Istanbul parla dall’angolo appena velato di dolci ricordi. Gabbiani volteggiano
sul Bosforo. A loro i pendolari contemporanei affidano tristezza e pensieri,
mentre i traghetti, silenziosi, fanno la spola tra una sponda e l’altra. All’ora
del tramonto, si rincorrono le invocazioni alla preghiera. I minareti, in quel
momento, sembrano ceri infuocati piantati nel cielo rosato.
In luoghi come questo, prende corpo una parola di origine araba, che dà il nome
alla via forse più nota della città: esteghlal (استقلال). Non solo
“indipendenza”, ma ritmo del destino. L’accordo momentaneo, e perciò miracoloso,
tra il presente e il luogo in cui ci si trova. Un’armonia fragile, segnata dalle
cicatrici del tempo e della storia.
Istanbul è una metafora potente di un sentimento che si avverte e che, al tempo
stesso, sfugge a ogni tentativo di definizione. Il dato lirico vi è
innegabile. Istanbul è poesia. Lo avevano compreso bene gli Ottomani, che la
elessero a loro città-mondo. Quelli che un tempo erano dominatori nomadi delle
steppe seppero addomesticare lo scintillio del Corno d’Oro. Il latrato delle
belve notturne si infranse contro lo sciabordio del Mar di Marmara. I
conquistatori si fermarono, come recita una celebre poesia di Cemal Süreya, nel
cuore esatto della rosa, al confine tra Asia ed Europa. Immensi territori – dal
Maghreb alla penisola arabica, fino al Caucaso – vissero mezzo millennio di
dominazione ottomana. Fiorirono le arti: l’architettura, grazie al genio di
Sinan; la manifattura del tappeto; la miniatura. Sulla letteratura, ancora una
volta, soffiò il vento della Persia. Portò piumaggi e versi d’usignolo, trecce
sciolte all’aroma di muschio, il blu turchese delle maioliche e l’estasi di un
vino mistico.
La letteratura ottomana è, al suo apice, la gemella trascurata di quella
persiana. Vi regna sovrana la poesia, soprattutto nella forma del ghazal, eco di
notti lunari nel deserto, riverbero di un indomito fuoco nomade.
Oggi, chiunque si addentri nei giardini e nei padiglioni affacciati di sbieco
sul Bosforo, nel palazzo di Topkapi, avverte quella sottile atmosfera di corte —
capace insieme di slanci lirici e di improvvise efferatezze — in cui si
muovevano i poeti ottomani.
Eppure, come osserva Walter G. Andrews, autore della preziosa antologia Ottoman
Lyric Poetry, la peculiarità forse più sconcertante di quella produzione è la
sua quasi totale invisibilità presso i posteri: ulteriore prova del ben noto
pregiudizio occidentale verso manifestazioni di bellezza nate in altre
tradizioni culturali. Accostarsi alla letteratura ottomana è allora come aprire
uno scrigno ancora in parte inviolato, o varcare il limite di un luogo oltre il
quale, per consuetudine, non è concesso spingersi.
È difficile, per noi, comprendere quanto centrale e pervasiva fosse la poesia
nella vita quotidiana ottomana. Poeti, o aspiranti tali, fiorivano a ogni
livello della società. Ogni sfumatura dell’interiorità umana – dall’amore alla
ricerca spirituale – trovava forma in un dettato poetico.
Questo ricco e intenso afflato, parte di un movimento più ampio che affonda le
radici nella tradizione arabo-persiana e nel contesto islamico, si irradia verso
le aree limitrofe: a est e a nord, verso l’Asia Centrale e le regioni del
Caucaso; a ovest, verso l’Anatolia e i territori soggetti all’influenza
ottomana. Più tardi, ulteriori esiti di questa fioritura letteraria giungono a
lambire la corte moghul in India e si intrecciano con la cultura urdu, nei
territori dell’attuale Pakistan.
Sorgente e cuore dell’esperienza poetica ottomana è la passione amorosa. Da un
centro ideale, in cui sensualità e spiritualità si uniscono, la poesia si
irradia verso tutte le relazioni duali che implicano il massimo coinvolgimento
emotivo: da un lato, quella che si incarna nella figura del sovrano; dall’altro,
quella che culmina in un cammino di avvicinamento all’unità divina.
In ogni caso, la forza motrice è il desiderio – desiderio indirizzato verso
figure prive di connotazione sessuale.
La poesia ottomana, come quella persiana, è una poesia di “varianti”: non si
chiede al poeta l’originalità del tema, né l’esibizione smodata del proprio io
lirico. Al contrario: poeta è colui che sa esaurire, con grazia estrema, il
repertorio della tradizione. Non è genio chi rompe con la forma codificata, ma
chi la conduce al suo massimo splendore.
L’unica, pallida concessione all’io di chi scrive è nel distico finale, dove il
poeta nomina sé stesso, prima di abbandonarsi, inerme, al vortice del flusso
poetico.
La poesia classica ottomana riprende i modelli della tradizione arabo-persiana.
Sorvoleremo, per ora, sugli aspetti formali del ghazal, della qasida,
dei rubaiyat. Non approfondiremo il meraviglioso impasto lessicale di turco
anatolico, arabo e farsi. Basti soltanto evocare la magia, quasi ipnotica,
dell’alfabeto arabo: lo svolazzo delle lettere a fine parola, i punti, i segni
diacritici – come un lasciapassare per un altro mondo.
Per chi scrive, la poesia ottomana è come una miniatura persiana: un ingresso
discreto in una favola d’altri tempi. Dettagli finissimi, colori brillanti, una
rappresentazione stilizzata – e per questo universale – di figure umane,
animali, paesaggi.
La grana della vita che si fa sogno, e viceversa: il tramonto che si spegne
dietro ai minareti, le fontane col loro sommesso zampillo, una lingua che
accarezza il cuore e i sensi come un mantello di seta dorata. (Lorenzo Giacinto)
**
Nejâtî
Di lui si conosce assai poco: si tramanda ch’egli sia nato verso la metà del
Quattrocento, con ogni verosimiglianza in Tracia. Il suo nom de plume – “colui
che trova riparo” – suona come un voto di resa fiduciosa al verbo poetico, quasi
che la poesia fosse per lui asilo dell’anima. Oscure restano le circostanze del
suo giungere a Istanbul, dove pure ebbe modo di declamare i propri versi dinanzi
a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. Narra il suo biografo che,
prossimo al trapasso, Nejâtîchiamò a sé gli amici più intimi e consegnò loro un
ghazal, mormorando con l’ultimo filo di voce:
“Questo è il mio commiato a voi e alla poesia.”
Il cuore si rallegra se la tua guancia, luce, si vela d’amore –
quando la luna si oscura, s’innalza il sole del ladro d’amore.
Che fai, amata mia, a inseguire la steppa nuda e crudele?
Là il tuo sguardo diventa furtivo, e il tuo occhio fugge per amore.
Se resta sul suolo la polvere dei tuoi passi,
dire “Paradiso” è cosa vana: basterebbe un sorso d’amore.
Da che son divenuto amante, m’alimento soltanto di pena:
chi arde di febbre cerca cibo remoto, nutrimento d’amore.
Cammino nel tuo nome gridando ‘ya Hû!’ fra le spine,
sperando che tu ti volga e mi doni lo sguardo dell’amore.
Il vento d’oriente ha narrato al muschio del tuo riccio profumato:
“Perché andare lontano, se già qui respiri essenza d’amore?”
Non chiamarmi folle se non ascolto ragione o consiglio:
il vero saggio è colui che si perde nel fuoco dell’amore.
Oh cuore, come potresti trovare pace o riposo?
Con lei perdo i sensi, senza lei è a rischio la vita.
Chi inviterà mai più Nejâtî alla festa degli amici,
ora che l’amata ha detto: “Non vengo, se c’è lui con l’amore”?
*
Zeyneb Hatun
Fu la prima grande voce poetica femminile dell’Impero ottomano. Nacque in
Anatolia agli inizi del Quattrocento e sin da giovanissima si distinse per
finezza d’animo e precoce talento letterario. Colpito dalle sue doti, il padre
la avviò allo studio della raffinata tradizione arabo-persiana. Intessé un
rapporto d’amicizia con Mihrî e altri celebri poeti dell’epoca, con i quali
intratteneva un assiduo carteggio fatto di versi e lunghe epistole. Di lei si
scrisse: “Il suo fascino intellettuale, spontaneo e luminoso, incantava il
popolo e lasciava attoniti anche gli spiriti più acuti del tempo.”
Togliti il velo, illumina la terra e il cielo,
fa’ che questo mondo di elementi risplenda
più d’ogni paradiso.
Quando le tue labbra si muovono,
i fiumi del giardino celeste
cominciano a ribollire.
Sciogli i tuoi ricci profumati d’ambra,
che il mondo intero si colmi
del loro incanto.
La lanugine scura sulla tua guancia
ha scritto un editto regale
al vento d’oriente:
“Corri, vola fino a Cathay,
e conquista tutta la Cina
con la tua dolce fragranza!”
Oh cuore mio, l’acqua della vita
non ti è destinata –
né, ahimè, il bacio dell’amato.
Anche se attendessi mille anni,
brancolando come Alessandro il Grande
nelle tenebre, non lo troveresti.
Oh Zeynep, va’ con passo semplice,
con coraggio –
rinuncia agli ornamenti.
Abbandona l’amore
per questo mondo finto,
mascherato di bellezza.
*
Fuzuli
È annoverato tra i massimi lirici della tradizione ottomana. Scrisse in arabo,
in persiano e in turco, nella variante azera, a testimonianza della sua
straordinaria versatilità linguistica. Nacque nei pressi di Baghdad, all’interno
di una famiglia illustre che gli garantì un’educazione raffinata e cosmopolita.
Eppure, nonostante il talento riconosciuto, non riuscì ad accedere alle alte
cariche di corte, spesso riservate a poeti di minor ingegno ma maggior favore.
Il suo nom de plume, singolare e provocatorio, significa “irriverente”,
“inappropriato” – ma anche “dotato di molte abilità”: segno di un’autoironia
consapevole, propria di chi desiderava distinguersi con discrezione, restando
umile e al contempo unico.
Se il mio cuore fosse un uccello selvatico,
farebbe nido nel riccio intrecciato dei tuoi capelli.
Ovunque io sia, o jinn,
il mio amore dimora accanto a te.
Sono felice del mio patire:
toglimi la mano dal rimedio che potrebbe guarirmi.
O medico, non cercare di salvarmi:
il veleno che mi consuma è la tua vera cura.
Non ritirare con timidezza il lembo
dalle mani di chi ama: fa’ attenzione —
perché le mani che sfiorano la tua veste,
se vuotate d’improvviso, pregherebbero con furore il cielo.
Le schegge del mio cuore frantumato
giacciono trafitte dalle punte di lancia delle tue ciglia.
Addormentati, ebbra della tua bellezza,
e chiudendo gli occhi ricuci il mio cuore.
Separarmi da te è morire,
è la fine stessa della vita.
Mi stupiscono coloro che vivono a lungo
lontani da te, senza impazzire.
Lo stoppino del tuo spirito è attorcigliato
come il riccio di giacinto dell’amata.
E tu, Fuzuli, non sperare di liberarti —
finché non brucerai, come candela, nel fuoco dell’amore.
*
Bâkî
Nacque a Costantinopoli agli inizi del Cinquecento. Dotato di ingegno vivissimo
e di un’acuta intelligenza, seppe affermarsi rapidamente nel mondo delle
lettere, nonostante le sue origini modeste. Fu tra i poeti prediletti di
Solimano il Magnifico, che ne riconobbe il valore e lo insignì di prestigiose
cariche a corte. Alla morte del sultano, ne cantò la memoria in un’elegia che
rimane tra le vette insuperate della poesia turca. È considerato da molti il più
grande esponente della lirica ottomana, tanto da essere celebrato come “il
sultano dei poeti”. E forse non è un caso che il vertice di quella luminosa
tradizione sia stato raggiunto proprio da un figlio del Bosforo.
Mia amata, sin dall’inizio
siamo schiavi del re dell’amore.
Mia amata, siamo il sultano celebrato
nel dominio segreto del cuore.
Siamo come papaveri di questa steppa,
col cuore bruciato, annerito dal dolore.
Mia amata, sii nube generosa —
non negare l’acqua al cuore assetato.
Il destino, scorgendo in noi un gioiello,
ha squarciato il nostro petto.
Mia amata, ha lasciato il corpo sanguinante,
privato della conoscenza ardente dell’amore.
Non lasciare che la polvere del dolore
intorbidi la fonte della tua anima.
Mia amata, è per noi che i volti splendono
con orgoglio sulle terre ottomane.
I versi di Bâkî circolano nel mondo
come coppa colma alla festa degli amici.
Mia amata, siamo la coppa e il coppiere
di quest’epoca che gira come un astro.
*
Nâbî
Poeta della fine del Seicento, Nâbî rappresenta una delle voci più originali
della poesia ottomana classica. Nato a Urfa e attivo a Istanbul, fu testimone di
un’epoca di decadenza politica e morale. I suoi versi si distinguono per un tono
ironico e disincantato, che spesso smaschera le vanità del potere e gli inganni
del desiderio. La sua poesia assume talvolta un tono satirico, talvolta
elegiaco, ma sempre guidata da una lucida visione etica. In Nâbî, il ghazal si
fa riflessione sul senso della vita e sulla fragilità delle ambizioni umane.
Nel giardino del tempo e del destino
abbiamo visto insieme
l’autunno e la primavera;
abbiamo attraversato
il tempo della gioia
e quello del dolore.
Non vantar troppo il tuo orgoglio:
nella taverna della buona sorte
abbiamo incrociato mille ubriachi,
inebriati della propria vanità.
Abbiamo ammirato innumerevoli fortezze di pietra,
innalzate nella terra della fama mondana,
eppure nessuna ha retto
al fragore esploso di un cuore spezzato.
Abbiamo visto un diluvio di lacrime
scaturire dal popolo afflitto,
e con un ruggito abbiamo assistito
al diluvio che sommerse dimore e destini.
Abbiamo incrociato innumerevoli cavalieri rapidi,
in questo campo di battaglia,
a cui resta come unico tesoro
la freccia letale del sospiro d’amore.
Abbiamo incontrato molti orgogliosi,
vestiti di alte cariche,
che un giorno attenderanno, a mani giunte,
alla soglia degli altri.
O Nâbî, abbiamo ammirato tanti bevitori,
alla festa della vita,
che han barattato la coppa colma dei loro desideri
per la ciotola di un mendicante.
*Le traduzioni sono di Lorenzo Giacinto
In copertina: il sigillo di Solimano il Magnifico
L'articolo “Nel giardino del tempo e del destino”. Breve viaggio nella poesia
classica ottomana proviene da Pangea.