Fu Arthur Symons, l’insigne studioso dei Simbolisti francesi, il traduttore di
D’Annunzio, l’oppiaceo biografo di William Blake, a foggiare il mito di Ernest
Dowson. I caratteri c’erano tutti, energici: il genio malinconico, una famiglia
sotto l’aura della tragedia, la dissipazione del sé, il disordine erotico e la
morte, troppo giovane, come da maledettismo all’ora del tè, a trentadue anni,
dopo aver abitato a lungo nelle lande del nulla, in una sorta di afasia del
cuore.
L’edizione dei Poems of Ernest Dowson, allestita da Symons a Londra, per John
Lane, pochi anni dopo la morte del poeta, nel 1905, aveva tutti i crismi del
libro ‘generazionale’; diventò la bibbia del decadentismo inglese. Nel
frontespizio campeggiava un ritratto di Dowson firmato da William Rothenstein:
lo sguardo del giovane, sempiterno e allarmato; il corpo spettrale, pronto a
svanire dallo spettacolo del tempo. Il libro era scortato da quattro
illustrazioni di Aubrey Beardsley, lo spiritato artista, il magnetico
illustratore delle opere di Oscar Wilde. Per altro, Wilde, pianse la morte di
Dowson, “povero, meraviglioso ragazzo ferito”: lo inseguì tra i plumbei meandri
della morte. Dowson era morto in febbraio, nel 1900, in circostanze poco chiare;
Wilde finì i suoi giorni, tristemente, quello stesso anno, a Parigi – sfioriva
novembre. Erano amici, Ernest ne idolatrava il prodigioso talento, osava
firmarsi “Dorian” – si era fatto obbligo di costringerlo ai più infimi bordelli
di Parigi. Per sopravvivere, traduceva in inglese Zola e Balzac.
A pagina sette dell’edizione dei Poems, l’apoteosi, la fotografia di Dowson:
abiti eleganti, di stampo eccentrico; lo sguardo fisso nel vuoto, chiuso,
atterrito, di chi è attratto dal vuoto. Abusava di hashish. Era nato in un
sobborgo di Londra nell’agosto del 1867; lo zio, Alfred Domett, poeta di alterno
talento, era stato Primo ministro della Nuova Zelanda. Si diceva della tragedia
familiare: il padre morto di tubercolosi che lui compiva ventisette anni; la
madre lo seguì poco dopo, suicida. Ernest soffriva di bipolarismo: a un
carattere schivo, tenue fino all’essere deciduo, coerente con la poetica,
alternava l’ira, irragionevole, frenata da cupe colpe. Con pochi tratti, Symons
ne intagliò il ‘carattere’, fino a farne il ‘tipo’ di un’epoca:
> “Sempre estraneo a se stesso, morbosamente timido, appesantito da una
> sensibilità anarchica, che lo allentava da ogni obbligo; si rifiutava di
> comunicare con i parenti, che lo avrebbero volentieri aiutato”.
Frequentò Oxford, senza mai laurearsi; amava il music hall, scrisse per il
teatro – The Pierrot of the Minute, ad esempio, “A Dramatic Phantasy” di un
unico atto –, fu amico di Lionel Johnson e di William Butler Yeats. Il grande
poeta irlandese ricordò a lungo “la lettura delle disperate poesie di Dowson in
una taverna di Londra”: nel 1936 antologizzò questo pioniere della “generazione
tragica” nell’Oxford Book of Modern Verse. In quel libro – decisivo per carpire
il crisma della poesia inglese del Novecento – i versi di Dowson seguono quelli
di Yeats.
Intorno alla morte e alla malia del male che attanagliò Dowson, Symons compie un
laccato esercizio di stile:
> “La malattia finì per debilitarlo, lui volle lasciarsi morire di fame. Fu
> trovato da un amico, anche lui indigente, in una bottega: riusciva a malapena
> a tenersi in piedi. Un muratore si prese generosamente cura di lui,
> ospitandolo in una povera casa alla periferia di Catford. Il poeta non sapeva
> che stava morendo, era pieno di progetti per il futuro. La vendita di una
> proprietà, diceva, gli avrebbe consentito 600 sterline e una nuova vita;
> iniziò a leggere Dickens con singolare entusiasmo. L’ultimo giorno della sua
> vita terrena, restò sveglio a chiacchierare fino alle cinque di mattina. Cercò
> di tossire, inutilmente; il cuore smise di battere… Fu artista privo di
> ambizioni, che scriveva per soddisfare i propri gusti esigenti, con un
> atteggiamento di altezzosa umiltà verso un pubblico da cui non si attendeva
> alcun riconoscimento. Morì nell’oscurità, incurante delle sue scritture. Morì
> giovane, sfinito da una vita che non fu mai davvero vita, lasciandoci questi
> pochi versi che hanno il pathos delle cose troppo giovani e troppo fragili per
> invecchiare”.
Poco più che ventenne, si era innamorato di “Missie”, la figlia di un
ristoratore polacco. Lei aveva undici anni, lui la elesse a musa. Quando la
chiese in sposa, cinque anni dopo, lei gli preferì un altro, un sarto. Ernest
Dowson, da allora, volle soltanto la compagnia di prostitute d’ogni sorta: non
aveva l’estro di un Baudelaire, piuttosto, quello di uno che sa ricamare tra
anfratti di nebbia, un pittore di paraventi.
Il volume dei Poems, adatto alle giornate di pioggia, alle brume interiori, da
nascondere dall’avidità di sguardi chiassosi, diventò leggenda. Margaret
Mitchell trasse il titolo del suo maggior libro, Gone with the Wind, da un verso
di Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae, una delle più note poesie di
Dowson. “Lawrence d’Arabia” citò una poesia di Dowson – Impenitentia Ultima –
nei Sette pilastri della saggezza; così fece Jack London, ammaliato da
quell’avventuriero dei mondi paralleli. Le poesie di Dowson hanno ispirato le
canzoni di Morrissey e dei Cure (Dregs, in particolare, è il contrafforte
di Alone).
Le stole della poesia decadente, che appesantiscono i versi, virandoli in
kitsch, in sniffata d’eroina, non ottenebrano la ricerca di Dowson. Il poeta –
forse perché incauto, incurante dell’esito del proprio lavoro – leva tutti i
trucchi, annienta gli orpelli. In lui, anche la disperazione è leggera, un colpo
d’ala l’inquietudine, l’estremo grido pare una falena. In Dowson, cioè, il
pallore di Poe si mescola all’armonia di Orazio – a leggerle troppo forti,
queste poesie rischiano di frantumarsi. Ha testimoniato il Nessundove, ha
mappato il respiro ultimo, l’ultima soglia, il punto in cui il sogno è la
primizia della realtà, il suo più puro bocciolo. Voleva sfracellarsi, Dowson, e
dare a questo umiliarsi una tempra solenne – si convertì al cattolicesimo perché
la sequela avesse il nitore di chi si pavoneggia tra rovine di volti appena
violati, di chi non ha nulla da restituire.
**
Ernest Dowson
(1867-1900)
Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae
Trascorse la notte tra le mie e le sue labbra:
lì tracce d’ombra, Cynara! Mesci il respiro
dalla mia anima, tra baci e vino;
disfatto, distrutto da un’antica passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Per tutta la notte: il tuo cuore rimbomba sul mio
per tutta la notte: il sonno ti dileguò tra le mie braccia
dolci i baci della sua rossa bocca acquistata a buon prezzo;
disfatto, distrutto da un’ancestra passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Tutto ho dimenticato, Cynara! Via col vento
le rose, le rose erose dalla folla,
e ballo, ballo per confinare all’oblio i tuoi pallidi gigli;
disfatto, distrutto da fatale passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Più folle del vino, più forte fu la musica
ma a festa finita si spegne la lampa
e cala, nottola, a notte, la tua ombra, Cynara;
disfatto, distrutto da un’arcana passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
*
Epigramma
Sono un idolatra e ho implorato
con gravi suppliche, con preghiere a unghiate
l’immagine plasmata dai miei sogni
– il suo collo di cigno, i suoi scuri capelli –
ma gli dèi non tollerano culti stranieri: hanno
mutato in marmo il mio idolo, in pietra il suo cuore.
*
Notti in grigio
Vagammo, a tratti, attratti dal sogno,
lungo i sabbiosi greti del Nessundove –
papaveri sbocciano nella sabbia:
li abbiamo colti per gettarli
con noncuranza nel fiume segugio
mentre, mano nella mano, sotto
stelle indigene, vedevamo ogni cosa
su strade inaudite, sotto l’aura dell’ombra.
Poi le stelle si spensero e i papaveri
ci parvero rari – e i tuoi occhi, che erano
tutta la mia luce, si oscurarono: perché
nessuno sospetti che i giorni perduti
ancora mi perseguitano, li ho gettati nel nulla.
*
Crescere
Vidi la gloria della sua infanzia
mutare a mezzadria del dolore:
la bambina che conoscevo, amata
al tempo dei gigli, diventò una donna
enigmatica, dagli occhi chiari – occhi cari
ma diversi da quelli di allora.
Infine, nell’anima maculata di inquietudini
l’antico bene dell’amata infanzia
ritornò, in nuova foggia: adorai
la gloria della sua femminilità
ritrovando l’antica grazia in quegli occhi
abissali, educati al gesto gentile.
*
Spleen
Insonne, di deserto pianto
sonnambuli i ricordi
vidi il fiume farsi lebbra
perdere la pelle fino a sera
fino a sera vidi la pioggia
passeggiare sulle finestre
nessun dolore: mi sfianca
ciò che desidero
le sue labbra, gli occhi
sono l’ombra di un’ombra
finché mangiare il suo cuore
fu l’opera del nulla
pensai di poter piangere
ma i ricordi non mi danno tregua.
*
Vitae summa brevis spem nos vetat incohare longam
Non durano a lungo il pianto e la gioia
l’amore, il desiderio e l’ira:
una volta varcata la soglia
non faranno più parte di noi.
Non durano a lungo i giorni del vino
e delle rose, nebbie fugaci:
il nostro sentiero si scorge a mala pena
per svanire in un sogno.
*
Ruderi
Il fuoco si è spento, non scalda più
(così svanisce ogni umano canto).
Il bronzeo vino è finito, resta il sedimento
amaro come l’assenzio, salace come il dolore.
Il bene e la speranza, insieme all’amore,
sono ora nel tetro teatro delle cose perdute.
Gli spettri non ci danno tregua: questa
era un’amante, quella, forse, un’amica.
Con occhi bianchi, indifesi, sediamo, aspettiamo
che cali il sipario, che il cancello si chiuda:
così svanisce il rudere di ogni umano canto.
*
A una ragazza che fa sciocche domande
Perché ti chiedo scusa, Cloe? Perché la luna
è lontana e io sono costretto a questo angusto astro.
Perché il tuo viso è bello? E se non lo fosse?
Il viso più bello è quello che non ho mai visto.
Perché la terra è fredda e per quanto lo desideri
non trovo una nave che mi porti nella terra di nessuno?
Perché le tue labbra sono rosse e il tuo petto fa vergognare
le nevi? Dove sono diretto non esistono né rosso né neve.
Perché le tue labbra impallidiscono e il tuo petto crolla?
Vedo dove soffia il vento, Cloe, e non devo chiederti scusa.
*
Altrove
Le conseguenze dell’amore!
Credo sia ora, dobbiamo separarci
e razziare il più triste di tutti i raccolti
le conseguenze dell’amore.
Ieri eri dolce, poi cominciò il pianto
una piantagione che non puoi più arginare
ecco la nostra vigna! Baci che raggelano
il cuore, gelide labbra, sguardi in contorsione:
no, non possiamo separarci, eppure
muti, mietiamo ciò che abbiamo seminato,
le conseguenze dell’amore.
*
Impenitentia Ultima
Prima che la luce si spenga per sempre, non vorrei che Dio
mi conceda altri giorni, né che le cose risorgano nel ristagno;
così grido: “Un solo giorno tra i grandi perduti giorni, un solo
volto tra tutti i volti, ti chiedo di farmi vedere prima del nulla
perché, o Dio, sciolto dai Tuoi fiori ho scelto le tristi
rose del mondo: per questo ho i piedi laceri e gli occhi acini accecati
dal sudore, ma al Tuo terribile tribunale, quando questa vuota vita
si concluderà, salderò il mio debito, raccoglierà ciò che ho seminato.
Eppure, una volta che la sabbia è scorsa e il filo d’argento
spezzato, ti prego, concedimi una grazia, concedimi
un’ora tra tutte le ore, un’ora soltanto, e fammi vedere
pari a un sigillo, i suoi occhi sgargianti che piangono”.
Le sue mani mi acquietino, i suoi capelli mi crocefiggano
lontano dall’abisso della notte, fuori dalla porzione della paura,
che i suoi occhi siano la mia guida mentre il sole si spegne
che la sua voce sia l’estremo bocciolo nel cavo delle orecchie.
Prima che le acque trabocchino rovinose, che la vita sia vinta
e che la Tua ira mi fucili come un bimbo che recide un fiore
ti loderò, Signore, dagli Inferi, con le membra dilaniate
per l’ultima visione del suo viso, la breve grazia di un’ora, la garza.
L'articolo “Sono un idolatra. Vagammo, attratti dal sogno”. Ernest Dowson, il
poeta che fu leggenda (e che ha ispirato i Cure) proviene da Pangea.