Un angelo mite. Così poteva apparire a chi lo sentiva parlare o agli occhi di
chi ne guardava il viso per la prima volta. Solo all’apparenza serafico il suo
sguardo, affilato come un taglierino dalla lama bianca in grado di riconoscere,
discernere, sondare e far emergere il nudo vero da ciò cui si interessava. Il
‘reale’, innanzitutto, ha cercato Giovanni Raboni, «l’ovvietà dei fatti»
scriveva al termine di un sonetto in Ogni terzo pensiero (1993), tutto per
tornare a «benedire» il «vero», il peso netto della sua gioia cercata ogni
giorno al sollevarsi della «saracinesca del forno». Un vero che da un lato si
declina in ricerca poetica, dall’altro in critica, attività letteraria parallela
e forse complementare al percorso di poeta che lo ha portato a scrivere
instancabilmente di romanzi, poesia, premi letterari, figure della letteratura
italiana e internazionale e spesso anche del mercato editoriale, cercando sempre
di restituire una visione puntuale, aderente al contesto storico, nel rispetto
aureo della ‘qualità letteraria’ di cui Raboni è stato uno strenuo difensore.
Anche, e soprattutto, quando ciò su cui posava attenzione e sguardo non lo
convinceva:
> «[…] partirei dal caso più macroscopico: la spropositata esaltazione e
> monumentalizzazione della figura di Eugenio Montale».
Sul poeta degli Ossi di seppia Raboni tornerà più volte, in una di queste
ammetterà che Montale è considerato «con unanimità impressionante e un po’
sinistra, il maggior poeta del secolo. È, secondo me, meno grande di almeno tre
poeti infinitamente meno acclamati di lui: Clemente Rebora, Delio Tessa e
Umberto Saba; e non mi sembra affatto sicuro che sia più grande di Giuseppe
Ungaretti, di Vittorio Sereni o di Mario Luzi».
Non un iconoclasta o un detrattore a priori, ma uno che orientava il proprio
gusto (e non solo su questo basava il suo giudizio) attraverso lo studio diretto
delle opere degli autori, e non sull’onda di una réclame che poteva venire ora
dalla tv, ora da giornali e riviste o ancora dai Premi Letterari — di cui oggi
si ricorda poco l’articolo dal titolo “Ma gli autentici premi letterari nascono
solo da discussioni libere” che uscì nel 1997 sul “Corriere della Sera” circa le
dimissioni di Raboni dal Premio Viareggio, di cui si riporta qui uno stralcio:
> «Da una decina d’anni, uno più uno meno, avevo deciso di dimettermi da tutte
> le giurie di premi letterari di cui facevo parte (escluso lo Strega, che non
> considero un premio ma un rito mondano al quale non ha alcun senso né credere
> né sottrarsi) perché mi ero convinto che fosse praticamente impossibile
> sfuggire alla logica di pressioni, compromessi, giochi di potere,
> cortocircuiti fra ambizioni personali e interessi politico-editoriali da cui
> essi erano, in varia misura ma senza vere eccezioni, condizionati. Poi, l’anno
> scorso, sono venuto meno al mio proposito e ho accettato di entrare nella
> nuova giuria del Viareggio presieduta (e selezionata) da Cesare Garboli, […]
> con qualche speranza di realizzarvi almeno in parte il mio vecchio sogno di un
> lavoro serio, sereno e pacato, al quale ciascuno possa dare il proprio
> contributo specifico di interessi e di conoscenze e nel corso del quale si
> arrivi per gradi a un’opinione comune confrontando fra loro le singole
> opinioni, mettendole davvero in discussione, convincendo gli altri ma anche
> lasciandosi convincere: che sarebbe poi, credo, l’unica condizione “interna”
> capace di rendere gradevole e sensato il lavoro di una giuria e, dunque,
> culturalmente utile un premio letterario […]. Mi sembra, alla luce della
> riunione dell’anno scorso e di quella di quest’anno, che niente di tutto ciò
> sia avvenuto. Ciascuno dei membri della giuria è arrivato con un’idea (non
> importa se sua o di qualcun altro) e con quella è ripartito […]».
Sono coraggiose considerazioni che mancano nell’attuale panorama culturale
italiano, sebbene sia convinto che da parte di molti addetti ai lavori, e non,
qualcosa di simile sia spesso venuto in mente. A mancare oggi è così quella
salutare condizione di libertà, viva e urgente di chi, con parole audaci e
oneste, sappia dire elegantemente, senza inutili scandali, il marcio dei
meccanismi culturali italiani; o sappia scrivere di letteratura non solo quando
è comodo al recensore di turno, ma sedendosi in più scomodi scranni per
ammettere o meno quando il ‘valore’ di un’opera incontra felicemente il nero
della carta stampata. Certo, non è un compito cui tutti possono adempiere — dal
quale è quasi certo si dovranno poi sostenere certe conseguenze —, ci vuole
innanzitutto quello che Raboni stesso definiva «orecchio»: diciamo tatto per la
qualità, come un buon sarto che sa riconoscere la stoffa e quando questa è
finemente lavorata, insieme a una non meno importante e lucente curiositas,
quell’attitudine da rabdomante costituita per metà da intuito e metà da
esperienza:
> «Dobbiamo proprio lasciare che i lettori (come, in genere, ogni altra
> categoria di consumatori) preferiscano i sottoprodotti ai prodotti di
> qualità?» si domandava Raboni in un altro articolo: «O, peggio ancora,
> dobbiamo sforzarci di credere che abbiano ragione? Credo di no; credo che la
> funzione della critica sia quella di ricordare, a costo di apparire pedanti e
> noiosi, quali sono e dove sono i valori».
Emerge chiaro da queste parole il compito da lui assunto, voluto da un lato per
destino e dall’altro per volontà, e tutto solo per rendere testimonianza di un
bene più alto, giusto, da consegnare ai «lettori del futuro»: una parola, una
sequenza cinematografica, uno spettacolo teatrale che sappia sinceramente
entrare in rapporto con l’umano sentire, mettendolo in ginocchio per mostrarne
le zone più sinistre, facendolo ardere di passione o elevandolo a uno stato di
grazia. Insomma, permettere un certo grado di conoscenza e non di
intrattenimento — cosa non da poco visto che spesso si vive vacillando e in
continua sete di sapere chi si è, cosa si sta vivendo e cosa ci attende. Una
bellissima conferma di questa ammirevole intelligenza critica, oserei definirla
quasi socratica, Raboni ce la consegna in un articolo uscito su “Il Messaggero”
nel 1987, in risposta a Giorgio Barberi Squarotti:
> «[…] devo confessare che la visione – cui l’intero articolo di Barberi
> Squarotti si ispira – della letteratura universale come un tempio affollato di
> statue armoniose e severe fra i cui piedistalli si agita, oscena e impotente,
> una folla di nani iconoclasti, mi è parsa di una comicità irresistibile. […]
> Decisamente più importante, per me, è opporre alla concezione statica e
> sacrale, che fa da sottofondo all’articolo di Squarotti, una concezione
> dinamica della letteratura secondo la quale ogni giudizio, ogni valore deve
> continuamente tornare in gioco, essere ripensato, rivissuto, sottratto a
> qualsiasi luogo comune e qualsiasi principio di autorità. Si tratta (per
> ricorrere a mia volta a una metafora e rischiare così, lealmente, la mia dose
> di ridicolo) di sostituire all’immagine del tempio ad aria condizionata,
> popolato di statue intoccabili, l’immagine di un luogo aperto e polveroso,
> confuso e cruento, arena o circo o campo di battaglia gremito di presenze
> inquietanti e fraterne. Anche se molti sono morti cento o trecento o mille
> anni fa, a noi non tocca venerarli come statue ma amarli come si amano i vivi.
> Amarli, cioè lottare giorno dopo giorno con loro sapendo che un giorno potrà
> anche succederci di non trovarli, di non capirli, di non amarli più».
È commovente con quanta limpidezza ed efficacia di metafora le parole appena
lette arrivino al punto. Ma a dire di questo inesausto scrutare non è solo la
sua prosa giornalistica o saggistica, sono anche i versi delle sue raccolte a
partire da Gesta Romanorum (1967) ad arrivare a Quare tristis (1998), da un lato
compattati dalla gabbia metrica — soprattutto nelle ultime — dove la tendenza al
verso lungo e libero delle prime opere torna, ma lo slancio viene gestito dal
computo sillabico per frangersi in sonorità nel rispetto della rima, senza però
interrompere la significazione che riprende poi a capo il suo discorso
cominciato come una unica frase, un solo lungo periodo. È a partire da Versi
guerrieri e amorosi (1990), proseguendo poi con Ogni terzo pensiero (1993) e
arrivando a Quare tristis che la ricerca di Raboni si qualifica in tal senso,
tutto per quella brama di assimilare il verso alla prosa che nel poeta di Milano
ha una ragione ben precisa: l’amore viscerale per La Recherche di Proust, da lui
anche tradotta integralmente, e nella quale il francese scrive per periodi
complessi e lunghi anche pagine, tra proposizioni subordinate, subordinate di
subordinate e incisi vari. Valga come esempio un sonetto tratto da Quare
tristis:
“Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare
che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della diaspora – e si desta
allora, non lo senti? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma
un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome”.
D’altro lato, da Gesta Romanorum a Canzonette mortali (1986), i versi sono
lasciati liberi di fluire per unità di senso, dal breve al lungo, dove l’accapo
non è casuale e l’interruzione è data quando il respiro sembra volersi
interrompere, riprendere fiato e ricominciare con intensità nuova e contigua.
Proprio Canzonette mortali rappresenta un unicum all’interno della produzione
letteraria di Giovanni Raboni, è una parentesi che segna un momento di distacco
dai temi cari, il «vero», Milano, la periferia, la morte, una svolta improvvisa
dovuta all’incontro con la giovane Patrizia Valduga avvenuto il 23 gennaio 1981:
una finestra dall’intensissima vitalità erotica in cui la parola non teme di
confrontarsi con temi comunemente considerati volgari – o agiti solo
nell’intimità dei propri letti – perché di quelli, in forza di una ritrovata
adolescenza sessuale o una corrispondenza di amorosi sensi, si nutre, o meglio
da quella forza i termini sono nutriti di nuova linfa: «Mi deliziavo ai tuoi
racconti/ d’amore solitario (“andare in bagno”/ lo chiamavi). Ma avevo un bel
pregarti:/ preferivi il mio cazzo, le mie mani». O ancora: «Nel bar pieno, fra
gente/ giovane che mi guarda e ti saluta,/ il tuo bisbiglio spudorato,/ docile,
rauco: vuoi che te lo succhi?». Non solo un’apparente e sfacciata sconcezza dove
a parlare è il corpo del poeta – i cui antecedenti mi sembra di ravvisare in
alcuni lirici greci, Archiloco e Saffo in primis («Sei giunta, e hai fatto
bene;/ avevo voglia di te./ Hai placato i miei sensi/ che ardevano d’amore»
scriveva Saffo, o Archiloco: «Palpandole tutto il bel corpo allora/ sul suo
biondo pelo/ lasciai venire la mia bianca forza») –, ma anche momenti di
contemplazione pura nei quali a erodere un poco la grazia del momento è, spesso,
il timore dell’abbandono dovuto alla disparità d’età (lui 49 anni, quando si
conoscono, lei appena 28enne), o la consapevolezza di invecchiare per gradi
differenti:
> “Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
> dopo l’altro ti lascio, anima mia.
> Per gelosia di vecchio, per paura
> di perderti – o perché
> avrò smesso di vivere, soltanto.
> Però sto fermo, intanto,
> come sta fermo un ramo
> su cui sta fermo un passero, m’incanto…”
Molto altro sarebbe opportuno dire, ma basti quanto letto ad abbozzare un
ritratto incerto, l’affresco sorgivo di un maestro non da contemplare, per
parafrasare le sue parole, ma da amare come persona viva, in modo imperfetto e
sicuri di non aver ancora detto a riguardo l’ultima parola.
Fabio Barone
Bibliografia:
Bruno Gentili e Carmine Catenacci (a cura di), I poeti del canone lirico nella
Grecia antica, Milano, Feltrinelli Editore, 2010;
Giovanni Raboni, L’opera poetica, collana «I Meridiani», Milano, Mondadori,
2006;
Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema
teatro, Milano, Mondadori, 2019
L'articolo “Fra il niente e il cuore”. Giovanni Raboni, il poeta che lottava per
amore proviene da Pangea.