Ognuno di noi serba nell’animo il ricordo di una lettura folgorante, un libro
che ha segnato tutta una vita, confermato il presagio di una vocazione e
illuminato la possibile traiettoria di un’esistenza. Un libro totem, un libro
talismano – fatto per essere conservato come un amuleto o da indossare come
un’armatura contro gli agguati del tempo, un orizzonte di privata salvezza in
fondo alle nostre piccole e grandi apocalissi.
La mia copia dei Sonetti di Shakespeare, nella versione in prosa di Lucifero
Darchini, risale ormai a più di venti anni fa. L’avevo comprata, se la memoria
non m’inganna, durante le vacanze estive tra il secondo e il terzo anno di
liceo. Mi aveva sedotto la copertina color blu cobalto con al centro un piccolo
ritratto del poeta inglese, la famosa incisione di Martin Droeshout. Una
copertina senza orpelli, piuttosto minimalista. Tante volte mi sono interrogato,
nel corso degli anni, sulle ragioni che fanno dei Sonetti un’opera per me
totalmente invulnerabile all’usura del tempo, del dolore e degli affetti. Ora, a
distanza di due decenni, quel blu si è schiarito, le pagine si sono
irrimediabilmente ingiallite. Resiste quell’odore inconfondibile e familiare dei
libri che abbiamo portato in giro per il mondo, pieni di note e piccole
illuminazioni scritte alla luce fievole di un abat-jour. Persiste anche,
inalterabile, quella voglia di serrare il libro al petto, come si fa con le
persone più care. Forse, è questa la migliore risposta alle mie domande.
*
Sugli interlocutori dei sonetti, sulla datazione, così come sulle misteriose
vicende della pubblicazione, sono stati scritti e si continuano a scrivere fiumi
d’inchiostro. Poco importa, in fondo, dare un nome e un cognome al “fair youth”,
alla “dark lady” e al “rival poet”. Qualcuno ha scritto che in questi versi
Shakespeare ha messo a nudo il suo cuore. Che in quei 14 pentametri giambici
disposti in tre quartine in rima alternata più un distico finale in rima
baciata, il poeta abbia voluto drammatizzare le tensioni più intime del suo
poetico sentire. Per me, i Sonetti coincidono da sempre con la meridiana che
segna il mezzogiorno della Poesia.
*
Cerco di indagare le ragioni del senso di meraviglia che i 154 sonetti
sprigionano. Da cosa deriva il loro fascino irresistibile? Con quale lingua mi
parlano, accarezzando il dolce mistero della poesia, aggirando le mie
arrendevoli difese?
Forse – mi dico – il motivo è nell’intreccio tra la sfera del privato e
dell’eterno, inscritta cioè nell’orizzonte delle umane passioni. O forse la
ragione si trova nell’unione tra l’universale e il particolare – cioè
l’irripetibile, o nella commistione miracolosa e al tempo stesso naturale tra il
solenne e il sublime ordinario. Qualsiasi cosa sia, so che ad incantarmi è la
drammatizzazione del discorso lirico, in cui sempre il dettato oscilla tra la
prima, la seconda e la terza persona singolari. È già qualcosa, ma non basta
ancora. Provo a mettere a fuoco, quanto basta per vedere più da vicino il
mistero, ma senza correre il rischio di svelarlo. I Sonetti – una bussola con
l’ago magnetico rivolto verso il Nord della poesia. Il che vuol dire nutrire in
sé la perenne convinzione che quel libro attraverserà tempeste e schiarite della
giovinezza, l’ingannevole saggezza della maturità, le vaste distanze marine e
aeree, le possenti montagne dove mulina la neve, nel regno delle nubi.
*
I Sonetti compaiono per la prima volta nel 1609, mentre a Londra infuria la
peste. Quasi tre secoli e mezzo dopo, un altro tipo di piaga affligge l’Europa e
il mondo intero – la Seconda Guerra Mondiale. In una Roma che inizia a patire i
primi bombardamenti, esce a cavallo tra il 1943 e il ’44, a firma di Giuseppe
Ungaretti, la traduzione di 22 sonetti in 498 esemplari di lusso. S’era già
cimentato, il sommo poeta italiano, nella traduzione di diversi poeti – diversi
per indole, lingua e cultura – come Gongora, Esenin, Saint-John Perse, Blake e
Paulhan. Ma è proprio il corpo a corpo con il poeta inglese, durato quasi
quindici lunghi anni, a rivestire un’importanza decisiva nella vita e nell’opera
ungarettiana. Ce lo dice il poeta stesso nella breve e fulminante nota
introduttiva alla sua traduzione. Ungaretti inizia ad accostarsi ai versi di
Shakespeare nel 1931. Lo assale, in quegli anni, un’esigenza profonda di
rinnovamento formale, che s’accompagna a un inaridimento dell’ispirazione.
Ungaretti sognava una poesia
> “dove la segretezza dell’animo, non tradita né falsata negli impulsi, si
> conciliasse a un’estrema sapienza del discorso”.
Desiderava quindi, il sommo poeta italiano, pervenire a un miracoloso equilibrio
grazie a una lingua alleata ad un tempo con l’arcano e il popolare. Accogliere
la rotonda inquietudine del Petrarca e l’angolosa asprezza dei versi
michelangioleschi. Rinvenire, scegliendo le parole, quelle in grado di
sollecitare lo spirito e i suoi moti, al di là delle leggi della prosodia. Di
nuova linfa aveva bisogno Ungaretti, per volgersi di nuovo con sguardo fiducioso
verso la poesia. Un vento proveniente da altro quadrante doveva gonfiare le sue
vele, tirando fuori l’ispirazione dalla secca in cui era finita. Cosa spinge
allora Ungaretti verso il canzoniere di Shakespeare? Perché la scelta, da poeta
a poeta, cade proprio sul bardo inglese?
*
La lunga gestazione della traduzione dei Sonetti è da collocare in un decennio
decisivo per Ungaretti. La morte della madre, una crisi mistica che sfocia nella
conversione religiosa, la pubblicazione nel 1933 della raccolta Sentimento del
tempo, la scomparsa durissima del figlio di appena nove anni nel 1939, portano
il poeta a confrontarsi direttamente con il senso della finitudine umana e del
dolore gratuito. E proprio l’intensa meditazione sulla morte e su come opporvisi
costituisce uno degli accenti più vibranti dei versi di Shakespeare. Solo la
poesia – giusta essenziale e retta –, per dirla con Elitis, può valere come
argine contro la morte. Solo quel miracolo nato in mezzo all’Egeo, più di due
millenni fa, è in grado di sgambettare la furiosa corsa del tempo verso l’oblio
eterno. Poco importa se il tema è un topos letterario inaugurato da Orazio.
Nei Sonetti, non avverti la maniera, l’esercizio freddo in ossequio al canone.
L’io lirico riesce, sempre e comunque, a soffiar vita dentro i versi. Lo stesso
si dica per l’amore. Cantato in tutte le sue gradazioni, dall’ammirazione alla
procreazione, dalla gelosia alla sete di immortalità, l’amore evocato da
Shakespeare è un amore nel quale senti il grido trasferirsi dal privato
all’universale, “pieno d’echi di popolo, urlo”. Ecco “il diretto, il segreto
contatto” che Ungaretti sentiva verso il poeta inglese, ancor prima di mettersi
a tradurre i Sonetti. Nel sovrapporsi di figure diverse, nel colloquio
incessante e drammatico tra intime e condivise passioni, noi siamo, rispetto
ai Sonetti,spettatori ammirati, e Ungaretti insieme a noi. Uomo di teatro e per
il teatro, Shakespeare riesce a proiettare anche tra quelle rime il palcoscenico
dove si esibiscono le vaste esperienze umane. E tuttavia, anche nelle
composizioni che si aprono al tepore di una primavera d’ispirazione, financo
nello sbocciare armonioso e meridiano delle immagini e dei temi, senti la
vibrazione tellurica di un mistero che è il nucleo stesso della grande poesia.
Scrive Ungaretti nella nota introduttiva, e la citazione è di quelle che non
lasciano spazio a repliche:
> “Non esisterà mai poesia che non rechi in sé, traendone vita, un segreto
> inviolabile”.
Pare quasi di sentirlo parlare in una delle sue interviste, Ungà, con quel tono
di voce cantilenante e magnetico – ogni frase cade come un meteorite di
amorevole saggezza. Lo sguardo dolce, che lascia intuire tutto il dolore
vissuto, ma trasfigurato ormai in qualcos’altro – una vaga serena docile
consapevolezza. Quell’aria un po’esotica che sa di adolescenza e pleniluni
africani, quel suo abitare la poesia con la giustezza di una vita interamente
dedicata, senza compromessi, ai versi. Poesia come vocazione, poesia come
destino. Che viaggi allora nel tempo, Ungaretti, con la speranza
dell’immortalità, insieme alla sua traduzione del sonetto 55 di William
Shakespeare:
“Non il marmo, né gli aurei monumenti
Di principi, potranno alla potenza delle mie rime sopravvivere;
Ed in esse voi contenuto, splenderete più splendido
Che non nella negletta pietra, dal sozzo tempo deturpata.
Quando la guerra che devasta rovescerà le statue
E le fazioni scalzeranno il lavoro di muratura,
Non la sua spada Marte offenderà, né incendio di battaglie
I vivi archivi del ricordo vostro.
Contro ogni morte e ogni obliosa nimicizia
Non si arresterà il vostro passo, ed avrà stanza il vostro elogio
In tutti gli occhi di quante generazioni postere
Avranno questo mondo da esaurire per l’ultimo giudizio.
Così sino allo squillo che vi farà risorgere,
Quaggiù vivrete e abiterete in sguardi innamorati”.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Giuseppe Ungaretti. © Archivio Fotografico Paolo Di Paolo
L'articolo “Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione
di Giuseppe Ungaretti proviene da Pangea.
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Quando scrive Lapislazzuli – siamo nel 1936 – William B. Yeats avverte forse già
l’approssimarsi della fine. La poesia, tra le più alte mai composte dal bardo
irlandese, è un mirabile esempio di ecfrasi in versi. È dedicata all’amico Harry
Clifton, che gli aveva donato un cammeo di lapislazzuli di ispirazione
orientale. Nelle ultime due lasse, tre pellegrini cinesi attraversano terre
remote e valichi innevati. Sono in cammino verso una meta misteriosa, che
concederà loro una tregua dagli affanni del viaggio. Sospesi tra montagne e
fiumi – come nelle pitture classiche di Wu Daozi – le tre enigmatiche figure
giungono infine alla lora provvisoria destinazione, dove rami di susino e di
ciliegio conferiscono all’atmosfera un tono di calda, soffusa intimità. Nel
“piccolo rifugio”, i tre contemplano il maestoso paesaggio che si apre dinanzi a
loro. Avvolti da una coltre di acuta malinconia, chiedono che siano eseguite
struggenti melodie. I volti sono solcati da profonde rughe; e tuttavia, dai loro
occhi rimasti invulnerabili alle apocalissi della vita, balugina una luce di
splendente letizia.
*
Il gusto della ricerca biografica ci autorizza a evocare le coincidenze. W.B.
Yeats muore nel 1939 in Francia. In quello stesso anno, Auden finisce di
scrivere Another Time, una delle raccolte poetiche più belle e significative del
Novecento. La notizia della scomparsa di Yeats raggiunge Auden durante il suo
soggiorno a New York. Di getto, il poeta inglese scrive quella dolente elegia
che è In memoria di W.B. Yeats. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, in un
piovoso giorno di primavera irlandese, nasce nello stesso fatidico anno Seamus
Heaney. Yeats si spegne alla vigilia della guerra: la sua morte, secondo Auden,
è un cupo presagio della strage che incombe. Il poeta inglese si rivela presto,
suo malgrado, buon profeta.
*
Nella notte del pensiero e degli allarmi aerei, vale come unico argine possibile
il poeta-palombaro: colui che sprofonda per raggiungere il cuore del male, fino
a neutralizzarlo e a redimerci dalla condanna della pena. Ci salva il verso, non
la bellezza: il verso che è coscienza ed espressione del dolore. Il dettato
poetico trasfigura la miseria in canto, apre vie d’uscita all’uomo prigioniero
dei suoi giorni, trasforma la terra devastata in vigna. Ecco la poesia che
sopravvive attraverso
> “un modo di accadere, una bocca”
*
Quanto equivale a dire che scrivere versi è assoggettarsi a una forma d’amore.
Lo spiega in modo folgorante Brodskij nella sua indimenticabile elegia in
prosa Per compiacere un’ombra, altissimo omaggio al suo amato poeta inglese.
L’incontro decisivo con Auden avviene mentre Brodskij sconta una condanna in uno
sperduto villaggio ai confini del Circolo Polare Artico. In quel luogo così
refrattario all’umano, dominato da paludi e cupe foreste, Brodskij riesce
fortunosamente a farsi spedire un’antologia in inglese. Per puro caso, il libro
si apre con una poesia di Auden – In memoria di W.B. Yeats. La lettura di
quell’elegia è, per il giovane russo, decisiva. Nel dettato lirico del poeta
inglese, si compie il miracolo del tempo piegato e asservito al linguaggio. Come
a dire: i versi sono come raffiche di vento che soffiano sui bastoncini dello
Shanghai – “il tempo:
> “Time worships language”
Nella poesia di Auden, si passa senza soluzione di continuità da versi che, da
orizzontali, diventano incredibilmente verticali, viaggiando dalla metafisica al
motto di spirito, dalla filastrocca alla scintilla lirica. Al di sopra di tutto,
al di là della voce inconfondibile di Auden, affiora l’immagine riflessa del suo
viso: le indimenticabili rughe della vecchiaia, le proporzioni un po’ sgraziate
del naso e delle orecchie – che ne avrebbero fatto un perfetto candidato per un
film di David Lynch –, l’amorevole saggezza ironica degli occhi che sembrano
perdonare le storture del mondo.
*
Un uomo – dice Brodskij – è la somma di ciò che legge. In parole più semplici:
si è trasformati da quello che si ama. In quel villaggio artico assente anche
dalle mappe geografiche, ciò che colpisce Brodskij, ciò che s’impone alla sua
immaginazione, è
> “amore dilatato e accelerato dal linguaggio, dalla necessità di esprimerlo”.
Il che conduce a un’altra rivelazione: i sentimenti di uno scrittore o di un
poeta si subordinano inevitabilmente alla lineare e incontenibile progressione
dell’arte. Certo, Auden aveva conosciuto la sofferenza sotto varie forme:
delusioni amorose, la coscienza di una sessualità tormentata, l’autoesilio
imposto per sfuggire all’opprimente establishment letterario britannico, la
disillusione politica. Eppure, i suoi versi sprigionano sempre amore, un amore
immemore, come la lingua inglese, del genere maschile e femminile. Forse, più
che di amore, sarebbe più giusto dire che la poesia di Auden è un acceleratore
formidabile di tenerezza, di umana morbida dolcezza.
*
Con un balzo nel tempo e nello spazio, passiamo il testimone a un altro grande
poeta irlandese: Seamus Heaney. Audenesque, una delle sue ultime poesie, è
dedicata all’amico russo da poco scomparso, Iosif Brodskij. Esiste un omaggio
più commovente, per un poeta, che accostare l’amico scomparso agli autori più
amati in vita? Perché, come i bambini che uniscono i puntini nei giochi
enigmistici, se tracciamo una linea immaginaria tra i versi che abbiamo più
amato, alla fine l’immagine che ne affiora è la nostra: riflessa, come
nell’ovale di uno specchio. Non è difficile, allora, confondere i ricordi di una
conversazione su un treno lanciato nella tundra finlandese con i versi di Auden,
e prima ancora con quelli di Yeats. Non è difficile ritrovarsi, nel freddo di un
aeroporto di Dublino, a pensare a tutti i versi scritti – e a quelli soltanto
sognati, che qualcun altro, forse, ha scritto al posto nostro. Anche nella
regione della morte, tuttavia, la poesia può accendere scintille di futuro.
*
Yeats. Auden. Brodskij. Heaney. Cosa unisce questi quattro grandi poeti? Quanto,
nel loro dettato, è riflesso e ombra dell’amore che li legava ad altri
maestri? La poesia è anche cavalleresca espressione di amicizia, segno di
profonda dedizione verso una “famiglia mentale”, per citare ancora una volta la
magnifica intuizione di Brodskij. Viene in mente il sonetto forse più bello mai
scritto sull’amicizia poetica: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, di Dante
Alighieri. Quale filo li lega? Forse il senso di una vocazione maturata tra i
rovesci della storia; la costante, sofferta oscillazione tra isolamento e
rielaborazione degli eventi sullo sfondo? Soprattutto, il tentativo di superare
l’autoreferenzialità attraverso l’incontro con altre vite – di spezzare il
cerchio della solitudine aprendo la porta al vento della generosità e
dell’altruismo. Ecco perché i viaggiatori cinesi della poesia di Yeats sembrano
sostare, come i nostri poeti alla fine di un lungo viaggio, presso la fonte
stessa della loro ispirazione.
*
In una poesia di Auden, una delle più belle, si dice che da qualche parte viva
un bambino atterrito e pieno d’immaginazione. Lui sa, contro tutto e tutti, di
essere il futuro; e comprende che solo i docili avranno in eredità la
terra. Quel bambino non attira l’attenzione, né è particolarmente fortunato. Nel
tumulto del mondo, tra leggi disumane e regole ingiuste, il suo pianto sale
verso la vita del poeta – e la nostra – come una vocazione.
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats,
Auden, Brodskij e Heaney proviene da Pangea.
Non sono molte le fotografie in cui Joyce guarda dritto di fronte a sé. Quasi
sempre si offre di profilo, in una posa a tre quarti che ricorda i ritratti
rinascimentali. Lo sguardo vaga verso misteriose zone del pensiero. Ne nasce
l’impressione di trovarsi davanti a un predone del futuro, un contrabbandiere
d’infinito. Chi osserva ne riceve una scossa segreta. Joyce è un campione
d’eleganza: veste sempre in modo impeccabile, con cravatte raffinate sulle
camicie inamidate, talvolta un papillon più svolazzante, la bombetta calata sul
capo da cui, con timidezza combattuta, spuntano orecchie appena a sventola.
Non fosse per la sua graduale cecità – negli ultimi anni era costretto a
indossare una benda nera sull’occhio sinistro, da pirata – nel mio bestiario
affettivo di scrittori e poeti Joyce sarebbe un falco. Come un rapace, irrompe
nel cielo squarciando il velo del presente, lanciato in una forsennata ricerca
del futuro. Meglio allora accostarlo a un rapace notturno, un barbagianni capace
di volteggiare silenziosamente nelle tenebre. Nell’antichità gli àuguri
scrutavano gli uccelli per cogliervi presagi divini: il futuro si rivelava
attraverso la direzione e la provenienza del volo. Allo stesso modo, leggere
Joyce è presagio di futuro: lo schiudersi delle infinite possibilità del reale
nell’orizzonte della vita.
D’altronde, in un passo magnifico del suo Ritratto, libro-amuleto da tenere
sempre in tasca contro le trappole della maturità, Joyce affida a Dedalus queste
parole:
> “…e per secoli gli uomini hanno guardato in alto come lui ora guardava gli
> uccelli in volo. Il porticato sopra di lui gli ricordava vagamente un tempio
> antico e il bastone al quale si appoggiava stancamente gli ricordava quello
> ricurvo di un augure.”
Poche pagine prima di questa epifania, dall’avamposto di Howth, Dedalus
contempla la spuma proteiforme delle nuvole che solcano il mutevole cielo
irlandese. Sono in viaggio verso il Continente, verso quell’Europa misteriosa
fatta di idiomi stranieri, valli e cittadelle cinte di boschi, da cui sembra
levarsi una musica confusa, prefigurazione dell’esilio di Joyce. Da qui inizia
una delle più grandi e radicali avventure creative dei nostri tempi, che non ha
ancora esaurito – e forse non esaurirà mai – la sua dirompente carica
rivoluzionaria.
Grandi, anche grandissimi scrittori, una volta letti danno l’impressione di aver
detto fino in fondo ciò che avevano da dire. Con Joyce, questo non accade: la
partita resta sempre aperta. Negli anni Venti del Novecento, Arthur Power, un
altro dublinese trapiantato in Francia, lo incontra per caso al Bal Bullier di
Parigi. Nasce così un rapporto d’amicizia destinato a durare oltre un
decennio. Power ne ha lasciato testimonianza in Conversations with Joyce,
apparso nel 1974 e oggi introvabile in italiano. In un passaggio del libro,
parlando di John Donne e degli elisabettiani, Joyce finisce in realtà per
tracciare uno dei ritratti più luminosi di sé stesso e della propria poetica.
> “Con Donne si entra in un labirinto di pensiero e sentimento. Ogni sua poesia
> è un’avventura nella quale non sai dove andrai a finire, che è esattamente
> quello che dovrebbe essere un’opera d’arte. Quando vivi non sai dove ti
> condurrà esattamente un’esperienza, e così con la letteratura. È proprio
> questo che la rende così folgorante”.
Si è detto che il Dedalus è la testimonianza di una precoce formazione
intellettuale. Senza dubbio, ma c’è molto di più. Forse, solo nelle pagine
conclusive de Il dono di Nabokov, si avverte con uguale intensità l’emozione di
un’energia creativa pienamente cosciente di sé stessa, pronta a spiccare il volo
verso un orizzonte sconfinato. Da quelle scogliere di Howth, che in primavera si
ricoprono di fiori di campo, si leva il grido interiore di un giovane che vuole
essere il primo artista sulla terra. Attraverso “silenzio, esilio e astuzia”, un
ragazzo di neanche vent’anni diventerà il più grande demiurgo della parola.
Tra i lungosenna di Parigi, le piazze triestine percorse dalla Bora e i vicoli
dell’incompresa Roma si compirà una memorabile parabola esistenziale e
letteraria, alla fine della quale la paura dell’ignoto si trasformerà nella
tavoletta su cui Thoth, il dio degli artisti, scrive con una canna di palude,
reggendo sulla stretta testa di ibis la luna falcata. L’etimologia della parola
“avventura”, d’altronde, ci insegna che lo spostamento nello spazio coincide
anche con quello nel tempo.
E nella curva di un’emozione – come l’ha definita Franca Cavagnoli – trova
spazio anche l’amore. Alla fine del quarto capitolo del Ritratto, l’apparizione
di una ragazza sola e immobile nell’acqua suscita in Dedalus una vera epifania,
decisiva per la coscienza della sua vocazione. Il giovane scrive versi, versi
d’amore. Rievoca un colloquio sommesso con Emma a bordo di un tram, nella notte
limpida e ricca di promesse. I capelli della ragazza profumano di pioggia. Il
suo corpo emana un odore selvatico e languido, distilla afrori e rugiada.
In Stephen Hero, altra incantevole primizia joyciana, la lettura della Vita
Nuova di Dante suggerisce al protagonista di comporre una raccolta di versi
d’amore. Non c’è posto per l’avarizia del cuore: in amore – dice Daedalus – si
deve dare tutto. La creazione si fonde con la biografia. Il primo libro di Joyce
appare nel 1907 – Music Chamber –, una raccolta di trentasei poesie di
ispirazione amorosa. “Go seek her out all courteously”, recita il primo verso di
una lirica che ricorda la fiera e appassionata ritrosia di Guido Cavalcanti.
Un 6 aprile di inizio Novecento, nel suo diario esplosivo, Dedalus-Joyce scrive:
> “Desidero stringere tra le braccia la grazia che non è ancora venuta al mondo”
Parole che potrebbero stare a epigrafe dell’intera opera joyciana. Esiste una
definizione più esatta della giovinezza, o un antidoto migliore alla senescenza
interiore?
Joyce ci salva, come ha scritto Borges nella chiusa della bellissima Invocazione
a Joyce.
> “Io sono gli altri. Tutti coloro
> Che il tuo ostinato rigore ha riscattato
> Sono coloro che non conosci e salvi.”
Proviamo allora a misurare insieme al grande argentino la vastità dell’opera
joyciana: la dispersione e l’esilio nel mondo, il battesimo delle parole – di
ogni parola – per riscrivere la Genesi verbale del creato, cercare l’ispirazione
nei declivi e nelle feritoie della vita, rigenerare le consuetudini dell’uomo
affinché dall’umile esercizio del quotidiano affiorino frammenti di meraviglia.
Soprattutto, riscaldarci al fuoco ardente della sua fede, trattenere almeno un
poco l’oro della sua ombra e gli attimi sparuti di felicità, addestrarci a
inseguire la fiera biforme o la rosa nei dedali della memoria e delle città,
aggrapparci ai nostri talismani esercitando l’arte del coraggio.
Un altro grande irlandese, Seamus Heaney, nel dodicesimo frammento di Station
Island, si lascia visitare dal fantasma di Joyce. L’incontro avviene in un
paesaggio di impronta dantesca: non a caso l’autore di Ulisse assume quasi le
sembianze di Virgilio, diventando a sua volta “duca, signore e maestro”. Joyce
raggiunge una statura shakespeariana: la sua voce, dal timbro liquido, sembra
racchiudere in sé le vocali di tutti i fiumi. Avanza con passo solenne, tastando
il terreno con il bastone di frassino. Poi prende a parlare, e dalle pagine di
Heaney ci raggiungono versi memorabili:
> “Il tuo dovere
> non viene assolto da nessun rito comune.
> Quello che fai lo devi fare da solo.
> L’essenziale è scrivere
> per la gioia di farlo. Coltiva la brama del lavoro
> che immagina il suo porto come le tue mani di notte
> sognano il sole nella macchia solare di un seno.
> Ora tu sei digiuno, stordito, pericoloso.
> Parti da qui. E non esser così zelante,
> così pronto al saio e alle ceneri.
> Lasciati andare, buttati, dimentica.
> Hai ascoltato abbastanza. Ora suona la tua nota”.
Poco importa che Joyce appaia illuminato dalla sensibilità di un grande poeta.
Ciò che resta è l’esuberanza, la gioia, la fiera gagliardia. Sposare
l’ispirazione al fuoco che arde nel petto e tra le mani. Scrivere come si ama:
percorrere il corpo di una donna come le strade del mondo. Assecondare il
vortice, le maree, la corrente che travolge. Dare voce a “scandagli sonori,
esplorazioni, sonde, allettamenti, luccichi d’anguilla nel buio del mare
aperto”. Scalpare il già detto, smettere una volta per tutte di rimestare fuochi
spenti, rimasticare vecchi mugugni. Quando Joyce si allontana, un attimo dopo
aver pronunciato quelle parole, il cielo si squarcia in un biblico nubifragio.
Il giorno dopo, l’alba si leva su un mondo nuovo.
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Lasciati andare, buttati, dimentica”. Per un omaggio a James Joyce
proviene da Pangea.
Bisogna sorvolarle in una giornata limpida, le isole dell’Egeo, per misurarne
compiutamente la superficie di scintillante bellezza. Formazioni di roccia più o
meno grandi affiorano dalle acque turchesi. Ripenso al mito di Egeo, che a
questo mare ha dato il suo nome. Forse – mi dico – è solo dall’estremo
sacrificio di sé che può scaturire tanta meraviglia.
Ritorno da Rodi, l’isola della Rosa, a poche miglia nautiche dalla Turchia. La
storia l’ha collocata al crocevia delle rotte tra Oriente e Occidente, alla
mercé di eserciti crociati, ordini monastici e visir. Il profilo dell’isola
appare, soprattutto a chi ha il privilegio di scorgerlo nel crepuscolo di
giugno, come un animale marino addormentato: una balena affiorata in superficie,
di palmare e nuda grandezza. Lawrence Durrell, nella sua ricca (e non tradotta
in italiano) raccolta di saggi, le dedica pagine appassionate, in cui mi sembra
rivivere l’eco dell’amicizia con Odisseas Elitis, uno dei grandi della poesia
novecentesca. I due si erano conosciuti in una località non lontana da Atene
negli anni Trenta.
Elitis vi svolge pigramente il servizio militare e intanto anima con altri
giovani il dibattito letterario che in quegli anni ferve all’ombra del
Partenone. Compaiono nuove riviste di critica letteraria, si organizzano serate
a tema che finiscono inevitabilmente in fragorose bevute e poetiche
declamazioni. Nel firmamento letterario greco di quegli anni si vive con
entusiasmo l’ondata di novità che arriva da occidente, soprattutto da Parigi. La
cometa del Surrealismo, scagliata con vigore da Breton ed Éluard, incendia il
dibattito letterario anche in una Grecia che, in fatto di lettere, si era sempre
mostrata invero poco permeabile alle novità. Le nuove proposte e le
fiammeggianti idee del Surrealismo vengono accolte ad Atene da Andrea Embirikos.
Nato in Romania da famiglia greca possidente e trasferitosi in Grecia dopo aver
studiato e vissuto a Londra e a Parigi, Embirikos è figura che provoca un vero e
proprio sisma nelle lettere greche. Primo psicanalista del suo paese, poeta e
fotografo, egli imprime alla poesia e alla prosa un radicale mutamento di rotta.
Diventa il trait d’union tra le nuove istanze francesi e la famosa Generazione
del ’30, composta in massima parte da poeti e scrittori decisi a
sprovincializzare la letteratura greca. Tra loro c’è anche Odisseas Elitis, con
il quale da subito si instaura un rapporto di amicizia sincero e fecondo, che
durerà sino alla morte di Andreas nel 1975. Testimonianza concreta di questo
profondo e generoso colloquio tra i due è un libello scritto da Elitis proprio
all’indomani della dipartita del suo amico, come spinto dall’urgenza di
ripercorrere le tappe di un cammino assolutamente fuori dal comune. Più che
cammino, una vera e propria educazione: umana ancor prima che letteraria. Il
titolo del libro è, parafrasandone un altro di Kazantzakis, Rapporto ad Andrea
Embirikos. Oggi introvabile in italiano, è stato tradotto da Mario Vitti e
pubblicato nell’antologia del poeta greco uscita per i tipi di Utet nel 1982.
Andreas Embirikos (1901-1975)
Certo, alcuni aspetti della biografia legano indissolubilmente i due amici:
l’esperienza parigina; una fascinazione per le avanguardie e il loro senso di
rottura con il passato; l’amore sacro e inviolato per la Grecia, coltivato anche
nel tumulto della storia e in altre coordinate geografiche. Anche
nell’espressione letteraria si ravvisano punti di contatto: nella comune scelta
del dettato poetico, in una prosa ibridata da scintille liriche, nell’uso di un
lessico ricco e variegato capace di generare sorprendenti cortocircuiti
semantici. Ma è soprattutto nella statura poetica e umana, e in un certo modo di
porsi davanti alla vita creativa, che Embirikos ed Elitis sembrano aver
raggiunto un’intesa invidiabile. Per prima cosa, scrive Elitis all’amico,
bisogna essere fedeli a sé stessi e alla propria vocazione, resistendo alle
continue tentazioni e violenze dell’innominabile attuale.
> “Subordiniamo tutto ad un identità che ci è stata concessa senza essere stata
> chiesta; e i nostri sforzi per adeguarci ai suoi connotati finisce per essere
> un’impostura per la quale paghiamo lo scotto vita natural durante, senza mai
> trovarci creditori rispetto alla realtà”
Coltivando la poesia laddove essa chieda voce e spazio, voglio dire diventando
il proprio destino, allora si può combaciare, o almeno provarci, con la parte
migliore di sé. Nasce il poeta: colui che porta un’alba della quale la maggior
parte della gente neanche vuole immaginare la luce.
> “Quando i maghi interrogano gli astri, questi rispondono per approssimazione.
> Il poeta preferisce la precisione, consapevole che se pure non coglie in pieno
> nel segno, il tutto non smette perciò di esistere.”
Non si tratta di mitizzare la figura del poeta, o di tesserne uno stucchevole
elogio romantico. Anzi, l’esatto contrario: riportare il tutto alle sue
proporzioni originarie, prima che il poeta diventasse quel mitico volatile
immortalato da Baudelaire – affascinante in cielo, goffo e deriso sulla terra.
> “Sono trenta secoli e più che l’uomo si affanna a mettere una parola accanto
> all’altra in modo da costringere il suo pensiero a girare in un modo nuovo,
> mai provato prima di allora. Ecco che ora, per la prima volta, questa sua
> funzione è stata interrotta. Siamo completamente pronti per l’imbecillità.”
Cosa lega Elitis ed Embirikos al corpo nudo della poesia? Quale disposizione di
fronte alla vita si trasfigura poi in versi greci? Esattamente questa:
> “la forza di germogliare, di fiorire, di dare il frutto delle proprie
> viscere”.
Voglio dire: prendere l’Egeo, custodirlo con sé nel taschino del passaporto,
tenerlo ben saldo durante gli scali aerei e marittimi e nei rovesci della
storia. Interrogarlo sempre davanti ai fondi di caffè, di fronte alle linee dei
palmi, all’ombra dei lampioni sul lungofiume, nello sguardo di una donna dopo
l’amore. Vivere la propria ispirazione, sentirla palpitare nel proprio corpo
come un secondo cuore. Proteggerla, darle spazio e tempo, accompagnarla per mano
negli attraversamenti pedonali della vita, fedele compagna nella vastità del
mondo.
Cosa ti hanno insegnato i giorni e le serate ventose di Rodi, accompagnati da
una copia sgualcita del Rapporto ad Andrea Embirikos? In lampi di iliadica
nostalgia, tra lo sciabordio delle onde e l’essenza del blu, ripercorrere i
sentieri della propria vita a ritroso – inseguendo quella riva che un tempo
prometteva di proteggerci dalle apocalissi della maturità. Comprendere che siamo
figure di piena luce. Che la follia del melograno, il raggio lunare sul pontile
e la caviglia morsa dal sole ci riportano a una condizione primigenia di pura ed
implacabile essenzialità. Il che non vuol dire escludere il dolore annidato
nella ruggine dei giorni, ma non prenderlo troppo sul serio, non dargli troppa
confidenza; trattarlo come un piccolo neo, un’impertinenza da scacciare.
Affidare ad altro la nostra fede, la santa perseveranza e la dolce follia: alla
curva marmorea di un’Afrodite, alla docile costanza del grano e agli occhi di
una circassa che sembrano dardeggiare altrove, almeno un metro sopra la testa
delle persone. Professare un amore incrollabile per le isole, atolli di
solitudine, culle di poesia.
Odysseas Elytīs (1911-1996), Nobel per la letteratura nel 1979
A bordo di un aereo affollato di vacanzieri più o meno chiassosi, il comandante
comunica che stiamo sorvolando Paros. Ripenso allora al memorabile verso di
Archiloco:
> “Eccomi, sono io”.
Qui si registra la prima manifestazione dell’ego in letteratura: è su
quest’isola dell’Egeo che nasce la poesia lirica. Non lontano da qui, da alte
scogliere battute dal Meltemi si sporgeva Saffo, cantando l’amore con accenti di
limpida e salmastra voluttà. Lungo questa linea di isole procede il
miracolo.Forse lo stesso che avvertì Picasso davanti a un meraviglioso esempio
di arte cicladica. La verità è che qui, nella terra degli Dèi, risuona ancora la
loro lingua. L’hanno colta Foscolo e Chénier. Soprattutto, l’hanno compresa
molti inglesi: Byron vi muore avvolto nel suo mito. Fermor e Durrell la eleggono
patria spirituale e imparano il greco. Brooke e Chatwin riposano su dolci
colline che fronteggiano il mare, tra muri in pietra e ulivi. D’altronde, i
greci ci hanno insegnato che, dopo il trapasso, l’anima può trasformarsi in una
costellazione visibile a occhio nudo o in un fiore bagnato di rugiada.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: schizzi di John Singer Sargent, 1918 ca.
L'articolo Siamo figure di piena luce. Intorno a un libro introvabile:
“Rapporto ad Andrea Embirikos” proviene da Pangea.
Istanbul parla dall’angolo appena velato di dolci ricordi. Gabbiani volteggiano
sul Bosforo. A loro i pendolari contemporanei affidano tristezza e pensieri,
mentre i traghetti, silenziosi, fanno la spola tra una sponda e l’altra. All’ora
del tramonto, si rincorrono le invocazioni alla preghiera. I minareti, in quel
momento, sembrano ceri infuocati piantati nel cielo rosato.
In luoghi come questo, prende corpo una parola di origine araba, che dà il nome
alla via forse più nota della città: esteghlal (استقلال). Non solo
“indipendenza”, ma ritmo del destino. L’accordo momentaneo, e perciò miracoloso,
tra il presente e il luogo in cui ci si trova. Un’armonia fragile, segnata dalle
cicatrici del tempo e della storia.
Istanbul è una metafora potente di un sentimento che si avverte e che, al tempo
stesso, sfugge a ogni tentativo di definizione. Il dato lirico vi è
innegabile. Istanbul è poesia. Lo avevano compreso bene gli Ottomani, che la
elessero a loro città-mondo. Quelli che un tempo erano dominatori nomadi delle
steppe seppero addomesticare lo scintillio del Corno d’Oro. Il latrato delle
belve notturne si infranse contro lo sciabordio del Mar di Marmara. I
conquistatori si fermarono, come recita una celebre poesia di Cemal Süreya, nel
cuore esatto della rosa, al confine tra Asia ed Europa. Immensi territori – dal
Maghreb alla penisola arabica, fino al Caucaso – vissero mezzo millennio di
dominazione ottomana. Fiorirono le arti: l’architettura, grazie al genio di
Sinan; la manifattura del tappeto; la miniatura. Sulla letteratura, ancora una
volta, soffiò il vento della Persia. Portò piumaggi e versi d’usignolo, trecce
sciolte all’aroma di muschio, il blu turchese delle maioliche e l’estasi di un
vino mistico.
La letteratura ottomana è, al suo apice, la gemella trascurata di quella
persiana. Vi regna sovrana la poesia, soprattutto nella forma del ghazal, eco di
notti lunari nel deserto, riverbero di un indomito fuoco nomade.
Oggi, chiunque si addentri nei giardini e nei padiglioni affacciati di sbieco
sul Bosforo, nel palazzo di Topkapi, avverte quella sottile atmosfera di corte —
capace insieme di slanci lirici e di improvvise efferatezze — in cui si
muovevano i poeti ottomani.
Eppure, come osserva Walter G. Andrews, autore della preziosa antologia Ottoman
Lyric Poetry, la peculiarità forse più sconcertante di quella produzione è la
sua quasi totale invisibilità presso i posteri: ulteriore prova del ben noto
pregiudizio occidentale verso manifestazioni di bellezza nate in altre
tradizioni culturali. Accostarsi alla letteratura ottomana è allora come aprire
uno scrigno ancora in parte inviolato, o varcare il limite di un luogo oltre il
quale, per consuetudine, non è concesso spingersi.
È difficile, per noi, comprendere quanto centrale e pervasiva fosse la poesia
nella vita quotidiana ottomana. Poeti, o aspiranti tali, fiorivano a ogni
livello della società. Ogni sfumatura dell’interiorità umana – dall’amore alla
ricerca spirituale – trovava forma in un dettato poetico.
Questo ricco e intenso afflato, parte di un movimento più ampio che affonda le
radici nella tradizione arabo-persiana e nel contesto islamico, si irradia verso
le aree limitrofe: a est e a nord, verso l’Asia Centrale e le regioni del
Caucaso; a ovest, verso l’Anatolia e i territori soggetti all’influenza
ottomana. Più tardi, ulteriori esiti di questa fioritura letteraria giungono a
lambire la corte moghul in India e si intrecciano con la cultura urdu, nei
territori dell’attuale Pakistan.
Sorgente e cuore dell’esperienza poetica ottomana è la passione amorosa. Da un
centro ideale, in cui sensualità e spiritualità si uniscono, la poesia si
irradia verso tutte le relazioni duali che implicano il massimo coinvolgimento
emotivo: da un lato, quella che si incarna nella figura del sovrano; dall’altro,
quella che culmina in un cammino di avvicinamento all’unità divina.
In ogni caso, la forza motrice è il desiderio – desiderio indirizzato verso
figure prive di connotazione sessuale.
La poesia ottomana, come quella persiana, è una poesia di “varianti”: non si
chiede al poeta l’originalità del tema, né l’esibizione smodata del proprio io
lirico. Al contrario: poeta è colui che sa esaurire, con grazia estrema, il
repertorio della tradizione. Non è genio chi rompe con la forma codificata, ma
chi la conduce al suo massimo splendore.
L’unica, pallida concessione all’io di chi scrive è nel distico finale, dove il
poeta nomina sé stesso, prima di abbandonarsi, inerme, al vortice del flusso
poetico.
La poesia classica ottomana riprende i modelli della tradizione arabo-persiana.
Sorvoleremo, per ora, sugli aspetti formali del ghazal, della qasida,
dei rubaiyat. Non approfondiremo il meraviglioso impasto lessicale di turco
anatolico, arabo e farsi. Basti soltanto evocare la magia, quasi ipnotica,
dell’alfabeto arabo: lo svolazzo delle lettere a fine parola, i punti, i segni
diacritici – come un lasciapassare per un altro mondo.
Per chi scrive, la poesia ottomana è come una miniatura persiana: un ingresso
discreto in una favola d’altri tempi. Dettagli finissimi, colori brillanti, una
rappresentazione stilizzata – e per questo universale – di figure umane,
animali, paesaggi.
La grana della vita che si fa sogno, e viceversa: il tramonto che si spegne
dietro ai minareti, le fontane col loro sommesso zampillo, una lingua che
accarezza il cuore e i sensi come un mantello di seta dorata. (Lorenzo Giacinto)
**
Nejâtî
Di lui si conosce assai poco: si tramanda ch’egli sia nato verso la metà del
Quattrocento, con ogni verosimiglianza in Tracia. Il suo nom de plume – “colui
che trova riparo” – suona come un voto di resa fiduciosa al verbo poetico, quasi
che la poesia fosse per lui asilo dell’anima. Oscure restano le circostanze del
suo giungere a Istanbul, dove pure ebbe modo di declamare i propri versi dinanzi
a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. Narra il suo biografo che,
prossimo al trapasso, Nejâtîchiamò a sé gli amici più intimi e consegnò loro un
ghazal, mormorando con l’ultimo filo di voce:
“Questo è il mio commiato a voi e alla poesia.”
Il cuore si rallegra se la tua guancia, luce, si vela d’amore –
quando la luna si oscura, s’innalza il sole del ladro d’amore.
Che fai, amata mia, a inseguire la steppa nuda e crudele?
Là il tuo sguardo diventa furtivo, e il tuo occhio fugge per amore.
Se resta sul suolo la polvere dei tuoi passi,
dire “Paradiso” è cosa vana: basterebbe un sorso d’amore.
Da che son divenuto amante, m’alimento soltanto di pena:
chi arde di febbre cerca cibo remoto, nutrimento d’amore.
Cammino nel tuo nome gridando ‘ya Hû!’ fra le spine,
sperando che tu ti volga e mi doni lo sguardo dell’amore.
Il vento d’oriente ha narrato al muschio del tuo riccio profumato:
“Perché andare lontano, se già qui respiri essenza d’amore?”
Non chiamarmi folle se non ascolto ragione o consiglio:
il vero saggio è colui che si perde nel fuoco dell’amore.
Oh cuore, come potresti trovare pace o riposo?
Con lei perdo i sensi, senza lei è a rischio la vita.
Chi inviterà mai più Nejâtî alla festa degli amici,
ora che l’amata ha detto: “Non vengo, se c’è lui con l’amore”?
*
Zeyneb Hatun
Fu la prima grande voce poetica femminile dell’Impero ottomano. Nacque in
Anatolia agli inizi del Quattrocento e sin da giovanissima si distinse per
finezza d’animo e precoce talento letterario. Colpito dalle sue doti, il padre
la avviò allo studio della raffinata tradizione arabo-persiana. Intessé un
rapporto d’amicizia con Mihrî e altri celebri poeti dell’epoca, con i quali
intratteneva un assiduo carteggio fatto di versi e lunghe epistole. Di lei si
scrisse: “Il suo fascino intellettuale, spontaneo e luminoso, incantava il
popolo e lasciava attoniti anche gli spiriti più acuti del tempo.”
Togliti il velo, illumina la terra e il cielo,
fa’ che questo mondo di elementi risplenda
più d’ogni paradiso.
Quando le tue labbra si muovono,
i fiumi del giardino celeste
cominciano a ribollire.
Sciogli i tuoi ricci profumati d’ambra,
che il mondo intero si colmi
del loro incanto.
La lanugine scura sulla tua guancia
ha scritto un editto regale
al vento d’oriente:
“Corri, vola fino a Cathay,
e conquista tutta la Cina
con la tua dolce fragranza!”
Oh cuore mio, l’acqua della vita
non ti è destinata –
né, ahimè, il bacio dell’amato.
Anche se attendessi mille anni,
brancolando come Alessandro il Grande
nelle tenebre, non lo troveresti.
Oh Zeynep, va’ con passo semplice,
con coraggio –
rinuncia agli ornamenti.
Abbandona l’amore
per questo mondo finto,
mascherato di bellezza.
*
Fuzuli
È annoverato tra i massimi lirici della tradizione ottomana. Scrisse in arabo,
in persiano e in turco, nella variante azera, a testimonianza della sua
straordinaria versatilità linguistica. Nacque nei pressi di Baghdad, all’interno
di una famiglia illustre che gli garantì un’educazione raffinata e cosmopolita.
Eppure, nonostante il talento riconosciuto, non riuscì ad accedere alle alte
cariche di corte, spesso riservate a poeti di minor ingegno ma maggior favore.
Il suo nom de plume, singolare e provocatorio, significa “irriverente”,
“inappropriato” – ma anche “dotato di molte abilità”: segno di un’autoironia
consapevole, propria di chi desiderava distinguersi con discrezione, restando
umile e al contempo unico.
Se il mio cuore fosse un uccello selvatico,
farebbe nido nel riccio intrecciato dei tuoi capelli.
Ovunque io sia, o jinn,
il mio amore dimora accanto a te.
Sono felice del mio patire:
toglimi la mano dal rimedio che potrebbe guarirmi.
O medico, non cercare di salvarmi:
il veleno che mi consuma è la tua vera cura.
Non ritirare con timidezza il lembo
dalle mani di chi ama: fa’ attenzione —
perché le mani che sfiorano la tua veste,
se vuotate d’improvviso, pregherebbero con furore il cielo.
Le schegge del mio cuore frantumato
giacciono trafitte dalle punte di lancia delle tue ciglia.
Addormentati, ebbra della tua bellezza,
e chiudendo gli occhi ricuci il mio cuore.
Separarmi da te è morire,
è la fine stessa della vita.
Mi stupiscono coloro che vivono a lungo
lontani da te, senza impazzire.
Lo stoppino del tuo spirito è attorcigliato
come il riccio di giacinto dell’amata.
E tu, Fuzuli, non sperare di liberarti —
finché non brucerai, come candela, nel fuoco dell’amore.
*
Bâkî
Nacque a Costantinopoli agli inizi del Cinquecento. Dotato di ingegno vivissimo
e di un’acuta intelligenza, seppe affermarsi rapidamente nel mondo delle
lettere, nonostante le sue origini modeste. Fu tra i poeti prediletti di
Solimano il Magnifico, che ne riconobbe il valore e lo insignì di prestigiose
cariche a corte. Alla morte del sultano, ne cantò la memoria in un’elegia che
rimane tra le vette insuperate della poesia turca. È considerato da molti il più
grande esponente della lirica ottomana, tanto da essere celebrato come “il
sultano dei poeti”. E forse non è un caso che il vertice di quella luminosa
tradizione sia stato raggiunto proprio da un figlio del Bosforo.
Mia amata, sin dall’inizio
siamo schiavi del re dell’amore.
Mia amata, siamo il sultano celebrato
nel dominio segreto del cuore.
Siamo come papaveri di questa steppa,
col cuore bruciato, annerito dal dolore.
Mia amata, sii nube generosa —
non negare l’acqua al cuore assetato.
Il destino, scorgendo in noi un gioiello,
ha squarciato il nostro petto.
Mia amata, ha lasciato il corpo sanguinante,
privato della conoscenza ardente dell’amore.
Non lasciare che la polvere del dolore
intorbidi la fonte della tua anima.
Mia amata, è per noi che i volti splendono
con orgoglio sulle terre ottomane.
I versi di Bâkî circolano nel mondo
come coppa colma alla festa degli amici.
Mia amata, siamo la coppa e il coppiere
di quest’epoca che gira come un astro.
*
Nâbî
Poeta della fine del Seicento, Nâbî rappresenta una delle voci più originali
della poesia ottomana classica. Nato a Urfa e attivo a Istanbul, fu testimone di
un’epoca di decadenza politica e morale. I suoi versi si distinguono per un tono
ironico e disincantato, che spesso smaschera le vanità del potere e gli inganni
del desiderio. La sua poesia assume talvolta un tono satirico, talvolta
elegiaco, ma sempre guidata da una lucida visione etica. In Nâbî, il ghazal si
fa riflessione sul senso della vita e sulla fragilità delle ambizioni umane.
Nel giardino del tempo e del destino
abbiamo visto insieme
l’autunno e la primavera;
abbiamo attraversato
il tempo della gioia
e quello del dolore.
Non vantar troppo il tuo orgoglio:
nella taverna della buona sorte
abbiamo incrociato mille ubriachi,
inebriati della propria vanità.
Abbiamo ammirato innumerevoli fortezze di pietra,
innalzate nella terra della fama mondana,
eppure nessuna ha retto
al fragore esploso di un cuore spezzato.
Abbiamo visto un diluvio di lacrime
scaturire dal popolo afflitto,
e con un ruggito abbiamo assistito
al diluvio che sommerse dimore e destini.
Abbiamo incrociato innumerevoli cavalieri rapidi,
in questo campo di battaglia,
a cui resta come unico tesoro
la freccia letale del sospiro d’amore.
Abbiamo incontrato molti orgogliosi,
vestiti di alte cariche,
che un giorno attenderanno, a mani giunte,
alla soglia degli altri.
O Nâbî, abbiamo ammirato tanti bevitori,
alla festa della vita,
che han barattato la coppa colma dei loro desideri
per la ciotola di un mendicante.
*Le traduzioni sono di Lorenzo Giacinto
In copertina: il sigillo di Solimano il Magnifico
L'articolo “Nel giardino del tempo e del destino”. Breve viaggio nella poesia
classica ottomana proviene da Pangea.
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque
polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura,
quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle
antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” –
un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori
estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita
attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali:
moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo
dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna
privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si
leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo
l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un
trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo
giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo
ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia
e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in
destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de
notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica
dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la
prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo
e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i
filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle
cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito
che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale
corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
> «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco
> Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere
quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria
inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale
spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il
revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar
brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.
Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con
l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che
già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la
geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere
negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio
ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che
Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi.
La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della
donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si
ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture
importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere
Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia
Minore.
> «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto
> allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso
all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci
attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal
presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un
plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa
traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella
bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di
cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute
accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si
rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano
l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro
sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle
guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a
riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.
I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e
Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A
Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher
Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e
salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando
tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era?
Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di
entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima,
la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé
stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni –
così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito
di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni
costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
> «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello
> che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla
> di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le
> angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e
> della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì
> sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste
> portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è
l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla
mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la
materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre
per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura
una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata
dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale
di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e
l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una
sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a
provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con
l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre
sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il
marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini,
obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un
uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più
grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che
meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore
dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto
creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da
quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un
destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
> «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei
> fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi
> della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata;
> quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il
> servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato
> detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
>
> Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per
un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera:
corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino
nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei
tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito.
Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni
del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi
e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito
da Giasone.
Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa
tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente
di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità.
Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di
Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo,
lo ha scritto Elitis:
> “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.”
E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della
circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di
coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e
dolce come mosto, in puri esametri greci.
La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove
ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava
salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico
dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come
verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava
i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo,
leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e
sotto l’epidermide.
Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla
preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro
dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo
di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida
presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai
frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un
modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e
quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare:
> “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché
> la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene
> della grecità.”
Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti
la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena:
qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo,
attraverso e al di fuori del tempo.
> “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia
> Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.
> Solo Poesia è
> Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta
> Come forse l’hanno immaginata le prime due creature
> Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”
>
> (Odisseas Elitis, Come Endimione)
Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni –
fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì,
anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle
finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata
ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di
fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono
nuove rotte da percorrere con fremito di piacere.
> “Il giovane professa il proprio amore
> E l’ateniese ascolta silenziosa
> Il suo eloquente innamorato Orazio;
> e del grande italiano la passione
> con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”
>
> (Kavafis, Orazio ad Atene)
Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con
emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a
incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani…
Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un
ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai
colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La
natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia,
arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera
disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un
ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno
sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra.
Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.
La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il
triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua,
l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i
colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in
mente ancora una volta Kavafis:
> “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora,
> le loro anime te ricordano ancora.
> Quando l’alba d’agosto splende su di te
> Un rigoglio della loro vita percorre l’aria;
> e un’eterea forma di adolescente, a volte;
> indistinta, con passo celere,
> incede sopra le tue alture.”
>
> (Kavafis, Ionico)
A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla
Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella
posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora
continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di
associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta,
trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa
Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa
chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone.
Su tutto, il bianco e l’azzurro.
Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona
greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho
smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua
subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis:
> “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante
> bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un
> intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre
> parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire:
> concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre
> primo.”
Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio
spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,
> “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”.
Lorenzo Giacinto
*La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di
Paola Maria Minucci
L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis,
i poeti della luce proviene da Pangea.
Lawrence Durrell porterà sempre con sé l’impronta luminosa di un’infanzia
mitica, vissuta tra le valli immense ai piedi dell’Himalaya. Una nostalgia
scitica – fatta di cieli purissimi, del lampo negli occhi di una tigre, del
passo ieratico di uno yak – non lo abbandonò mai: forse il desiderio, mai
appagato, di ritrovare altrove quella prima, segreta armonia.
La sua esistenza, come la sua scrittura, fu tutta votata al nomadismo:
dall’India all’Inghilterra, dalla Grecia all’Africa, dal Sud America alla
Francia. Poeta, romanziere, spirito inquieto e cosmopolita, amico fraterno di
Henry Miller e di Giorgos Seferis, Durrell riposa oggi in un cimitero silenzioso
della Provenza.
Ma fu un luogo in particolare – oltre a Cipro, amata e dolorosa – a marchiare a
fuoco la sua immaginazione: Alessandria d’Egitto. Da quella città molteplice,
mitica e carnale, scaturì uno dei cicli romanzeschi più affascinanti del
Novecento, il “Quartetto di Alessandria”, vertigine di tempo, memoria e
desiderio.
*
Il libro si apre in un altro luogo del cuore di Lawrence Durrell: un’isola delle
Cicladi, che in realtà è Cipro, dove il poeta acquistò una casa e visse per anni
immerso nella vita della comunità locale, imparando anche la lingua greca. È tra
l’ocra delle case e della sabbia egiziana e l’azzurro profondo del Mediterraneo
che si dispiega lo sguardo interiore di Durrell. Nella solitudine assorta
dell’isola greca, la memoria delle vicende vissute ad Alessandria poco più di un
decennio prima riaffiora lenta, seguendo il ritmo delle onde che lambiscono il
bianco calce dei porticcioli.
A separarlo dalla città egiziana sono appena cento chilometri di mare – eppure
l’anima si tende come un ponte invisibile tra i due mondi: un cortile greco
ombreggiato da ulivi, il sorriso obliquo di una donna cipriota, un cielo che
esplode d’azzurro di giorno e si vela, la notte, di una costellazione di stelle
cerulee.
*
Il khamsin è un vento che nasce dalle profondità del Sahara. Soffia impetuoso
lungo tutta la fascia orientale del Nordafrica, investendo anche Alessandria
d’Egitto, che ne subisce la furia nei giorni sospesi della primavera. Irrompe
come presagio nella terza parte di Justine, primo movimento del “Quartetto di
Alessandria”. La città si ritrae sotto una coltre ocra di sabbia e silenzio. Le
imposte si chiudono in fretta; dietro le feritoie, occhi in allerta scrutano la
polvere che avanza. La luce si vela di bagliori apocalittici, il cielo si tinge
di una minacciosa oscurità. Le feluche ondeggiano lente, consapevoli del
pericolo imminente; a bordo, le ciurme si muovono come spettri d’acqua, presenze
furtive tra le ombre del porto.
Con la stessa violenza del khamsin, l’appello dei sensi e il desiderio di
piacere si abbattono sugli abitanti della città, trafiggendoli come una scarica
elettrica che li lascia storditi, spossati, annientati. I corpi, come le case,
restano inermi sotto la furia degli elementi, tra le rovine visibili e
invisibili che l’eros e il vento seminano nella polvere.
*
Alessandria, Alessandria! Quale altra città scegliere, che già non porti nel
nome come il presagio di un destino? In quale altro luogo, sulla terra, la
scomparsa delle meraviglie antiche diventa meravigliosa metafora del rovinoso
incedere del tempo? È qui che palpita una splendida e drammatica galleria di
personaggi – Justine, Nessim, Melissa, Darley – che attraversa tutto il libro e
continuerà poi a illuminare, in un raffinatissimo gioco di specchi e punti di
vista, le altre opere del Quartetto: Balthazar, Mountolive, Clea.
*
Nessim, ricco possidente egiziano e marito di Justine, dissimula, dietro una
cordiale esposizione pubblica, il disordinato viluppo dei suoi pensieri verso la
moglie. Ne seguiamo la parabola interiore, che lo conduce dapprima a
un’immaginazione venata di follia, dove i fantasmi della gelosia sfilano insieme
all’ossessione del sospetto. Dopo la partenza di Justine, la sua presunta
convalescenza non è che una maschera fragile: sotto di essa si spalanca un vuoto
silenzioso, irreparabile.
Melissa, la compagna del narratore, figlia dei bassifondi della città e
ballerina di cabaret, non priva di una sua grazia che leviga gli angoli di
un’aderenza tutta terrestre alla corporeità. Un candore di innocenza, unito alla
frequentazione del vizio per pura necessità e non per inclinazione, la rendono
quasi una martire. È forse l’unica figura del romanzo capace di com-passione, in
grado di intuire il tumulto che si dispiega nel cuore di Nessim. Con la morte di
Melissa – l’unica per cui l’amore non richiede gli eccessi dell’intelletto, ma
solo la purezza della natura – si spegne anche la speranza di una compiuta
dimensione sentimentale proiettata nel futuro.
Justine, la donna che dà il titolo al romanzo, è ispirata a Eve, che Durrell
conobbe proprio durante la sua parentesi in Egitto. Ebrea colta e aristocratica,
Justine sembra uscire da un libro surrealista. Simile a Nadja nel suo inesausto
peregrinare, con il suo enigmatico lampeggiamento interiore smentisce ogni
principio di causalità. Convivono in lei la Musa e la santa, la martire e la
cortigiana, l’amante e l’accanita fedifraga. Regna in Justine una fatale
impossibilità alla fedeltà, come se concedersi ai suoi pretendenti fortificasse
dentro di lei l’immagine del vero amato, rinchiuso come in una stiva
sballottolata dalla tempesta a largo. Donna aracnide, tesse una tela dove a
turno restano invischiati Arnauti – che su di lei scrive delle feroci
memorie, Moeurs –, Nessim, Darley, ma anche Clea, misteriosa pittrice che vive
in completa solitudine. Persone, storie, libri, lacrime e orgasmi conducono come
un vortice rapinoso, un ago magnetico, verso la loro sorgente creatrice e
disgregatrice. L’improvviso congedo di Justine sarà il nodo di scioglimento dei
personaggi che le gravitano attorno, ma anche dalla Palestina, dove si è
trasferita a vivere in un kibbutz, l’eco della sua memoria continua a risuonare
in Egitto. Divinità ferina metà ellenistica e metà egizia, Justine assurge a
simbolo di Alessandria.
Infine c’è Darley, alter-ego di Durrell e narratore del romanzo. Anche lui cade
vittima del fascino ipnotico di Justine e dell’atmosfera mollemente sensuale di
Alessandria, dove le persone sembrano pedine su una scacchiera manovrata da una
continua e sfrenata gratificazione della sensorialità. Svuotato da una ricerca
tanto effimera quanto estenuante, Darley sembra orientarsi infine verso il
tentativo di trovare un legame di sincera amicizia, capace di mettere in
comunicazione il cuore autentico di due individui. Ma la sua fuga verso l’isola
greca suona come una silenziosa resa: la conoscenza e lo schiudersi reciproco
delle anime paiono destinati allo scacco. Forse, solo la bambina che Darley
porta con sé accende un barlume di speranza: una promessa muta, rivolta a un
futuro che, almeno in potenza, si riappacifica con la parte migliore dell’uomo.
Dove si situano l’arte, la letteratura, all’interno di questa cornice? Può uno
scrittore, che ha fibra di poeta, trovare una scia luminosa nel tumulto dei
gesti e della memoria? Forse non si manca di molto il bersaglio affermando che
il tema principale del libro sia la trasfigurazione della realtà attraverso il
prisma dell’arte. Solamente sul piano della creazione letteraria, sembra dirci
Durrell, i confini della vita e dell’arte si allargano smisuratamente:
> “La ricompensa del lavoro che si compie con il cervello e con il cuore sta in
> questo – che solo lì, nei silenzi del pittore o dello scrittore, la realtà può
> ricevere un ordine nuovo, essere rielaborata e costretta a mostrare il suo
> senso. Le nostre azioni quotidiane nella realtà sono semplicemente il
> materiale grezzo che nasconde il filo aureo – il senso della composizione. Per
> noi artisti è lì che il compromesso gioioso dell’arte con tutto quello che ci
> ha ferito o sconfitto nel vivere quotidiano ci attende; in modo tale da non
> eludere il destino, come vorrebbero le persone comuni, ma per compierlo nella
> sua potenzialità reale – l’immaginario”.
Ma anche il groviglio di vicende e sentimenti è destinato a disfarsi sotto
l’opera sottile del tempo: i ricordi lentamente trascolorano, i volti si fanno
evanescenti. Solo Alessandria rimane, e nella memoria si erge come il suo Faro
perduto, sentinella immobile tra i flutti del mondo e quelli, più segreti, di
Mnemosine.
*
Alessandria, oh Alessandria! Città del mito, della storia che si fa archetipo,
patria del sogno e di un tempo disperso, quando i sensi guidavano cuore, mente e
mani; un tempo ormai sfocato all’orizzonte della vita, che solo il fulgore
dell’arte può riportare alla luce, in un lampo di miracolo. L’Alessandria del
passato si confonde con quella del presente: città subliminale, frontiera dello
spirito, atteggiamento unico e irripetibile nei confronti del vissuto. Ne è
cantore meraviglioso e insuperabile Kavafis, che alla città egizia ha dedicato
tanta parte della sua opera. Numerosi sono, nel romanzo, i rimandi – diretti e
sotterranei – a Kavafis: poeta della nostra Itaca interiore, della promessa
racchiusa nei porti fenici, di uno sguardo ionico innestato a una sensualità
asiatica; padre di un linguaggio che, come miele colato da un vaso attico,
scende nei cuori di chi ama la Poesia.
Il libro di Durrell è anche un omaggio straordinario – forse tra i più vibranti
mai tributati – al poeta greco:
> “L’equilibrio squisito tra ironia e tenerezza l’avrebbe fatto includere tra i
> santi, fosse stato religioso. Ma per volere divino era soltanto un poeta e
> spesso infelice, anche se con lui avevi l’impressione di essere con qualcuno
> capace di afferrare al volo ogni istante del tempo e di capovolgerlo per
> mostrarne l’aspetto felice. Consumò veramente sé stesso, il suo io interiore,
> vivendo. La maggior parte della gente si adagia e lascia che la vita giochi
> con loro, fermi sotto la vita come sotto i tiepidi scrosci d’una doccia. Alla
> proposizione cartesiana «Penso, dunque sono» contrapponeva la sua, che forse
> doveva suonare pressappoco così: «Immagino, dunque ho radici e sono libero»”.
Alessandria, presagio di un’epoca in cui estetica e creazione coincidevano;
nostalgia di un’armonia esplosa poi in mille frammenti. Solo di questi
frammenti, e di schegge di desiderio, possono accontentarsi i protagonisti
di Justine. Darley, il narratore, è come Rembrandt: ritrattista letterario della
carne e dei suoi fremiti. Città-labirinto nella quale si resta intrappolati,
alla quale si offre la propria interiorità senza riceverne nulla in cambio,
Alessandria è avvolta insieme dalla luce del meriggio e dall’ombra del
crepuscolo.
È possibile allora – parafrasando ancora Kavafis – andare per altre terre, per
altri mari, verso una più città più bella anche dei sogni?
La risposta, indimenticabile e luminosa, arriva dalle ultime righe di Clea, il
romanzo che chiude il Quartetto:
> “Sì, un giorno mi sorpresi a scrivere con mano tremante le quattro parole
> (quattro lettere! quattro volti!) sulle quali ogni narratore dall’inizio del
> mondo ha puntato il suo debole diritto all’attenzione dei suoi simili. Parole
> che presagiscono semplicemente la vecchia storia di un artista divenuto
> maggiorenne. Scrissi: C’era una volta…
>
> E mi parve che l’universo intero m’avesse fatto un cenno d’intesa!”
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Anouk Aimée è stata “Justine” nell’omonimo film di George Cukor
del 1969, tratto dal romanzo di Lawrence Durrell
L'articolo “Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo
della mente proviene da Pangea.
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita
radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il
confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo?
«Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva
Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli
luminose dell’Himalaya.
Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa
diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti?
Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto
inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico,
trasfigurandolo in desiderio.
Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia
millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia,
popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i
dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il
Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una
costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso.
E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si
immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di
Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e
inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di
viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla
meraviglia.
*
Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi –
Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili,
nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato
antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo
documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la
sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni
gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano.
Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non
siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e
Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini,
invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di
camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In
questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha
visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci
dell’immaginazione.
Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal
porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo,
contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur
scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave
avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è
legato da una profonda riconoscenza.
Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine:
l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in
Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui
avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una
certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità
di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne
il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya
Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta
pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del
mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di
pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da
giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e
silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti
da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto
di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica,
capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e
di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la
prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a
cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese,
nascono quasi degli Haiku in prosa:
> “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati
> all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada
> imperlava di luce”.
Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua
scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri
nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella
giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche
lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto.
Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci:
geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura
delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei
versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco:
maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi
come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran
Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura
femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero
lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi
l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo
che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini
abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo
lirismo proprio nell’evocazione di Pemà.
La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un
contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco
superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in
lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e
penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal
sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece,
sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo
gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei,
stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è
avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle
mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda
occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena
tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e
profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene
l’inglese e i grandi autori della letteratura.
La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18
maggio 1948 Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024
Archivi Alinari.
C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno
alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un
pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per
Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta
tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in
quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue
sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un
modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al
cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla
nostra?
Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è
passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano,
come per incanto:
> “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i
> puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i
> campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della
> Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle
> distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti
> svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci
> degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da
> difendere, da condurre di là dall’Imàlaia”
*
Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e
costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la
fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e
l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per
squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti
vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare,
dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e
nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa
indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali
sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano
portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.
Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i
mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso
violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo
atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di
scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della
scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente
pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo
svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.
Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante
di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche,
un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze
opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e
dolcezza, umorismo e compassione.
*
Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella
regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due
estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti,
pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di
stoffa tibetane.
Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi
perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello
dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare
da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico
drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito
mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed
irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella
manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963.
Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi
Alinari
L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla
generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade
senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate
di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza.
Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva
verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe:
> “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la
> famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma
> alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena
> di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura
> del nostro debole cuore”.
*
La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953.
Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a
bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in
una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est,
con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il
Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.
Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri
Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce
Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante
spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua
opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo
attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il
Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario
creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema
montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione
poetica.
*
Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni.
Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale
al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in
Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di
ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un
caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così
perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio
che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei
fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa
trasmutazione alchemica. La poesia, dice,
> “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”.
Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro
in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino
a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera
del silenzio.
*
Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi
Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della
raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta
italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama
infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose
mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo
accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si
compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa
medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia
elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il
dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati
lampeggiamenti interiori.
*
Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io
nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai
lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna
luce delle costellazioni.
Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio
astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica
della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli
taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla
stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni
incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.
Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione
dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo
di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto,
nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta
di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine,
di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio
dell’aria, come all’inizio dei tempi.
*
La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della
raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare.
> “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare,
> dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”.
E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta
delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione
alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il
cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge
nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano
nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi
disertati, stazioni di treni e mercati orientali.
Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta
attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita
alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i
temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con
la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con
l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione
di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante
all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di
stampo lirico-elegiaco.
La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da
un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto
iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o
ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che
sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e
misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce
intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello
sguardo muto dell’universo.
Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione
del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità
relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love
Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione
viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia
l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso
ritegno:
> “ma che la neve caduta questa notte
> sia come un dito sulla tua bocca”
*
Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre
des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse
l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara
levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo
che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da
tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le
peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non
divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima
pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima
di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla
scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora
novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto
il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo
sguardo.
Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro
e fuggire nel caldo ventre della terra.
Lorenzo Giacinto
**
Ulisse
A sud del parapetto,
non c’è più nulla fino alla Terra Antartica.
Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini,
questo portolano increspato d’onde,
dove immense porzioni di cielo
si abbattono in scrosci spossati,
senza che Dio stesso
ne sia messo al corrente.
Ogni sera guardi il calice del sole
tuffarsi urlando nel mare a chiazze,
tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo
accovacciati tra le gomene.
I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua,
come una banda di gioiellieri in fuga.
Sono mesi che non ricevi una lettera,
sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave,
il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano,
già tutto nero di ricordi.
Ti annulli nel fremito delle eliche,
ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –
coaguli di sole della memoria,
e l’inventario delle meraviglie,
quando sapevi vivere di poco,
e la vita ti seguiva come uno sciame d’api,
e pagavi, senza mercanteggiare,
il prezzo esorbitante della bellezza.
*
Hira – Mandi
Ultima bottega ancora aperta
nella notte della città –
ghirlande di peperoncini,
samovar e falene,
alone bianco dell’acetilene.
La barba del padrone è tinta
di un rosso birichino.
Tre uomini vestiti di cuoio
sorseggiano il tè versato nei piattini.
Alti zigomi,
che brillano nei volti color rame
sotto la frangia di cappelli informi.
Sono pellegrini del Tibet,
in cammino verso l’India del Gange
per appendere il loro mulinello da preghiera
ai rami del fico del Buddha,
prima di tornare alle loro terre
a fiato corto, a piccoli passi,
attraverso quei confini impraticabili
che passano sopra le nuvole.
Anch’io ho un appuntamento con un albero.
E in ogni caso non c’è più verso di dormire
quando la luna veleggia come una vela gonfia,
così brillante, così veloce,
che persino l’anima ne proietta un’ombra.
*
Love Song III
Quando attizzare le parole per un po’ di colore
non sarà più compito tuo,
quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza,
quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza,
non farà più tremare ciò che credevi solido,
quando il freddo avrà salutato il freddo
e l’oblio dirà addio all’oblio,
quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del
vischio –
quel giorno,
qualcuno ti aspetterà al margine della strada
per dirti che è stato giusto così,
che dovevi concludere il tuo viaggio
senza più nulla,
del tutto disarmato,
allora forse…
ma che la neve caduta questa notte
sia anche come un dito sulla tua bocca.
Nicolas Bouvier
Traduzione di Lorenzo Giacinto
L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
proviene da Pangea.