> “Io non sono un uomo, sono dinamite”
>
> Friedrich Nietzsche
Ci vuole coraggio a leggere Valerio Zecchini, onestà intellettuale, capacità di
ragionare trasversalmente, di confrontarsi criticamente e in solitudine con se
stessi, consapevolezza della provvisorietà di certi giudizi e della
insussistenza della “nera scienza catalogale”, avanguardistica brama
demolitoria, voluttà di cieli e di fango, vocazione per la provocazione e per la
tradizione vivente, che trascende i suoi stessi dogmi, i luoghi comuni.
Con questo spirito e rassegnati financo a non condividere affatto alcune delle
sue tesi, è possibile esperire l’essenza di un libro che è molto più di un
reportage sulle orme di un poco noto fondatore di Stati quale è stato il
carismatico James Brooke. La silloge di articoli, interviste e poesie James
Brooke e altre storie dall’Oriente estremo, edito da Pendragon nel 2025 e
introdotto da Gabriele Marconi, sulla carta prende difatti le mosse dalla
enigmatica, succitata figura per poi discostarsene conservandone per così dire
la tendenza alla esplorazione, a tratti sonnambolica, labirintica e surreale, di
luoghi fisici e metafisici, delle emozioni, delle culture, delle arti, del
pensiero. L’idea di partire da James Brooke, ovvero dal cattivo della saga
salgariana di Sandokan e ispiratore di Lord Jim di Conrad, ha qualcosa di
libertario. Brooke, ancora oggi celebre nel mondo anglosassone e pressoché
sconosciuto in Italia, non fu infatti soltanto un individuo benestante di sangue
inglese nato in India da un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e
un ufficiale della marina britannica, ma un rajah bianco che governò in
autonomia ed estese lo Stato del Sarawak fondando nella città dei gatti
(Kuching) una vera propria dinastia (1841-1946). Brooke realizzò anche un
originale esperimento politico che non si ridusse alla guerra contro i pirati
malesi e i cercatori di teste avendo invece come principio fondamentale il
coinvolgimento dei nativi (“ideologia dell’imperialismo umanitario”); dotato di
“semangat” (“coraggio fisico, carisma, forza spirituale”), fu pure un elegante
libertino; un omosessuale amante come Pasolini di giovani in un tempo in cui
l’adolescenza, scrive Zecchini, non era stata ancora inventata; un artista, se
accettiamo di annoverare tra le arti quella della vita. E in fondo l’idea
secondo cui l’arte e la vita siano una sola cosa e che dunque, sprofondando
talvolta nell’abisso di abbandonate strade e parole, si debba forgiare
l’esistenza come un’opera, è il retroterra di molte delle riflessioni di
Zecchini, il quale è primariamente – potremmo dire alla Wagner “totalmente” – un
artista (non a caso fondatore, col compianto Dario Parisini e Luca Oleastri, del
post-avanguardistico progetto poetico-sonoro Post Contemporaney
Corporation nonché artefice nel 2024 dell’evocativo, visionario, corrosivo,
esoterico e a dir poco provocatorio album Patriottismo psichedelico).
Certo, la parola “artista” potrebbe fuorviare laddove si intendesse alludere a
un certo tipo di “sentimentalismo abietto” che, potendo sfociare in un cieco e
vuoto individualismo edonistico, potrebbe ingenerare cedevolezza interiore,
debolezza di carattere e di pensiero. L’arte di Zecchini non ha infatti nulla di
cedevole ma molto di eroico, marziale, immaginifico, “futuristico”, potentemente
dadaistico – come mostra lo stesso incedere dei suoi irriverenti versi declamati
e delle poesie presenti nella stessa raccolta. E, in effetti, ciò che attrae di
più di questo libro e in parte della stessa produzione musicale di Zecchini, non
ha a che fare soltanto con le seppur stimolanti informazioni di prima mano sulla
situazione di vari Stati dell’Estremo Oriente e con la vivida capacità di
scandagliarne l’anima al di là dei fenomeni politici transeunti. Ciò che
coinvolge e apre maggiormente alla riflessione è piuttosto la weltanschauung da
cui tutto, esperienze e viaggi compresi, si anima. Ci si riferisce all’idea
secondo cui la stessa Tradizione resta viva e non scade in “stolida adorazione
della consuetudine” nel momento in cui la si interroga e violenta tutti i
giorni; ci si riferisce inoltre alla volontà di decostruire con spirito
iconoclasta l’uomo contemporaneo e i suoi “troppo umani” ideali per dischiudere
una via che conduca alla formazione dell’individuo assoluto – tipo umano
diametralmente opposto all’ultimo uomo che solca con esibizionistica spavalderia
e sconfortante superficialità le lande di questa età oscura.
Per realizzare questo compito dalla portata metafisica si dovrebbe procedere
oltre le de-terminazioni incasellanti, praticare se stessi al di là del bene e
del male, sprigionare le energie ataviche e avvicinarsi a una dimensione
di coincidentia oppositorum da cui diventare dinamicamente “ciò che si è”.
Considerando questi principi che, pur discostandosene parecchio, sembrano qua e
là rievocare per quel che concerne gli argomenti la metafisica del sesso di
Julius Evola, è possibile – ma non facilissimo né necessariamente condivisibile!
– interpretare la pratica del travestitismo come un modo per trascendere i
propri limiti e identificarsi, mediante una esistenza estetica e controcorrente,
con un essere androgino. In questo senso viene analizzata la figura
dell’Onnagata del teatro giapponese che, pur essendo di sesso maschile e non
profanando il proprio sacro corpo, si veste e vive come una donna non soltanto
quando recita, ma anche quotidianamente. Egli ha così modo di immedesimarsi
integralmente con la figura primordiale che rappresenta “facendo della sua
esistenza un sublime esercizio di stile”, realizzandosi hic et nunc, “come se si
fosse sempre in punto di morte”. Per evitare che il discorso tracimi nella
celebrazione del mondo LGBT e dunque del mondo moderno che lo incornicia,
Zecchini, pur non scadendo in una acritica e banale demolizione di questo
universo ma ricordando comunque “l’edonismo pezzente che domina il mondo drag
queen e transgender”, sottolinea come nell’età classica l’omosessualità fosse
vista alla stregua di un potenziamento della virilità e assumesse in certe
culture orientali una funzione sacrale, essendo l’omosessuale considerato una
sorta di tramite tra il mondo fenomenico e quello sovrannaturale, degli dèi.
Nella misura in cui non degenerino in forme di individualismo materialistico e
di nichilismo passivo ma siano pura epifania di un’“etica della gioia”, di un
“militarismo che danza”, certe esperienze erotiche e la relativa estetica
assumerebbero perciò un valore esistenziale, filosofico, finanche morale. Non si
tratterebbe infatti di rivendicare semplicemente i propri diritti e di
combattere per l’esaudimento dei propri desideri, ma di esperire quasi
cristologicamente il proprio dolore minando con grazia, artisticità e colore i
duri involucri che imprigionano e irretiscono le energie primigenie per farle
eruttare in una sorta di amoralistica volontà di potenza oltre ogni limite
imposto:
> “dare precedenza a un ideale estetico e non alla solita, obbligatoria logica
> del profitto è un atteggiamento che oggi già di per sé assume una valenza
> quasi eroica”.
In questo senso si comprende quanto l’autore scrive di Mishima:
> “nella sua vita e nella sua opera le virtù virili archetipiche (audacia e
> determinazione, senso dell’onore, controllo delle passioni, resistenza al
> dolore) incontrano finalmente la grazia e l’eleganza”.
Nella intervista contenuta nel libro il poliedrico artista spiega tra l’altro la
teoria del quarto sesso – “quarto” rispetto a maschile, femminile, omosessuale.
Zecchini rispolvera a tal proposito il Manifesto della donna futurista e
il Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point e cita il
“femminismo differenzialista” di Luce Irigaray pensando che ritenere nulle le
differenze tra i sessi costringa infine il femminile ad adeguarsi al modello del
“maschio integro”; Zecchini afferma che le differenze tra i sessi vadano
sviluppate ma che allo stesso tempo alcuni possano sperimentare “le pluralità
contenute in quelle differenze” per “vivere negli stati molteplici dell’essere”
puntando “all’inveramento dell’individuo unico e assoluto” e trovando nel
travestimento stesso la modalità per esplorare la vera essenza dell’uomo:
l’angelo, “entità androgina per antonomasia”. Il poeta ci tiene altresì a
sottolineare che il quarto sesso non è altro che lo stesso Zekkiny:
> “l’altissima qualità della sua vita interiore, la sua sovrabbondanza ormonale
> e il modo in cui reagiscono la sua opera e il suo mondo relazionale a tale
> sovrabbondanza”.
Di conseguenza pare che, pur essendo rispettate e sviluppate le differenze di
genere, queste si possano evidentemente celare financo in uno stesso individuo e
solo pochi avrebbero la capacità estetica di attuarle tutte e di coagularle
alchemicamente in un unico plurivalente modo di essere tramite la via della
“sperimentazione dinamica”. È così che, oltre al sottofondo antiumanistico che
ricorda per certi versi l’analisi heideggeriana e ai riferimenti alla
riflessione filosofica e artistica post-contemporanea, si colgono i richiami
nietzscheani che tra l’altro indirizzano a rivalutare in positivo
l’estetizzazione della esistenza, la quale, però, non deve innescare recessivi
fenomeni di infiacchimento, ma al contrario autodisciplina, lavoro incessante su
se stessi, spasmodica cura dei particolari e dello stile, spirito guerriero,
forza plastica, a un tempo dionisiaca e apollinea, femminile e maschile. Nella
esperienza di alcuni individui straordinari, ovviamente non necessariamente
omosessuali, l’uomo sarebbe destinato a essere superato o, a seconda di come si
interpreta la stessa nozione di Übermensch, potenziato a tal punto da
oltrepassare la mera individualità egoica e le sue rigide conformazioni per
essere come le onde del mare altro dal mare e lo stesso mare, la sua indomita,
sempiterna, multiforme, elementare energia creatrice. Questa trasfigurazione che
assume valenze esoteriche e dopo la morte di Dio sfocia in una sorta di estetica
pratica dell’estasi, coinvolge l’esistenza integralmente facendo dell’arte un
modo religioso della vita e della vita un modo religioso dell’arte. Siffatta
sacrale estetizzazione non può rinnegare i materiali che utilizza per conferire
bella forma al mondo.
Affiora perciò non solo la propensione a considerare il nichilismo in senso
attivo ma a cavalcare senza remore moralistiche la tigre della modernità
servendosi dei suoi stessi strumenti tecnologici e virtuali; per questo ad
esempio sono valutate positivamente la “poetica del pixel” di Yayoi Kusama e la
connessa filosofia della “self-obliteration” che intende “annullare l’io di
superfice e farlo uscire dal gioco dei ruoli e delle funzioni” per “percepire
noi stessi in modo tale da pervenire ad un’inscindibile armonia tra intimo ed
estrinseco”. Epperò, se da un lato è necessario decostruire per ricreare e
redimere il mondo nella bellezza, dall’altro bisogna essere inattuali e, al di
là della stessa avanguardia, indossare “la lucente corazza della Tradizione”
facendone propri i valori essenziali: coraggio iconoclasta, aristocratico senso
della irriverenza, ardore e senso della sfida, dignità e “capacità di sapersi
accontentare” contro la morbosa etica del profitto, “autentico cameratismo” ,
“amore per la natura” e non per l’efficienza, “amore di patria” e non
“sciovinismo”, saper essere all’occorrenza semplici e frugali, capacità di
comandare e di avere fede, ad esempio nell’Imperatore. I nomi che in un modo o
nell’altro e ognuno in modo originale hanno costruito delle vie in un certo
senso estetizzanti e assai critiche rispetto al mondo moderno sono tanti, tra
questi Pound, D’Annunzio, Keller, Miller, Marinetti, Carmelo Bene, Dino Campana
e vari altri artisti come Andy Warhol o Takashi Murakami, musicisti come
Battiato e scrittrici come Wei Hui.
Il superamento estatico della morale borghese e del moralismo nonché la stessa
sublimazione estetica e la capacità di disfare l’individualità “per approdare
all’oceano della pura coscienza” ed “essere tutto senza tentare di essere
qualcosa”, possono concretarsi anche nella via dello zen (“raccoglimento e
silenzio”) o nella via del rumorismo elettronico (“pulsare ossessivo del ritmo”)
e possono produrre a seconda dei casi anche l’auto-annientamento – di cui è
emblema moderno il sacrificio catartico di Mishima.
Il libro di cui si discute è denso di informazioni sugli Stati asiatici dei
quali Zecchini ha vissuto con poetico slancio dionisiaco strade, uomini e numi.
Non ci troviamo perciò davanti a una esegesi che pecchi di astratto accademismo,
ma di fronte a una interpretazione assai personale della civiltà orientale che
si incontra con la corruttiva occidentalizzazione, con la globalizzazione e che,
in alcuni casi, fa i conti col devastante passaggio del comunismo. E se con
perfetta, a tratti spietata sincerità l’autore osserva come buona parte degli
Stati in questione siano assai diversi dall’idea rarefatta che di solito se ne
ha in Occidente, ci fa percepire pure che qualcosa di originario è rimasto.
L’originario, però, è tale se è in grado di reinventarsi illimitatamente, come
fanno alcuni leader orientali armonizzando consumismo ed ecologismo, libertà e
senso della comunità, crescita economica e solidarietà, modernità e tradizione,
io e noi. Con Zecchini si ha l’impressione che l’Occidente possa essere letto a
partire dall’Oriente e l’Oriente a partire dall’Occidente per approdare forse a
una nuova, viva sintesi che, pur rispettando le reciproche differenze, parimenti
le distilli e potenzi in una originale concezione del mondo e
dell’uomo. Leggendo Zecchini si ha infine l’impressione che nella autentica
ricerca di se stessi gli schemi debbano per forza saltare in aria e i luccicanti
frantumi barbagliare nel caotico ordine di un etere rinnovellato. Si tratta del
cielo di un falco inattuale, intimo dei demoni e intero nel frammento, che come
un terribile, altro viandante agisce rapsodicamente
> “contro il tempo, e in tal modo sul tempo, e, speriamolo, a favore di un tempo
> venturo”.
Luca Caddeo
*In copertina: una fotografia dal Giappone di Felice Beato (1832-1909)
L'articolo Contro il tempo. Il manuale marziale di Valerio Zecchini proviene da
Pangea.
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Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il
futuro che ti cuce gli occhi.
Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel
Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo
concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue
anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero.
Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo
libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi
trent’anni dopo, nel 1951.
*
Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di
gioventù.
Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore.
Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel
sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni
diciottenni.
Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi
commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga,
finalmente, palmeto, prato.
*
Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per
Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La
Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto,
ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa
con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito,
che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come
“problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto
prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a
Yourcenar un contratto.
*
Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei
importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.
Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.
*
Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto
d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da
Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà
drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile
e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente
purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata
a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di
lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del
corpo:
> “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai
> paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una
> crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua
> fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca
> delle solite squallide delizie”.
Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che
la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.
> “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più
> prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la
> vanità del desiderio”.
Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”,
narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de
Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del
monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le
sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di
maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la
folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è
lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un
monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.
Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più
radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo
che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata
divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun
angelo la addita, nessun uomo la addomestica.
Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono
stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.
*
L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di
Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di
William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del
linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S.
Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in
lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di
Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che
sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva:
questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre
rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non
vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere,
rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca,
mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare
da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga,
trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille
sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a
quell’epoca di maschere d’oro.
In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.
*
Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto
portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di
realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan
preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una
reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la
splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza,
Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice:
> “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con
> gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non
> ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli
> esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza
> è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.
Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro
affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico,
inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs
modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti
sconvolgente, la nostra stessa vita”.
*
Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il
romanzo di Virginia Woolf.
Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il
colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante
la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira
a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il
risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare
nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i
romanzi più noti ed elaborati.
Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato
da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie
d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro
sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene
redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André
Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È
vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta,
con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e
ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per
rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i
testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il
monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini
neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno,
dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta,
occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le
liberi.
> “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e
> ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di
> dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei
> boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i
> pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno
> per la Sua opera”.
Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta
il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.
*
Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che
sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive
propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov,
Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite
non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo
il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo
von Hofmannsthal.
In Fuochi, incideva nella carne:
> “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un
> corpo.
>
> Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti
> lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile
> figlio”.
Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in
ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.
*
La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano
ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le
estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in
fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la
scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.
*
Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia.
L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone,
Amsterdam.
In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa
Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione
definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les
emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il
primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista
che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo
straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente
vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il
largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore
pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti
del vecchio Wang-Fô.
L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les
tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro
contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo
logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per
“l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad
appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem.
L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che
Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli
uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura
delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni
singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un
insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al
vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche
a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.
In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni
dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la
barbarie, la balbuzie, la bellezza.
L'articolo “Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente
secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta
all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The
Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi.
Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del
Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci,
alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era
andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato
dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in
autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la
guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai
presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a
cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati
Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini
delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un
sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia,
cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti
autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di
vento e metropoli nell’urlo.
Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica
il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla
poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San
Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario
“Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di
Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei
Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’,
Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama,
affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un
uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore.
Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di
quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente:
autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva
tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the
Chinese (1956).
Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth
ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e
Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has
always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/
Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944)
dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a
Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o
meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di
disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori
culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel
tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer,
“l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci –
Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha
dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona
possa forzarla verso l’universale”.
Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che
raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James
Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema
di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H.
Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne,
Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non
c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in
Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i
versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile
fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le
pagini introduttive:
> “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il
> collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore
> sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue,
> spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse
> mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti.
> Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua
> spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una
> stirpe di eroi”.
In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi,
spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake
e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e
della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio
sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco
Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce
nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di
Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto
poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a
una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme,
Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha
scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo
dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci,
il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e
delle lettere di Van Gogh.
In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a
Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale
pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di
Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati
celebrare.La celebreremo.
Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo
contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella
poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce
l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il
suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa
grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura
tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.
In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale:
le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago,
l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.
Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito
al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione
di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New
Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di
una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a
quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli
di carta, da mollare ai venti:
> “Fare l’amore con te
> è come bere acqua di mare.
> Più bevo
> più sete mi setaccia
> niente può placarla, se non:
> bere il mare per intero”
> “E un giorno, sei pollici di
> cenere sarà ciò
> che resta del nostro incendio
> mentale, di tutto il mondo creato,
> di questo amore, l’origine
> la dissipazione”
Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva
Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth
eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.
**
GIAPPONE
Yosano Akiko
(1878-1942)
Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.
*
L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre.
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale.
*
Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma.
*
Fukao Sumako
(1895-1974)
Casa luminosa
Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.
La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro.
Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.
Pensa
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.
Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro.
Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire.
*
Noriko Ibaragi
(1926-2006)
La mente di una bambina
Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia?
Cos’è
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata.
La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre.
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno.
*
CINA
Huang O
(1498-1569)
Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”
Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco.
*
Sun Yün-Feng
(1764-1814)
Sulla strada, attraversando Chang-te
L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè.
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.
*
Viaggio tra le montagne
Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.
*
Qiu Jin
(1875-1907)
Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu
Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani
caratteri nell’aria, come Yin Hao.
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco –
ma sopravvivere è impossibile.
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai
conosciuto l’invidia?
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