In vita ho avuto il privilegio di conoscere molte persone, al di qua e al di là
dell’Oceano. Alcune nobili e straordinarie altre solo famose. Fra quelle nobili
e straordinarie c’è senz’altro Franca Rame, con la quale ho avuto il privilegio
di collaborare per oltre quindici anni a partire dal 1980. Nel corso del tempo
ho avuto modo di vedere da vicino come le opere del premio Nobel Dario Fo siano
state fortemente influenzate dalla sua sapienza attoriale. Oltre che dalla
sua capacità organizzativa e coraggio politico.
Franca è stata per Dario il ‘miglior fabbro’. Non solo per i monologhi femminili
ma per l’intero corpus della sua opera.
Era la prima a cui Dario leggeva i manoscritti, oppure la ‘fabula’ che,
successivamente, sarebbe diventata il copione di scena: un testo provvisorio,
non ancora pieno di cancellature e note a margine, che Franca aveva già vagliato
e commentato, magari in cucina. Non a caso nell’edizione stampata delle commedie
sta scritto ‘a cura di Franca Rame’. Non solo come riconoscimento editoriale, ma
come traccia di un’intensa collaborazione e sinergia maturata nel corso di
migliaia di recite realizzate in comune. Un’empatia esistenziale che, secondo
Franca, implica un perenne “scambio della propria esperienza personale, della
propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si
fa, specie in teatro.”
Per realizzare quell’artificio insito nel mestiere dell’attrice Franca
utilizzava una vis comica ed intelligenza che si è
sviluppata progressivamente. A seconda dei fatti politici del giorno,
all’ideologia dominante sottoposta a critica severa, oppure con l’innesto a
margine della propria vita a partire dalla prima infanzia. Per esemplificare,
senza volermi inoltrare in un’analisi approfondita dell’argomento, cito
direttamente dal monologo Ritorno alla vita scritto durante la veglia per la
morte della madre Emilia, pubblicato su Teatri e sulla rivista
online “lamacchinasognante”.
> “È ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni. È mia
> madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”,
> così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era
> sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto
> un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia
> sorella Pia in La passione del Signore atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti
> Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore!
> Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la
> stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete
> d’argento ha venduto il suo Signore!” Non era una gran parte, non ci devo aver
> messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” dicevala mamma
> paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!”
Sono parole e pensieri che ci prendono per mano e indicano l’origine della sua
esperienza attoriale. Tipica di una figlia d’arte, che negli anni a venire
dedica l’intera esistenza al palcoscenico. Un’arte che nasce principalmente
all’interno di una microsocietà aurorale e si sviluppa grazie al codice orale in
virtù di un nucleo famigliare dove l’arte e la vita coincidono. Una grammatica
di scena esistenziale ed immaginifica, eppure rigorosa, che riguarda ‘il farsi e
disfarsi del linguaggio, come direbbe Roman Jakobson. Che ha a che fare con
l’imprinting, l’unicità della lingua associata alle proprie emozioni, alla
cognizione del dolore e della gioia. Così apprendiamo che all’inizio e alla fine
di quella recita, l’angiolino Franca, ad appena tre anni, volente o nolente è
stato gettato nella mischia, incitato con grandi cenni ad entrare in un
carattere fondante la sua futura personalità di donna e attrice:
> Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione
> da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un
> attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto
> stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico
> “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento
> ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco. Ce l’avevo fatta:
> l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da
> allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il
> più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a
> piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza
> riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.
Spesso nei suoi monologhi Franca ha trattato “con voce chiara e mesta” oppure
comica e irata, il tema della madre con “quel tanto che serve”. Non a caso i
titoli più famosi, scritti a quattro mani con Dario, sono Medea, Maria alla
Croce, Mamma Togni, Michele lu lanzone, Il risveglio, Una madre, Lo stupro, Il
diario di Eva, Lisistrata romana, etc. Sono testi in cui l’archetipo della madre
trova una risonanza immediata, vitale e plausibile, sempre all’interno del
processo di trasformazione del mondo femminile. Punto di transito, luogo ideale
e reale, della presa di coscienza di una donna del XX secolo che ha fatto uso
del palcoscenico per darsi voce e coraggio.
Franca Rame e Walter Valeri
Un’altra dote di Franca, che non tutti conoscono, e di cui Dario ha
abbondantemente beneficiato, era quella di saper orchestrare dall’interno la
recita. Era come una sorta di regista al seguito. C’erano dei segnali precisi,
magistrali e indiscutibili, con cui Franca interveniva all’insaputa del
pubblico. Ad esempio: se Dario preso dalla foga si dilungava durante
l’introduzione allo spettacolo, lei lo correggeva, lo avvertiva con dei piccoli
colpi di tosse dalla quinta. Oppure, se un attore o un’attrice scendevano di
tono perdendo il contatto con il pubblico, lei lo segnalava con un gesto
discreto, con un colpo del piede sul palcoscenico; oppure servendosi di un
mezzo tono che, benché tagliente, non valicava il boccascena. Franca recitava e
ascoltava con distacco sé stessa e gli altri recitare. Come se fosse seduta fra
il pubblico. Per una sorta di automatismo innato, senza farsene vanto, aveva del
pubblico una percezione permanente ed esatta, quasi infallibile.
Durante le interviste o chiacchierate informali era solita schermirsi. Fare
ironia nei confronti di quelli che indossavano una faccia da attori o da
attrici. Ripeteva che quello del teatrante era un lavoro come un altro e andava
svolto nel migliore dei modi, con estrema modestia, serietà e semplicità. Non
c’era alcun medico che potesse prescrive ai pazienti l’obbligo di fare gli
attori, di guadagnarsi la vita in scena. Anche se, personalmente, penso che il
monologo autobiografico Lo stupro, abbia avuto per lei una funzione terapeutica.
Più volte ha avuto modo di dichiarare “Ciò che appartiene alla sfera ‘personale’
appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa”. Ed è questa radicale
compenetrazione fra il ‘personale’ e il ‘politico’ il nodo centrale del suo
teatro.
Era una persona a modo suo religiosa; un po’ marxista e un po’ francescana ‘sine
glossa’ come suol dirsi; a volte dolcissima e a volte inflessibile, benché
pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva lo
intendeva bene, mentre numeroso l’ascoltava recitare o in camerino. Tutti
sapevano che i monologhi femminili di Tutta casa letto e chiesa erano un punto
di riferimento preciso. Un’autentica opposizione ad ogni sopruso, ad ogni atto
politico oppressivo nei confronti delle donne. Anche grazie a lei sappiamo che
esiste un discrimine ‘inoffuscabile’ tra la verità e la sua negazione. Non parlo
della menzogna che rende insensibili a tutto, perché tutto è già stato venduto e
comprato (compreso gli occhi delle vittime innocenti) ma di quella descritta da
Dostoevskij o Manzoni, che morde dentro. Con un sorriso malizioso ripeteva
spesso “Dio esiste, ed è comunista”. Anche per questo la verità chiede dei
sacrifici.
Una volta ho scritto: la verità in teatro, come per la religione, migra
indistruttibile. La luminosa interezza di Franca Rame è simile alle ali di una
farfalla che punge. Lo penso ancora. Fra i molti esempi di coerenza e dignità
politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, c’è quello
delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica. Lo ha fatto in modo
trasparente. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed
esemplare che andrebbe letta e commentata ancora oggi nelle scuole del nostro
paese. Cuori e menti ad educare, come ha scritto parlando d’altro Franco
Fortini, “la credibilità pretende autenticità. Nel nostro spazio di vita che è
dell’inautentico, ogni atto di fede, foss’anche il più superstizioso, rammenta
l’esigenza dell’autenticità.”
Forse anche per questo la stampa e i media, che sono soliti glorificare il nulla
l’hanno dimenticata. I capo redattori preferiscono mandare in macchina vecchie
baggianate tipo: Franca Rame insultava il Papa Benedetto XVI, semplicemente
perché, con tutto il rispetto dovuto, Franca ebbe modo di ricordare al mondo che
da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non
aveva l’utero. Quindi anche sua santità, avrebbe dovuto mettersi in ascolto, più
che dettare regole e imperativi intollerabili per il modo delle donne. Ora è il
tempo delle fakenews, delle tempeste mediatiche procurate ad arte, di un
pensiero che vorrebbe disintegrare l’intimo valore di ogni testimonianza e
speranza di liberazione come non fosse mai esistita. Eppure, la testimonianza di
Franca è stata quella di una donna veramente speciale.
Walter Valeri
Abano Terme 7/8/2025
*Dario Fo e Franca Rame leggono le lettere, Milano, 4 dicembre 1962 (Olycom)
L'articolo Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale
proviene da Pangea.
Tag - Teatro
Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 –
Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una
delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e
una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura
novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”.
Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la
drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7
novembre al teatro Michelangelo di Modena[1].
1984 di George Orwell (1949)
In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra
post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di
ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e
ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e
come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio
memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da
colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure
nessuno lo è mai stato tanto radicalmente.
L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i
fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio,
realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un
eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente
riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non
sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste
solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza
sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla
Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero,
ormai atrofizzato.
Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci
delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine
immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive,
incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere
sano, di essere libero.
Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore
e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici
rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre
un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di
attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di
fronte allo sguardo del Grande Fratello.
Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il
romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella
grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che
accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora
troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin
dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro
lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico
sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche
lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il
Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e
psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico,
necessario.
*
L’album “The Resistance” dei Muse (2009)
Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto
album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti
a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris
Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più
prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo
album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in
tutto il mondo.
La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa
volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed
estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal
Grammy al miglior album rock.
Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di
“The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di
espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal
metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi
e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica,
basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale
gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy.
Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un
inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di
umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più
intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi
con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via
dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I
Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione
dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns.
Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding
Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in
quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è
utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le
guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al
fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica
realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/
Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno
specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche
di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti
arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy
interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di
Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un
aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi
nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light”
(Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida
rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce
guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre
vite).
Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre
movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”.
È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare
percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che
separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco
che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.
*
Muse 1984 – Resistance. Rock Opera
Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la
“resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto
rivoluzionario di amore, libertà e pace.
Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie
all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare
dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come
quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche
grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in
recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un
concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come
nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata
a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno,
che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da
Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo
del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a
fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel
mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della
salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a
risvegliare l’umanità intera.
E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva,
calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco
Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il
protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi
implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo
della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della
propaganda.
Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili
i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle
più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo
Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi
alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la
maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati
dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei
suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è
forza”.
Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche
finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E
così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada
perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista.
Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il
pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si
distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un
presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la
solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora
drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità.
Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa
preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende
umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”.
Chiara Bianchi
*Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo
numero di “Studi Cattolici”
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[1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il
sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e
@muse1984.
L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock,
da Orwell ai Muse proviene da Pangea.
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato
motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia
dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo
domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino
al 15 marzo.
Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco
per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart
schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque
temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo.
Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte
dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro
della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande
di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello
scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di
Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle
pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi
d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn).
Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto
realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la
parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica
(interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona
da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il
mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le
cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).
L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la
parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità
trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart
apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per
citare alcuni illustri domenicani).
Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e
argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale.
L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte
suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di
San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche
telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della
Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno
al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora
si manifesta il Logos.
Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di
San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato
costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma
come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi
– in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia.
Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo
creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene
altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette
l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici,
e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è
nella creazione.
Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e
Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente,
al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e
il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire
Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è
contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania
continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una
gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino,
percepibile nel mondo fisico e percepibile.
Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali
hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano:
il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa
d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di
Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti
più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione
personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi
preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere
nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe
venuto di lì a poco.
Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione
della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si
spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito.
Carlo Ferdinando de Nardis
L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano
alla Biennale proviene da Pangea.