Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus
Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti
in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal
titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di
cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i
serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di
pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia
venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa.
Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di
una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a
trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”.
Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per
descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i
poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta
via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può
lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia
di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo
verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso
della parola cairn.
Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet
Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a
quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò,
intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più
che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire
prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal
desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea
era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia
e per gli studenti.
> “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie
> resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia
> del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di
> interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale
> attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non
> l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il
> cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente
> entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.
È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli
insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della
generosità e della luce”.
In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes –
non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath.
Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe
filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily
Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto,
autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow,
Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di
Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.
Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti
dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav
Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes
dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”.
Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del
1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà,
fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia
aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa
apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli
scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu
tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la
Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu
il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra
argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present
Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha
attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto
a Praga nell’estate del 1998.
Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone
della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha
ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli
ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli
scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con
uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di
Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché
“mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il
cervello che sta sotto il cranio”.
Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto
in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una
mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971.
Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano
gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C.
Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una
conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito
sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È
inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di
eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza
al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che
pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.
Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno
stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi
alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo
del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da
apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.
***
Discorso sull’angelo canide
Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.
Forse pensava a una cagna
o ricordava un osso –
coltelli negli occhi di ruote malvage
che afferrano spaccano schiacciano –
ha la mascella rotta
striscia, guaisce – no!
cade, mugola, geme
resta immobile.
La gente, intorno,
lo fissa:
un angelo cane
peloso e nero
con ali madide di fango
e quell’infinito dolore
che si moltiplica dalla sua aureola
sopra le pozzanghere.
L’oscurità
sfrega le mani
sul corpo e risuona
in colonnati verso il cielo.
Lo dragano via.
È solo una pezza
uno straccio per il cimitero
e nulla più.
L’angelo
delle tegole
annusa i camini
e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.
*
Breve riflessione sull’identità
Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso.
Né i fiumi né le capre né i profeti.
Se l’oggi è uguale a domani
non tutte le cose restano
uguali. Perché quando una cosa
cambia, cambiano anche le altre.
Le cose non sono sole: dipendono
in modo claustrale da altre cose,
per lo meno in parte. Dunque,
sai, non sai mai…
Anche i profeti appartengono a questo
sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come
le capre e il latte. Come il sangue.
Per questo, è piuttosto difficile
riconoscere le proprie parole, il proprio
sangue, il proprio profeta e la propria capra.
Molto difficile. Ma ancora e ancora
ci tentiamo, in modo da non ricavare capre
dai profeti o sangue dal latte.
Pretendiamo che le cose abbiano un’identità
mentre ci trasformiamo nel nostro doppio
e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.
*
Il giardino dei vecchi
È scaltra l’edera, cresce
ovunque e dell’erba
incolta nessuno fa più
caso. Sotto gli alberi
l’invasione di frutti gotici.
Crollò l’oscurità, mitologica
e senza denti.
Ma Minotauro l’ha sconfitta
grazie a un buco nella recinzione.
Da qualche parte, Icari
impigliati nella ragnatela.
Durante una luminosa mattina
i cespugli rivelarono
lo spudorato, grigio
osso frontale dei fatti.
Boccheggiava, senza più parole.
*
Breve riflessione sull’accuratezza
I pesci
sanno sempre con precisione dove e quando muoversi,
all’unisono
gli uccelli hanno un innato senso del tempo e
dell’orientamento.
L’umanità
è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca
scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio.
Un soldato
doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.
Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così:
L’orologio
della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle
diciassette
e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il
cannone.
Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle
diciotto in punto sparo.
Ora era chiara
la ragione di quella accuratezza. Non restava
che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato
l’orologiaio.
L’orologiaio
disse che quello era uno degli strumenti più precisi in
assoluto.
Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno
alle sei in punto.
Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna
esattamente le sei.
Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.
*
Incontro con Ezra Pound
Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.
Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound.
Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli
porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la
testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli
occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida,
di pietra. Impossibile liberarsi.
Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava
la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della
pietra.
Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa
blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.
È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.
Poi ci separarono.
Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.
Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la
mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non
persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che
mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.
Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.
*
Il giudizio finale
Una lavatrice automatica
è accesa – lava
strizza, asciuga.
Come un angelo che mastica
chewing gum. Come il granito
che perfora il quarzo.
Qualcuno maledice il mare
ma non lo senti.
Piume d’oca vagano in cucina.
Le tue piccole dita scompaiono
sotto la porta.
Mosche: piccole Icaro che
tappano le falle del labirinto.
Hai un bell’aspetto, figlio mio
dici mentre ti coglie l’infarto.
La lavatrice lavora.
Vi entrano banchetti luculliani
c’è anche la granola.
E i riflessi. Cadono lettere
bene ordinate. E balene
che nuotano e denti innumerevoli.
Entrano i ricordi, escono
i codici della strada.
Bianco. La lavatrice lavora.
Chi pagherà la banda?
Dov’è il ballo dei pompieri?
Dove suonerà il flauto stretto
dal gelo? Come superare
l’ombra di un libro?
Bianco di fuliggine dilavata.
La lavatrice gira
e tremano le mani di Discobolo.
L’eternità è misurata
con precisione al secondo.
Sì.
In un panorama di giochi
bisogna giocare fino alla fine.
In un panorama di fango
la via d’uscita è
la lavatrice.
Quando è il caos
le vie a senso unico
sono un sollievo.
Quando sei in via d’estinzione
la precisione vale più di un dio.
In questo rumore
bianco esco da una porta
che mi porta
in questa stessa stanza.
*
Una favola
Si costruì una casa
le fondamenta
di pietra
i muri
il tetto sopra la testa
il camino e il fumo
la vista dalla finestra.
Si fece un giardino
il recinto
il timo
il lombrico
la rugiada, a sera.
Si ritagliò un pezzo di cielo.
E avvolse il giardino nel cielo
e la casa nel giardino
e il tutto in un fazzoletto
poi se ne andò
solitario come una volpe artica
varcando il freddo
e quella infinita
pioggia
per il mondo.
Miroslav Holub
L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav
Holub proviene da Pangea.