meno permettersi una guerra europea. La vera situazione era quella di un bluff nefasto e vincitore, uno scacco alla pace.  Che taglio ha dato al testo? Innanzitutto, ho cercato di scavare in profondità, mettendo in prospettiva tra loro, non solo i quattro protagonisti dell’Accordo di Monaco, Chamberlain per il Regno Unito, Daladier per la Francia e naturalmente Hitler e Mussolini. Ma anche i tre assenti dietro le scene, che sono il cecoslovacco Benes che per un minimo di pulizia di diritto internazionale avrebbe dovuto essere presente, e poi Stalin e Roosevelt, che erano i rappresentanti delle due principali superpotenze all’epoca non presenti, cioè l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. I quali guardavano agli esiti di Monaco senza volervi prendere parte. Allo stesso tempo ho molto insistito da una parte sulla debolezza e quindi sul bluff della posizione tedesca, dall’altra sulla mediazione di Mussolini, che molti storici, hanno completamente sottovalutato. Mussolini a Monaco ha svolto un ruolo indispensabile, e non soltanto di mediazione, ma molto più vicino oggettivamente alle posizioni franco-inglesi che alle posizioni tedesche.  Perché lo fece? Non certo per simpatia per lo stato cecoslovacco, di cui poco o nulla gli importava, ma perché, dopo l’Anschluss di pochi mesi prima, marzo rispetto a settembre, era convinto ormai che bisognasse arginare l’avanzata tedesca nell’Europa centrale e successivamente nell’Europa mediterranea. E quindi era una causa di forza maggiore che lo ha portato a prendere questa posizione.  Come vissero i paesi democratici quel quadro? È importante evidenziare che la Conferenza di Monaco si svolse in un clima di usura psicologica del concetto di democrazia e della forza delle democrazie rispetto ai totalitarismi che nascono, che danno veramente la misura del fatto che la storia di quel periodo e di quegli anni non potesse non portare ad un nuovo conflitto internazionale. La guerra era inevitabile? Erano troppi i rigurgiti, al di là della sorte dei Sudeti, della sorte della stessa Boemia Moravia, di quella operazione assolutamente fallita che sono stati i trattati di pace della Grande guerra. Dai quali venivano a galla troppe code che avrebbero portato ulteriori tensioni e tragedie, e che erano il prodotto di quanto era avvenuto allora. Non c’era tragedia più prevedibile della fine della Cecoslovacchia, del resto, come conferma tra gli altri E.P. Taylor.  Un esponente della grande tradizione della storiografia inglese… Un uomo che considero tuttora un grandissimo storico, molto discusso, molto discutibile, che però rappresentava uno di quegli storici anglosassoni che oggi nel nostro mondo non esistono più. Gli ultimi (che ho avuto il piacere di conoscere) sono stati Richard Lamb, Seton-Watson, ovvero degli storici che avevano, da inglesi, un senso dell’Europa continentale veramente impressionante. Un tempo c’era, infatti, questo senso della storiografia inglese, che è stata la grande storiografia dell’otto-novecento, che era incredibilmente capace di guardare oltre la Manica e comprendere l’Europa e il mondo. Mentre oggi assistiamo, mi spiace dirlo, ad una storiografia di risulta. È incredibile vedere come libri anche tradotti in Italia, pecchino di errori su troppi aspetti. Pensiamo alle varie interpretazioni sull’episodio che è stato una delle possibili conseguenze positive di Monaco, ossia la visita di Chamberlain a Roma nel gennaio del ’39. Su tale episodio, in troppi continuano a dire che era una visita orchestrata da Mussolini per separare Londra da Parigi. Una totale falsità perché in quella occasione non si parlò della Francia. Se non rapidamente. L’ossessione di Mussolini in quel momento, infatti, era Hitler… Uno dei tanti esempi delle semplificazioni che ruotano attorno alle vicende relative agli accordi di Monaco. Quale è la vera immagine che scaturisce del Mussolini di Monaco e post-Monaco, al di là di quello che viene raccontato, come ad esempio la storia stereotipata del suo parlare un francese da albergatore? L’esempio che ha citato, oltre ad essere falso perché Mussolini parlava per i tempi un buon francese, rappresenta quell’immagine dozzinale e caricaturale – che io, peraltro, nella mia precedente biografia di Mussolini ho cercato (non so se ci sono riuscito) di smantellare o quantomeno di mettere tra parentesi – del ruolo italiano a Monaco, che va rivista e superata. Monaco, infatti, è, dal punto di vista mussoliniano, l’apice e l’inizio dell’inarrestabile decadenza del personaggio. La Conferenza di Monaco ha un vincitore che avrebbe potuto, in quel momento, se non salvare la pace, quantomeno impedirne lo scacco: quell’uomo era Mussolini. Pensiamo all’invenzione della Commissione degli ambasciatori. Che non era il classico cerotto diplomatico: almeno, era un cerotto diplomatico che, interpretato bene, poteva avere il suo significato. A cui spettava, tra le altre cose, decidere le nuove frontiere della Cecoslovacchia post sudetica. Ed anzi contrariamente a quello che afferma la storiografia anglosassone, a mio avviso di risulta, che ha subito trattato la conferenza degli ambasciatori come insignificante, essa è fallita non perché non “lavorava”, ma perché lavorava troppo bene. È stata sabotata dalle ambizioni naziste, specie dei più oltranzisti, che ovviamente erano segnate dal fatto di non aver ottenuto quello che speravano di più da Monaco. Cioè, il placet per l’occupazione del protettorato della Boemia Moravia, che era quello che interessava di più per le famose “terre rare” di cui è ricca l’area. I tedeschi, infatti, si rendono conto che all’interno della conferenza degli ambasciatori, l’italiano Bernardo Attolico (un grande servitore dello Stato e della pace) era molto più vicino alle posizioni dei francesi e inglesi e quindi resisteva alla pressione tedesca. E quale furono le conseguenze di tali resistenze italiane? Annullarono di fatto la conferenza. Mussolini aveva introdotto molti elementi di garanzia. Ovviamente non perché avesse a cuore l’ordine internazionale e il destino dei Sudeti e dei cecoslovacchi. Anzi… Lo fece perché, dopo l’Anschluss, che era stata all’epoca la sua più grande sconfitta in politica estera, non voleva un ulteriore rafforzamento tedesco in Europa centrale e danubiana, che avrebbe portato verso l’Italia un nuovo nemico strategico. Una delle figure che più colpisce nel testo è quella del principale inquilino del Quai d’Orsay di allora, Alexis Leger, noto ai più come Saint-John Perse. Che ruolo svolse il poeta di Anabasi in questo quadro? Leger era un uomo dotato di una doppia natura; potremmo definirlo una pirandelliana eminenza grigia del Quai d’Orsay dal 1933 sino alla vigilia della disfatta del 1940. Il suo potere, accresciuto da un fascino esotico e magnetico che si imponeva a uomini e donne, si era già affermato sotto Aristide Briand, di cui era stato capo di gabinetto. Fu l’inizio di una fulminea ascesa, benché, come il suo predecessore e mentore Philippe Berthelot, Leger non avesse mai ricoperto un solo incarico di capo missione all’estero, il che equivale a dire, per un militare, non aver mai comandato un’unità al fronte. Sul poeta, uno dei più grandi del suo tempo, insignito del premio Nobel nel 1960, non vi è altro da aggiungere; ma come diplomatico egli si mosse senza la minima fedeltà per nessuno, compresi i suoi stessi protettori e le sue molte, influenti amanti. Sono state ampiamente sottolineate le ambiguità e le distorsioni nell’immagine di sé che volle tardivamente consegnare ai posteri nella curatela delle sue opere complete nella prestigiosa collezione della ‘Pléiade’. Eppure, a fronte di quanti sistemavano e ritoccavano periodicamente i loro ricordi come Bonnet, il suo lungo silenzio nell’esilio americano avrebbe fornito armi ai detrattori, fino all’implacabile ostilità che gli avrebbe riservato il generale de Gaulle, che vide in lui il principale concorrente (e detrattore) della France Libre presso Roosevelt e il Dipartimento di Stato. È difficile comprendere la natura di un uomo che eга senza dubbio un ardente patriota come Berthelot, anche se molto meno laborioso, cartesiano e, se vogliamo, tradizionalmente francese di lui. Resta da chiedersi che cosa ci fosse nelle sue origini di figlio delle Antille, nella sua aggrovigliata, solitaria e narcisistica personalità – dote forse di un poeta, assai meno di un diplomatico –, che lo portasse a disprezzare i suoi simili e a provocare i loro aspri risentimenti. L’italofobia, che condivideva con il suo predecessore una lunga tradizione al Quai d’Orsay, era solo l’aspetto più evidente di un atteggiamento che si rivelò dannoso prima di Monaco e, ancor più, dopo di allora. Nella crisi cecoslovacca, il suo ruolo, molto discusso, risultò, a nostro avviso, più onorevole di quello dei suoi capi politici, ma a Monaco non fu in grado di consigliare la resistenza a un Daladier che era già pronto a cedere. Collaboratori e ammiratori hanno lodato la sua “stravagante flessibilità tattica [combinata con] un’inesorabile de-terminazione di intenti”. I critici hanno invece sottolineato che “egli appare allo storico avvolto dalla nebbia di un’indecisione che forse ha deliberatamente e artificialmente messo a punto”. Insomma, se nel suo successivo esilio americano di sconfitto il poeta sapeva sciogliere le contraddizioni dell’uomo nella forza di un verbo alato di straordinaria pregnanza lirica, l’ormai ex grand commis costantemente teso a levigare e a valorizzare la sua immagine sembrava non sapere più chi fosse stato veramente. Forse non lo aveva mai saputo, altro lusso dei poeti… Leger, quindi, è un personaggio considerato molto negativamente, seppur meno di altri, la cui attività è stata molto più ondivaga per vari motivi, anche di carriera. Ovvero? Arrivato giovanissimo segretario generale, non voleva lasciare quel posto; sapeva di avere molti nemici, quindi ha dovuto traghettare un po’ tra le varie correnti. Questo è umano e non gli si può essere costituita un’accusa. Mi risulta però difficile iscrivere sia lui che Eden, che è il suo equivalente inglese, come fa invece certa storiografia, nella scuola della fermezza contro la scuola dell’appeasement. Chi vede queste cose in modo schematico non sa cos’è la storia, non sa cos’è la diplomazia, non sa cos’è la vita parlamentare e politica dove è inevitabile che secondo i momenti e le circostanze vengano prese delle scelte più o meno, come dire, conformi agli ideali. Bisogna vedere le cose in questi termini. Non fu l’unico a fare quegli errori ed inciampi del resto… Basti pensare che Churchill, che certamente era un uomo di visione, ideali, e di grande e profondo senso della storia, di grande e profondo senso delle opportunità degli uomini nella storia, perfino lui nel 1938, al ritorno di Chamberlain, non poteva mettersi contro un’opinione pubblica che era il 90% per la pace di Monaco. Chamberlain era in quel momento il più popolare leader politico inglese dal Duca di Wellington, vincitore di Napoleone. Però, mentre il Duca di Wellington ha dimostrato, vincendo sul campo, la sua superiorità su Napoleone, quella di Chamberlain è teorica, perché egli torna avendo evitato la guerra, cioè essendo perfettamente caduto nel bluff di Hitler. Magistrale nel testo è l’apparato di note, le considerazioni a pedice, che formano quasi un involontario romanzo ergodico per certi aspetti. Che significato ha per lei l’uso delle note? Sono un innamorato delle note ed è per questo che a tutti i miei editori – a volte ci riesco, a volte no – chiedo che vengano messe a fondo pagina. Sono innamorato delle note non solo per il motivo che le note possono dare, senza interrompere la narrazione, alcuni elementi biografici e bibliografici. Ma soprattutto perché le note rappresentano, ai miei occhi, un po’ l’equivalente delle voci del coro, delle voci a parte in un’opera lirica o nel teatro goldoniano. Sono quasi un coro, o delle voci individuali, però, che ci dicono chi era veramente Buffi, o perché Mussolini non potesse agire contro i suoi avversari. In questo senso vorrei che anche il lettore generico potesse leggere e godere delle note e di ciò che esse rappresentano nel mio percorso.  Che cosa ha in cantiere l’ambasciatore Maurizio Serra per i lettori? Cerco di alternare i generi, sto rivedendo le edizioni tascabili di molti dei miei libri. Il primo obiettivo è quello dell’edizione tascabile francese del D’Annunzio e dell’edizione italiana di Mussolini, che dovrebbero uscire nell’autunno inoltrato o all’inizio del prossimo anno. Poi ci sono appunto i nuovi progetti. Vorrei ultimare la trilogia narrativa del Michoumistan perché questo paese immaginario è un po’ il paese, del Dottor Stranamore, ossia quello dei conflitti che da terribili possono diventare nazionali e via dicendo. Quindi un po’ la parafrasi della sicurezza del mondo e della condizione in cui un diplomatico vive. Per il resto cerco di mantenere i rapporti, letterari e non, con le varie istituzioni con le quali collaboro. Francesco Subiaco *In copertina: Monaco, Führerbau, 30 settembre 1938, foto di gruppo con i firmatari dell’accordo; il poeta Saint-John Perse, ovvero Alexis Léger, si scorge sullo sfondo, tra Mussolini e Ciano L'articolo Monaco 1938: il bluff di Hitler. Dialogo con Maurizio Serra proviene da Pangea.
March 26, 2025 / Pangea