Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX
secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli
auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale
categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie
gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa
(ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il
Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della
modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive
del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la
lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e
cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie
culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i
nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non
essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano
Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero
della cultura): Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del
Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un
inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore
infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti
anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività
saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre
interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee
sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano
abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna.
Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del
Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana?
La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello
che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce
nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per
spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione
filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca
risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore.
E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la
storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune
profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti
caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto
che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero
inattuale”.
Ovvero?
Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del
presentismo anticipando scenari a venire.
Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?
Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il
presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che
conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione
teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore
esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo
nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è
anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero
dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una
interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e
lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve
a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che
> “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è
> indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo
> all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una
> rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”.
Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo?
Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è
stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare
il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della
paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica
dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o
per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate.
Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica
e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e
filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella
via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del
Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di
comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli
scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso.
Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che
Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di
Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo
ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la
riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera
storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della
modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera
principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come
uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della
riflessione novecentesca europea.
Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e
nello specifico dell’egemonia culturale?
E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione
della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce
dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul
tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe,
dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla
seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva
nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di
Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse
l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in
Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione
nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e
proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”,
tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce –
“metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo
attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il
compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta
l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si
finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È
l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto
al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle
logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo,
conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo
capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via
metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o
azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a
cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi,
guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le
riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante
di “via editoriale alla metapolitica”.
Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto?
Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia
dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico,
era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il
suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli
anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo
come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è
proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le
domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal
compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e
gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e
barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli
accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in
positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don
Giussani e i suoi amici.
Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana
(da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)?
Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del
tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si
delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le
contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone
Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori
laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno,
Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si
innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari
come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro
Carlo Mazzantini.
Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale
paradigma è la chiave del pensiero delnociano?
La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi
illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare
e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto
coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una
freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è
sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun
determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del
binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come
continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:
> “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un
> processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i
> tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque
> possibile combattere”.
Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano
Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro
lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del
maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di
fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.
Augusto Del Noce (1910-1989)
Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo
autore?
Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la
modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un
work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio
continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su
riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo”
nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della
Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal
vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini
Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare
l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a
cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha
affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare
nella interpretazione della modernità.
A quale frase e citazione di Del Noce è più legato?
Senz’altro a questa:
> “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla
> ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde
> invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi
> resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la
> scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”.
Francesco Subiaco
*In copertina: un’opera di Nicolas De Staël
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Pochi eventi come gli accordi di Monaco del 1938, tra inglesi, francesi,
italiani e tedeschi sul destino della Cecoslovacchia hanno goduto di una fama
tanto sinistra quanto superficiale. Tale evento, infatti, fu un momento chiave
della storia europea in cui processi decennali, sfide
politiche, miscalculations dei principali governi, bluff e sottili trame
diplomatiche si intersecarono delineando un complesso mosaico non riassumibile
in facili stereotipi. Un evento brillantemente ricostruito e approfondito
dall’ambasciatore Maurizio Enrico Serra, primo italiano Immortale di Francia,
saggista e biografo dei grandi protagonisti del Novecento letterario italiano,
nel suo Scacco alla pace. Monaco 1938 (Neri Pozza, 2024). Un saggio che porta il
lettore nel centro di questo snodo cruciale, tramite una documentatissima e
affascinante immersione nell’Europa tra le due guerre.
Monaco è, infatti, un grande affresco storico, politico, diplomatico e
intellettuale, un testo che oltre che ricostruire i nodi, i meandri e le
sismografie che hanno accompagnato gli accordi del 1938 riesce a rivelare le
logiche, i propositi e le psicologie dei protagonisti di quell’Europa. Un
ritratto epocale, ricco di voci, personaggi, dettagli, segreti che ci racconta
con il ritmo e lo stile del grande romanzo, ma con il rigore, l’esattezza e la
puntualità della migliore tradizione storiografica italiana ed europea, un
momento cruciale della storia delle relazioni internazionali del primo Novecento
oltre facili pregiudizi e superficiali moralismi. Dai successi pirrici di
Chamberlain alla foga di Daladier, dalle trame di Mussolini agli appetiti di
Hitler, tra scena e retroscena. Senza dimenticare il ruolo di comprimari come
Saint-John Perse, il poeta che avrebbe ricevuto il Nobel per la letteratura
(all’epoca segretario del ministero degli esteri a Quai d’Orsay), o Ciano,
Attolico, Anfuso. Per meglio comprendere attualità e nodi di quell’evento
abbiamo intervistato l’autore.
Quali sono le novità e i caratteri distintivi di questo suo saggio sulla crisi
di Monaco rispetto a precedenti ricostruzioni?
Ho cercato di fornire al lettore una visione d’insieme di tutti gli aspetti che
a Monaco finirono per intrecciarsi, in modo da approfondire alcuni aspetti di
una pagina decisiva della storia europea, soffermandomi su aspetti
tradizionalmente poco analizzati.
Quali?
In primo luogo, il tentativo di seppellire una certa retorica che accompagnò la
crisi cecoslovacca. Anche se Hitler riuscì a impadronirsi dei territori
germanofoni, e a fare (dopo l’apparizione trionfale a Vienna l’anno precedente)
il suo ingresso, seppur ritardato, a Praga il 15 marzo 1939, questa resa dei
conti con il suo passato di oscuro agitatore austro-boemo non era più così
importante per lui. L’odiato termine Österreich, con l’Annessione dell’Austria,
era stato abolito per essere sostituito da Ostmark, ossia «marca orientale», un
termine che indicava come non si trattasse certo della sbandierata unione
dell’Austria al Reich tedesco, quanto di una pura e semplice annessione al
ribasso. Lo stesso vale per il moncone ceco, che divenne ancor più
spregiativamente il Protektorat o protettorato. Anche gli Auslandsdeutsche,
ossia i tedeschi dei Sudeti, di Memel, Danzica e delle altre marche, che Hitler
fingeva di voler proteggere, sarebbero diventati cittadini di classe inferiore
rispetto a quelli del Reich tedesco: Reichsdeutsche o Altdeutsche.
Quale fu il vero intento che mosse l’imperialismo nazista aldilà di facili
propagande?
La vera motivazione fu, invece, il potenziale militare e industriale che si
trovava al di là della catena montuosa dell’Erzgebirge, i “Monti metalliferi” al
confine tra la Germania e la Boemia. I carri armati di fabbricazione ceca erano
allora superiori in quantità e qualità agli equivalenti tedeschi e, nel 1940, si
calcola che un terzo dei mezzi corazzati della Wehrmacht, pronti a rovesciarsi
sul fronte occidentale dopo aver sbaragliato la Polonia, fossero prodotti dalle
industrie Škoda. Durante la guerra, Hitler non visitò più Vienna o Praga, tanto
meno le rovine di Varsavia. L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia non erano
altro che i rami del grande albero da abbattere: l’Unione Sovietica. La
posizione del Führer era insomma l’esatto contrario di quella di Stalin, che,
subito dopo il 1945, acconsenti alla neutralità dell’Austria come merce di
scambio con l’Occidente, ma fece degli altri due Stati il perno della sua morsa
sull’Europa centrale e orientale.
Cosa insegnò Monaco ai vincitori di Yalta?
All’inizio della guerra fredda, Monaco non insegnò alcunché all’Occidente, con
la sola eccezione del generale Charles De Gaulle, che non riuscì tuttavia a far
sentire la sua voce. Winston Churchill, ad esempio, con quelle frasi lapidarie
di cui era gran maestro, liquidò la «condotta fatale» di Chamberlain e Daladier.
Tuttavia, egli abbandonò a sua volta non a Hitler ma a… Stalin, nella
sostanziale indifferenza degli Stati Uniti, la Cecoslovacchia ridiventata
formalmente indipendente, la Jugoslavia monarchica dell’esercito partigiano
cetnico, il governo polacco in esilio a Londra e i territori tedeschi occupati
dall’Armata rossa, che presero il nome improbabile di Repubblica democratica
tedesca (DDR). La conferenza di Jalta (febbraio 1945) e quella di Potsdam
(luglio-agosto 1945) replicarono la ferrea logica di Monaco circa la divisione
del continente: i “grandi” avrebbero deciso per i “piccoli”, che dovevano
nuovamente piegare la testa. Solo nel 1989-1990, una nuova primavera dei popoli
avrebbe riunito le due Europe nella speranza che diventassero una sola, sulla
base dell’appassionato desiderio di intrepidi testimoni e combattenti come i
miei indimenticabili amici François Fejtő e Predrag Matvejević, oltre a Czesław
Miłosz, Leszek Kolakowski, Václav Havel, Milan Kundera e numerosi altri.
Secondo lei esiste oggi una “sindrome di Monaco” verso le autocrazie?
Se Monaco è seppellita con tutto quel che ha rappresentato di pernicioso nella
storia europea, continuiamo a vivere all’ombra di una sindrome di fatalismo e
d’impotenza pronta a riapparire periodicamente nelle crisi geo-strategiche.
Cechi e slovacchi, oggi pacificamente divisi, lo ricordano bene, visto che per
regolare la sorte della Primavera di Praga, nel 1968, non vi fu neanche bisogno
di una conferenza ma della pura e semplice atonia della comunità internazionale,
assortita di proteste retoriche di fronte alla condotta della potenza egemone,
che non era più la Germania hitleriana ma agiva allo stesso modo. Il che pone il
problema dell’atteggiamento delle democrazie nei riguardi della forza, e del
pacifismo di fronte alla brutalità. La sola risposta efficace consiste nella
fermezza che si appoggia sul ricorso, se necessario, alla cosiddetta violenza
legittima nei modi (e nei limiti) previsti dal diritto internazionale.
Rispondere all’aggressione con la passività non può che incoraggiare le
dittature e le loro ambizioni funeste. In tal senso, “Monaco” è divenuto un
canone negativo. I casi si sono moltiplicati, dopo di allora, dentro e fuori il
nostro continente: dai conflitti nella ex Jugoslavia, così mal gestiti da parte
occidentale, fino alla crisi ucraina la lista è lunga. Lo storico non può
interpretare l’attualità, che esige altri strumenti d’approccio. Può solamente
esporre gli avvenimenti di una data epoca quanto più obiettivamente possibile,
affinché donne e uomini di buona volontà possano oggi trarne le conclusioni
appropriate.
Il testo scritto in francese è stato curato in italiano da Antonio De Francesco.
Come è stato il lavoro di adattamento e traduzione?
Antonio Di Francesco, che tra l’altro sta scrivendo un libro sulla Milano del
primo Ottocento, ha svolto un lavoro eccellente ed è stato un piacere lavorare
con lui.
Perché “Scacco alla pace”?
In quanto è inevitabile che nonostante l’effetto che può aver avuto la minaccia
della guerra, all’epoca essa era più che una eventualità concreta,
essenzialmente, una minaccia, uno stratagemma di una complessa partita a scacchi
nel quadro europeo. Che cosa si riproponeva di fermare Monaco in realtà? Non
fermare un’invasione. Hitler non avrebbe potuto assolutamente invadere la
Cecoslovacchia nelle condizioni in cui si trovava nel 1938, e ancor meno
permettersi una guerra europea. La vera situazione era quella di un bluff
nefasto e vincitore, uno scacco alla pace.
Che taglio ha dato al testo?
Innanzitutto, ho cercato di scavare in profondità, mettendo in prospettiva tra
loro, non solo i quattro protagonisti dell’Accordo di Monaco, Chamberlain per il
Regno Unito, Daladier per la Francia e naturalmente Hitler e Mussolini. Ma anche
i tre assenti dietro le scene, che sono il cecoslovacco Benes che per un minimo
di pulizia di diritto internazionale avrebbe dovuto essere presente, e poi
Stalin e Roosevelt, che erano i rappresentanti delle due principali superpotenze
all’epoca non presenti, cioè l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. I quali
guardavano agli esiti di Monaco senza volervi prendere parte. Allo stesso tempo
ho molto insistito da una parte sulla debolezza e quindi sul bluff della
posizione tedesca, dall’altra sulla mediazione di Mussolini, che molti storici,
hanno completamente sottovalutato. Mussolini a Monaco ha svolto un ruolo
indispensabile, e non soltanto di mediazione, ma molto più vicino oggettivamente
alle posizioni franco-inglesi che alle posizioni tedesche.
Perché lo fece?
Non certo per simpatia per lo stato cecoslovacco, di cui poco o nulla gli
importava, ma perché, dopo l’Anschluss di pochi mesi prima, marzo rispetto a
settembre, era convinto ormai che bisognasse arginare l’avanzata tedesca
nell’Europa centrale e successivamente nell’Europa mediterranea. E quindi era
una causa di forza maggiore che lo ha portato a prendere questa posizione.
Come vissero i paesi democratici quel quadro?
È importante evidenziare che la Conferenza di Monaco si svolse in un clima di
usura psicologica del concetto di democrazia e della forza delle democrazie
rispetto ai totalitarismi che nascono, che danno veramente la misura del fatto
che la storia di quel periodo e di quegli anni non potesse non portare ad un
nuovo conflitto internazionale.
La guerra era inevitabile?
Erano troppi i rigurgiti, al di là della sorte dei Sudeti, della sorte della
stessa Boemia Moravia, di quella operazione assolutamente fallita che sono stati
i trattati di pace della Grande guerra. Dai quali venivano a galla troppe code
che avrebbero portato ulteriori tensioni e tragedie, e che erano il prodotto di
quanto era avvenuto allora. Non c’era tragedia più prevedibile della fine della
Cecoslovacchia, del resto, come conferma tra gli altri E.P. Taylor.
Un esponente della grande tradizione della storiografia inglese…
Un uomo che considero tuttora un grandissimo storico, molto discusso, molto
discutibile, che però rappresentava uno di quegli storici anglosassoni che oggi
nel nostro mondo non esistono più. Gli ultimi (che ho avuto il piacere di
conoscere) sono stati Richard Lamb, Seton-Watson, ovvero degli storici che
avevano, da inglesi, un senso dell’Europa continentale veramente impressionante.
Un tempo c’era, infatti, questo senso della storiografia inglese, che è stata la
grande storiografia dell’otto-novecento, che era incredibilmente capace di
guardare oltre la Manica e comprendere l’Europa e il mondo. Mentre oggi
assistiamo, mi spiace dirlo, ad una storiografia di risulta. È incredibile
vedere come libri anche tradotti in Italia, pecchino di errori su troppi
aspetti. Pensiamo alle varie interpretazioni sull’episodio che è stato una delle
possibili conseguenze positive di Monaco, ossia la visita di Chamberlain a Roma
nel gennaio del ’39. Su tale episodio, in troppi continuano a dire che era una
visita orchestrata da Mussolini per separare Londra da Parigi. Una totale
falsità perché in quella occasione non si parlò della Francia. Se non
rapidamente. L’ossessione di Mussolini in quel momento, infatti, era Hitler… Uno
dei tanti esempi delle semplificazioni che ruotano attorno alle vicende relative
agli accordi di Monaco.
Quale è la vera immagine che scaturisce del Mussolini di Monaco e post-Monaco,
al di là di quello che viene raccontato, come ad esempio la storia stereotipata
del suo parlare un francese da albergatore?
L’esempio che ha citato, oltre ad essere falso perché Mussolini parlava per i
tempi un buon francese, rappresenta quell’immagine dozzinale e caricaturale –
che io, peraltro, nella mia precedente biografia di Mussolini ho cercato (non so
se ci sono riuscito) di smantellare o quantomeno di mettere tra parentesi – del
ruolo italiano a Monaco, che va rivista e superata. Monaco, infatti, è, dal
punto di vista mussoliniano, l’apice e l’inizio dell’inarrestabile decadenza del
personaggio. La Conferenza di Monaco ha un vincitore che avrebbe potuto, in quel
momento, se non salvare la pace, quantomeno impedirne lo scacco: quell’uomo era
Mussolini. Pensiamo all’invenzione della Commissione degli ambasciatori. Che non
era il classico cerotto diplomatico: almeno, era un cerotto diplomatico che,
interpretato bene, poteva avere il suo significato. A cui spettava, tra le altre
cose, decidere le nuove frontiere della Cecoslovacchia post sudetica. Ed anzi
contrariamente a quello che afferma la storiografia anglosassone, a mio avviso
di risulta, che ha subito trattato la conferenza degli ambasciatori come
insignificante, essa è fallita non perché non “lavorava”, ma perché lavorava
troppo bene. È stata sabotata dalle ambizioni naziste, specie dei più
oltranzisti, che ovviamente erano segnate dal fatto di non aver ottenuto quello
che speravano di più da Monaco. Cioè, il placet per l’occupazione del
protettorato della Boemia Moravia, che era quello che interessava di più per le
famose “terre rare” di cui è ricca l’area. I tedeschi, infatti, si rendono conto
che all’interno della conferenza degli ambasciatori, l’italiano Bernardo
Attolico (un grande servitore dello Stato e della pace) era molto più vicino
alle posizioni dei francesi e inglesi e quindi resisteva alla pressione tedesca.
E quale furono le conseguenze di tali resistenze italiane?
Annullarono di fatto la conferenza. Mussolini aveva introdotto molti elementi di
garanzia. Ovviamente non perché avesse a cuore l’ordine internazionale e il
destino dei Sudeti e dei cecoslovacchi. Anzi… Lo fece perché, dopo l’Anschluss,
che era stata all’epoca la sua più grande sconfitta in politica estera, non
voleva un ulteriore rafforzamento tedesco in Europa centrale e danubiana, che
avrebbe portato verso l’Italia un nuovo nemico strategico.
Una delle figure che più colpisce nel testo è quella del principale inquilino
del Quai d’Orsay di allora, Alexis Leger, noto ai più come Saint-John Perse. Che
ruolo svolse il poeta di Anabasi in questo quadro?
Leger era un uomo dotato di una doppia natura; potremmo definirlo una
pirandelliana eminenza grigia del Quai d’Orsay dal 1933 sino alla vigilia della
disfatta del 1940. Il suo potere, accresciuto da un fascino esotico e magnetico
che si imponeva a uomini e donne, si era già affermato sotto Aristide Briand, di
cui era stato capo di gabinetto. Fu l’inizio di una fulminea ascesa, benché,
come il suo predecessore e mentore Philippe Berthelot, Leger non avesse mai
ricoperto un solo incarico di capo missione all’estero, il che equivale a dire,
per un militare, non aver mai comandato un’unità al fronte. Sul poeta, uno dei
più grandi del suo tempo, insignito del premio Nobel nel 1960, non vi è altro da
aggiungere; ma come diplomatico egli si mosse senza la minima fedeltà per
nessuno, compresi i suoi stessi protettori e le sue molte, influenti amanti.
Sono state ampiamente sottolineate le ambiguità e le distorsioni nell’immagine
di sé che volle tardivamente consegnare ai posteri nella curatela delle sue
opere complete nella prestigiosa collezione della ‘Pléiade’. Eppure, a fronte di
quanti sistemavano e ritoccavano periodicamente i loro ricordi come Bonnet, il
suo lungo silenzio nell’esilio americano avrebbe fornito armi ai detrattori,
fino all’implacabile ostilità che gli avrebbe riservato il generale de Gaulle,
che vide in lui il principale concorrente (e detrattore) della France Libre
presso Roosevelt e il Dipartimento di Stato. È difficile comprendere la natura
di un uomo che eга senza dubbio un ardente patriota come Berthelot, anche se
molto meno laborioso, cartesiano e, se vogliamo, tradizionalmente francese di
lui. Resta da chiedersi che cosa ci fosse nelle sue origini di figlio delle
Antille, nella sua aggrovigliata, solitaria e narcisistica personalità – dote
forse di un poeta, assai meno di un diplomatico –, che lo portasse a disprezzare
i suoi simili e a provocare i loro aspri risentimenti. L’italofobia, che
condivideva con il suo predecessore una lunga tradizione al Quai d’Orsay, era
solo l’aspetto più evidente di un atteggiamento che si rivelò dannoso prima di
Monaco e, ancor più, dopo di allora. Nella crisi cecoslovacca, il suo ruolo,
molto discusso, risultò, a nostro avviso, più onorevole di quello dei suoi capi
politici, ma a Monaco non fu in grado di consigliare la resistenza a un Daladier
che era già pronto a cedere. Collaboratori e ammiratori hanno lodato la sua
“stravagante flessibilità tattica [combinata con] un’inesorabile de-terminazione
di intenti”. I critici hanno invece sottolineato che “egli appare allo storico
avvolto dalla nebbia di un’indecisione che forse ha deliberatamente e
artificialmente messo a punto”. Insomma, se nel suo successivo esilio americano
di sconfitto il poeta sapeva sciogliere le contraddizioni dell’uomo nella forza
di un verbo alato di straordinaria pregnanza lirica, l’ormai ex grand commis
costantemente teso a levigare e a valorizzare la sua immagine sembrava non
sapere più chi fosse stato veramente. Forse non lo aveva mai saputo, altro lusso
dei poeti… Leger, quindi, è un personaggio considerato molto negativamente,
seppur meno di altri, la cui attività è stata molto più ondivaga per vari
motivi, anche di carriera.
Ovvero?
Arrivato giovanissimo segretario generale, non voleva lasciare quel posto;
sapeva di avere molti nemici, quindi ha dovuto traghettare un po’ tra le varie
correnti. Questo è umano e non gli si può essere costituita un’accusa. Mi
risulta però difficile iscrivere sia lui che Eden, che è il suo equivalente
inglese, come fa invece certa storiografia, nella scuola della fermezza contro
la scuola dell’appeasement. Chi vede queste cose in modo schematico non sa cos’è
la storia, non sa cos’è la diplomazia, non sa cos’è la vita parlamentare e
politica dove è inevitabile che secondo i momenti e le circostanze vengano prese
delle scelte più o meno, come dire, conformi agli ideali. Bisogna vedere le cose
in questi termini.
Non fu l’unico a fare quegli errori ed inciampi del resto…
Basti pensare che Churchill, che certamente era un uomo di visione, ideali, e di
grande e profondo senso della storia, di grande e profondo senso delle
opportunità degli uomini nella storia, perfino lui nel 1938, al ritorno di
Chamberlain, non poteva mettersi contro un’opinione pubblica che era il 90% per
la pace di Monaco. Chamberlain era in quel momento il più popolare leader
politico inglese dal Duca di Wellington, vincitore di Napoleone. Però, mentre il
Duca di Wellington ha dimostrato, vincendo sul campo, la sua superiorità su
Napoleone, quella di Chamberlain è teorica, perché egli torna avendo evitato la
guerra, cioè essendo perfettamente caduto nel bluff di Hitler.
Magistrale nel testo è l’apparato di note, le considerazioni a pedice, che
formano quasi un involontario romanzo ergodico per certi aspetti. Che
significato ha per lei l’uso delle note?
Sono un innamorato delle note ed è per questo che a tutti i miei editori – a
volte ci riesco, a volte no – chiedo che vengano messe a fondo pagina. Sono
innamorato delle note non solo per il motivo che le note possono dare, senza
interrompere la narrazione, alcuni elementi biografici e bibliografici. Ma
soprattutto perché le note rappresentano, ai miei occhi, un po’ l’equivalente
delle voci del coro, delle voci a parte in un’opera lirica o nel teatro
goldoniano. Sono quasi un coro, o delle voci individuali, però, che ci dicono
chi era veramente Buffi, o perché Mussolini non potesse agire contro i suoi
avversari. In questo senso vorrei che anche il lettore generico potesse leggere
e godere delle note e di ciò che esse rappresentano nel mio percorso.
Che cosa ha in cantiere l’ambasciatore Maurizio Serra per i lettori?
Cerco di alternare i generi, sto rivedendo le edizioni tascabili di molti dei
miei libri. Il primo obiettivo è quello dell’edizione tascabile francese del
D’Annunzio e dell’edizione italiana di Mussolini, che dovrebbero uscire
nell’autunno inoltrato o all’inizio del prossimo anno. Poi ci sono appunto i
nuovi progetti. Vorrei ultimare la trilogia narrativa del Michoumistan perché
questo paese immaginario è un po’ il paese, del Dottor Stranamore, ossia quello
dei conflitti che da terribili possono diventare nazionali e via dicendo. Quindi
un po’ la parafrasi della sicurezza del mondo e della condizione in cui un
diplomatico vive. Per il resto cerco di mantenere i rapporti, letterari e non,
con le varie istituzioni con le quali collaboro.
Francesco Subiaco
*In copertina: Monaco, Führerbau, 30 settembre 1938, foto di gruppo con i
firmatari dell’accordo; il poeta Saint-John Perse, ovvero Alexis Léger, si
scorge sullo sfondo, tra Mussolini e Ciano
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