Un immenso acquerello sui toni del grigio bagnato di pioggia, con giusto qualche
pennellata qua e là del cremisi degli autobus a due piani, delle cabine
telefoniche e delle cassette postali. Fumosa e sanguigna, ecco come si manifesta
spesso la nostra Londra interiore.
Eppure, camminare per le sue vie significa immergersi in un collage di colori
dove le locandine delle plays e dei musical si aprono come finestre variopinte
sulle fiancate di double-decker e cab, sulle facciate dei teatri e sulle
banchine della labirintica Tube. Qui la sesta arte sembra plasmare la città e la
sua storia, con vie e interi quartieri che gravitano intorno ai teatri come
sistemi attorno ai loro soli, e spettacoli che fanno nascere e tramontare in
scena i loro mondi sera dopo sera anche da oltre settant’anni.
È un teatro vissuto, e da vivere, in modo diverso dal nostro, un teatro dove il
pubblico ride e si commuove secondo tempi e codici imprevedibili, propri delle
tante culture che, da ogni angolo di mondo, si danno appuntamento di fronte allo
stesso spettacolo, e dove durante le rappresentazioni si mangia e si beve, con
sacra ritualità e la più terrena umanità, in un intreccio che sa più del pub che
del tempio. Un teatro compagno di vita, dove ci si può anche dimenticare degli
infiniti saluti finali e dei “bis”: lo spettacolo è finito, ma domani la magia
tornerà ad animare il palcoscenico, e così farà, con un po’ di fortuna, per
molti anni ancora.
Un teatro che si espande oltre la quarta parete, oltre le mura dell’edificio
stesso, e raccoglie persone di tutte le lingue attorno a un pianoforte al piano
superiore di un theatre bar, a cantare a squarciagola i brani più famosi dei
musical insieme a completi sconosciuti (bando alla timidezza e, se non si sa
cantare, alla dignità, ma a Londra nessuno ti giudicherà): è l’atmosfera che si
respira al “The Room Where it Happens” di Soho, un vero e proprio locale dentro
al locale dove i camerieri sono artisti del West End (la Broadway londinese)
“sotto copertura”.
Ecco quindi a voi, direttamente dalla scena d’oltremanica, tre musical le cui
storie sono tratte rispettivamente dalla letteratura, dalla storia e dalla
storia passando per la letteratura: Il leone, la strega e
l’armadio, Evita e Hamilton.
*
The Lion, the Witch and the Wardrobe
Intere generazioni sono cresciute sotto la luce del lampione delle Cronache di
Narnia. Molto del nostro immaginario è plasmato nella materia di questa storia,
dalla saga fantasy scritta negli anni ’50 da C.S. Lewis ai suoi adattamenti a
cavallo del secolo: indimenticabile, anche se incompiuta, la serie
cinematografica firmata Walden Media e Disney prima, 20th Century Fox poi. E ora
Londra è contesa tra il set della nuova serie Netflix e quello di un altro
attesissimo adattamento seriale di un ormai classico della letteratura, e non
solo per bambini e ragazzi, Harry Potter.
L’allestimento teatrale riesce a spalancare le porte dell’armadio guardaroba su
un mondo incantato, senza nulla invidiare alla spettacolarità degli effetti
speciali del franchise milionario o agli infiniti limiti della fantasia di un
lettore: i due prodigi, la Strega Bianca e il Grande Leone, il Male e il Bene,
si affrontano sul palco senza esclusione di colpi. Jadis scaglia il suo inverno
perenne dall’alto di un volo vertiginoso, mentre la misteriosa natura di Aslan,
insieme animale e divina, si incarna contemporaneamente in un attore, il cui
aspetto leonino è solo evocato da una pelliccia e una parrucca folti e dorati
come il manto e la criniera del suo personaggio, e in un gigantesco puppet a
foggia di leone, un’enorme marionetta animata da ben tre persone.
Eppure, ciò che più resta e lascia con il cuore colmo di stupore non sono tanto
gli effetti speciali, quanto il potere evocativo della semplicità con cui sono
ritratti gli altri personaggi. Una semplicità che segue le orme dello stile
dell’autore, non incline a lunghe descrizioni, e alla tradizione della Royal
Shakespeare Company (leggenda vuole che il regista, da bambino, sia rimasto
incantato dalla loro versione di questo spettacolo). Dopotutto, il teatro è per
sua natura il regno dell’evocazione, più che della descrizione, e lascia un
immenso spazio all’immaginazione dello spettatore.
Una semplicità creatrice di mondi che è prerogativa dell’infanzia, benedetta da
una fantasia talmente fervida che basta una scintilla per alimentarla. Animali
parlanti e creature leggendarie, interpretati da attori-musicisti che cantano e
suonano sul palco danzando insieme ai propri strumenti, indossano costumi che
solamente alludono alle loro fattezze animali, ma che di fatto sono costruiti
tramite indumenti e attrezzature del tempo della Seconda guerra mondiale, quando
è ambientata la storia: ed ecco allora che i sostenitori di Aslan richiamano
alla mente gli eroi della Resistenza, mentre i seguaci della Strega i soldati
nemici. Ma sono pure castori, con occhiali da aviatore come orecchie e ciaspole
legate alla schiena a mo’ di coda, e lupi, con protesi che sono insieme zampe e
artigli e mitraglie.
Questa doppia realtà crea un ponte tra i due mondi e ci ricorda che, se il male
è sempre in agguato, è pur sempre vero che può essere sconfitto. Basta
continuare a sperare, e a lottare perché il bene trionfi. Come la protagonista
Lucy, la “portatrice di luce”.
*
Evita
Correva l’anno 1946, quando al balcone della Casa Rosada si affacciava la nuova
first lady argentina, Eva Duarte de Perón. Una figlia illegittima, cresciuta in
povertà e sfuggita all’orizzonte desolato delle Pampas grazie all’allora
discusso mestiere di attrice. Una donna del popolo, lo stesso popolo che ora si
accalcava sotto la sua finestra e che la innalzava a leader spirituale della
nazione. Una regina, per alcuni forse addirittura una santa. Fu sempre a quel
balcone che nel ’52, sorretta dal marito, pronunciava l’ultimo discorso, pochi
mesi prima che la malattia spegnesse la sua stella.
La “scena del balcone” è passata alla storia a livello globale grazie alle
commoventi note di “Don’t cry for me Argentina”, colonna (sonora) portante del
musical del ’78 e del suo celebre adattamento cinematografico del ’96, con
Madonna e Antonio Banderas. Ma è nella nuova produzione londinese che fa storia:
l’assolo di Evita non ha luogo sul palco, dove è solo proiettato, ma sul balcone
esterno del London Palladium, sotto cui una folla composta indistintamente da
fan, curiosi e passanti si è radunata ogni sera e ha levato la sua voce come un
tempo fecero i descamisados. Per un momento, gli spettatori sono diventati
attori, e il confine tra finzione e realtà è diventato un po’ più sottile.
Questa produzione è stata forse l’evento più chiacchierato, e celebrato, della
stagione, un trionfo lungo 12 settimane scandito da standing ovation e tutto
esaurito, complice anche l’ampia dose di “star quality”, per citare il musical:
il ruolo della protagonista è stato affidato a Rachel Zegler, nota al grande
pubblico soprattutto per il blockbuster Hunger Games. La ballata dell’usignolo e
del serpente. La sua interpretazione è stata di straordinaria potenza, tanto da
essere stata unanimemente lodata da pubblico e critica, nonché dallo stesso
compositore di Evita Andrew Lloyd Webber, che ha paragonato l’attrice
all’immensa Julie Andrews per il suo impegno parallelo nel mondo del teatro e
del cinema (a soli 17 anni era stata Maria nel remake cinematografico firmato
Spielberg del musical West Side Story, aggiudicandosi il Golden Globe). Una vera
e propria rivincita dopo il divisivo live action Disney Biancaneve, che l’ha
vista protagonista.
Erano necessarie un’interpretazione e una scelta registica di tale impatto per
coinvolgere e commuovere il pubblico nonostante le ombre di una protagonista
portavoce di un regime tutt’altro che innocente e animata nell’adattamento da
una sete di riscatto ambigua, rivolta forse più a sé stessa che al suo popolo.
Una sete che la consumerà, ma a cui sacrificherà tutto, l’amore e il tempo su
questa terra: “Potevo bruciare dello splendore del fuoco più luminoso / oppure,
potevo scegliere il tempo”.
È proprio il costo dell’ambizione il vero protagonista dello spettacolo, e non
(unicamente) la storia argentina, come appare evidente dalla presenza di un
personaggio che riveste la funzione di narratore e di coscienza-nemesi per Evita
e danza sul confine tra la storia e la Storia, il giovane rivoluzionario Che. Un
nome quasi premonitore e che allude a un Che Guevara forse mai entrato in
contatto con Eva, ma simbolo di un corso diverso della storia: “Come puoi essere
così poco lungimirante / […] da non avere alcun sogno irrealizzabile?”.
*
Hamilton[1]
Un musical tratto da un saggio biografico, con protagonista uno dei padri
fondatori degli Stati Uniti d’America, e neanche tra i più noti: un figlio
illegittimo, orfano, immigrato, senza un soldo, diventato non un presidente, e
nemmeno un noto eroe di guerra, ma un economista, e morto piuttosto giovane,
sconfitto in duello. Sarebbe poi ritornato diverse volte neiCantos di Ezra
Pound, per uscirne non certo impunito. Insomma, non sembrava proprio avere la
stoffa di cui sono fatte le storie e la forza narrativa per diventare tale.
Forse solo per gli appassionati della Storia con la S maiuscola, ma se si
aggiunge che le sonorità sono hip-hop, le canzoni quasi interamente rappate, e
che personaggi storicamente bianchi sono interpretati programmaticamente da
attori non bianchi, si prevedono già le polemiche.
Se però la biografia è scritta da un futuro Premio Pulitzer (Ron Chernow) e
viene letta, un po’ per caso, come lettura delle vacanze, da un compositore
(Lin-Manuel Miranda) anch’egli destinato al Pulitzer (e proprio grazie a questo
musical), allora forse ci sono le basi perché nasca un capolavoro. Un capolavoro
dove la Storia e la storia, la realtà e la finzione, si compenetrano
perfettamente per trasmettere un messaggio vero oggi come allora, perché è la
storia dell’America di quel tempo (scritta, di fatto, da immigrati, come lo
stesso Hamilton) raccontata dall’America di oggi, dove il colore della pelle
pesa ancora sul diritto di fare udire la propria voce. Un messaggio che,
attraverso i suoi artisti, è stato portato anche alla Casa Bianca, dove fu
accolto molto calorosamente dall’amministrazione Obama.
Miranda, prolifico e poliedrico artista statunitense di origini portoricane,
firma ideazione, musica e testi, interpretando anche il protagonista nella
produzione originale. Condivide con il suo personaggio il sacro fuoco della
scrittura e, come lui, sembra “scrivere come se il suo tempo stesse per
scadere”: autore con tre musical all’attivo, ha collaborato alla composizione di
diverse colonne sonore Disney, affiancando l’attività autoriale a quella di
regista, produttore e attore tra teatro, cinema e televisione.
Alexander Hamilton si è “costruito scrivendo una via d’uscita dall’inferno” e
“verso la rivoluzione”, sacrificando anche la propria famiglia in nome
dell’ambizione. Ma mentre il proiettile sparato dal suo primo amico ed eterno
nemico Aaron Burr scrive la Storia, Hamilton capisce di dover lasciar cadere la
penna e passare il testimone a chi racconterà la sua, di storia. Perché, se è
vero che “la Storia ha gli occhi puntati su di te” e occorre percepirne la
responsabilità, “non hai controllo su chi vive, chi muore e chi racconterà la
tua storia”. E forse su come la racconterà. Questo enorme potere ricadrà nelle
mani della moglie Eliza, che sceglierà di perdonarlo e di consegnare ai posteri
un ritratto del marito pieno di umanità, lei che avrebbe potuto cancellarne o
deturparne la memoria.
Buio in scena. In sala si riaccendono le luci e, dopo un breve silenzio carico
di significato, esplodono gli applausi. Ma una domanda pesa sul cuore, la
riposta ancora da scrivere, ogni giorno:
> “quando il mio tempo sarà scaduto
> avrò fatto abbastanza?
> Qualcuno racconterà la mia storia?”.
Chiara Bianchi
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[1] La ripresa cinematografica dello spettacolo è disponibile su Disney Plus.
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