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“Io sono intraducibile”. Walt Whitman, il poeta titano
La prima, autentica edizione italiana integrale di Foglie d’erba uscì nel 1950, a cura di Enzo Giachino – Einaudi la pubblica ancora. L’edizione del 1907 era – giustamente – definita “antiquata”: il traduttore, Luigi Gamberale, si era volto allo studio di Whitman su consiglio di Pascoli. Il libro stampato da Einaudi, di biblica consistenza – quasi mille pagine, comprensive di una selezione di Prose whitmaniane –, ha un sovrappiù in commozione: quell’anno, a fine agosto, era morto, per scelta, all’Hotel Roma di Torino, Cesare Pavese. Proprio a lui, “che alle pagine del poeta americano fu legato da sensibile amore fin dagli anni della giovinezza”, è dedicata quella traduzione. Pavese si era laureato Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman nel 1930; in qualche modo – basta leggere Lavorare stanca – voleva essere il Whitman delle Langhe. Il più acuto lettore di Foglie d’erba in Italia resta tuttavia Dino Campana: il formidabile poeta cita Whitman a sigillo dei Canti Orfici; “Leaves of Grass è talmente importante da essere l’unico libro che porta con sé in Argentina” (Gianni Turchetta, in: D. Campana, L’opera in versi e in prosa, Mondadori, 2024).  Enzo Giachino, nella sua succinta introduzione, registra i temi fondamentali di Foglie d’erba: il rapporto consustanziale tra opera e autore, il canto del corpo liberato e della libertà democratica, l’io lirico che impregna di sé ogni singolo incanto del creato, dal più umile prato al presidente Lincoln; quella scrittura dionisiaca. L’idea, soprattutto, del libro totale, del libro-tutto:  > “Il desiderio di dare finalmente al paese il suo poema nazionale, la sua > Bibbia poetica fu certo uno dei motivi e delle illusioni che indussero il > Whitman a comporre le Foglie d’erba”. La prima edizione di Foglie d’erba – alquanto diversa dall’ultima, la cosiddetta deathbed edition, allestita in punto di morte, nel 1892 – era uscita quasi un secolo prima, nel 1855: nella tonante ouverture, il poeta lega inscindibilmente il poema alla nazione,  > “L’anima della più grande, della più ricca, della più fiera nazione può ben > avanzare a mezza strada per incontrare l’anima dei suoi poeti”.  Foglie d’erba – con quel titolo stagionale, di vita che viene e muore e rinasce – è “l’America” e “gli Americani”; quanto a Whitman, egli è al contempo Omero, Shakespeare e Mosè. Che paradosso: un secolo dopo la prima edizione di Foglie d’erba, Thomas H. Johnson edita, in tre volumi, i Poems of Emily Dickinson; Emily era morta nel 1886. Da allora, da settant’anni, gli Stati Uniti d’America hanno i loro libri-titani, i tomi-totem, la loro Iliade e la loro Odissea, la Teogonia e l’Edda.  Già Giachino aveva avvisato che “l’arte del Whitman è ardua”, che occorre indagarne, oltre il “primo senso evidente… la segreta armonia che si cela e si svela”. Sostanzialmente, è il concetto proposto da Alberto Cristofori, che ha curato una nuova, colta versione del Canto di me stesso (Edizioni Low, 2025) insistendo sulla manicale consapevolezza di Whitman, tutt’altro che “poeta ingenuo, spontaneo”. D’altronde, Harold Bloom, l’insigne critico americano, strenuo difensore del Canone occidentale, insegnava a leggere Whitman come un oracolo. A suo dire, “Whitman è l’alto sacerdote di quella che chiamo Religione Americana, una bizzarra fusione di Entusiasmo e Gnosticismo”. Bloom ha scritto che Foglie d’erba è il libro perfetto per l’isola deserta, quello da cui rifondare un mondo; ha scritto che  > “Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo, il Vecchio Adamo e il Nuovo… un > poeta universale che sopravvive alle traduzioni e alle revisioni radicali”.  In Italia, non si contano le traduzioni di Whitman, il poeta che si diceva untranslatable; in parte le ha conteggiate Cristofori, che traduce i versi più noti del poeta in questo modo: “Il falco maculato scende in picchiata e mi accusa,/ si lamenta delle mie chiacchiere e dei miei indugi.// Anch’io non sono affatto domato, anch’io sono intraducibile,/ Faccio risuonare il mio barbarico yawp sopra i tetti del mondo”. Giachino, al di là di vetuste variazioni ornitologiche (il “falco maculato”, the spotted hawk, è per lui una mistica “aquila grigiolata”), traduce allo stesso modo; io continuo a preferire la versione di Alessandro Ceni, il più autorevole poeta italiano vivente (è da poco uscita per Crocetti la raccolta della sua opera intera, I bracciali dello scudo), dotata di genio eccentrico. Yawp, ad esempio, viene reso con un intrepido – e bellissimo – “graculio”: andate a stanarne il significato (di Foglie d’erba Ceni sceglie “la prima edizione del 1855”, Feltrinelli, 2012). È impossibile misurare la presenza di Whitman nella letteratura occidentale: il Song of Myself ha letteralmente mutato il modo di scrivere in versi, è come passare dal Giurassico al Quaternario, è uno spostamento dei continenti grammaticali. Nel 1909 Ezra Pound stringe “un patto” con Walt Whitman (“Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,/ Ora è tempo di intagliarlo”); nel 1955 Allen Ginsberg vede l’ombra di Whitman, lonely old courage-teacher, in un supermarket californiano. Jorge Luis Borges – che nel 1969 aveva curato un’edizione di Foglie d’erba – fu afflitto da un’ossessione per Whitman. Lo affascinava – come è ovvio – l’idea del “libro dei libri che li reclude tutti”, del “libro assoluto”, ma soprattutto lo sdoppiamento di Whitman: a suo dire – lo scrive nella Nota su Walt Whitman pubblicata in Altre inquisizioni – l’eroico protagonista del Canto di me stesso non ha nulla a che fare con il suo autore, “il modesto giornalista Walt Whitman, nativo di Long Island”, a tal punto che “Passare dall’orbe paradisiaco dei suoi versi all’ispida cronaca dei suoi giorni costituisce una transizione melanconica”. Gli dedicò una poesia, Camden, 1892: il poeta è sul ciglio della morte, “quasi/ non sono, tuttavia i miei versi ritmano/ la vita e il suo splendore”.  Atletico, carnale, sorridente, dal 1873 Whitman era stato falciato da paralisi: a quegli anni risalgono le fotografie del vegliardo con la lunga barba bianca e il mitico ritratto di Thomas Eakins, pittore esaltato dal nudo e dallo scandalo. Durante il tour americano, anche Oscar Wilde fece visita al poeta, rattrappito nel corpo ma non nell’animo, a Camden, New Jersey. “È l’uomo più umile e più potente che abbia mai incontrato in tutta la mia vita”, dichiarò all’“Evening Star”, era il gennaio del 1882 (insieme a una mole di documenti whitmaniani, l’incontro tra Wilde e Whitman è raccolto in: W. Whitman, Non esiste diavolo peggiore dell’uomo. Interviste, De Piante, 2022). “Mi consideravo invulnerabile”, gli sussurrò il poeta, ormai crisalide di se stesso.  “Uomo: come erba i tuoi giorni”, dice il Salmo 103. “Io attraverso la morte con chi muore/ e la nascita con i bambini appena lavati/… Sono l’amico e il compagno della gente, immortale e insondabile come me” (traduzione di Cristofori), canta Whitman, il poeta che fu Genesi. Già morto mille volte in mille uomini e migliaia di volte rinato, dicono che il poeta morì il 26 marzo del 1892. Il cielo era curvo, rade le nubi – seppellirlo fu inutile. Inutile rintracciare il poeta tra feretri e lapidi e studi: bastava passeggiare nei prati per sentirne l’odore. Ineludibile – eterno.  L'articolo “Io sono intraducibile”. Walt Whitman, il poeta titano proviene da Pangea.
August 2, 2025 / Pangea