> “Io non sono un uomo, sono dinamite”
>
> Friedrich Nietzsche
Ci vuole coraggio a leggere Valerio Zecchini, onestà intellettuale, capacità di
ragionare trasversalmente, di confrontarsi criticamente e in solitudine con se
stessi, consapevolezza della provvisorietà di certi giudizi e della
insussistenza della “nera scienza catalogale”, avanguardistica brama
demolitoria, voluttà di cieli e di fango, vocazione per la provocazione e per la
tradizione vivente, che trascende i suoi stessi dogmi, i luoghi comuni.
Con questo spirito e rassegnati financo a non condividere affatto alcune delle
sue tesi, è possibile esperire l’essenza di un libro che è molto più di un
reportage sulle orme di un poco noto fondatore di Stati quale è stato il
carismatico James Brooke. La silloge di articoli, interviste e poesie James
Brooke e altre storie dall’Oriente estremo, edito da Pendragon nel 2025 e
introdotto da Gabriele Marconi, sulla carta prende difatti le mosse dalla
enigmatica, succitata figura per poi discostarsene conservandone per così dire
la tendenza alla esplorazione, a tratti sonnambolica, labirintica e surreale, di
luoghi fisici e metafisici, delle emozioni, delle culture, delle arti, del
pensiero. L’idea di partire da James Brooke, ovvero dal cattivo della saga
salgariana di Sandokan e ispiratore di Lord Jim di Conrad, ha qualcosa di
libertario. Brooke, ancora oggi celebre nel mondo anglosassone e pressoché
sconosciuto in Italia, non fu infatti soltanto un individuo benestante di sangue
inglese nato in India da un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e
un ufficiale della marina britannica, ma un rajah bianco che governò in
autonomia ed estese lo Stato del Sarawak fondando nella città dei gatti
(Kuching) una vera propria dinastia (1841-1946). Brooke realizzò anche un
originale esperimento politico che non si ridusse alla guerra contro i pirati
malesi e i cercatori di teste avendo invece come principio fondamentale il
coinvolgimento dei nativi (“ideologia dell’imperialismo umanitario”); dotato di
“semangat” (“coraggio fisico, carisma, forza spirituale”), fu pure un elegante
libertino; un omosessuale amante come Pasolini di giovani in un tempo in cui
l’adolescenza, scrive Zecchini, non era stata ancora inventata; un artista, se
accettiamo di annoverare tra le arti quella della vita. E in fondo l’idea
secondo cui l’arte e la vita siano una sola cosa e che dunque, sprofondando
talvolta nell’abisso di abbandonate strade e parole, si debba forgiare
l’esistenza come un’opera, è il retroterra di molte delle riflessioni di
Zecchini, il quale è primariamente – potremmo dire alla Wagner “totalmente” – un
artista (non a caso fondatore, col compianto Dario Parisini e Luca Oleastri, del
post-avanguardistico progetto poetico-sonoro Post Contemporaney
Corporation nonché artefice nel 2024 dell’evocativo, visionario, corrosivo,
esoterico e a dir poco provocatorio album Patriottismo psichedelico).
Certo, la parola “artista” potrebbe fuorviare laddove si intendesse alludere a
un certo tipo di “sentimentalismo abietto” che, potendo sfociare in un cieco e
vuoto individualismo edonistico, potrebbe ingenerare cedevolezza interiore,
debolezza di carattere e di pensiero. L’arte di Zecchini non ha infatti nulla di
cedevole ma molto di eroico, marziale, immaginifico, “futuristico”, potentemente
dadaistico – come mostra lo stesso incedere dei suoi irriverenti versi declamati
e delle poesie presenti nella stessa raccolta. E, in effetti, ciò che attrae di
più di questo libro e in parte della stessa produzione musicale di Zecchini, non
ha a che fare soltanto con le seppur stimolanti informazioni di prima mano sulla
situazione di vari Stati dell’Estremo Oriente e con la vivida capacità di
scandagliarne l’anima al di là dei fenomeni politici transeunti. Ciò che
coinvolge e apre maggiormente alla riflessione è piuttosto la weltanschauung da
cui tutto, esperienze e viaggi compresi, si anima. Ci si riferisce all’idea
secondo cui la stessa Tradizione resta viva e non scade in “stolida adorazione
della consuetudine” nel momento in cui la si interroga e violenta tutti i
giorni; ci si riferisce inoltre alla volontà di decostruire con spirito
iconoclasta l’uomo contemporaneo e i suoi “troppo umani” ideali per dischiudere
una via che conduca alla formazione dell’individuo assoluto – tipo umano
diametralmente opposto all’ultimo uomo che solca con esibizionistica spavalderia
e sconfortante superficialità le lande di questa età oscura.
Per realizzare questo compito dalla portata metafisica si dovrebbe procedere
oltre le de-terminazioni incasellanti, praticare se stessi al di là del bene e
del male, sprigionare le energie ataviche e avvicinarsi a una dimensione
di coincidentia oppositorum da cui diventare dinamicamente “ciò che si è”.
Considerando questi principi che, pur discostandosene parecchio, sembrano qua e
là rievocare per quel che concerne gli argomenti la metafisica del sesso di
Julius Evola, è possibile – ma non facilissimo né necessariamente condivisibile!
– interpretare la pratica del travestitismo come un modo per trascendere i
propri limiti e identificarsi, mediante una esistenza estetica e controcorrente,
con un essere androgino. In questo senso viene analizzata la figura
dell’Onnagata del teatro giapponese che, pur essendo di sesso maschile e non
profanando il proprio sacro corpo, si veste e vive come una donna non soltanto
quando recita, ma anche quotidianamente. Egli ha così modo di immedesimarsi
integralmente con la figura primordiale che rappresenta “facendo della sua
esistenza un sublime esercizio di stile”, realizzandosi hic et nunc, “come se si
fosse sempre in punto di morte”. Per evitare che il discorso tracimi nella
celebrazione del mondo LGBT e dunque del mondo moderno che lo incornicia,
Zecchini, pur non scadendo in una acritica e banale demolizione di questo
universo ma ricordando comunque “l’edonismo pezzente che domina il mondo drag
queen e transgender”, sottolinea come nell’età classica l’omosessualità fosse
vista alla stregua di un potenziamento della virilità e assumesse in certe
culture orientali una funzione sacrale, essendo l’omosessuale considerato una
sorta di tramite tra il mondo fenomenico e quello sovrannaturale, degli dèi.
Nella misura in cui non degenerino in forme di individualismo materialistico e
di nichilismo passivo ma siano pura epifania di un’“etica della gioia”, di un
“militarismo che danza”, certe esperienze erotiche e la relativa estetica
assumerebbero perciò un valore esistenziale, filosofico, finanche morale. Non si
tratterebbe infatti di rivendicare semplicemente i propri diritti e di
combattere per l’esaudimento dei propri desideri, ma di esperire quasi
cristologicamente il proprio dolore minando con grazia, artisticità e colore i
duri involucri che imprigionano e irretiscono le energie primigenie per farle
eruttare in una sorta di amoralistica volontà di potenza oltre ogni limite
imposto:
> “dare precedenza a un ideale estetico e non alla solita, obbligatoria logica
> del profitto è un atteggiamento che oggi già di per sé assume una valenza
> quasi eroica”.
In questo senso si comprende quanto l’autore scrive di Mishima:
> “nella sua vita e nella sua opera le virtù virili archetipiche (audacia e
> determinazione, senso dell’onore, controllo delle passioni, resistenza al
> dolore) incontrano finalmente la grazia e l’eleganza”.
Nella intervista contenuta nel libro il poliedrico artista spiega tra l’altro la
teoria del quarto sesso – “quarto” rispetto a maschile, femminile, omosessuale.
Zecchini rispolvera a tal proposito il Manifesto della donna futurista e
il Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point e cita il
“femminismo differenzialista” di Luce Irigaray pensando che ritenere nulle le
differenze tra i sessi costringa infine il femminile ad adeguarsi al modello del
“maschio integro”; Zecchini afferma che le differenze tra i sessi vadano
sviluppate ma che allo stesso tempo alcuni possano sperimentare “le pluralità
contenute in quelle differenze” per “vivere negli stati molteplici dell’essere”
puntando “all’inveramento dell’individuo unico e assoluto” e trovando nel
travestimento stesso la modalità per esplorare la vera essenza dell’uomo:
l’angelo, “entità androgina per antonomasia”. Il poeta ci tiene altresì a
sottolineare che il quarto sesso non è altro che lo stesso Zekkiny:
> “l’altissima qualità della sua vita interiore, la sua sovrabbondanza ormonale
> e il modo in cui reagiscono la sua opera e il suo mondo relazionale a tale
> sovrabbondanza”.
Di conseguenza pare che, pur essendo rispettate e sviluppate le differenze di
genere, queste si possano evidentemente celare financo in uno stesso individuo e
solo pochi avrebbero la capacità estetica di attuarle tutte e di coagularle
alchemicamente in un unico plurivalente modo di essere tramite la via della
“sperimentazione dinamica”. È così che, oltre al sottofondo antiumanistico che
ricorda per certi versi l’analisi heideggeriana e ai riferimenti alla
riflessione filosofica e artistica post-contemporanea, si colgono i richiami
nietzscheani che tra l’altro indirizzano a rivalutare in positivo
l’estetizzazione della esistenza, la quale, però, non deve innescare recessivi
fenomeni di infiacchimento, ma al contrario autodisciplina, lavoro incessante su
se stessi, spasmodica cura dei particolari e dello stile, spirito guerriero,
forza plastica, a un tempo dionisiaca e apollinea, femminile e maschile. Nella
esperienza di alcuni individui straordinari, ovviamente non necessariamente
omosessuali, l’uomo sarebbe destinato a essere superato o, a seconda di come si
interpreta la stessa nozione di Übermensch, potenziato a tal punto da
oltrepassare la mera individualità egoica e le sue rigide conformazioni per
essere come le onde del mare altro dal mare e lo stesso mare, la sua indomita,
sempiterna, multiforme, elementare energia creatrice. Questa trasfigurazione che
assume valenze esoteriche e dopo la morte di Dio sfocia in una sorta di estetica
pratica dell’estasi, coinvolge l’esistenza integralmente facendo dell’arte un
modo religioso della vita e della vita un modo religioso dell’arte. Siffatta
sacrale estetizzazione non può rinnegare i materiali che utilizza per conferire
bella forma al mondo.
Affiora perciò non solo la propensione a considerare il nichilismo in senso
attivo ma a cavalcare senza remore moralistiche la tigre della modernità
servendosi dei suoi stessi strumenti tecnologici e virtuali; per questo ad
esempio sono valutate positivamente la “poetica del pixel” di Yayoi Kusama e la
connessa filosofia della “self-obliteration” che intende “annullare l’io di
superfice e farlo uscire dal gioco dei ruoli e delle funzioni” per “percepire
noi stessi in modo tale da pervenire ad un’inscindibile armonia tra intimo ed
estrinseco”. Epperò, se da un lato è necessario decostruire per ricreare e
redimere il mondo nella bellezza, dall’altro bisogna essere inattuali e, al di
là della stessa avanguardia, indossare “la lucente corazza della Tradizione”
facendone propri i valori essenziali: coraggio iconoclasta, aristocratico senso
della irriverenza, ardore e senso della sfida, dignità e “capacità di sapersi
accontentare” contro la morbosa etica del profitto, “autentico cameratismo” ,
“amore per la natura” e non per l’efficienza, “amore di patria” e non
“sciovinismo”, saper essere all’occorrenza semplici e frugali, capacità di
comandare e di avere fede, ad esempio nell’Imperatore. I nomi che in un modo o
nell’altro e ognuno in modo originale hanno costruito delle vie in un certo
senso estetizzanti e assai critiche rispetto al mondo moderno sono tanti, tra
questi Pound, D’Annunzio, Keller, Miller, Marinetti, Carmelo Bene, Dino Campana
e vari altri artisti come Andy Warhol o Takashi Murakami, musicisti come
Battiato e scrittrici come Wei Hui.
Il superamento estatico della morale borghese e del moralismo nonché la stessa
sublimazione estetica e la capacità di disfare l’individualità “per approdare
all’oceano della pura coscienza” ed “essere tutto senza tentare di essere
qualcosa”, possono concretarsi anche nella via dello zen (“raccoglimento e
silenzio”) o nella via del rumorismo elettronico (“pulsare ossessivo del ritmo”)
e possono produrre a seconda dei casi anche l’auto-annientamento – di cui è
emblema moderno il sacrificio catartico di Mishima.
Il libro di cui si discute è denso di informazioni sugli Stati asiatici dei
quali Zecchini ha vissuto con poetico slancio dionisiaco strade, uomini e numi.
Non ci troviamo perciò davanti a una esegesi che pecchi di astratto accademismo,
ma di fronte a una interpretazione assai personale della civiltà orientale che
si incontra con la corruttiva occidentalizzazione, con la globalizzazione e che,
in alcuni casi, fa i conti col devastante passaggio del comunismo. E se con
perfetta, a tratti spietata sincerità l’autore osserva come buona parte degli
Stati in questione siano assai diversi dall’idea rarefatta che di solito se ne
ha in Occidente, ci fa percepire pure che qualcosa di originario è rimasto.
L’originario, però, è tale se è in grado di reinventarsi illimitatamente, come
fanno alcuni leader orientali armonizzando consumismo ed ecologismo, libertà e
senso della comunità, crescita economica e solidarietà, modernità e tradizione,
io e noi. Con Zecchini si ha l’impressione che l’Occidente possa essere letto a
partire dall’Oriente e l’Oriente a partire dall’Occidente per approdare forse a
una nuova, viva sintesi che, pur rispettando le reciproche differenze, parimenti
le distilli e potenzi in una originale concezione del mondo e
dell’uomo. Leggendo Zecchini si ha infine l’impressione che nella autentica
ricerca di se stessi gli schemi debbano per forza saltare in aria e i luccicanti
frantumi barbagliare nel caotico ordine di un etere rinnovellato. Si tratta del
cielo di un falco inattuale, intimo dei demoni e intero nel frammento, che come
un terribile, altro viandante agisce rapsodicamente
> “contro il tempo, e in tal modo sul tempo, e, speriamolo, a favore di un tempo
> venturo”.
Luca Caddeo
*In copertina: una fotografia dal Giappone di Felice Beato (1832-1909)
L'articolo Contro il tempo. Il manuale marziale di Valerio Zecchini proviene da
Pangea.