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Le Cronache di Londra: il leone, Evita e l’America
Un immenso acquerello sui toni del grigio bagnato di pioggia, con giusto qualche pennellata qua e là del cremisi degli autobus a due piani, delle cabine telefoniche e delle cassette postali. Fumosa e sanguigna, ecco come si manifesta spesso la nostra Londra interiore. Eppure, camminare per le sue vie significa immergersi in un collage di colori dove le locandine delle plays e dei musical si aprono come finestre variopinte sulle fiancate di double-decker e cab, sulle facciate dei teatri e sulle banchine della labirintica Tube. Qui la sesta arte sembra plasmare la città e la sua storia, con vie e interi quartieri che gravitano intorno ai teatri come sistemi attorno ai loro soli, e spettacoli che fanno nascere e tramontare in scena i loro mondi sera dopo sera anche da oltre settant’anni.  È un teatro vissuto, e da vivere, in modo diverso dal nostro, un teatro dove il pubblico ride e si commuove secondo tempi e codici imprevedibili, propri delle tante culture che, da ogni angolo di mondo, si danno appuntamento di fronte allo stesso spettacolo, e dove durante le rappresentazioni si mangia e si beve, con sacra ritualità e la più terrena umanità, in un intreccio che sa più del pub che del tempio. Un teatro compagno di vita, dove ci si può anche dimenticare degli infiniti saluti finali e dei “bis”: lo spettacolo è finito, ma domani la magia tornerà ad animare il palcoscenico, e così farà, con un po’ di fortuna, per molti anni ancora.  Un teatro che si espande oltre la quarta parete, oltre le mura dell’edificio stesso, e raccoglie persone di tutte le lingue attorno a un pianoforte al piano superiore di un theatre bar, a cantare a squarciagola i brani più famosi dei musical insieme a completi sconosciuti (bando alla timidezza e, se non si sa cantare, alla dignità, ma a Londra nessuno ti giudicherà): è l’atmosfera che si respira al “The Room Where it Happens” di Soho, un vero e proprio locale dentro al locale dove i camerieri sono artisti del West End (la Broadway londinese) “sotto copertura”. Ecco quindi a voi, direttamente dalla scena d’oltremanica, tre musical le cui storie sono tratte rispettivamente dalla letteratura, dalla storia e dalla storia passando per la letteratura: Il leone, la strega e l’armadio, Evita e Hamilton. * The Lion, the Witch and the Wardrobe Intere generazioni sono cresciute sotto la luce del lampione delle Cronache di Narnia. Molto del nostro immaginario è plasmato nella materia di questa storia, dalla saga fantasy scritta negli anni ’50 da C.S. Lewis ai suoi adattamenti a cavallo del secolo: indimenticabile, anche se incompiuta, la serie cinematografica firmata Walden Media e Disney prima, 20th Century Fox poi. E ora Londra è contesa tra il set della nuova serie Netflix e quello di un altro attesissimo adattamento seriale di un ormai classico della letteratura, e non solo per bambini e ragazzi, Harry Potter. L’allestimento teatrale riesce a spalancare le porte dell’armadio guardaroba su un mondo incantato, senza nulla invidiare alla spettacolarità degli effetti speciali del franchise milionario o agli infiniti limiti della fantasia di un lettore: i due prodigi, la Strega Bianca e il Grande Leone, il Male e il Bene, si affrontano sul palco senza esclusione di colpi. Jadis scaglia il suo inverno perenne dall’alto di un volo vertiginoso, mentre la misteriosa natura di Aslan, insieme animale e divina, si incarna contemporaneamente in un attore, il cui aspetto leonino è solo evocato da una pelliccia e una parrucca folti e dorati come il manto e la criniera del suo personaggio, e in un gigantesco puppet a foggia di leone, un’enorme marionetta animata da ben tre persone. Eppure, ciò che più resta e lascia con il cuore colmo di stupore non sono tanto gli effetti speciali, quanto il potere evocativo della semplicità con cui sono ritratti gli altri personaggi. Una semplicità che segue le orme dello stile dell’autore, non incline a lunghe descrizioni, e alla tradizione della Royal Shakespeare Company (leggenda vuole che il regista, da bambino, sia rimasto incantato dalla loro versione di questo spettacolo). Dopotutto, il teatro è per sua natura il regno dell’evocazione, più che della descrizione, e lascia un immenso spazio all’immaginazione dello spettatore.  Una semplicità creatrice di mondi che è prerogativa dell’infanzia, benedetta da una fantasia talmente fervida che basta una scintilla per alimentarla. Animali parlanti e creature leggendarie, interpretati da attori-musicisti che cantano e suonano sul palco danzando insieme ai propri strumenti, indossano costumi che solamente alludono alle loro fattezze animali, ma che di fatto sono costruiti tramite indumenti e attrezzature del tempo della Seconda guerra mondiale, quando è ambientata la storia: ed ecco allora che i sostenitori di Aslan richiamano alla mente gli eroi della Resistenza, mentre i seguaci della Strega i soldati nemici. Ma sono pure castori, con occhiali da aviatore come orecchie e ciaspole legate alla schiena a mo’ di coda, e lupi, con protesi che sono insieme zampe e artigli e mitraglie. Questa doppia realtà crea un ponte tra i due mondi e ci ricorda che, se il male è sempre in agguato, è pur sempre vero che può essere sconfitto. Basta continuare a sperare, e a lottare perché il bene trionfi. Come la protagonista Lucy, la “portatrice di luce”. * Evita Correva l’anno 1946, quando al balcone della Casa Rosada si affacciava la nuova first lady argentina, Eva Duarte de Perón. Una figlia illegittima, cresciuta in povertà e sfuggita all’orizzonte desolato delle Pampas grazie all’allora discusso mestiere di attrice. Una donna del popolo, lo stesso popolo che ora si accalcava sotto la sua finestra e che la innalzava a leader spirituale della nazione. Una regina, per alcuni forse addirittura una santa. Fu sempre a quel balcone che nel ’52, sorretta dal marito, pronunciava l’ultimo discorso, pochi mesi prima che la malattia spegnesse la sua stella. La “scena del balcone” è passata alla storia a livello globale grazie alle commoventi note di “Don’t cry for me Argentina”, colonna (sonora) portante del musical del ’78 e del suo celebre adattamento cinematografico del ’96, con Madonna e Antonio Banderas. Ma è nella nuova produzione londinese che fa storia: l’assolo di Evita non ha luogo sul palco, dove è solo proiettato, ma sul balcone esterno del London Palladium, sotto cui una folla composta indistintamente da fan, curiosi e passanti si è radunata ogni sera e ha levato la sua voce come un tempo fecero i descamisados. Per un momento, gli spettatori sono diventati attori, e il confine tra finzione e realtà è diventato un po’ più sottile. Questa produzione è stata forse l’evento più chiacchierato, e celebrato, della stagione, un trionfo lungo 12 settimane scandito da standing ovation e tutto esaurito, complice anche l’ampia dose di “star quality”, per citare il musical: il ruolo della protagonista è stato affidato a Rachel Zegler, nota al grande pubblico soprattutto per il blockbuster Hunger Games. La ballata dell’usignolo e del serpente. La sua interpretazione è stata di straordinaria potenza, tanto da essere stata unanimemente lodata da pubblico e critica, nonché dallo stesso compositore di Evita Andrew Lloyd Webber, che ha paragonato l’attrice all’immensa Julie Andrews per il suo impegno parallelo nel mondo del teatro e del cinema (a soli 17 anni era stata Maria nel remake cinematografico firmato Spielberg del musical West Side Story, aggiudicandosi il Golden Globe). Una vera e propria rivincita dopo il divisivo live action Disney Biancaneve, che l’ha vista protagonista. Erano necessarie un’interpretazione e una scelta registica di tale impatto per coinvolgere e commuovere il pubblico nonostante le ombre di una protagonista portavoce di un regime tutt’altro che innocente e animata nell’adattamento da una sete di riscatto ambigua, rivolta forse più a sé stessa che al suo popolo. Una sete che la consumerà, ma a cui sacrificherà tutto, l’amore e il tempo su questa terra: “Potevo bruciare dello splendore del fuoco più luminoso / oppure, potevo scegliere il tempo”. È proprio il costo dell’ambizione il vero protagonista dello spettacolo, e non (unicamente) la storia argentina, come appare evidente dalla presenza di un personaggio che riveste la funzione di narratore e di coscienza-nemesi per Evita e danza sul confine tra la storia e la Storia, il giovane rivoluzionario Che. Un nome quasi premonitore e che allude a un Che Guevara forse mai entrato in contatto con Eva, ma simbolo di un corso diverso della storia: “Come puoi essere così poco lungimirante / […] da non avere alcun sogno irrealizzabile?”. * Hamilton[1] Un musical tratto da un saggio biografico, con protagonista uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, e neanche tra i più noti: un figlio illegittimo, orfano, immigrato, senza un soldo, diventato non un presidente, e nemmeno un noto eroe di guerra, ma un economista, e morto piuttosto giovane, sconfitto in duello. Sarebbe poi ritornato diverse volte neiCantos di Ezra Pound, per uscirne non certo impunito. Insomma, non sembrava proprio avere la stoffa di cui sono fatte le storie e la forza narrativa per diventare tale. Forse solo per gli appassionati della Storia con la S maiuscola, ma se si aggiunge che le sonorità sono hip-hop, le canzoni quasi interamente rappate, e che personaggi storicamente bianchi sono interpretati programmaticamente da attori non bianchi, si prevedono già le polemiche. Se però la biografia è scritta da un futuro Premio Pulitzer (Ron Chernow) e viene letta, un po’ per caso, come lettura delle vacanze, da un compositore (Lin-Manuel Miranda) anch’egli destinato al Pulitzer (e proprio grazie a questo musical), allora forse ci sono le basi perché nasca un capolavoro. Un capolavoro dove la Storia e la storia, la realtà e la finzione, si compenetrano perfettamente per trasmettere un messaggio vero oggi come allora, perché è la storia dell’America di quel tempo (scritta, di fatto, da immigrati, come lo stesso Hamilton) raccontata dall’America di oggi, dove il colore della pelle pesa ancora sul diritto di fare udire la propria voce. Un messaggio che, attraverso i suoi artisti, è stato portato anche alla Casa Bianca, dove fu accolto molto calorosamente dall’amministrazione Obama. Miranda, prolifico e poliedrico artista statunitense di origini portoricane, firma ideazione, musica e testi, interpretando anche il protagonista nella produzione originale. Condivide con il suo personaggio il sacro fuoco della scrittura e, come lui, sembra “scrivere come se il suo tempo stesse per scadere”: autore con tre musical all’attivo, ha collaborato alla composizione di diverse colonne sonore Disney, affiancando l’attività autoriale a quella di regista, produttore e attore tra teatro, cinema e televisione.   Alexander Hamilton si è “costruito scrivendo una via d’uscita dall’inferno” e “verso la rivoluzione”, sacrificando anche la propria famiglia in nome dell’ambizione. Ma mentre il proiettile sparato dal suo primo amico ed eterno nemico Aaron Burr scrive la Storia, Hamilton capisce di dover lasciar cadere la penna e passare il testimone a chi racconterà la sua, di storia. Perché, se è vero che “la Storia ha gli occhi puntati su di te” e occorre percepirne la responsabilità, “non hai controllo su chi vive, chi muore e chi racconterà la tua storia”. E forse su come la racconterà. Questo enorme potere ricadrà nelle mani della moglie Eliza, che sceglierà di perdonarlo e di consegnare ai posteri un ritratto del marito pieno di umanità, lei che avrebbe potuto cancellarne o deturparne la memoria. Buio in scena. In sala si riaccendono le luci e, dopo un breve silenzio carico di significato, esplodono gli applausi. Ma una domanda pesa sul cuore, la riposta ancora da scrivere, ogni giorno:  > “quando il mio tempo sarà scaduto  > avrò fatto abbastanza?  > Qualcuno racconterà la mia storia?”. Chiara Bianchi -------------------------------------------------------------------------------- [1] La ripresa cinematografica dello spettacolo è disponibile su Disney Plus. L'articolo Le Cronache di Londra: il leone, Evita e l’America proviene da Pangea.
September 27, 2025 / Pangea
Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà
Nel 2026 Dario Fo compie cent’anni ed è certamente un giullare indelebile. Non ha mai realizzato parodie banali, tanto per far ridere. Le sue non sono mai state smorfie fini a se stesse, volgari mimesi per una grassa risata – ma la prova evidente di micro episodi espressivi, costruiti per l’esplorazione e recupero della realtà nella sua forma più ampia. Come ha scritto Bernard Dort “Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.”  Non importa se la realtà che affiora e dialoga con noi, grazie a queste immagini, viene colta nei suoi aspetti ridanciani, comici o tragici, oppure assorti e misteriosi. Quel suo fresco parlare senza parole s’appoggia nella comunicativa popolare per un contenuto morale, la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi, tra due concezioni, come ha scritto Gramsci. Si dice del teatro comico come di una reinvenzione cosciente della vita, presentata in forma immaginativa: in modo da suscitare interesse e partecipazione. Al punto di credere che, al suo meglio, riesca ad esprimere i nostri stessi sentimenti; per condurci in un mosaico di creature che come noi soffrono, gioiscono, lottano per evadere da se stesse. Si ride di ciò che costituisce il contenuto dell’argomentazione quanto degli schemi argomentativi. Si ride di ciò che si può o non si può dire. Si ride grazie alle astuzie della scelta, delle variazioni, dell’interpretazione patteggiata. Si ride grazie a smorfie appropriate non stolte. La maschera, i gesti, le espressioni argute, provocatorie e grottesche dei personaggi di Fo sono ancora oggi i lampi del presente. Walter Valeri con Dario Fo e Franca Rame Per tutta la vita, come l’autore delle Ceneri di Gramsci, Dario Fo ha odiato e fustigato gli indifferenti. Ha creato maschere comiche irresistibili, vive e messe in situazione come strutture gestuali. Un insegnamento prodigioso per una comicità civile, scrupolosa e sapiente. Oppure roboante e fracassona, se necessario. Perché no? In teatro, come in tutte le arti, la pigrizia non può essere di casa: il corpo, la mano che non risponde è già passata al suicidio. Le sue pantomime e i monologhi sono come scintille nella memoria di coloro che le hanno viste dal vivo. Quelli che ne hanno gioito, grazie ai video possono ancora gioire di capolavori ineguagliabili quali La nascita del giullare, La resurrezione di Lazzaro, Le nozze di Cana, La fame dello zanni poi confluiti in Mistero Buffo; sino a Francesco Giullare di Dio: un unicum dove l’esperienza ed esistenza creatrice dello spettatore e dell’attore coincidono. Questo grazie a migliaia di giullarate, situazioni comiche ispirate a fonti che spaziano dal teatro greco a quello medievale, da quello rinascimentale a quello moderno, nate sotto l’urgenza e il segno della dismisura. Una dismisura, portata avanti oggi da Mario Pirovano, o pazientemente distesa per parlare di noi e dei cortili sotto casa. Così è stato sin dagli esordi con Il dito nell’occhio, poi negli anni a seguire con la complicità geniale di Franca Rame, per denudare il potere politico, la logica pretestuosa dell’ovvietà, l’ipocrisia di chi si nutre della nostra quotidiana pigrizia. Maschere esorbitanti, pungenti e indomabili. Utili nell’additare delle contro-maschere ostili, filtrate dall’ipocrisia, dall’imperdonabile stanchezza o arroganza di essere al mondo, di volerlo così com’è.  Dario Fo è stato un giullare shakespeariano, Franca una giullaressa alla corte di un’umanità priva di cuore, bisogna dirlo. Un’umanità colpevole di decine di migliaia di femminicidi, carneficine insensate, morti bianche sul lavoro, produttrice di sprechi e di fame, insensibile alle necessità di centinaia di milioni di poveri. Un’umanità riottosa e ostile nei confronti di centinaia di migliaia di migranti, sepolti nell’acqua, diseredati persino del diritto al dolore. Walter Valeri *Walter Valeri ha pubblicato, tra l’altro, “Il Dario furioso. Franca Rame e Dario Fo. Teatro, politica e cultura nell’Italia del Novecento”, Il Ponte Vecchio, 2020 L'articolo Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà proviene da Pangea.
September 3, 2025 / Pangea
Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale
In vita ho avuto il privilegio di conoscere molte persone, al di qua e al di là dell’Oceano. Alcune nobili e straordinarie altre solo famose. Fra quelle nobili e straordinarie c’è senz’altro Franca Rame, con la quale ho avuto il privilegio di collaborare per oltre quindici anni a partire dal 1980. Nel corso del tempo ho avuto modo di vedere da vicino come le opere del premio Nobel Dario Fo siano state fortemente influenzate dalla sua sapienza attoriale. Oltre che dalla sua capacità organizzativa e coraggio politico.  Franca è stata per Dario il ‘miglior fabbro’. Non solo per i monologhi femminili ma per l’intero corpus della sua opera.  Era la prima a cui Dario leggeva i manoscritti, oppure la ‘fabula’ che, successivamente, sarebbe diventata il copione di scena: un testo provvisorio, non ancora pieno di cancellature e note a margine, che Franca aveva già vagliato e commentato, magari in cucina. Non a caso nell’edizione stampata delle commedie sta scritto ‘a cura di Franca Rame’. Non solo come riconoscimento editoriale, ma come traccia di un’intensa collaborazione e sinergia maturata nel corso di migliaia di recite realizzate in comune. Un’empatia esistenziale che, secondo Franca, implica un perenne “scambio della propria esperienza personale, della propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si fa, specie in teatro.”   Per realizzare quell’artificio insito nel mestiere dell’attrice Franca utilizzava una vis comica ed intelligenza che si è sviluppata  progressivamente. A seconda dei fatti politici del giorno, all’ideologia dominante sottoposta a critica severa, oppure con l’innesto a margine della propria vita a partire dalla prima infanzia. Per esemplificare, senza volermi inoltrare in un’analisi approfondita dell’argomento, cito direttamente dal monologo Ritorno alla vita scritto durante la veglia per la morte della madre Emilia, pubblicato su Teatri e sulla rivista online “lamacchinasognante”. > “È ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni. È mia > madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”, > così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era > sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto > un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia > sorella Pia in La passione del Signore atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti > Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore! > Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la > stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete > d’argento ha venduto il suo Signore!” Non era una gran parte, non ci devo aver > messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” dicevala mamma > paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!” Sono parole e pensieri che ci prendono per mano e indicano l’origine della sua esperienza attoriale. Tipica di una figlia d’arte, che negli anni a venire dedica l’intera esistenza al palcoscenico. Un’arte che nasce principalmente all’interno di una microsocietà aurorale e si sviluppa grazie al codice orale in virtù di un nucleo famigliare dove l’arte e la vita coincidono. Una grammatica di scena esistenziale ed immaginifica, eppure rigorosa, che riguarda ‘il farsi e disfarsi del linguaggio, come direbbe Roman Jakobson. Che ha a che fare con l’imprinting, l’unicità della lingua associata alle proprie emozioni, alla cognizione del dolore e della gioia. Così apprendiamo che all’inizio e alla fine di quella recita, l’angiolino Franca, ad appena tre anni, volente o nolente è stato gettato nella mischia, incitato con grandi cenni ad entrare in un carattere fondante la sua futura personalità di donna e attrice: > Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione > da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un > attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto > stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico > “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento > ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco. Ce l’avevo fatta: > l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da > allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il > più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a > piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza > riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.  Spesso nei suoi monologhi Franca ha trattato “con voce chiara e mesta” oppure comica e irata, il tema della madre con “quel tanto che serve”. Non a caso i titoli più famosi, scritti a quattro mani con Dario, sono Medea, Maria alla Croce, Mamma Togni, Michele lu lanzone, Il risveglio, Una madre, Lo stupro, Il diario di Eva, Lisistrata romana, etc. Sono testi in cui l’archetipo della madre trova una risonanza immediata, vitale e plausibile, sempre all’interno del processo di trasformazione del mondo femminile. Punto di transito, luogo ideale e reale, della presa di coscienza di una donna del XX secolo che ha fatto uso del palcoscenico per darsi voce e coraggio.  Franca Rame e Walter Valeri Un’altra dote di Franca, che non tutti conoscono, e di cui Dario ha abbondantemente beneficiato, era quella di saper orchestrare dall’interno la recita. Era come una sorta di regista al seguito. C’erano dei segnali precisi, magistrali e indiscutibili, con cui Franca interveniva all’insaputa del pubblico. Ad esempio: se Dario preso dalla foga si dilungava durante l’introduzione allo spettacolo, lei lo correggeva, lo avvertiva con dei piccoli colpi di tosse dalla quinta. Oppure, se un attore o un’attrice scendevano di tono perdendo il contatto con il pubblico, lei lo segnalava con un gesto discreto, con un colpo del piede sul palcoscenico; oppure servendosi  di un mezzo tono che, benché tagliente,  non valicava il boccascena. Franca recitava e ascoltava con distacco sé stessa e gli altri recitare. Come se fosse seduta fra il pubblico. Per una sorta di automatismo innato, senza farsene vanto, aveva del pubblico una percezione permanente ed esatta, quasi infallibile.  Durante le interviste o chiacchierate informali era solita schermirsi. Fare ironia nei confronti di quelli che indossavano una faccia da attori o da attrici. Ripeteva che quello del teatrante era un lavoro come un altro e andava svolto nel migliore dei modi, con estrema modestia, serietà e semplicità. Non c’era alcun medico che potesse prescrive ai pazienti l’obbligo di fare gli attori, di guadagnarsi la vita in scena. Anche se, personalmente, penso che il monologo autobiografico Lo stupro, abbia avuto per lei una funzione terapeutica. Più volte ha avuto modo di dichiarare “Ciò che appartiene alla sfera ‘personale’ appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa”. Ed è questa radicale compenetrazione fra il ‘personale’ e il ‘politico’ il nodo centrale del suo teatro.   Era una persona a modo suo religiosa; un po’ marxista e un po’ francescana ‘sine glossa’ come suol dirsi; a volte dolcissima e a volte inflessibile, benché pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva lo intendeva bene, mentre numeroso l’ascoltava recitare o in camerino. Tutti sapevano che i monologhi femminili di Tutta casa letto e chiesa erano un punto di riferimento preciso. Un’autentica opposizione ad ogni sopruso, ad ogni atto politico oppressivo nei confronti delle donne. Anche grazie a lei sappiamo che esiste un discrimine ‘inoffuscabile’ tra la verità e la sua negazione. Non parlo della menzogna che rende insensibili a tutto, perché tutto è già stato venduto e comprato (compreso gli occhi delle vittime innocenti) ma di quella descritta da Dostoevskij o Manzoni, che morde dentro. Con un sorriso malizioso ripeteva spesso “Dio esiste, ed è comunista”. Anche per questo la verità chiede dei sacrifici.  Una volta ho scritto: la verità in teatro, come per la religione, migra indistruttibile. La luminosa interezza di Franca Rame è simile alle ali di una farfalla che punge. Lo penso ancora. Fra i molti esempi di coerenza e dignità politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, c’è quello delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica. Lo ha fatto in modo trasparente. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed esemplare che andrebbe letta e commentata ancora oggi nelle scuole del nostro paese. Cuori e menti ad educare, come ha scritto parlando d’altro Franco Fortini, “la credibilità pretende autenticità. Nel nostro spazio di vita che è dell’inautentico, ogni atto di fede, foss’anche il più superstizioso, rammenta l’esigenza dell’autenticità.”  Forse anche per questo la stampa e i media, che sono soliti glorificare il nulla l’hanno dimenticata. I capo redattori preferiscono mandare in macchina vecchie baggianate tipo: Franca Rame insultava il Papa Benedetto XVI, semplicemente perché, con tutto il rispetto dovuto, Franca ebbe modo di ricordare al mondo che da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non aveva l’utero. Quindi anche sua santità, avrebbe dovuto mettersi in ascolto, più che dettare regole e imperativi intollerabili per il modo delle donne. Ora è il tempo delle fakenews, delle tempeste mediatiche procurate ad arte, di un pensiero che vorrebbe disintegrare l’intimo valore di ogni testimonianza e speranza di liberazione come non fosse mai esistita. Eppure, la testimonianza di Franca è stata quella di una donna veramente speciale.  Walter Valeri Abano Terme 7/8/2025 *Dario Fo e Franca Rame leggono le lettere, Milano, 4 dicembre 1962 (Olycom) L'articolo Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale proviene da Pangea.
August 8, 2025 / Pangea
“L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock, da Orwell ai Muse
Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 – Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”. Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7 novembre al teatro Michelangelo di Modena[1]. 1984 di George Orwell (1949) In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure nessuno lo è mai stato tanto radicalmente. L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio, realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero, ormai atrofizzato. Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive, incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere sano, di essere libero.  Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di fronte allo sguardo del Grande Fratello. Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico, necessario. * L’album “The Resistance” dei Muse (2009) Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in tutto il mondo. La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal Grammy al miglior album rock. Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di “The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica, basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy. Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns. Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/ Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light” (Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre vite). Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”. È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.  * Muse 1984 – Resistance. Rock Opera Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la “resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto rivoluzionario di amore, libertà e pace. Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno, che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a risvegliare l’umanità intera. E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva, calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della propaganda. Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è forza”. Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista. Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità. Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”. Chiara Bianchi *Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo numero di “Studi Cattolici” -------------------------------------------------------------------------------- [1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e @muse1984. L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock, da Orwell ai Muse proviene da Pangea.
June 16, 2025 / Pangea
Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino al 15 marzo. Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo. Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn). Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica (interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).  L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per citare alcuni illustri domenicani). Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale. L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora si manifesta il Logos. Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi – in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia. Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici, e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è nella creazione. Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente, al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino, percepibile nel mondo fisico e percepibile. Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano: il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe venuto di lì a poco. Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito. Carlo Ferdinando de Nardis L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale proviene da Pangea.
March 11, 2025 / Pangea