Tag - Oriente

“Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente secondo Marguerite Yourcenar
Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il futuro che ti cuce gli occhi.  Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero. Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi trent’anni dopo, nel 1951.  * Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di gioventù.  Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore. Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni diciottenni.  Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga, finalmente, palmeto, prato.  * Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto, ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito, che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come “problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a Yourcenar un contratto.  * Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.  Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.  * Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del corpo: > “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai > paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una > crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua > fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca > delle solite squallide delizie”.  Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.  > “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più > prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la > vanità del desiderio”.  Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”, narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.  Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun angelo la addita, nessun uomo la addomestica.  Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.  * L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S. Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva: questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere, rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca, mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga, trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a quell’epoca di maschere d’oro.  In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.  * Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza, Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice: > “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con > gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non > ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli > esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza > è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.  Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico, inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti sconvolgente, la nostra stessa vita”.  * Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il romanzo di Virginia Woolf.  Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i romanzi più noti ed elaborati.  Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta, con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno, dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta, occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le liberi. > “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e > ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di > dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei > boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i > pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno > per la Sua opera”.  Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.  * Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov, Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo von Hofmannsthal.  In Fuochi, incideva nella carne: > “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un > corpo. > > Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti > lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile > figlio”.  Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.  * La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.  * Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia. L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone, Amsterdam.  In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti del vecchio Wang-Fô.  L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per “l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem. L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.  In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la barbarie, la balbuzie, la bellezza.  L'articolo “Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.
May 1, 2025 / Pangea
“Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi. Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci, alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia, cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di vento e metropoli nell’urlo. Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario “Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’, Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama, affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore. Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente: autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the Chinese (1956). Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/ Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944) dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer, “l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci – Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona possa forzarla verso l’universale”.  Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H. Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne, Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le pagini introduttive: > “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il > collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore > sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue, > spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse > mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti. > Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua > spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una > stirpe di eroi”.  In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi, spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme, Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci, il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e delle lettere di Van Gogh. In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati celebrare.La celebreremo.   Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.  In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale: le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago, l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.  Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli di carta, da mollare ai venti: > “Fare l’amore con te > è come bere acqua di mare. > Più bevo > più sete mi setaccia > niente può placarla, se non: > bere il mare per intero” > “E un giorno, sei pollici di > cenere sarà ciò > che resta del nostro incendio > mentale, di tutto il mondo creato, > di questo amore, l’origine > la dissipazione” Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici. ** GIAPPONE Yosano Akiko (1878-1942) Neri i capelli in mille rivoli annodati annodati i capelli annosi annodati nodosi ricordi delle nostre infinite notti d’amore. * L’autunno sfiorisce: nulla dura per sempre.  Il fato sfata le nostre vite. Accarezza i miei capezzoli con le tue mani da manovale.  * Cogli i miei seni squarcia ogni mistero un fiore esplode è cremisi e profuma.  * Fukao Sumako (1895-1974) Casa luminosa Che casa luminosa: nessuna stanza è resa al buio. La casa si erge alta sulle scogliere, scandita come un faro.  Quando arriva la notte depongo una luce una luce più grande del sole e della luna. Pensa  al mio cuore che si flette quando con dita tremanti accendo un fiammifero nella sera. Sollevo il petto inspiro ed espiro al rumore dell’amore come la figlia del guardiano del faro.  Questa è una casa luminosa. Voglio creare un mondo che nessun uomo può costruire.  * Noriko Ibaragi (1926-2006) La mente di una bambina Ecco cosa aveva in mente una bambina: perché la schiena delle mogli odora così forte di magnolia o di gardenia?  Cos’è  quel futile velo di nebbia sulle spalle delle mogli? Ne voleva avere  quella meravigliosa cosa che alle vergini è vietata.  La bambina crebbe divenne moglie – fu madre.  Un giorno capì: la tenerezza che si ammucchia sulle spalle delle mogli non è che fatica di amare – amare giorno dopo giorno.  * CINA Huang O (1498-1569) Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite” Hai tenuto il mio fiore di loto tra le labbra, hai slabbrato il pistillo. Abbiamo rubato un frammento del magico corno del rinoceronte: insonni per tutta la notte – per tutta la notte la cresta leonina del gallo  si è fermata. Per tutta la notte l’ape si è incuneata tremando tra gli stami del fiore. Oh mio dolce gioiello! Soltanto il mio signore domina sul sacro stagno di loto: ogni notte fa esplodere in me i suoi fiori di fuoco.  * Sun Yün-Feng  (1764-1814) Sulla strada, attraversando Chang-te L’anno scorso ho attraversato questo luogo: mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.  Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu. Da una locanda con il tetto di paglia si snoda il fumo del tè.  Le sabbie, a riva, interrano la bianca luna: il fiume sussurra. I salici attendono il verde della ventura primavera. I versi di una poesia mi lacerano. L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.  * Viaggio tra le montagne  Il vento occidentale invita alla nostalgia: la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.  Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.  Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno. Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa. Mentre ammiro il fiume, un brivido d’invidia per il pescatore che siede in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.  * Qiu Jin (1875-1907) Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu Sono sola con la mia ombra mormoro e scrivo strani  caratteri nell’aria, come Yin Hao.  Vino e malanni non mi spezzano non soffro per chi non c’è più: per avere ragione del mio cuore Li Ch’ing-chao ha messo sotto  torchio una città intera. Nessuno può capirmi: le mie visioni superano quelle degli uomini che mi stanno al fianco –  ma sopravvivere è impossibile.  A cosa serve il cuore di un eroe in abiti femminili? Il mio destino è il rischio: imploro il Cielo – le eroine del passato hanno mai  conosciuto l’invidia? L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth proviene da Pangea.
April 12, 2025 / Pangea