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Monaco 1938: il bluff di Hitler. Dialogo con Maurizio Serra
Pochi eventi come gli accordi di Monaco del 1938, tra inglesi, francesi, italiani e tedeschi sul destino della Cecoslovacchia hanno goduto di una fama tanto sinistra quanto superficiale. Tale evento, infatti, fu un momento chiave della storia europea in cui processi decennali, sfide politiche, miscalculations dei principali governi, bluff e sottili trame diplomatiche si intersecarono delineando un complesso mosaico non riassumibile in facili stereotipi. Un evento brillantemente ricostruito e approfondito dall’ambasciatore Maurizio Enrico Serra, primo italiano Immortale di Francia, saggista e biografo dei grandi protagonisti del Novecento letterario italiano, nel suo Scacco alla pace. Monaco 1938 (Neri Pozza, 2024). Un saggio che porta il lettore nel centro di questo snodo cruciale, tramite una documentatissima e affascinante immersione nell’Europa tra le due guerre. Monaco è, infatti, un grande affresco storico, politico, diplomatico e intellettuale, un testo che oltre che ricostruire i nodi, i meandri e le sismografie che hanno accompagnato gli accordi del 1938 riesce a rivelare le logiche, i propositi e le psicologie dei protagonisti di quell’Europa. Un ritratto epocale, ricco di voci, personaggi, dettagli, segreti che ci racconta con il ritmo e lo stile del grande romanzo, ma con il rigore, l’esattezza e la puntualità della migliore tradizione storiografica italiana ed europea, un momento cruciale della storia delle relazioni internazionali del primo Novecento oltre facili pregiudizi e superficiali moralismi. Dai successi pirrici di Chamberlain alla foga di Daladier, dalle trame di Mussolini agli appetiti di Hitler, tra scena e retroscena. Senza dimenticare il ruolo di comprimari come Saint-John Perse, il poeta che avrebbe ricevuto il Nobel per la letteratura (all’epoca segretario del ministero degli esteri a Quai d’Orsay), o Ciano, Attolico, Anfuso. Per meglio comprendere attualità e nodi di quell’evento abbiamo intervistato l’autore. Quali sono le novità e i caratteri distintivi di questo suo saggio sulla crisi di Monaco rispetto a precedenti ricostruzioni? Ho cercato di fornire al lettore una visione d’insieme di tutti gli aspetti che a Monaco finirono per intrecciarsi, in modo da approfondire alcuni aspetti di una pagina decisiva della storia europea, soffermandomi su aspetti tradizionalmente poco analizzati. Quali? In primo luogo, il tentativo di seppellire una certa retorica che accompagnò la crisi cecoslovacca. Anche se Hitler riuscì a impadronirsi dei territori germanofoni, e a fare (dopo l’apparizione trionfale a Vienna l’anno precedente) il suo ingresso, seppur ritardato, a Praga il 15 marzo 1939, questa resa dei conti con il suo passato di oscuro agitatore austro-boemo non era più così importante per lui. L’odiato termine Österreich, con l’Annessione dell’Austria, era stato abolito per essere sostituito da Ostmark, ossia «marca orientale», un termine che indicava come non si trattasse certo della sbandierata unione dell’Austria al Reich tedesco, quanto di una pura e semplice annessione al ribasso. Lo stesso vale per il moncone ceco, che divenne ancor più spregiativamente il Protektorat o protettorato. Anche gli Auslandsdeutsche, ossia i tedeschi dei Sudeti, di Memel, Danzica e delle altre marche, che Hitler fingeva di voler proteggere, sarebbero diventati cittadini di classe inferiore rispetto a quelli del Reich tedesco: Reichsdeutsche o Altdeutsche.  Quale fu il vero intento che mosse l’imperialismo nazista aldilà di facili propagande? La vera motivazione fu, invece, il potenziale militare e industriale che si trovava al di là della catena montuosa dell’Erzgebirge, i “Monti metalliferi” al confine tra la Germania e la Boemia. I carri armati di fabbricazione ceca erano allora superiori in quantità e qualità agli equivalenti tedeschi e, nel 1940, si calcola che un terzo dei mezzi corazzati della Wehrmacht, pronti a rovesciarsi sul fronte occidentale dopo aver sbaragliato la Polonia, fossero prodotti dalle industrie Škoda. Durante la guerra, Hitler non visitò più Vienna o Praga, tanto meno le rovine di Varsavia. L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia non erano altro che i rami del grande albero da abbattere: l’Unione Sovietica. La posizione del Führer era insomma l’esatto contrario di quella di Stalin, che, subito dopo il 1945, acconsenti alla neutralità dell’Austria come merce di scambio con l’Occidente, ma fece degli altri due Stati il perno della sua morsa sull’Europa centrale e orientale. Cosa insegnò Monaco ai vincitori di Yalta?  All’inizio della guerra fredda, Monaco non insegnò alcunché all’Occidente, con la sola eccezione del generale Charles De Gaulle, che non riuscì tuttavia a far sentire la sua voce. Winston Churchill, ad esempio, con quelle frasi lapidarie di cui era gran maestro, liquidò la «condotta fatale» di Chamberlain e Daladier. Tuttavia, egli abbandonò a sua volta non a Hitler ma a… Stalin, nella sostanziale indifferenza degli Stati Uniti, la Cecoslovacchia ridiventata formalmente indipendente, la Jugoslavia monarchica dell’esercito partigiano cetnico, il governo polacco in esilio a Londra e i territori tedeschi occupati dall’Armata rossa, che presero il nome improbabile di Repubblica democratica tedesca (DDR). La conferenza di Jalta (febbraio 1945) e quella di Potsdam (luglio-agosto 1945) replicarono la ferrea logica di Monaco circa la divisione del continente: i “grandi” avrebbero deciso per i “piccoli”, che dovevano nuovamente piegare la testa. Solo nel 1989-1990, una nuova primavera dei popoli avrebbe riunito le due Europe nella speranza che diventassero una sola, sulla base dell’appassionato desiderio di intrepidi testimoni e combattenti come i miei indimenticabili amici François Fejtő e Predrag Matvejević, oltre a Czesław Miłosz, Leszek Kolakowski, Václav Havel, Milan Kundera e numerosi altri. Secondo lei esiste oggi una “sindrome di Monaco” verso le autocrazie? Se Monaco è seppellita con tutto quel che ha rappresentato di pernicioso nella storia europea, continuiamo a vivere all’ombra di una sindrome di fatalismo e d’impotenza pronta a riapparire periodicamente nelle crisi geo-strategiche. Cechi e slovacchi, oggi pacificamente divisi, lo ricordano bene, visto che per regolare la sorte della Primavera di Praga, nel 1968, non vi fu neanche bisogno di una conferenza ma della pura e semplice atonia della comunità internazionale, assortita di proteste retoriche di fronte alla condotta della potenza egemone, che non era più la Germania hitleriana ma agiva allo stesso modo. Il che pone il problema dell’atteggiamento delle democrazie nei riguardi della forza, e del pacifismo di fronte alla brutalità. La sola risposta efficace consiste nella fermezza che si appoggia sul ricorso, se necessario, alla cosiddetta violenza legittima nei modi (e nei limiti) previsti dal diritto internazionale. Rispondere all’aggressione con la passività non può che incoraggiare le dittature e le loro ambizioni funeste. In tal senso, “Monaco” è divenuto un canone negativo. I casi si sono moltiplicati, dopo di allora, dentro e fuori il nostro continente: dai conflitti nella ex Jugoslavia, così mal gestiti da parte occidentale, fino alla crisi ucraina la lista è lunga. Lo storico non può interpretare l’attualità, che esige altri strumenti d’approccio. Può solamente esporre gli avvenimenti di una data epoca quanto più obiettivamente possibile, affinché donne e uomini di buona volontà possano oggi trarne le conclusioni appropriate. Il testo scritto in francese è stato curato in italiano da Antonio De Francesco. Come è stato il lavoro di adattamento e traduzione? Antonio Di Francesco, che tra l’altro sta scrivendo un libro sulla Milano del primo Ottocento, ha svolto un lavoro eccellente ed è stato un piacere lavorare con lui.  Perché “Scacco alla pace”? In quanto è inevitabile che nonostante l’effetto che può aver avuto la minaccia della guerra, all’epoca essa era più che una eventualità concreta, essenzialmente, una minaccia, uno stratagemma di una complessa partita a scacchi nel quadro europeo. Che cosa si riproponeva di fermare Monaco in realtà? Non fermare un’invasione. Hitler non avrebbe potuto assolutamente invadere la Cecoslovacchia nelle condizioni in cui si trovava nel 1938, e ancor meno permettersi una guerra europea. La vera situazione era quella di un bluff nefasto e vincitore, uno scacco alla pace.  Che taglio ha dato al testo? Innanzitutto, ho cercato di scavare in profondità, mettendo in prospettiva tra loro, non solo i quattro protagonisti dell’Accordo di Monaco, Chamberlain per il Regno Unito, Daladier per la Francia e naturalmente Hitler e Mussolini. Ma anche i tre assenti dietro le scene, che sono il cecoslovacco Benes che per un minimo di pulizia di diritto internazionale avrebbe dovuto essere presente, e poi Stalin e Roosevelt, che erano i rappresentanti delle due principali superpotenze all’epoca non presenti, cioè l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. I quali guardavano agli esiti di Monaco senza volervi prendere parte. Allo stesso tempo ho molto insistito da una parte sulla debolezza e quindi sul bluff della posizione tedesca, dall’altra sulla mediazione di Mussolini, che molti storici, hanno completamente sottovalutato. Mussolini a Monaco ha svolto un ruolo indispensabile, e non soltanto di mediazione, ma molto più vicino oggettivamente alle posizioni franco-inglesi che alle posizioni tedesche.  Perché lo fece? Non certo per simpatia per lo stato cecoslovacco, di cui poco o nulla gli importava, ma perché, dopo l’Anschluss di pochi mesi prima, marzo rispetto a settembre, era convinto ormai che bisognasse arginare l’avanzata tedesca nell’Europa centrale e successivamente nell’Europa mediterranea. E quindi era una causa di forza maggiore che lo ha portato a prendere questa posizione.  Come vissero i paesi democratici quel quadro? È importante evidenziare che la Conferenza di Monaco si svolse in un clima di usura psicologica del concetto di democrazia e della forza delle democrazie rispetto ai totalitarismi che nascono, che danno veramente la misura del fatto che la storia di quel periodo e di quegli anni non potesse non portare ad un nuovo conflitto internazionale. La guerra era inevitabile? Erano troppi i rigurgiti, al di là della sorte dei Sudeti, della sorte della stessa Boemia Moravia, di quella operazione assolutamente fallita che sono stati i trattati di pace della Grande guerra. Dai quali venivano a galla troppe code che avrebbero portato ulteriori tensioni e tragedie, e che erano il prodotto di quanto era avvenuto allora. Non c’era tragedia più prevedibile della fine della Cecoslovacchia, del resto, come conferma tra gli altri E.P. Taylor.  Un esponente della grande tradizione della storiografia inglese… Un uomo che considero tuttora un grandissimo storico, molto discusso, molto discutibile, che però rappresentava uno di quegli storici anglosassoni che oggi nel nostro mondo non esistono più. Gli ultimi (che ho avuto il piacere di conoscere) sono stati Richard Lamb, Seton-Watson, ovvero degli storici che avevano, da inglesi, un senso dell’Europa continentale veramente impressionante. Un tempo c’era, infatti, questo senso della storiografia inglese, che è stata la grande storiografia dell’otto-novecento, che era incredibilmente capace di guardare oltre la Manica e comprendere l’Europa e il mondo. Mentre oggi assistiamo, mi spiace dirlo, ad una storiografia di risulta. È incredibile vedere come libri anche tradotti in Italia, pecchino di errori su troppi aspetti. Pensiamo alle varie interpretazioni sull’episodio che è stato una delle possibili conseguenze positive di Monaco, ossia la visita di Chamberlain a Roma nel gennaio del ’39. Su tale episodio, in troppi continuano a dire che era una visita orchestrata da Mussolini per separare Londra da Parigi. Una totale falsità perché in quella occasione non si parlò della Francia. Se non rapidamente. L’ossessione di Mussolini in quel momento, infatti, era Hitler… Uno dei tanti esempi delle semplificazioni che ruotano attorno alle vicende relative agli accordi di Monaco. Quale è la vera immagine che scaturisce del Mussolini di Monaco e post-Monaco, al di là di quello che viene raccontato, come ad esempio la storia stereotipata del suo parlare un francese da albergatore? L’esempio che ha citato, oltre ad essere falso perché Mussolini parlava per i tempi un buon francese, rappresenta quell’immagine dozzinale e caricaturale – che io, peraltro, nella mia precedente biografia di Mussolini ho cercato (non so se ci sono riuscito) di smantellare o quantomeno di mettere tra parentesi – del ruolo italiano a Monaco, che va rivista e superata. Monaco, infatti, è, dal punto di vista mussoliniano, l’apice e l’inizio dell’inarrestabile decadenza del personaggio. La Conferenza di Monaco ha un vincitore che avrebbe potuto, in quel momento, se non salvare la pace, quantomeno impedirne lo scacco: quell’uomo era Mussolini. Pensiamo all’invenzione della Commissione degli ambasciatori. Che non era il classico cerotto diplomatico: almeno, era un cerotto diplomatico che, interpretato bene, poteva avere il suo significato. A cui spettava, tra le altre cose, decidere le nuove frontiere della Cecoslovacchia post sudetica. Ed anzi contrariamente a quello che afferma la storiografia anglosassone, a mio avviso di risulta, che ha subito trattato la conferenza degli ambasciatori come insignificante, essa è fallita non perché non “lavorava”, ma perché lavorava troppo bene. È stata sabotata dalle ambizioni naziste, specie dei più oltranzisti, che ovviamente erano segnate dal fatto di non aver ottenuto quello che speravano di più da Monaco. Cioè, il placet per l’occupazione del protettorato della Boemia Moravia, che era quello che interessava di più per le famose “terre rare” di cui è ricca l’area. I tedeschi, infatti, si rendono conto che all’interno della conferenza degli ambasciatori, l’italiano Bernardo Attolico (un grande servitore dello Stato e della pace) era molto più vicino alle posizioni dei francesi e inglesi e quindi resisteva alla pressione tedesca. E quale furono le conseguenze di tali resistenze italiane? Annullarono di fatto la conferenza. Mussolini aveva introdotto molti elementi di garanzia. Ovviamente non perché avesse a cuore l’ordine internazionale e il destino dei Sudeti e dei cecoslovacchi. Anzi… Lo fece perché, dopo l’Anschluss, che era stata all’epoca la sua più grande sconfitta in politica estera, non voleva un ulteriore rafforzamento tedesco in Europa centrale e danubiana, che avrebbe portato verso l’Italia un nuovo nemico strategico. Una delle figure che più colpisce nel testo è quella del principale inquilino del Quai d’Orsay di allora, Alexis Leger, noto ai più come Saint-John Perse. Che ruolo svolse il poeta di Anabasi in questo quadro? Leger era un uomo dotato di una doppia natura; potremmo definirlo una pirandelliana eminenza grigia del Quai d’Orsay dal 1933 sino alla vigilia della disfatta del 1940. Il suo potere, accresciuto da un fascino esotico e magnetico che si imponeva a uomini e donne, si era già affermato sotto Aristide Briand, di cui era stato capo di gabinetto. Fu l’inizio di una fulminea ascesa, benché, come il suo predecessore e mentore Philippe Berthelot, Leger non avesse mai ricoperto un solo incarico di capo missione all’estero, il che equivale a dire, per un militare, non aver mai comandato un’unità al fronte. Sul poeta, uno dei più grandi del suo tempo, insignito del premio Nobel nel 1960, non vi è altro da aggiungere; ma come diplomatico egli si mosse senza la minima fedeltà per nessuno, compresi i suoi stessi protettori e le sue molte, influenti amanti. Sono state ampiamente sottolineate le ambiguità e le distorsioni nell’immagine di sé che volle tardivamente consegnare ai posteri nella curatela delle sue opere complete nella prestigiosa collezione della ‘Pléiade’. Eppure, a fronte di quanti sistemavano e ritoccavano periodicamente i loro ricordi come Bonnet, il suo lungo silenzio nell’esilio americano avrebbe fornito armi ai detrattori, fino all’implacabile ostilità che gli avrebbe riservato il generale de Gaulle, che vide in lui il principale concorrente (e detrattore) della France Libre presso Roosevelt e il Dipartimento di Stato. È difficile comprendere la natura di un uomo che eга senza dubbio un ardente patriota come Berthelot, anche se molto meno laborioso, cartesiano e, se vogliamo, tradizionalmente francese di lui. Resta da chiedersi che cosa ci fosse nelle sue origini di figlio delle Antille, nella sua aggrovigliata, solitaria e narcisistica personalità – dote forse di un poeta, assai meno di un diplomatico –, che lo portasse a disprezzare i suoi simili e a provocare i loro aspri risentimenti. L’italofobia, che condivideva con il suo predecessore una lunga tradizione al Quai d’Orsay, era solo l’aspetto più evidente di un atteggiamento che si rivelò dannoso prima di Monaco e, ancor più, dopo di allora. Nella crisi cecoslovacca, il suo ruolo, molto discusso, risultò, a nostro avviso, più onorevole di quello dei suoi capi politici, ma a Monaco non fu in grado di consigliare la resistenza a un Daladier che era già pronto a cedere. Collaboratori e ammiratori hanno lodato la sua “stravagante flessibilità tattica [combinata con] un’inesorabile de-terminazione di intenti”. I critici hanno invece sottolineato che “egli appare allo storico avvolto dalla nebbia di un’indecisione che forse ha deliberatamente e artificialmente messo a punto”. Insomma, se nel suo successivo esilio americano di sconfitto il poeta sapeva sciogliere le contraddizioni dell’uomo nella forza di un verbo alato di straordinaria pregnanza lirica, l’ormai ex grand commis costantemente teso a levigare e a valorizzare la sua immagine sembrava non sapere più chi fosse stato veramente. Forse non lo aveva mai saputo, altro lusso dei poeti… Leger, quindi, è un personaggio considerato molto negativamente, seppur meno di altri, la cui attività è stata molto più ondivaga per vari motivi, anche di carriera. Ovvero? Arrivato giovanissimo segretario generale, non voleva lasciare quel posto; sapeva di avere molti nemici, quindi ha dovuto traghettare un po’ tra le varie correnti. Questo è umano e non gli si può essere costituita un’accusa. Mi risulta però difficile iscrivere sia lui che Eden, che è il suo equivalente inglese, come fa invece certa storiografia, nella scuola della fermezza contro la scuola dell’appeasement. Chi vede queste cose in modo schematico non sa cos’è la storia, non sa cos’è la diplomazia, non sa cos’è la vita parlamentare e politica dove è inevitabile che secondo i momenti e le circostanze vengano prese delle scelte più o meno, come dire, conformi agli ideali. Bisogna vedere le cose in questi termini. Non fu l’unico a fare quegli errori ed inciampi del resto… Basti pensare che Churchill, che certamente era un uomo di visione, ideali, e di grande e profondo senso della storia, di grande e profondo senso delle opportunità degli uomini nella storia, perfino lui nel 1938, al ritorno di Chamberlain, non poteva mettersi contro un’opinione pubblica che era il 90% per la pace di Monaco. Chamberlain era in quel momento il più popolare leader politico inglese dal Duca di Wellington, vincitore di Napoleone. Però, mentre il Duca di Wellington ha dimostrato, vincendo sul campo, la sua superiorità su Napoleone, quella di Chamberlain è teorica, perché egli torna avendo evitato la guerra, cioè essendo perfettamente caduto nel bluff di Hitler. Magistrale nel testo è l’apparato di note, le considerazioni a pedice, che formano quasi un involontario romanzo ergodico per certi aspetti. Che significato ha per lei l’uso delle note? Sono un innamorato delle note ed è per questo che a tutti i miei editori – a volte ci riesco, a volte no – chiedo che vengano messe a fondo pagina. Sono innamorato delle note non solo per il motivo che le note possono dare, senza interrompere la narrazione, alcuni elementi biografici e bibliografici. Ma soprattutto perché le note rappresentano, ai miei occhi, un po’ l’equivalente delle voci del coro, delle voci a parte in un’opera lirica o nel teatro goldoniano. Sono quasi un coro, o delle voci individuali, però, che ci dicono chi era veramente Buffi, o perché Mussolini non potesse agire contro i suoi avversari. In questo senso vorrei che anche il lettore generico potesse leggere e godere delle note e di ciò che esse rappresentano nel mio percorso.  Che cosa ha in cantiere l’ambasciatore Maurizio Serra per i lettori? Cerco di alternare i generi, sto rivedendo le edizioni tascabili di molti dei miei libri. Il primo obiettivo è quello dell’edizione tascabile francese del D’Annunzio e dell’edizione italiana di Mussolini, che dovrebbero uscire nell’autunno inoltrato o all’inizio del prossimo anno. Poi ci sono appunto i nuovi progetti. Vorrei ultimare la trilogia narrativa del Michoumistan perché questo paese immaginario è un po’ il paese, del Dottor Stranamore, ossia quello dei conflitti che da terribili possono diventare nazionali e via dicendo. Quindi un po’ la parafrasi della sicurezza del mondo e della condizione in cui un diplomatico vive. Per il resto cerco di mantenere i rapporti, letterari e non, con le varie istituzioni con le quali collaboro. Francesco Subiaco *In copertina: Monaco, Führerbau, 30 settembre 1938, foto di gruppo con i firmatari dell’accordo; il poeta Saint-John Perse, ovvero Alexis Léger, si scorge sullo sfondo, tra Mussolini e Ciano L'articolo Monaco 1938: il bluff di Hitler. Dialogo con Maurizio Serra proviene da Pangea.
March 26, 2025 / Pangea