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“Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione di Giuseppe Ungaretti
Ognuno di noi serba nell’animo il ricordo di una lettura folgorante, un libro che ha segnato tutta una vita, confermato il presagio di una vocazione e illuminato la possibile traiettoria di un’esistenza. Un libro totem, un libro talismano – fatto per essere conservato come un amuleto o da indossare come un’armatura contro gli agguati del tempo, un orizzonte di privata salvezza in fondo alle nostre piccole e grandi apocalissi.  La mia copia dei Sonetti di Shakespeare, nella versione in prosa di Lucifero Darchini, risale ormai a più di venti anni fa. L’avevo comprata, se la memoria non m’inganna, durante le vacanze estive tra il secondo e il terzo anno di liceo. Mi aveva sedotto la copertina color blu cobalto con al centro un piccolo ritratto del poeta inglese, la famosa incisione di Martin Droeshout. Una copertina senza orpelli, piuttosto minimalista. Tante volte mi sono interrogato, nel corso degli anni, sulle ragioni che fanno dei Sonetti un’opera per me totalmente invulnerabile all’usura del tempo, del dolore e degli affetti. Ora, a distanza di due decenni, quel blu si è schiarito, le pagine si sono irrimediabilmente ingiallite. Resiste quell’odore inconfondibile e familiare dei libri che abbiamo portato in giro per il mondo, pieni di note e piccole illuminazioni scritte alla luce fievole di un abat-jour. Persiste anche, inalterabile, quella voglia di serrare il libro al petto, come si fa con le persone più care. Forse, è questa la migliore risposta alle mie domande. * Sugli interlocutori dei sonetti, sulla datazione, così come sulle misteriose vicende della pubblicazione, sono stati scritti e si continuano a scrivere fiumi d’inchiostro. Poco importa, in fondo, dare un nome e un cognome al “fair youth”, alla “dark lady” e al “rival poet”. Qualcuno ha scritto che in questi versi Shakespeare ha messo a nudo il suo cuore. Che in quei 14 pentametri giambici disposti in tre quartine in rima alternata più un distico finale in rima baciata, il poeta abbia voluto drammatizzare le tensioni più intime del suo poetico sentire. Per me, i Sonetti coincidono da sempre con la meridiana che segna il mezzogiorno della Poesia. * Cerco di indagare le ragioni del senso di meraviglia che i 154 sonetti sprigionano. Da cosa deriva il loro fascino irresistibile? Con quale lingua mi parlano, accarezzando il dolce mistero della poesia, aggirando le mie arrendevoli difese?  Forse – mi dico – il motivo è nell’intreccio tra la sfera del privato e dell’eterno, inscritta cioè nell’orizzonte delle umane passioni. O forse la ragione si trova nell’unione tra l’universale e il particolare – cioè l’irripetibile, o nella commistione miracolosa e al tempo stesso naturale tra il solenne e il sublime ordinario. Qualsiasi cosa sia, so che ad incantarmi è la drammatizzazione del discorso lirico, in cui sempre il dettato oscilla tra la prima, la seconda e la terza persona singolari. È già qualcosa, ma non basta ancora. Provo a mettere a fuoco, quanto basta per vedere più da vicino il mistero, ma senza correre il rischio di svelarlo. I Sonetti – una bussola con l’ago magnetico rivolto verso il Nord della poesia. Il che vuol dire nutrire in sé la perenne convinzione che quel libro attraverserà tempeste e schiarite della giovinezza, l’ingannevole saggezza della maturità, le vaste distanze marine e aeree, le possenti montagne dove mulina la neve, nel regno delle nubi. * I Sonetti compaiono per la prima volta nel 1609, mentre a Londra infuria la peste. Quasi tre secoli e mezzo dopo, un altro tipo di piaga affligge l’Europa e il mondo intero – la Seconda Guerra Mondiale. In una Roma che inizia a patire i primi bombardamenti, esce a cavallo tra il 1943 e il ’44, a firma di Giuseppe Ungaretti, la traduzione di 22 sonetti in 498 esemplari di lusso. S’era già cimentato, il sommo poeta italiano, nella traduzione di diversi poeti – diversi per indole, lingua e cultura – come Gongora, Esenin, Saint-John Perse, Blake e Paulhan. Ma è proprio il corpo a corpo con il poeta inglese, durato quasi quindici lunghi anni, a rivestire un’importanza decisiva nella vita e nell’opera ungarettiana. Ce lo dice il poeta stesso nella breve e fulminante nota introduttiva alla sua traduzione. Ungaretti inizia ad accostarsi ai versi di Shakespeare nel 1931. Lo assale, in quegli anni, un’esigenza profonda di rinnovamento formale, che s’accompagna a un inaridimento dell’ispirazione. Ungaretti sognava una poesia >  “dove la segretezza dell’animo, non tradita né falsata negli impulsi, si > conciliasse a un’estrema sapienza del discorso”. Desiderava quindi, il sommo poeta italiano, pervenire a un miracoloso equilibrio grazie a una lingua alleata ad un tempo con l’arcano e il popolare. Accogliere la rotonda inquietudine del Petrarca e l’angolosa asprezza dei versi michelangioleschi. Rinvenire, scegliendo le parole, quelle in grado di sollecitare lo spirito e i suoi moti, al di là delle leggi della prosodia. Di nuova linfa aveva bisogno Ungaretti, per volgersi di nuovo con sguardo fiducioso verso la poesia. Un vento proveniente da altro quadrante doveva gonfiare le sue vele, tirando fuori l’ispirazione dalla secca in cui era finita. Cosa spinge allora Ungaretti verso il canzoniere di Shakespeare? Perché la scelta, da poeta a poeta, cade proprio sul bardo inglese? * La lunga gestazione della traduzione dei Sonetti è da collocare in un decennio decisivo per Ungaretti. La morte della madre, una crisi mistica che sfocia nella conversione religiosa, la pubblicazione nel 1933 della raccolta Sentimento del tempo, la scomparsa durissima del figlio di appena nove anni nel 1939, portano il poeta a confrontarsi direttamente con il senso della finitudine umana e del dolore gratuito. E proprio l’intensa meditazione sulla morte e su come opporvisi costituisce uno degli accenti più vibranti dei versi di Shakespeare. Solo la poesia – giusta essenziale e retta –, per dirla con Elitis, può valere come argine contro la morte. Solo quel miracolo nato in mezzo all’Egeo, più di due millenni fa, è in grado di sgambettare la furiosa corsa del tempo verso l’oblio eterno. Poco importa se il tema è un topos letterario inaugurato da Orazio. Nei Sonetti, non avverti la maniera, l’esercizio freddo in ossequio al canone. L’io lirico riesce, sempre e comunque, a soffiar vita dentro i versi. Lo stesso si dica per l’amore. Cantato in tutte le sue gradazioni, dall’ammirazione alla procreazione, dalla gelosia alla sete di immortalità, l’amore evocato da Shakespeare è un amore nel quale senti il grido trasferirsi dal privato all’universale, “pieno d’echi di popolo, urlo”. Ecco “il diretto, il segreto contatto” che Ungaretti sentiva verso il poeta inglese, ancor prima di mettersi a tradurre i Sonetti. Nel sovrapporsi di figure diverse, nel colloquio incessante e drammatico tra intime e condivise passioni, noi siamo, rispetto ai Sonetti,spettatori ammirati, e Ungaretti insieme a noi. Uomo di teatro e per il teatro, Shakespeare riesce a proiettare anche tra quelle rime il palcoscenico dove si esibiscono le vaste esperienze umane. E tuttavia, anche nelle composizioni che si aprono al tepore di una primavera d’ispirazione, financo nello sbocciare armonioso e meridiano delle immagini e dei temi, senti la vibrazione tellurica di un mistero che è il nucleo stesso della grande poesia. Scrive Ungaretti nella nota introduttiva, e la citazione è di quelle che non lasciano spazio a repliche: > “Non esisterà mai poesia che non rechi in sé, traendone vita, un segreto > inviolabile”. Pare quasi di sentirlo parlare in una delle sue interviste, Ungà, con quel tono di voce cantilenante e magnetico – ogni frase cade come un meteorite di amorevole saggezza. Lo sguardo dolce, che lascia intuire tutto il dolore vissuto, ma trasfigurato ormai in qualcos’altro – una vaga serena docile consapevolezza. Quell’aria un po’esotica che sa di adolescenza e pleniluni africani, quel suo abitare la poesia con la giustezza di una vita interamente dedicata, senza compromessi, ai versi. Poesia come vocazione, poesia come destino. Che viaggi allora nel tempo, Ungaretti, con la speranza dell’immortalità, insieme alla sua traduzione del sonetto 55 di William Shakespeare: “Non il marmo, né gli aurei monumenti Di principi, potranno alla potenza delle mie rime sopravvivere; Ed in esse voi contenuto, splenderete più splendido Che non nella negletta pietra, dal sozzo tempo deturpata. Quando la guerra che devasta rovescerà le statue E le fazioni scalzeranno il lavoro di muratura, Non la sua spada Marte offenderà, né incendio di battaglie I vivi archivi del ricordo vostro. Contro ogni morte e ogni obliosa nimicizia Non si arresterà il vostro passo, ed avrà stanza il vostro elogio In tutti gli occhi di quante generazioni postere Avranno questo mondo da esaurire per l’ultimo giudizio. Così sino allo squillo che vi farà risorgere, Quaggiù vivrete e abiterete in sguardi innamorati”. Lorenzo Giacinto *In copertina: Giuseppe Ungaretti. © Archivio Fotografico Paolo Di Paolo L'articolo “Un segreto inviolabile”. 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November 13, 2025 / Pangea
“Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats, Auden, Brodskij e Heaney
Quando scrive Lapislazzuli – siamo nel 1936 – William B. Yeats avverte forse già l’approssimarsi della fine. La poesia, tra le più alte mai composte dal bardo irlandese, è un mirabile esempio di ecfrasi in versi. È dedicata all’amico Harry Clifton, che gli aveva donato un cammeo di lapislazzuli di ispirazione orientale. Nelle ultime due lasse, tre pellegrini cinesi attraversano terre remote e valichi innevati. Sono in cammino verso una meta misteriosa, che concederà loro una tregua dagli affanni del viaggio. Sospesi tra montagne e fiumi – come nelle pitture classiche di Wu Daozi – le tre enigmatiche figure giungono infine alla lora provvisoria destinazione, dove rami di susino e di ciliegio conferiscono all’atmosfera un tono di calda, soffusa intimità. Nel “piccolo rifugio”, i tre contemplano il maestoso paesaggio che si apre dinanzi a loro. Avvolti da una coltre di acuta malinconia, chiedono che siano eseguite struggenti melodie. I volti sono solcati da profonde rughe; e tuttavia, dai loro occhi rimasti invulnerabili alle apocalissi della vita, balugina una luce di splendente letizia. * Il gusto della ricerca biografica ci autorizza a evocare le coincidenze. W.B. Yeats muore nel 1939 in Francia. In quello stesso anno, Auden finisce di scrivere Another Time, una delle raccolte poetiche più belle e significative del Novecento. La notizia della scomparsa di Yeats raggiunge Auden durante il suo soggiorno a New York. Di getto, il poeta inglese scrive quella dolente elegia che è In memoria di W.B. Yeats. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, in un piovoso giorno di primavera irlandese, nasce nello stesso fatidico anno Seamus Heaney. Yeats si spegne alla vigilia della guerra: la sua morte, secondo Auden, è un cupo presagio della strage che incombe. Il poeta inglese si rivela presto, suo malgrado, buon profeta.  * Nella notte del pensiero e degli allarmi aerei, vale come unico argine possibile il poeta-palombaro: colui che sprofonda per raggiungere il cuore del male, fino a neutralizzarlo e a redimerci dalla condanna della pena. Ci salva il verso, non la bellezza: il verso che è coscienza ed espressione del dolore. Il dettato poetico trasfigura la miseria in canto, apre vie d’uscita all’uomo prigioniero dei suoi giorni, trasforma la terra devastata in vigna. Ecco la poesia che sopravvive attraverso   > “un modo di accadere, una bocca” * Quanto equivale a dire che scrivere versi è assoggettarsi a una forma d’amore. Lo spiega in modo folgorante Brodskij nella sua indimenticabile elegia in prosa Per compiacere un’ombra, altissimo omaggio al suo amato poeta inglese. L’incontro decisivo con Auden avviene mentre Brodskij sconta una condanna in uno sperduto villaggio ai confini del Circolo Polare Artico. In quel luogo così refrattario all’umano, dominato da paludi e cupe foreste, Brodskij riesce fortunosamente a farsi spedire un’antologia in inglese. Per puro caso, il libro si apre con una poesia di Auden – In memoria di W.B. Yeats. La lettura di quell’elegia è, per il giovane russo, decisiva. Nel dettato lirico del poeta inglese, si compie il miracolo del tempo piegato e asservito al linguaggio. Come a dire: i versi sono come raffiche di vento che soffiano sui bastoncini dello Shanghai – “il tempo: > “Time worships language” Nella poesia di Auden, si passa senza soluzione di continuità da versi che, da orizzontali, diventano incredibilmente verticali, viaggiando dalla metafisica al motto di spirito, dalla filastrocca alla scintilla lirica. Al di sopra di tutto, al di là della voce inconfondibile di Auden, affiora l’immagine riflessa del suo viso: le indimenticabili rughe della vecchiaia, le proporzioni un po’ sgraziate del naso e delle orecchie – che ne avrebbero fatto un perfetto candidato per un film di David Lynch –, l’amorevole saggezza ironica degli occhi che sembrano perdonare le storture del mondo.  * Un uomo – dice Brodskij – è la somma di ciò che legge. In parole più semplici: si è trasformati da quello che si ama. In quel villaggio artico assente anche dalle mappe geografiche, ciò che colpisce Brodskij, ciò che s’impone alla sua immaginazione, è  > “amore dilatato e accelerato dal linguaggio, dalla necessità di esprimerlo”.  Il che conduce a un’altra rivelazione: i sentimenti di uno scrittore o di un poeta si subordinano inevitabilmente alla lineare e incontenibile progressione dell’arte. Certo, Auden aveva conosciuto la sofferenza sotto varie forme: delusioni amorose, la coscienza di una sessualità tormentata, l’autoesilio imposto per sfuggire all’opprimente establishment letterario britannico, la disillusione politica. Eppure, i suoi versi sprigionano sempre amore, un amore immemore, come la lingua inglese, del genere maschile e femminile. Forse, più che di amore, sarebbe più giusto dire che la poesia di Auden è un acceleratore formidabile di tenerezza, di umana morbida dolcezza. * Con un balzo nel tempo e nello spazio, passiamo il testimone a un altro grande poeta irlandese: Seamus Heaney. Audenesque, una delle sue ultime poesie, è dedicata all’amico russo da poco scomparso, Iosif Brodskij. Esiste un omaggio più commovente, per un poeta, che accostare l’amico scomparso agli autori più amati in vita? Perché, come i bambini che uniscono i puntini nei giochi enigmistici, se tracciamo una linea immaginaria tra i versi che abbiamo più amato, alla fine l’immagine che ne affiora è la nostra: riflessa, come nell’ovale di uno specchio. Non è difficile, allora, confondere i ricordi di una conversazione su un treno lanciato nella tundra finlandese con i versi di Auden, e prima ancora con quelli di Yeats. Non è difficile ritrovarsi, nel freddo di un aeroporto di Dublino, a pensare a tutti i versi scritti – e a quelli soltanto sognati, che qualcun altro, forse, ha scritto al posto nostro. Anche nella regione della morte, tuttavia, la poesia può accendere scintille di futuro. * Yeats. Auden. Brodskij. Heaney. Cosa unisce questi quattro grandi poeti? Quanto, nel loro dettato, è riflesso e ombra dell’amore che li legava ad altri maestri? La poesia è anche cavalleresca espressione di amicizia, segno di profonda dedizione verso una “famiglia mentale”, per citare ancora una volta la magnifica intuizione di Brodskij. Viene in mente il sonetto forse più bello mai scritto sull’amicizia poetica: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, di Dante Alighieri. Quale filo li lega? Forse il senso di una vocazione maturata tra i rovesci della storia; la costante, sofferta oscillazione tra isolamento e rielaborazione degli eventi sullo sfondo? Soprattutto, il tentativo di superare l’autoreferenzialità attraverso l’incontro con altre vite – di spezzare il cerchio della solitudine aprendo la porta al vento della generosità e dell’altruismo. Ecco perché i viaggiatori cinesi della poesia di Yeats sembrano sostare, come i nostri poeti alla fine di un lungo viaggio, presso la fonte stessa della loro ispirazione. * In una poesia di Auden, una delle più belle, si dice che da qualche parte viva un bambino atterrito e pieno d’immaginazione. Lui sa, contro tutto e tutti, di essere il futuro; e comprende che solo i docili avranno in eredità la terra. Quel bambino non attira l’attenzione, né è particolarmente fortunato. Nel tumulto del mondo, tra leggi disumane e regole ingiuste, il suo pianto sale verso la vita del poeta – e la nostra – come una vocazione. Lorenzo Giacinto L'articolo “Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats, Auden, Brodskij e Heaney proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea
“Lasciati andare, buttati, dimentica”. Per un omaggio a James Joyce
Non sono molte le fotografie in cui Joyce guarda dritto di fronte a sé. Quasi sempre si offre di profilo, in una posa a tre quarti che ricorda i ritratti rinascimentali. Lo sguardo vaga verso misteriose zone del pensiero. Ne nasce l’impressione di trovarsi davanti a un predone del futuro, un contrabbandiere d’infinito. Chi osserva ne riceve una scossa segreta. Joyce è un campione d’eleganza: veste sempre in modo impeccabile, con cravatte raffinate sulle camicie inamidate, talvolta un papillon più svolazzante, la bombetta calata sul capo da cui, con timidezza combattuta, spuntano orecchie appena a sventola. Non fosse per la sua graduale cecità – negli ultimi anni era costretto a indossare una benda nera sull’occhio sinistro, da pirata – nel mio bestiario affettivo di scrittori e poeti Joyce sarebbe un falco. Come un rapace, irrompe nel cielo squarciando il velo del presente, lanciato in una forsennata ricerca del futuro. Meglio allora accostarlo a un rapace notturno, un barbagianni capace di volteggiare silenziosamente nelle tenebre. Nell’antichità gli àuguri scrutavano gli uccelli per cogliervi presagi divini: il futuro si rivelava attraverso la direzione e la provenienza del volo. Allo stesso modo, leggere Joyce è presagio di futuro: lo schiudersi delle infinite possibilità del reale nell’orizzonte della vita. D’altronde, in un passo magnifico del suo Ritratto, libro-amuleto da tenere sempre in tasca contro le trappole della maturità, Joyce affida a Dedalus queste parole: > “…e per secoli gli uomini hanno guardato in alto come lui ora guardava gli > uccelli in volo. Il porticato sopra di lui gli ricordava vagamente un tempio > antico e il bastone al quale si appoggiava stancamente gli ricordava quello > ricurvo di un augure.” Poche pagine prima di questa epifania, dall’avamposto di Howth, Dedalus contempla la spuma proteiforme delle nuvole che solcano il mutevole cielo irlandese. Sono in viaggio verso il Continente, verso quell’Europa misteriosa fatta di idiomi stranieri, valli e cittadelle cinte di boschi, da cui sembra levarsi una musica confusa, prefigurazione dell’esilio di Joyce. Da qui inizia una delle più grandi e radicali avventure creative dei nostri tempi, che non ha ancora esaurito – e forse non esaurirà mai – la sua dirompente carica rivoluzionaria. Grandi, anche grandissimi scrittori, una volta letti danno l’impressione di aver detto fino in fondo ciò che avevano da dire. Con Joyce, questo non accade: la partita resta sempre aperta. Negli anni Venti del Novecento, Arthur Power, un altro dublinese trapiantato in Francia, lo incontra per caso al Bal Bullier di Parigi. Nasce così un rapporto d’amicizia destinato a durare oltre un decennio. Power ne ha lasciato testimonianza in Conversations with Joyce, apparso nel 1974 e oggi introvabile in italiano. In un passaggio del libro, parlando di John Donne e degli elisabettiani, Joyce finisce in realtà per tracciare uno dei ritratti più luminosi di sé stesso e della propria poetica. > “Con Donne si entra in un labirinto di pensiero e sentimento. Ogni sua poesia > è un’avventura nella quale non sai dove andrai a finire, che è esattamente > quello che dovrebbe essere un’opera d’arte. Quando vivi non sai dove ti > condurrà esattamente un’esperienza, e così con la letteratura. È proprio > questo che la rende così folgorante”. Si è detto che il Dedalus è la testimonianza di una precoce formazione intellettuale. Senza dubbio, ma c’è molto di più. Forse, solo nelle pagine conclusive de Il dono di Nabokov, si avverte con uguale intensità l’emozione di un’energia creativa pienamente cosciente di sé stessa, pronta a spiccare il volo verso un orizzonte sconfinato. Da quelle scogliere di Howth, che in primavera si ricoprono di fiori di campo, si leva il grido interiore di un giovane che vuole essere il primo artista sulla terra. Attraverso “silenzio, esilio e astuzia”, un ragazzo di neanche vent’anni diventerà il più grande demiurgo della parola.  Tra i lungosenna di Parigi, le piazze triestine percorse dalla Bora e i vicoli dell’incompresa Roma si compirà una memorabile parabola esistenziale e letteraria, alla fine della quale la paura dell’ignoto si trasformerà nella tavoletta su cui Thoth, il dio degli artisti, scrive con una canna di palude, reggendo sulla stretta testa di ibis la luna falcata. L’etimologia della parola “avventura”, d’altronde, ci insegna che lo spostamento nello spazio coincide anche con quello nel tempo. E nella curva di un’emozione – come l’ha definita Franca Cavagnoli – trova spazio anche l’amore. Alla fine del quarto capitolo del Ritratto, l’apparizione di una ragazza sola e immobile nell’acqua suscita in Dedalus una vera epifania, decisiva per la coscienza della sua vocazione. Il giovane scrive versi, versi d’amore. Rievoca un colloquio sommesso con Emma a bordo di un tram, nella notte limpida e ricca di promesse. I capelli della ragazza profumano di pioggia. Il suo corpo emana un odore selvatico e languido, distilla afrori e rugiada. In Stephen Hero, altra incantevole primizia joyciana, la lettura della Vita Nuova di Dante suggerisce al protagonista di comporre una raccolta di versi d’amore. Non c’è posto per l’avarizia del cuore: in amore – dice Daedalus – si deve dare tutto. La creazione si fonde con la biografia. Il primo libro di Joyce appare nel 1907 – Music Chamber –, una raccolta di trentasei poesie di ispirazione amorosa. “Go seek her out all courteously”, recita il primo verso di una lirica che ricorda la fiera e appassionata ritrosia di Guido Cavalcanti. Un 6 aprile di inizio Novecento, nel suo diario esplosivo, Dedalus-Joyce scrive: > “Desidero stringere tra le braccia la grazia che non è ancora venuta al mondo” Parole che potrebbero stare a epigrafe dell’intera opera joyciana. Esiste una definizione più esatta della giovinezza, o un antidoto migliore alla senescenza interiore? Joyce ci salva, come ha scritto Borges nella chiusa della bellissima Invocazione a Joyce. > “Io sono gli altri. Tutti coloro > Che il tuo ostinato rigore ha riscattato > Sono coloro che non conosci e salvi.” Proviamo allora a misurare insieme al grande argentino la vastità dell’opera joyciana: la dispersione e l’esilio nel mondo, il battesimo delle parole – di ogni parola – per riscrivere la Genesi verbale del creato, cercare l’ispirazione nei declivi e nelle feritoie della vita, rigenerare le consuetudini dell’uomo affinché dall’umile esercizio del quotidiano affiorino frammenti di meraviglia. Soprattutto, riscaldarci al fuoco ardente della sua fede, trattenere almeno un poco l’oro della sua ombra e gli attimi sparuti di felicità, addestrarci a inseguire la fiera biforme o la rosa nei dedali della memoria e delle città, aggrapparci ai nostri talismani esercitando l’arte del coraggio.   Un altro grande irlandese, Seamus Heaney, nel dodicesimo frammento di Station Island, si lascia visitare dal fantasma di Joyce. L’incontro avviene in un paesaggio di impronta dantesca: non a caso l’autore di Ulisse assume quasi le sembianze di Virgilio, diventando a sua volta “duca, signore e maestro”. Joyce raggiunge una statura shakespeariana: la sua voce, dal timbro liquido, sembra racchiudere in sé le vocali di tutti i fiumi. Avanza con passo solenne, tastando il terreno con il bastone di frassino. Poi prende a parlare, e dalle pagine di Heaney ci raggiungono versi memorabili: > “Il tuo dovere > non viene assolto da nessun rito comune. > Quello che fai lo devi fare da solo. > L’essenziale è scrivere > per la gioia di farlo. Coltiva la brama del lavoro > che immagina il suo porto come le tue mani di notte > sognano il sole nella macchia solare di un seno. > Ora tu sei digiuno, stordito, pericoloso. > Parti da qui. E non esser così zelante, > così pronto al saio e alle ceneri. > Lasciati andare, buttati, dimentica. > Hai ascoltato abbastanza. Ora suona la tua nota”. Poco importa che Joyce appaia illuminato dalla sensibilità di un grande poeta. Ciò che resta è l’esuberanza, la gioia, la fiera gagliardia. Sposare l’ispirazione al fuoco che arde nel petto e tra le mani. Scrivere come si ama: percorrere il corpo di una donna come le strade del mondo. Assecondare il vortice, le maree, la corrente che travolge. Dare voce a “scandagli sonori, esplorazioni, sonde, allettamenti, luccichi d’anguilla nel buio del mare aperto”. Scalpare il già detto, smettere una volta per tutte di rimestare fuochi spenti, rimasticare vecchi mugugni. Quando Joyce si allontana, un attimo dopo aver pronunciato quelle parole, il cielo si squarcia in un biblico nubifragio. Il giorno dopo, l’alba si leva su un mondo nuovo. Lorenzo Giacinto L'articolo “Lasciati andare, buttati, dimentica”. Per un omaggio a James Joyce proviene da Pangea.
October 8, 2025 / Pangea
Siamo figure di piena luce.  Intorno a un libro introvabile: “Rapporto ad Andrea Embirikos”
Bisogna sorvolarle in una giornata limpida, le isole dell’Egeo, per misurarne compiutamente la superficie di scintillante bellezza. Formazioni di roccia più o meno grandi affiorano dalle acque turchesi. Ripenso al mito di Egeo, che a questo mare ha dato il suo nome. Forse – mi dico – è solo dall’estremo sacrificio di sé che può scaturire tanta meraviglia.  Ritorno da Rodi, l’isola della Rosa, a poche miglia nautiche dalla Turchia. La storia l’ha collocata al crocevia delle rotte tra Oriente e Occidente, alla mercé di eserciti crociati, ordini monastici e visir. Il profilo dell’isola appare, soprattutto a chi ha il privilegio di scorgerlo nel crepuscolo di giugno, come un animale marino addormentato: una balena affiorata in superficie, di palmare e nuda grandezza. Lawrence Durrell, nella sua ricca (e non tradotta in italiano) raccolta di saggi, le dedica pagine appassionate, in cui mi sembra rivivere l’eco dell’amicizia con Odisseas Elitis, uno dei grandi della poesia novecentesca. I due si erano conosciuti in una località non lontana da Atene negli anni Trenta. Elitis vi svolge pigramente il servizio militare e intanto anima con altri giovani il dibattito letterario che in quegli anni ferve all’ombra del Partenone. Compaiono nuove riviste di critica letteraria, si organizzano serate a tema che finiscono inevitabilmente in fragorose bevute e poetiche declamazioni. Nel firmamento letterario greco di quegli anni si vive con entusiasmo l’ondata di novità che arriva da occidente, soprattutto da Parigi. La cometa del Surrealismo, scagliata con vigore da Breton ed Éluard, incendia il dibattito letterario anche in una Grecia che, in fatto di lettere, si era sempre mostrata invero poco permeabile alle novità. Le nuove proposte e le fiammeggianti idee del Surrealismo vengono accolte ad Atene da Andrea Embirikos. Nato in Romania da famiglia greca possidente e trasferitosi in Grecia dopo aver studiato e vissuto a Londra e a Parigi, Embirikos è figura che provoca un vero e proprio sisma nelle lettere greche. Primo psicanalista del suo paese, poeta e fotografo, egli imprime alla poesia e alla prosa un radicale mutamento di rotta. Diventa il trait d’union tra le nuove istanze francesi e la famosa Generazione del ’30, composta in massima parte da poeti e scrittori decisi a sprovincializzare la letteratura greca. Tra loro c’è anche Odisseas Elitis, con il quale da subito si instaura un rapporto di amicizia sincero e fecondo, che durerà sino alla morte di Andreas nel 1975. Testimonianza concreta di questo profondo e generoso colloquio tra i due è un libello scritto da Elitis proprio all’indomani della dipartita del suo amico, come spinto dall’urgenza di ripercorrere le tappe di un cammino assolutamente fuori dal comune. Più che cammino, una vera e propria educazione: umana ancor prima che letteraria. Il titolo del libro è, parafrasandone un altro di Kazantzakis, Rapporto ad Andrea Embirikos. Oggi introvabile in italiano, è stato tradotto da Mario Vitti e pubblicato nell’antologia del poeta greco uscita per i tipi di Utet nel 1982. Andreas Embirikos (1901-1975) Certo, alcuni aspetti della biografia legano indissolubilmente i due amici: l’esperienza parigina; una fascinazione per le avanguardie e il loro senso di rottura con il passato; l’amore sacro e inviolato per la Grecia, coltivato anche nel tumulto della storia e in altre coordinate geografiche. Anche nell’espressione letteraria si ravvisano punti di contatto: nella comune scelta del dettato poetico, in una prosa ibridata da scintille liriche, nell’uso di un lessico ricco e variegato capace di generare sorprendenti cortocircuiti semantici. Ma è soprattutto nella statura poetica e umana, e in un certo modo di porsi davanti alla vita creativa, che Embirikos ed Elitis sembrano aver raggiunto un’intesa invidiabile. Per prima cosa, scrive Elitis all’amico, bisogna essere fedeli a sé stessi e alla propria vocazione, resistendo alle continue tentazioni e violenze dell’innominabile attuale. > “Subordiniamo tutto ad un identità che ci è stata concessa senza essere stata > chiesta; e i nostri sforzi per adeguarci ai suoi connotati finisce per essere > un’impostura per la quale paghiamo lo scotto vita natural durante, senza mai > trovarci creditori rispetto alla realtà” Coltivando la poesia laddove essa chieda voce e spazio, voglio dire diventando il proprio destino, allora si può combaciare, o almeno provarci, con la parte migliore di sé. Nasce il poeta: colui che porta un’alba della quale la maggior parte della gente neanche vuole immaginare la luce. > “Quando i maghi interrogano gli astri, questi rispondono per approssimazione. > Il poeta preferisce la precisione, consapevole che se pure non coglie in pieno > nel segno, il tutto non smette perciò di esistere.” Non si tratta di mitizzare la figura del poeta, o di tesserne uno stucchevole elogio romantico. Anzi, l’esatto contrario: riportare il tutto alle sue proporzioni originarie, prima che il poeta diventasse quel mitico volatile immortalato da Baudelaire – affascinante in cielo, goffo e deriso sulla terra.  > “Sono trenta secoli e più che l’uomo si affanna a mettere una parola accanto > all’altra in modo da costringere il suo pensiero a girare in un modo nuovo, > mai provato prima di allora. Ecco che ora, per la prima volta, questa sua > funzione è stata interrotta. Siamo completamente pronti per l’imbecillità.” Cosa lega Elitis ed Embirikos al corpo nudo della poesia? Quale disposizione di fronte alla vita si trasfigura poi in versi greci? Esattamente questa:  > “la forza di germogliare, di fiorire, di dare il frutto delle proprie > viscere”.  Voglio dire: prendere l’Egeo, custodirlo con sé nel taschino del passaporto, tenerlo ben saldo durante gli scali aerei e marittimi e nei rovesci della storia. Interrogarlo sempre davanti ai fondi di caffè, di fronte alle linee dei palmi, all’ombra dei lampioni sul lungofiume, nello sguardo di una donna dopo l’amore. Vivere la propria ispirazione, sentirla palpitare nel proprio corpo come un secondo cuore. Proteggerla, darle spazio e tempo, accompagnarla per mano negli attraversamenti pedonali della vita, fedele compagna nella vastità del mondo. Cosa ti hanno insegnato i giorni e le serate ventose di Rodi, accompagnati da una copia sgualcita del Rapporto ad Andrea Embirikos? In lampi di iliadica nostalgia, tra lo sciabordio delle onde e l’essenza del blu, ripercorrere i sentieri della propria vita a ritroso – inseguendo quella riva che un tempo prometteva di proteggerci dalle apocalissi della maturità. Comprendere che siamo figure di piena luce. Che la follia del melograno, il raggio lunare sul pontile e la caviglia morsa dal sole ci riportano a una condizione primigenia di pura ed implacabile essenzialità. Il che non vuol dire escludere il dolore annidato nella ruggine dei giorni, ma non prenderlo troppo sul serio, non dargli troppa confidenza; trattarlo come un piccolo neo, un’impertinenza da scacciare. Affidare ad altro la nostra fede, la santa perseveranza e la dolce follia: alla curva marmorea di un’Afrodite, alla docile costanza del grano e agli occhi di una circassa che sembrano dardeggiare altrove, almeno un metro sopra la testa delle persone. Professare un amore incrollabile per le isole, atolli di solitudine, culle di poesia.  Odysseas Elytīs (1911-1996), Nobel per la letteratura nel 1979 A bordo di un aereo affollato di vacanzieri più o meno chiassosi, il comandante comunica che stiamo sorvolando Paros. Ripenso allora al memorabile verso di Archiloco: > “Eccomi, sono io”. Qui si registra la prima manifestazione dell’ego in letteratura: è su quest’isola dell’Egeo che nasce la poesia lirica. Non lontano da qui, da alte scogliere battute dal Meltemi si sporgeva Saffo, cantando l’amore con accenti di limpida e salmastra voluttà. Lungo questa linea di isole procede il miracolo.Forse lo stesso che avvertì Picasso davanti a un meraviglioso esempio di arte cicladica. La verità è che qui, nella terra degli Dèi, risuona ancora la loro lingua. L’hanno colta Foscolo e Chénier. Soprattutto, l’hanno compresa molti inglesi: Byron vi muore avvolto nel suo mito. Fermor e Durrell la eleggono patria spirituale e imparano il greco. Brooke e Chatwin riposano su dolci colline che fronteggiano il mare, tra muri in pietra e ulivi. D’altronde, i greci ci hanno insegnato che, dopo il trapasso, l’anima può trasformarsi in una costellazione visibile a occhio nudo o in un fiore bagnato di rugiada. Lorenzo Giacinto *In copertina: schizzi di John Singer Sargent, 1918 ca. L'articolo Siamo figure di piena luce.  Intorno a un libro introvabile: “Rapporto ad Andrea Embirikos” proviene da Pangea.
September 24, 2025 / Pangea
“Nel giardino del tempo e del destino”. Breve viaggio nella poesia classica ottomana
Istanbul parla dall’angolo appena velato di dolci ricordi. Gabbiani volteggiano sul Bosforo. A loro i pendolari contemporanei affidano tristezza e pensieri, mentre i traghetti, silenziosi, fanno la spola tra una sponda e l’altra. All’ora del tramonto, si rincorrono le invocazioni alla preghiera. I minareti, in quel momento, sembrano ceri infuocati piantati nel cielo rosato. In luoghi come questo, prende corpo una parola di origine araba, che dà il nome alla via forse più nota della città: esteghlal (استقلال). Non solo “indipendenza”, ma ritmo del destino. L’accordo momentaneo, e perciò miracoloso, tra il presente e il luogo in cui ci si trova. Un’armonia fragile, segnata dalle cicatrici del tempo e della storia. Istanbul è una metafora potente di un sentimento che si avverte e che, al tempo stesso, sfugge a ogni tentativo di definizione. Il dato lirico vi è innegabile. Istanbul è poesia. Lo avevano compreso bene gli Ottomani, che la elessero a loro città-mondo. Quelli che un tempo erano dominatori nomadi delle steppe seppero addomesticare lo scintillio del Corno d’Oro. Il latrato delle belve notturne si infranse contro lo sciabordio del Mar di Marmara. I conquistatori si fermarono, come recita una celebre poesia di Cemal Süreya, nel cuore esatto della rosa, al confine tra Asia ed Europa. Immensi territori – dal Maghreb alla penisola arabica, fino al Caucaso – vissero mezzo millennio di dominazione ottomana. Fiorirono le arti: l’architettura, grazie al genio di Sinan; la manifattura del tappeto; la miniatura. Sulla letteratura, ancora una volta, soffiò il vento della Persia. Portò piumaggi e versi d’usignolo, trecce sciolte all’aroma di muschio, il blu turchese delle maioliche e l’estasi di un vino mistico. La letteratura ottomana è, al suo apice, la gemella trascurata di quella persiana. Vi regna sovrana la poesia, soprattutto nella forma del ghazal, eco di notti lunari nel deserto, riverbero di un indomito fuoco nomade. Oggi, chiunque si addentri nei giardini e nei padiglioni affacciati di sbieco sul Bosforo, nel palazzo di Topkapi, avverte quella sottile atmosfera di corte — capace insieme di slanci lirici e di improvvise efferatezze — in cui si muovevano i poeti ottomani. Eppure, come osserva Walter G. Andrews, autore della preziosa antologia Ottoman Lyric Poetry, la peculiarità forse più sconcertante di quella produzione è la sua quasi totale invisibilità presso i posteri: ulteriore prova del ben noto pregiudizio occidentale verso manifestazioni di bellezza nate in altre tradizioni culturali. Accostarsi alla letteratura ottomana è allora come aprire uno scrigno ancora in parte inviolato, o varcare il limite di un luogo oltre il quale, per consuetudine, non è concesso spingersi. È difficile, per noi, comprendere quanto centrale e pervasiva fosse la poesia nella vita quotidiana ottomana. Poeti, o aspiranti tali, fiorivano a ogni livello della società. Ogni sfumatura dell’interiorità umana – dall’amore alla ricerca spirituale – trovava forma in un dettato poetico. Questo ricco e intenso afflato, parte di un movimento più ampio che affonda le radici nella tradizione arabo-persiana e nel contesto islamico, si irradia verso le aree limitrofe: a est e a nord, verso l’Asia Centrale e le regioni del Caucaso; a ovest, verso l’Anatolia e i territori soggetti all’influenza ottomana. Più tardi, ulteriori esiti di questa fioritura letteraria giungono a lambire la corte moghul in India e si intrecciano con la cultura urdu, nei territori dell’attuale Pakistan. Sorgente e cuore dell’esperienza poetica ottomana è la passione amorosa. Da un centro ideale, in cui sensualità e spiritualità si uniscono, la poesia si irradia verso tutte le relazioni duali che implicano il massimo coinvolgimento emotivo: da un lato, quella che si incarna nella figura del sovrano; dall’altro, quella che culmina in un cammino di avvicinamento all’unità divina. In ogni caso, la forza motrice è il desiderio – desiderio indirizzato verso figure prive di connotazione sessuale. La poesia ottomana, come quella persiana, è una poesia di “varianti”: non si chiede al poeta l’originalità del tema, né l’esibizione smodata del proprio io lirico. Al contrario: poeta è colui che sa esaurire, con grazia estrema, il repertorio della tradizione. Non è genio chi rompe con la forma codificata, ma chi la conduce al suo massimo splendore. L’unica, pallida concessione all’io di chi scrive è nel distico finale, dove il poeta nomina sé stesso, prima di abbandonarsi, inerme, al vortice del flusso poetico. La poesia classica ottomana riprende i modelli della tradizione arabo-persiana. Sorvoleremo, per ora, sugli aspetti formali del ghazal, della qasida, dei rubaiyat. Non approfondiremo il meraviglioso impasto lessicale di turco anatolico, arabo e farsi. Basti soltanto evocare la magia, quasi ipnotica, dell’alfabeto arabo: lo svolazzo delle lettere a fine parola, i punti, i segni diacritici – come un lasciapassare per un altro mondo. Per chi scrive, la poesia ottomana è come una miniatura persiana: un ingresso discreto in una favola d’altri tempi. Dettagli finissimi, colori brillanti, una rappresentazione stilizzata – e per questo universale – di figure umane, animali, paesaggi. La grana della vita che si fa sogno, e viceversa: il tramonto che si spegne dietro ai minareti, le fontane col loro sommesso zampillo, una lingua che accarezza il cuore e i sensi come un mantello di seta dorata. (Lorenzo Giacinto) ** Nejâtî Di lui si conosce assai poco: si tramanda ch’egli sia nato verso la metà del Quattrocento, con ogni verosimiglianza in Tracia. Il suo nom de plume – “colui che trova riparo” – suona come un voto di resa fiduciosa al verbo poetico, quasi che la poesia fosse per lui asilo dell’anima. Oscure restano le circostanze del suo giungere a Istanbul, dove pure ebbe modo di declamare i propri versi dinanzi a Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. Narra il suo biografo che, prossimo al trapasso, Nejâtîchiamò a sé gli amici più intimi e consegnò loro un ghazal, mormorando con l’ultimo filo di voce: “Questo è il mio commiato a voi e alla poesia.” Il cuore si rallegra se la tua guancia, luce, si vela d’amore – quando la luna si oscura, s’innalza il sole del ladro d’amore. Che fai, amata mia, a inseguire la steppa nuda e crudele? Là il tuo sguardo diventa furtivo, e il tuo occhio fugge per amore. Se resta sul suolo la polvere dei tuoi passi, dire “Paradiso” è cosa vana: basterebbe un sorso d’amore. Da che son divenuto amante, m’alimento soltanto di pena: chi arde di febbre cerca cibo remoto, nutrimento d’amore. Cammino nel tuo nome gridando ‘ya Hû!’ fra le spine, sperando che tu ti volga e mi doni lo sguardo dell’amore. Il vento d’oriente ha narrato al muschio del tuo riccio profumato: “Perché andare lontano, se già qui respiri essenza d’amore?” Non chiamarmi folle se non ascolto ragione o consiglio: il vero saggio è colui che si perde nel fuoco dell’amore. Oh cuore, come potresti trovare pace o riposo? Con lei perdo i sensi, senza lei è a rischio la vita. Chi inviterà mai più Nejâtî alla festa degli amici, ora che l’amata ha detto: “Non vengo, se c’è lui con l’amore”? * Zeyneb Hatun Fu la prima grande voce poetica femminile dell’Impero ottomano. Nacque in Anatolia agli inizi del Quattrocento e sin da giovanissima si distinse per finezza d’animo e precoce talento letterario. Colpito dalle sue doti, il padre la avviò allo studio della raffinata tradizione arabo-persiana. Intessé un rapporto d’amicizia con Mihrî e altri celebri poeti dell’epoca, con i quali intratteneva un assiduo carteggio fatto di versi e lunghe epistole. Di lei si scrisse: “Il suo fascino intellettuale, spontaneo e luminoso, incantava il popolo e lasciava attoniti anche gli spiriti più acuti del tempo.” Togliti il velo, illumina la terra e il cielo, fa’ che questo mondo di elementi risplenda più d’ogni paradiso. Quando le tue labbra si muovono, i fiumi del giardino celeste cominciano a ribollire. Sciogli i tuoi ricci profumati d’ambra, che il mondo intero si colmi del loro incanto. La lanugine scura sulla tua guancia ha scritto un editto regale al vento d’oriente: “Corri, vola fino a Cathay, e conquista tutta la Cina con la tua dolce fragranza!” Oh cuore mio, l’acqua della vita non ti è destinata – né, ahimè, il bacio dell’amato. Anche se attendessi mille anni, brancolando come Alessandro il Grande nelle tenebre, non lo troveresti. Oh Zeynep, va’ con passo semplice, con coraggio –  rinuncia agli ornamenti. Abbandona l’amore per questo mondo finto, mascherato di bellezza. * Fuzuli È annoverato tra i massimi lirici della tradizione ottomana. Scrisse in arabo, in persiano e in turco, nella variante azera, a testimonianza della sua straordinaria versatilità linguistica. Nacque nei pressi di Baghdad, all’interno di una famiglia illustre che gli garantì un’educazione raffinata e cosmopolita. Eppure, nonostante il talento riconosciuto, non riuscì ad accedere alle alte cariche di corte, spesso riservate a poeti di minor ingegno ma maggior favore. Il suo nom de plume, singolare e provocatorio, significa “irriverente”, “inappropriato” – ma anche “dotato di molte abilità”: segno di un’autoironia consapevole, propria di chi desiderava distinguersi con discrezione, restando umile e al contempo unico. Se il mio cuore fosse un uccello selvatico, farebbe nido nel riccio intrecciato dei tuoi capelli. Ovunque io sia, o jinn, il mio amore dimora accanto a te. Sono felice del mio patire: toglimi la mano dal rimedio che potrebbe guarirmi. O medico, non cercare di salvarmi: il veleno che mi consuma è la tua vera cura. Non ritirare con timidezza il lembo dalle mani di chi ama: fa’ attenzione — perché le mani che sfiorano la tua veste, se vuotate d’improvviso, pregherebbero con furore il cielo. Le schegge del mio cuore frantumato giacciono trafitte dalle punte di lancia delle tue ciglia. Addormentati, ebbra della tua bellezza, e chiudendo gli occhi ricuci il mio cuore. Separarmi da te è morire, è la fine stessa della vita. Mi stupiscono coloro che vivono a lungo lontani da te, senza impazzire. Lo stoppino del tuo spirito è attorcigliato come il riccio di giacinto dell’amata. E tu, Fuzuli, non sperare di liberarti — finché non brucerai, come candela, nel fuoco dell’amore. * Bâkî Nacque a Costantinopoli agli inizi del Cinquecento. Dotato di ingegno vivissimo e di un’acuta intelligenza, seppe affermarsi rapidamente nel mondo delle lettere, nonostante le sue origini modeste. Fu tra i poeti prediletti di Solimano il Magnifico, che ne riconobbe il valore e lo insignì di prestigiose cariche a corte. Alla morte del sultano, ne cantò la memoria in un’elegia che rimane tra le vette insuperate della poesia turca. È considerato da molti il più grande esponente della lirica ottomana, tanto da essere celebrato come “il sultano dei poeti”. E forse non è un caso che il vertice di quella luminosa tradizione sia stato raggiunto proprio da un figlio del Bosforo. Mia amata, sin dall’inizio siamo schiavi del re dell’amore. Mia amata, siamo il sultano celebrato nel dominio segreto del cuore. Siamo come papaveri di questa steppa, col cuore bruciato, annerito dal dolore. Mia amata, sii nube generosa — non negare l’acqua al cuore assetato. Il destino, scorgendo in noi un gioiello, ha squarciato il nostro petto. Mia amata, ha lasciato il corpo sanguinante, privato della conoscenza ardente dell’amore. Non lasciare che la polvere del dolore intorbidi la fonte della tua anima. Mia amata, è per noi che i volti splendono con orgoglio sulle terre ottomane. I versi di Bâkî circolano nel mondo come coppa colma alla festa degli amici. Mia amata, siamo la coppa e il coppiere di quest’epoca che gira come un astro. * Nâbî Poeta della fine del Seicento, Nâbî rappresenta una delle voci più originali della poesia ottomana classica. Nato a Urfa e attivo a Istanbul, fu testimone di un’epoca di decadenza politica e morale. I suoi versi si distinguono per un tono ironico e disincantato, che spesso smaschera le vanità del potere e gli inganni del desiderio. La sua poesia assume talvolta un tono satirico, talvolta elegiaco, ma sempre guidata da una lucida visione etica. In Nâbî, il ghazal si fa riflessione sul senso della vita e sulla fragilità delle ambizioni umane.  Nel giardino del tempo e del destino abbiamo visto insieme l’autunno e la primavera; abbiamo attraversato il tempo della gioia e quello del dolore. Non vantar troppo il tuo orgoglio: nella taverna della buona sorte abbiamo incrociato mille ubriachi, inebriati della propria vanità. Abbiamo ammirato innumerevoli fortezze di pietra, innalzate nella terra della fama mondana, eppure nessuna ha retto al fragore esploso di un cuore spezzato. Abbiamo visto un diluvio di lacrime scaturire dal popolo afflitto, e con un ruggito abbiamo assistito al diluvio che sommerse dimore e destini. Abbiamo incrociato innumerevoli cavalieri rapidi, in questo campo di battaglia, a cui resta come unico tesoro la freccia letale del sospiro d’amore. Abbiamo incontrato molti orgogliosi, vestiti di alte cariche, che un giorno attenderanno, a mani giunte, alla soglia degli altri. O Nâbî, abbiamo ammirato tanti bevitori, alla festa della vita, che han barattato la coppa colma dei loro desideri per la ciotola di un mendicante. *Le traduzioni sono di Lorenzo Giacinto In copertina: il sigillo di Solimano il Magnifico L'articolo “Nel giardino del tempo e del destino”. Breve viaggio nella poesia classica ottomana proviene da Pangea.
July 17, 2025 / Pangea
“Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura, quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” – un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali: moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna privata. Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un trentennio. Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.  Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:  > «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco > Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».  La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere quest’uomo. È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.  Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi. La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia Minore. > «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto > allontanarsi da me quanto il II secolo».  Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci attende l’opera compiuta?  Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza. I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e salvato dalle fiamme. È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era? Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima, la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni – così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta. > «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello > che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla > di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le > angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e > della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì > sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste > portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore». Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini, obbedendo alla loro vocazione di amore e candore. Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile. Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.  > «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei > fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi > della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata; > quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il > servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato > detto; quello che potevo apprendere è stato appreso. > > Occupiamoci ora di altri lavori». Lorenzo Giacinto L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
June 20, 2025 / Pangea
“Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera: corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito. Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito da Giasone. Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità. Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo, lo ha scritto Elitis:  > “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.” E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e dolce come mosto, in puri esametri greci.  La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo, leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e sotto l’epidermide.  Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare: > “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché > la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene > della grecità.” Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena: qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo, attraverso e al di fuori del tempo. > “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia > Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.  > Solo Poesia è > Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta > Come forse l’hanno immaginata le prime due creature > Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”    > > (Odisseas Elitis, Come Endimione) Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni – fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì, anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono nuove rotte da percorrere con fremito di piacere. > “Il giovane professa il proprio amore > E l’ateniese ascolta silenziosa > Il suo eloquente innamorato Orazio; > e del grande italiano la passione > con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”                   > > (Kavafis, Orazio ad Atene) Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani… Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia, arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra. Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.  La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua, l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in mente ancora una volta Kavafis:  > “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora, > le loro anime te ricordano ancora. > Quando l’alba d’agosto splende su di te > Un rigoglio della loro vita percorre l’aria; > e un’eterea forma di adolescente, a volte; > indistinta, con passo celere, > incede sopra le tue alture.” > > (Kavafis, Ionico)  A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta, trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone. Su tutto, il bianco e l’azzurro. Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis: > “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante > bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un > intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre > parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire: > concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre > primo.” Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,  > “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”. Lorenzo Giacinto *La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di Paola Maria Minucci L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce proviene da Pangea.
June 6, 2025 / Pangea
“Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo della mente
Lawrence Durrell porterà sempre con sé l’impronta luminosa di un’infanzia mitica, vissuta tra le valli immense ai piedi dell’Himalaya. Una nostalgia scitica – fatta di cieli purissimi, del lampo negli occhi di una tigre, del passo ieratico di uno yak – non lo abbandonò mai: forse il desiderio, mai appagato, di ritrovare altrove quella prima, segreta armonia.  La sua esistenza, come la sua scrittura, fu tutta votata al nomadismo: dall’India all’Inghilterra, dalla Grecia all’Africa, dal Sud America alla Francia. Poeta, romanziere, spirito inquieto e cosmopolita, amico fraterno di Henry Miller e di Giorgos Seferis, Durrell riposa oggi in un cimitero silenzioso della Provenza. Ma fu un luogo in particolare – oltre a Cipro, amata e dolorosa – a marchiare a fuoco la sua immaginazione: Alessandria d’Egitto. Da quella città molteplice, mitica e carnale, scaturì uno dei cicli romanzeschi più affascinanti del Novecento, il “Quartetto di Alessandria”, vertigine di tempo, memoria e desiderio. * Il libro si apre in un altro luogo del cuore di Lawrence Durrell: un’isola delle Cicladi, che in realtà è Cipro, dove il poeta acquistò una casa e visse per anni immerso nella vita della comunità locale, imparando anche la lingua greca. È tra l’ocra delle case e della sabbia egiziana e l’azzurro profondo del Mediterraneo che si dispiega lo sguardo interiore di Durrell. Nella solitudine assorta dell’isola greca, la memoria delle vicende vissute ad Alessandria poco più di un decennio prima riaffiora lenta, seguendo il ritmo delle onde che lambiscono il bianco calce dei porticcioli. A separarlo dalla città egiziana sono appena cento chilometri di mare – eppure l’anima si tende come un ponte invisibile tra i due mondi: un cortile greco ombreggiato da ulivi, il sorriso obliquo di una donna cipriota, un cielo che esplode d’azzurro di giorno e si vela, la notte, di una costellazione di stelle cerulee. * Il khamsin è un vento che nasce dalle profondità del Sahara. Soffia impetuoso lungo tutta la fascia orientale del Nordafrica, investendo anche Alessandria d’Egitto, che ne subisce la furia nei giorni sospesi della primavera. Irrompe come presagio nella terza parte di Justine, primo movimento del “Quartetto di Alessandria”. La città si ritrae sotto una coltre ocra di sabbia e silenzio. Le imposte si chiudono in fretta; dietro le feritoie, occhi in allerta scrutano la polvere che avanza. La luce si vela di bagliori apocalittici, il cielo si tinge di una minacciosa oscurità. Le feluche ondeggiano lente, consapevoli del pericolo imminente; a bordo, le ciurme si muovono come spettri d’acqua, presenze furtive tra le ombre del porto. Con la stessa violenza del khamsin, l’appello dei sensi e il desiderio di piacere si abbattono sugli abitanti della città, trafiggendoli come una scarica elettrica che li lascia storditi, spossati, annientati. I corpi, come le case, restano inermi sotto la furia degli elementi, tra le rovine visibili e invisibili che l’eros e il vento seminano nella polvere. * Alessandria, Alessandria! Quale altra città scegliere, che già non porti nel nome come il presagio di un destino? In quale altro luogo, sulla terra, la scomparsa delle meraviglie antiche diventa meravigliosa metafora del rovinoso incedere del tempo? È qui che palpita una splendida e drammatica galleria di personaggi – Justine, Nessim, Melissa, Darley – che attraversa tutto il libro e continuerà poi a illuminare, in un raffinatissimo gioco di specchi e punti di vista, le altre opere del Quartetto: Balthazar, Mountolive, Clea.  * Nessim, ricco possidente egiziano e marito di Justine, dissimula, dietro una cordiale esposizione pubblica, il disordinato viluppo dei suoi pensieri verso la moglie. Ne seguiamo la parabola interiore, che lo conduce dapprima a un’immaginazione venata di follia, dove i fantasmi della gelosia sfilano insieme all’ossessione del sospetto. Dopo la partenza di Justine, la sua presunta convalescenza non è che una maschera fragile: sotto di essa si spalanca un vuoto silenzioso, irreparabile. Melissa, la compagna del narratore, figlia dei bassifondi della città e ballerina di cabaret, non priva di una sua grazia che leviga gli angoli di un’aderenza tutta terrestre alla corporeità. Un candore di innocenza, unito alla frequentazione del vizio per pura necessità e non per inclinazione, la rendono quasi una martire. È forse l’unica figura del romanzo capace di com-passione, in grado di intuire il tumulto che si dispiega nel cuore di Nessim. Con la morte di Melissa – l’unica per cui l’amore non richiede gli eccessi dell’intelletto, ma solo la purezza della natura – si spegne anche la speranza di una compiuta dimensione sentimentale proiettata nel futuro. Justine, la donna che dà il titolo al romanzo, è ispirata a Eve, che Durrell conobbe proprio durante la sua parentesi in Egitto. Ebrea colta e aristocratica, Justine sembra uscire da un libro surrealista. Simile a Nadja nel suo inesausto peregrinare, con il suo enigmatico lampeggiamento interiore smentisce ogni principio di causalità. Convivono in lei la Musa e la santa, la martire e la cortigiana, l’amante e l’accanita fedifraga. Regna in Justine una fatale impossibilità alla fedeltà, come se concedersi ai suoi pretendenti fortificasse dentro di lei l’immagine del vero amato, rinchiuso come in una stiva sballottolata dalla tempesta a largo. Donna aracnide, tesse una tela dove a turno restano invischiati Arnauti – che su di lei scrive delle feroci memorie, Moeurs –, Nessim, Darley, ma anche Clea, misteriosa pittrice che vive in completa solitudine. Persone, storie, libri, lacrime e orgasmi conducono come un vortice rapinoso, un ago magnetico, verso la loro sorgente creatrice e disgregatrice. L’improvviso congedo di Justine sarà il nodo di scioglimento dei personaggi che le gravitano attorno, ma anche dalla Palestina, dove si è trasferita a vivere in un kibbutz, l’eco della sua memoria continua a risuonare in Egitto. Divinità ferina metà ellenistica e metà egizia, Justine assurge a simbolo di Alessandria. Infine c’è Darley, alter-ego di Durrell e narratore del romanzo. Anche lui cade vittima del fascino ipnotico di Justine e dell’atmosfera mollemente sensuale di Alessandria, dove le persone sembrano pedine su una scacchiera manovrata da una continua e sfrenata gratificazione della sensorialità. Svuotato da una ricerca tanto effimera quanto estenuante, Darley sembra orientarsi infine verso il tentativo di trovare un legame di sincera amicizia, capace di mettere in comunicazione il cuore autentico di due individui. Ma la sua fuga verso l’isola greca suona come una silenziosa resa: la conoscenza e lo schiudersi reciproco delle anime paiono destinati allo scacco. Forse, solo la bambina che Darley porta con sé accende un barlume di speranza: una promessa muta, rivolta a un futuro che, almeno in potenza, si riappacifica con la parte migliore dell’uomo. Dove si situano l’arte, la letteratura, all’interno di questa cornice? Può uno scrittore, che ha fibra di poeta, trovare una scia luminosa nel tumulto dei gesti e della memoria? Forse non si manca di molto il bersaglio affermando che il tema principale del libro sia la trasfigurazione della realtà attraverso il prisma dell’arte. Solamente sul piano della creazione letteraria, sembra dirci Durrell, i confini della vita e dell’arte si allargano smisuratamente: > “La ricompensa del lavoro che si compie con il cervello e con il cuore sta in > questo – che solo lì, nei silenzi del pittore o dello scrittore, la realtà può > ricevere un ordine nuovo, essere rielaborata e costretta a mostrare il suo > senso. Le nostre azioni quotidiane nella realtà sono semplicemente il > materiale grezzo che nasconde il filo aureo – il senso della composizione. Per > noi artisti è lì che il compromesso gioioso dell’arte con tutto quello che ci > ha ferito o sconfitto nel vivere quotidiano ci attende; in modo tale da non > eludere il destino, come vorrebbero le persone comuni, ma per compierlo nella > sua potenzialità reale – l’immaginario”. Ma anche il groviglio di vicende e sentimenti è destinato a disfarsi sotto l’opera sottile del tempo: i ricordi lentamente trascolorano, i volti si fanno evanescenti. Solo Alessandria rimane, e nella memoria si erge come il suo Faro perduto, sentinella immobile tra i flutti del mondo e quelli, più segreti, di Mnemosine. * Alessandria, oh Alessandria! Città del mito, della storia che si fa archetipo, patria del sogno e di un tempo disperso, quando i sensi guidavano cuore, mente e mani; un tempo ormai sfocato all’orizzonte della vita, che solo il fulgore dell’arte può riportare alla luce, in un lampo di miracolo. L’Alessandria del passato si confonde con quella del presente: città subliminale, frontiera dello spirito, atteggiamento unico e irripetibile nei confronti del vissuto. Ne è cantore meraviglioso e insuperabile Kavafis, che alla città egizia ha dedicato tanta parte della sua opera. Numerosi sono, nel romanzo, i rimandi – diretti e sotterranei – a Kavafis: poeta della nostra Itaca interiore, della promessa racchiusa nei porti fenici, di uno sguardo ionico innestato a una sensualità asiatica; padre di un linguaggio che, come miele colato da un vaso attico, scende nei cuori di chi ama la Poesia. Il libro di Durrell è anche un omaggio straordinario – forse tra i più vibranti mai tributati – al poeta greco: > “L’equilibrio squisito tra ironia e tenerezza l’avrebbe fatto includere tra i > santi, fosse stato religioso. Ma per volere divino era soltanto un poeta e > spesso infelice, anche se con lui avevi l’impressione di essere con qualcuno > capace di afferrare al volo ogni istante del tempo e di capovolgerlo per > mostrarne l’aspetto felice. Consumò veramente sé stesso, il suo io interiore, > vivendo. La maggior parte della gente si adagia e lascia che la vita giochi > con loro, fermi sotto la vita come sotto i tiepidi scrosci d’una doccia. Alla > proposizione cartesiana «Penso, dunque sono» contrapponeva la sua, che forse > doveva suonare pressappoco così: «Immagino, dunque ho radici e sono libero»”. Alessandria, presagio di un’epoca in cui estetica e creazione coincidevano; nostalgia di un’armonia esplosa poi in mille frammenti. Solo di questi frammenti, e di schegge di desiderio, possono accontentarsi i protagonisti di Justine. Darley, il narratore, è come Rembrandt: ritrattista letterario della carne e dei suoi fremiti. Città-labirinto nella quale si resta intrappolati, alla quale si offre la propria interiorità senza riceverne nulla in cambio, Alessandria è avvolta insieme dalla luce del meriggio e dall’ombra del crepuscolo. È possibile allora – parafrasando ancora Kavafis – andare per altre terre, per altri mari, verso una più città più bella anche dei sogni?  La risposta, indimenticabile e luminosa, arriva dalle ultime righe di Clea, il romanzo che chiude il Quartetto: > “Sì, un giorno mi sorpresi a scrivere con mano tremante le quattro parole > (quattro lettere! quattro volti!) sulle quali ogni narratore dall’inizio del > mondo ha puntato il suo debole diritto all’attenzione dei suoi simili. Parole > che presagiscono semplicemente la vecchia storia di un artista divenuto > maggiorenne. Scrissi: C’era una volta… > > E mi parve che l’universo intero m’avesse fatto un cenno d’intesa!” Lorenzo Giacinto *In copertina: Anouk Aimée è stata “Justine” nell’omonimo film di George Cukor del 1969, tratto dal romanzo di Lawrence Durrell L'articolo “Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo della mente proviene da Pangea.
June 2, 2025 / Pangea
Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo? «Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli luminose dell’Himalaya. Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti? Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico, trasfigurandolo in desiderio. Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia, popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso. E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla meraviglia. * Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi – Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili, nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano. Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini, invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci dell’immaginazione. Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo, contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è legato da una profonda riconoscenza.  Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine: l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica, capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese, nascono quasi degli Haiku in prosa: > “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati > all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada > imperlava di luce”. Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto. Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci: geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco: maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo lirismo proprio nell’evocazione di Pemà. La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece, sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei, stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene l’inglese e i grandi autori della letteratura.  La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18 maggio 1948  Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari. C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla nostra?  Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano, come per incanto:  > “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i > puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i > campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della > Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle > distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti > svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci > degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da > difendere, da condurre di là dall’Imàlaia” * Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare, dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.  Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.   Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche, un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e dolcezza, umorismo e compassione.  * Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti, pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di stoffa tibetane.  Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone. Lorenzo Giacinto *In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963. Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza. Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe: > “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la > famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma > alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena > di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura > del nostro debole cuore”. * La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953. Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est, con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.  Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione poetica. * Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni. Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa trasmutazione alchemica. La poesia, dice, > “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”. Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera del silenzio. * Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati lampeggiamenti interiori. * Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna luce delle costellazioni.  Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.  Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto, nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine, di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio dell’aria, come all’inizio dei tempi. * La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare. > “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare, > dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”. E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi disertati, stazioni di treni e mercati orientali. Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di stampo lirico-elegiaco. La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello sguardo muto dell’universo.  Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso ritegno: > “ma che la neve caduta questa notte > sia come un dito sulla tua bocca” * Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo sguardo.  Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro e fuggire nel caldo ventre della terra.  Lorenzo Giacinto ** Ulisse A sud del parapetto, non c’è più nulla fino alla Terra Antartica. Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini, questo portolano increspato d’onde, dove immense porzioni di cielo si abbattono in scrosci spossati, senza che Dio stesso ne sia messo al corrente. Ogni sera guardi il calice del sole tuffarsi urlando nel mare a chiazze, tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo accovacciati tra le gomene. I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua, come una banda di gioiellieri in fuga. Sono mesi che non ricevi una lettera, sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave, il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano, già tutto nero di ricordi. Ti annulli nel fremito delle eliche, ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –  coaguli di sole della memoria, e l’inventario delle meraviglie, quando sapevi vivere di poco, e la vita ti seguiva come uno sciame d’api, e pagavi, senza mercanteggiare, il prezzo esorbitante della bellezza. * Hira – Mandi Ultima bottega ancora aperta nella notte della città –  ghirlande di peperoncini, samovar e falene, alone bianco dell’acetilene. La barba del padrone è tinta di un rosso birichino. Tre uomini vestiti di cuoio sorseggiano il tè versato nei piattini. Alti zigomi, che brillano nei volti color rame sotto la frangia di cappelli informi. Sono pellegrini del Tibet, in cammino verso l’India del Gange per appendere il loro mulinello da preghiera ai rami del fico del Buddha, prima di tornare alle loro terre a fiato corto, a piccoli passi, attraverso quei confini impraticabili che passano sopra le nuvole. Anch’io ho un appuntamento con un albero. E in ogni caso non c’è più verso di dormire quando la luna veleggia come una vela gonfia, così brillante, così veloce, che persino l’anima ne proietta un’ombra. * Love Song III Quando attizzare le parole per un po’ di colore non sarà più compito tuo, quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza, quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza, non farà più tremare ciò che credevi solido, quando il freddo avrà salutato il freddo e l’oblio dirà addio all’oblio, quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del vischio –  quel giorno, qualcuno ti aspetterà al margine della strada per dirti che è stato giusto così, che dovevi concludere il tuo viaggio senza più nulla, del tutto disarmato, allora forse… ma che la neve caduta questa notte sia anche come un dito sulla tua bocca. Nicolas Bouvier Traduzione di Lorenzo Giacinto L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier proviene da Pangea.
April 29, 2025 / Pangea