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Le Cronache di Londra: il leone, Evita e l’America
Un immenso acquerello sui toni del grigio bagnato di pioggia, con giusto qualche pennellata qua e là del cremisi degli autobus a due piani, delle cabine telefoniche e delle cassette postali. Fumosa e sanguigna, ecco come si manifesta spesso la nostra Londra interiore. Eppure, camminare per le sue vie significa immergersi in un collage di colori dove le locandine delle plays e dei musical si aprono come finestre variopinte sulle fiancate di double-decker e cab, sulle facciate dei teatri e sulle banchine della labirintica Tube. Qui la sesta arte sembra plasmare la città e la sua storia, con vie e interi quartieri che gravitano intorno ai teatri come sistemi attorno ai loro soli, e spettacoli che fanno nascere e tramontare in scena i loro mondi sera dopo sera anche da oltre settant’anni.  È un teatro vissuto, e da vivere, in modo diverso dal nostro, un teatro dove il pubblico ride e si commuove secondo tempi e codici imprevedibili, propri delle tante culture che, da ogni angolo di mondo, si danno appuntamento di fronte allo stesso spettacolo, e dove durante le rappresentazioni si mangia e si beve, con sacra ritualità e la più terrena umanità, in un intreccio che sa più del pub che del tempio. Un teatro compagno di vita, dove ci si può anche dimenticare degli infiniti saluti finali e dei “bis”: lo spettacolo è finito, ma domani la magia tornerà ad animare il palcoscenico, e così farà, con un po’ di fortuna, per molti anni ancora.  Un teatro che si espande oltre la quarta parete, oltre le mura dell’edificio stesso, e raccoglie persone di tutte le lingue attorno a un pianoforte al piano superiore di un theatre bar, a cantare a squarciagola i brani più famosi dei musical insieme a completi sconosciuti (bando alla timidezza e, se non si sa cantare, alla dignità, ma a Londra nessuno ti giudicherà): è l’atmosfera che si respira al “The Room Where it Happens” di Soho, un vero e proprio locale dentro al locale dove i camerieri sono artisti del West End (la Broadway londinese) “sotto copertura”. Ecco quindi a voi, direttamente dalla scena d’oltremanica, tre musical le cui storie sono tratte rispettivamente dalla letteratura, dalla storia e dalla storia passando per la letteratura: Il leone, la strega e l’armadio, Evita e Hamilton. * The Lion, the Witch and the Wardrobe Intere generazioni sono cresciute sotto la luce del lampione delle Cronache di Narnia. Molto del nostro immaginario è plasmato nella materia di questa storia, dalla saga fantasy scritta negli anni ’50 da C.S. Lewis ai suoi adattamenti a cavallo del secolo: indimenticabile, anche se incompiuta, la serie cinematografica firmata Walden Media e Disney prima, 20th Century Fox poi. E ora Londra è contesa tra il set della nuova serie Netflix e quello di un altro attesissimo adattamento seriale di un ormai classico della letteratura, e non solo per bambini e ragazzi, Harry Potter. L’allestimento teatrale riesce a spalancare le porte dell’armadio guardaroba su un mondo incantato, senza nulla invidiare alla spettacolarità degli effetti speciali del franchise milionario o agli infiniti limiti della fantasia di un lettore: i due prodigi, la Strega Bianca e il Grande Leone, il Male e il Bene, si affrontano sul palco senza esclusione di colpi. Jadis scaglia il suo inverno perenne dall’alto di un volo vertiginoso, mentre la misteriosa natura di Aslan, insieme animale e divina, si incarna contemporaneamente in un attore, il cui aspetto leonino è solo evocato da una pelliccia e una parrucca folti e dorati come il manto e la criniera del suo personaggio, e in un gigantesco puppet a foggia di leone, un’enorme marionetta animata da ben tre persone. Eppure, ciò che più resta e lascia con il cuore colmo di stupore non sono tanto gli effetti speciali, quanto il potere evocativo della semplicità con cui sono ritratti gli altri personaggi. Una semplicità che segue le orme dello stile dell’autore, non incline a lunghe descrizioni, e alla tradizione della Royal Shakespeare Company (leggenda vuole che il regista, da bambino, sia rimasto incantato dalla loro versione di questo spettacolo). Dopotutto, il teatro è per sua natura il regno dell’evocazione, più che della descrizione, e lascia un immenso spazio all’immaginazione dello spettatore.  Una semplicità creatrice di mondi che è prerogativa dell’infanzia, benedetta da una fantasia talmente fervida che basta una scintilla per alimentarla. Animali parlanti e creature leggendarie, interpretati da attori-musicisti che cantano e suonano sul palco danzando insieme ai propri strumenti, indossano costumi che solamente alludono alle loro fattezze animali, ma che di fatto sono costruiti tramite indumenti e attrezzature del tempo della Seconda guerra mondiale, quando è ambientata la storia: ed ecco allora che i sostenitori di Aslan richiamano alla mente gli eroi della Resistenza, mentre i seguaci della Strega i soldati nemici. Ma sono pure castori, con occhiali da aviatore come orecchie e ciaspole legate alla schiena a mo’ di coda, e lupi, con protesi che sono insieme zampe e artigli e mitraglie. Questa doppia realtà crea un ponte tra i due mondi e ci ricorda che, se il male è sempre in agguato, è pur sempre vero che può essere sconfitto. Basta continuare a sperare, e a lottare perché il bene trionfi. Come la protagonista Lucy, la “portatrice di luce”. * Evita Correva l’anno 1946, quando al balcone della Casa Rosada si affacciava la nuova first lady argentina, Eva Duarte de Perón. Una figlia illegittima, cresciuta in povertà e sfuggita all’orizzonte desolato delle Pampas grazie all’allora discusso mestiere di attrice. Una donna del popolo, lo stesso popolo che ora si accalcava sotto la sua finestra e che la innalzava a leader spirituale della nazione. Una regina, per alcuni forse addirittura una santa. Fu sempre a quel balcone che nel ’52, sorretta dal marito, pronunciava l’ultimo discorso, pochi mesi prima che la malattia spegnesse la sua stella. La “scena del balcone” è passata alla storia a livello globale grazie alle commoventi note di “Don’t cry for me Argentina”, colonna (sonora) portante del musical del ’78 e del suo celebre adattamento cinematografico del ’96, con Madonna e Antonio Banderas. Ma è nella nuova produzione londinese che fa storia: l’assolo di Evita non ha luogo sul palco, dove è solo proiettato, ma sul balcone esterno del London Palladium, sotto cui una folla composta indistintamente da fan, curiosi e passanti si è radunata ogni sera e ha levato la sua voce come un tempo fecero i descamisados. Per un momento, gli spettatori sono diventati attori, e il confine tra finzione e realtà è diventato un po’ più sottile. Questa produzione è stata forse l’evento più chiacchierato, e celebrato, della stagione, un trionfo lungo 12 settimane scandito da standing ovation e tutto esaurito, complice anche l’ampia dose di “star quality”, per citare il musical: il ruolo della protagonista è stato affidato a Rachel Zegler, nota al grande pubblico soprattutto per il blockbuster Hunger Games. La ballata dell’usignolo e del serpente. La sua interpretazione è stata di straordinaria potenza, tanto da essere stata unanimemente lodata da pubblico e critica, nonché dallo stesso compositore di Evita Andrew Lloyd Webber, che ha paragonato l’attrice all’immensa Julie Andrews per il suo impegno parallelo nel mondo del teatro e del cinema (a soli 17 anni era stata Maria nel remake cinematografico firmato Spielberg del musical West Side Story, aggiudicandosi il Golden Globe). Una vera e propria rivincita dopo il divisivo live action Disney Biancaneve, che l’ha vista protagonista. Erano necessarie un’interpretazione e una scelta registica di tale impatto per coinvolgere e commuovere il pubblico nonostante le ombre di una protagonista portavoce di un regime tutt’altro che innocente e animata nell’adattamento da una sete di riscatto ambigua, rivolta forse più a sé stessa che al suo popolo. Una sete che la consumerà, ma a cui sacrificherà tutto, l’amore e il tempo su questa terra: “Potevo bruciare dello splendore del fuoco più luminoso / oppure, potevo scegliere il tempo”. È proprio il costo dell’ambizione il vero protagonista dello spettacolo, e non (unicamente) la storia argentina, come appare evidente dalla presenza di un personaggio che riveste la funzione di narratore e di coscienza-nemesi per Evita e danza sul confine tra la storia e la Storia, il giovane rivoluzionario Che. Un nome quasi premonitore e che allude a un Che Guevara forse mai entrato in contatto con Eva, ma simbolo di un corso diverso della storia: “Come puoi essere così poco lungimirante / […] da non avere alcun sogno irrealizzabile?”. * Hamilton[1] Un musical tratto da un saggio biografico, con protagonista uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, e neanche tra i più noti: un figlio illegittimo, orfano, immigrato, senza un soldo, diventato non un presidente, e nemmeno un noto eroe di guerra, ma un economista, e morto piuttosto giovane, sconfitto in duello. Sarebbe poi ritornato diverse volte neiCantos di Ezra Pound, per uscirne non certo impunito. Insomma, non sembrava proprio avere la stoffa di cui sono fatte le storie e la forza narrativa per diventare tale. Forse solo per gli appassionati della Storia con la S maiuscola, ma se si aggiunge che le sonorità sono hip-hop, le canzoni quasi interamente rappate, e che personaggi storicamente bianchi sono interpretati programmaticamente da attori non bianchi, si prevedono già le polemiche. Se però la biografia è scritta da un futuro Premio Pulitzer (Ron Chernow) e viene letta, un po’ per caso, come lettura delle vacanze, da un compositore (Lin-Manuel Miranda) anch’egli destinato al Pulitzer (e proprio grazie a questo musical), allora forse ci sono le basi perché nasca un capolavoro. Un capolavoro dove la Storia e la storia, la realtà e la finzione, si compenetrano perfettamente per trasmettere un messaggio vero oggi come allora, perché è la storia dell’America di quel tempo (scritta, di fatto, da immigrati, come lo stesso Hamilton) raccontata dall’America di oggi, dove il colore della pelle pesa ancora sul diritto di fare udire la propria voce. Un messaggio che, attraverso i suoi artisti, è stato portato anche alla Casa Bianca, dove fu accolto molto calorosamente dall’amministrazione Obama. Miranda, prolifico e poliedrico artista statunitense di origini portoricane, firma ideazione, musica e testi, interpretando anche il protagonista nella produzione originale. Condivide con il suo personaggio il sacro fuoco della scrittura e, come lui, sembra “scrivere come se il suo tempo stesse per scadere”: autore con tre musical all’attivo, ha collaborato alla composizione di diverse colonne sonore Disney, affiancando l’attività autoriale a quella di regista, produttore e attore tra teatro, cinema e televisione.   Alexander Hamilton si è “costruito scrivendo una via d’uscita dall’inferno” e “verso la rivoluzione”, sacrificando anche la propria famiglia in nome dell’ambizione. Ma mentre il proiettile sparato dal suo primo amico ed eterno nemico Aaron Burr scrive la Storia, Hamilton capisce di dover lasciar cadere la penna e passare il testimone a chi racconterà la sua, di storia. Perché, se è vero che “la Storia ha gli occhi puntati su di te” e occorre percepirne la responsabilità, “non hai controllo su chi vive, chi muore e chi racconterà la tua storia”. E forse su come la racconterà. Questo enorme potere ricadrà nelle mani della moglie Eliza, che sceglierà di perdonarlo e di consegnare ai posteri un ritratto del marito pieno di umanità, lei che avrebbe potuto cancellarne o deturparne la memoria. Buio in scena. In sala si riaccendono le luci e, dopo un breve silenzio carico di significato, esplodono gli applausi. Ma una domanda pesa sul cuore, la riposta ancora da scrivere, ogni giorno:  > “quando il mio tempo sarà scaduto  > avrò fatto abbastanza?  > Qualcuno racconterà la mia storia?”. Chiara Bianchi -------------------------------------------------------------------------------- [1] La ripresa cinematografica dello spettacolo è disponibile su Disney Plus. L'articolo Le Cronache di Londra: il leone, Evita e l’America proviene da Pangea.
September 27, 2025 / Pangea
“Camminare sull’orlo di un abisso”. Dialogo con Corrado d’Elia
Corrado d’Elia, al contempo, ha qualcosa di Mangiafuoco e qualcosa di Don Chisciotte. Suo è il genio del terribile: quando gli parli, impalca castelli in aria così concreti che sei pronto a imbarcarti con lui verso un qualsiasi nessundove. È il talento di chi maneggia il fuoco come un burattino e rende feconda la cova dei mulini a vento. In fondo, ama il pensare transoceanico, d’Elia: per me – anche per le sue movenze da saltimbanco, da imbonitore di leoni, da infallibile equilibrista – è il Philippe Petit del teatro italiano contemporaneo.  Milanese, uscito dalla ‘Paolo Grassi’, Corrado d’Elia somma strategia e umore lunare. Nel 1995 fonda Teatri Possibili – che è poi un inseguire l’impossibile – che oggi si chiama Compagnia Corrado d’Elia; da tempo, in particolare, Corrado d’Elia indaga i personaggi, gli uomini che al posto di lasciare il cuore a maggese l’hanno messo a fruttificare velieri, visioni, varchi. Ha messo in scena – con acume da entomologo del meraviglioso – Mozart e Beethoven, Van Gogh e Steve Jobs. Ora sta inseguendo Macbeth; ha da poco dato voce a Galileo. Ama i grandi libri, Corrado d’Elia, i libri che infiammano fino a forgiare in spada e in capodoglio l’anima di chi li legge. Così, con spericolata indole, ha riscritto l’Iliade e Moby Dick, Don Chisciotte, Le notti bianche, Il piccolo principe. Ha l’energia dell’ispirato – cioè: di chi sa ispirare.  A volte, le sue sceneggiature prendono la via del libro. Io, Moby Dick (Ares, 2024) è forse il più affascinante; Galileo, oltre le stelle (Ares, 2025), l’ultimo, è un tentativo di sconfinamento dai greti di una grande anima. Quali sono i legami tra scienza e fede, tra parola e calcolo, tra opportunità e opportunismo, tra sé e cosmo? Galileo è allo zenit dell’uomo – Galileo è figura che ha in Amleto un emblema nel mondo letterario: entrambi fondano la modernità, che è poi il discorso sull’essere e sul non essere, sulla possibilità di esplorare gli impossibili. Amleto crea un microscopio interiore per sondare i miraggi e i deliri dell’anima; Galileo forgia un cannocchiale per auscultare i mugolii dell’universo.  “È carne che trema di fronte all’infinito”, dice Corrado d’Elia di Galileo. Il libro comincia con una finestra e finisce con una marmellata. Sulla soglia dell’abiura e dell’umiliazione, il sapiente parla di fragole, limoni e lamponi; “Nessuno ha visto più lontano di me”, sussurra. Gli astri sono i frutti maturi dei nostri occhi.  Corrado d’Elia scrive in versi. La sua scrittura, però, ha poco a che fare con il teatro ‘poetico’ (o neomelodico) – che siano le scritture vertiginose di Mario Luzi o gli spettacoli ‘di parola’ di Mariangela Gualtieri. L’andar per versi è utile, qui, a creare il ritmo narrativo esatto. I versi sono uno ‘strumento’: cembalo e cetra, tamburo e corno; sussurri e grida. Come i canti attorno al fuoco: e il fuoco, di volta in volta, si fa volto e muraglia. Un fuoco argilla, intendo, in cui le ombre hanno la beltà di un corpo, di un torsolo d’uomo – innamorano.   Beethoven, Van Gogh, Galileo, Mozart. Mi pare di capire che ti piacciono i grandi uomini, che confidi nel ‘terribile’ genio dell’uomo. È così? Perché? La parola “genio” porta con sé un’ambiguità affascinante. Genio non significa solo capacità tecnica o talento straordinario: implica una tensione, un’inquietudine, una ferita. Beethoven, Van Gogh, Galileo, Mozart – e potrei aggiungere Steve Jobs, figura altrettanto contraddittoria e perturbante – sono stati uomini che hanno vissuto in una sorta di scarto rispetto al mondo comune. Hanno visto più lontano, hanno pagato sulla propria pelle il prezzo di quella visione, e per questo hanno toccato vertici che noi possiamo soltanto sfiorare. Incontrare il genio significa entrare in contatto con l’ebbrezza di una grandezza che non è mai pienamente accessibile. È come camminare sull’orlo di un abisso: non possiamo appropriarsene, ma possiamo lasciarci colpire da quella vertigine. Galileo, in particolare, rappresenta per me questa condizione: uomo di scienza, ma anche poeta della visione, capace di scardinare dogmi e di aprire nuove prospettive sul mondo, pur pagando il prezzo dell’isolamento e della condanna. Lui è Corrado d’Elia Iliade, Moby Dick, Divina Commedia. Mi par di capire che ti piacciano le grandi opere. È così? Che senso ha, oggi, una vita ‘epica’, una grande opera? I classici sono la nostra archè, il nostro conio originario. Non appartengono al passato, ma al futuro. Essi non cessano mai di parlarci, perché custodiscono domande che restano aperte. Omero, Dante, Joyce, Dostoevskij, Melville non ci consegnano risposte definitive, ma ci offrono la vertigine di interrogativi che ancora oggi ci parlano e ci fanno riflettere. In un’epoca che sembra aver smarrito i propri maestri e che spesso rifugge dalle grandi domande, parlare di “vita epica” significa restituire al presente il senso di un orizzonte più vasto. Non è questione di eroismo in senso tradizionale, ma di profondità: l’epica oggi è la capacità di vivere con consapevolezza, di cercare un senso che vada oltre il consumo immediato. Una grande opera, nel nostro tempo, è quella che invece riesce a interrogarci e a resistere al logorio dell’oblio e della dimenticanza. Qual è il libro che ti ha folgorato da bambino? E quello che ti ha folgorato da adulto? Da bambino mi hanno colpito libri che mi hanno insegnato a guardare il mondo con stupore. Non era tanto un titolo preciso, ma il gesto stesso del leggere che apriva mondi. Ogni pagina era una porta. Da adulto, invece, ricordo come folgorazione Moby Dick: non solo per la potenza narrativa, ma perché in quell’ossessione vedevo riflessa la nostra sete inesausta, la tensione verso l’impossibile. Melville, come Dante, come Galileo, ci mostra che la conoscenza è anche naufragio, che non si può inseguire la verità senza rischiare di perdersi. Non è un caso che il mio Io, Moby Dick, inizi con un uomo seduto sulle proprie sconfitte. Galileo. Perché? Galileo è un simbolo del nostro tempo. Non solo perché ha incarnato la rivoluzione del pensiero scientifico, ma perché ha vissuto sulla propria pelle il conflitto tra fede e ragione, tra libertà di ricerca e potere istituzionale. È un uomo del passato che parla al presente: la sua vicenda interroga ancora oggi il rapporto tra scienza e coscienza, tra visione e resistenza. Portarlo in scena significa restituirgli la sua duplice natura: l’uomo forte e convinto delle sue idee, ma anche l’essere fragile, intimo, spesso solo, che si misura con i limiti propri e del proprio tempo. Galileo è il paradigma dell’artista e dello scienziato: colui che guarda oltre e che, proprio per questo, paga un prezzo altissimo. Come inizi a scrivere un testo, questa specie di biografia lirica, di monologare poetico? Da dove è iniziato Galileo? La scrittura nasce sempre da una ferita, e quindi da un’urgenza. Non è mai un progetto meditato, ma piuttosto un incendio che divampa da una scintilla. Nel caso di Galileo, la scintilla è stata una conversazione con amici sul rapporto tra fede e scienza: un tema che, lungi dall’essere archiviato, resta bruciante e contemporaneo. Io scrivo ovunque: nei bar, negli aeroporti, sui treni, in camerino. La scrittura mi divora. Non è mai casuale la mia scelta di andare a capo: il verso è la forma naturale del mio pensiero. È un ritmo che segue il respiro. Galileo è nato proprio così: dal bisogno di dare voce a una tensione interiore, di unire la lirica al racconto, il pensiero alla carne viva del teatro. Che rapporto c’è tra scrittura scenica e poetica? Sono due forme sorelle. Entrambe vivono del togliere, dell’evocare più che del descrivere. La scrittura poetica genera immagini che vivono nella mente del lettore. La scrittura scenica deve invece incarnarsi subito, diventare visione immediata per lo spettatore. La differenza è nel tempo: la poesia si legge in solitudine, lentamente, e può essere riletta infinite volte. Il teatro vive nell’istante, chiede di catturare e trattenere un pubblico per un’ora o due, senza tregua. Ma in entrambi i casi si tratta di rendere visibile l’invisibile, di rivelare, di trasformare il silenzio in qualcos’altro. Che senso ha l’arte in un mondo che rimanda soltanto orrore, morte? L’arte è il braciere che deve restare acceso, anche quando tutto intorno è buio. Adorno nel ’49 scriveva che dopo Auschwitz fosse impossibile scrivere poesia, addirittura un atto di barbarie. Ma la poesia stessa ha dimostrato il contrario: proprio nell’abisso, la parola trova una ragione per esistere. Oggi più che mai l’arte è dunque resistenza. È atto politico, oltre che poetico. Non consola, ma tiene accesa una luce. Senza arte, senza cultura, senza educazione, la società resta prigioniera della violenza e dell’ignoranza. L’arte è la nostra forma di sopravvivenza. Qual è la tua poesia del cuore? È difficile dire. Probabilmente se devo scegliere, Forse il cuore di Salvatore Quasimodo, scritta nel 1947, nel dopoguerra, quando il mondo era allo stesso modo lacerato e le ferite sembravano insanabili. Si chiude con quei versi che non risuonano terribili nel dubbio: «forse il cuore ci resta, forse il cuore…». Io ci sento tutta la precarietà dell’umano, ma anche la sua possibilità. Ci offre una chiave che sta a noi prendere o rifiutare. Qual è stato il personaggio più difficile da investigare? Ogni personaggio porta con sé un abisso, ma se devo pensarne uno in particolare, cito il Caligola di Camus. Qui la caduta non ha appigli: è verticale, brutale, inesorabile. Camus non ci consegna solo l’immagine storica di un imperatore folle, ma ne fa un archetipo della condizione umana: un uomo che, perso l’amore e il senso delle cose, si spinge fino all’estremo, fino al capriccio assoluto, fino all’assurdo. La crudeltà di Caligola è profondamente umana. E tutto questo, questa frizione è terribile. Perché la puoi spiegare. La sua violenza non nasce da una ferita, da un lutto che si trasforma in ossessione metafisica: la ricerca di un’impossibile libertà assoluta. Nel suo delirio, Caligola non è lontano da noi: ci mostra che quando l’uomo smarrisce il senso, quando non accetta i limiti, quando non ha punti di riferimento, umani o spirituali può trasformarsi in mostro. È l’abisso del potere, ma anche l’abisso del vuoto interiore. …e ora, quale nuovo uomo stai tenendo in agguato, vorresti agguantare? Il prossimo incontro è con Macbeth, o meglio con la sua ombra. Non la tragedia shakespeariana in senso tradizionale, ma il suo incubo, il suo sogno più nero. Macbeth diventa per me un uomo intrappolato in un rito ancestrale, una vittima sacrificale in balia di qualcosa più grande di lui. Per questo, nel suo disorientamento è un uomo contemporaneo. Una dimensione rituale, alchemica, dove la parola si fa liturgia e il gesto invocazione. Uno spettacolo visionario a cui lo spettatore non assiste, ma attraversa. ** Si pubblica per gentile concessione, l’attacco di “Galileo, oltre le stelle”, testo di Corrado d’Elia edito da Ares (2025). Quando ero bambino, come per istinto, aprivo la finestra e guardavo il cielo. Allora, tutte le volte, lo stupore, il mistero, per quel foglio immenso e nero, mi avvolgeva. Ogni stella era un enigma da decifrare, ogni costellazione una frase da indagare. Cosa cercassi io non lo so, ma già sentivo che in quel vasto tacere, in quel silenzio che sapeva di sapere, un senso d’eterno c’era, di assoluto, un frammento di verità che mi lasciava disorientato, incantato, muto. «Cosa siete, stelle? E che cosa mi volete dire? Siete solo lanterne accese nel buio o una traccia da seguire? L’universo è tanto vasto, sembravate suggerire, più di quello che pensi più di quello che puoi capire e la vita, la vita, è un meraviglioso viaggio, sempre in divenire». E in quel parlare del cielo, in quell’estasi in cui mi perdevo, io leggevo una chiamata, un invito, a esplorare un disegno oltre il nostro, un ordine nascosto dietro quel velo d’infinito. Così ogni notte lo facevo e il cuore, guardando, piano piano si calmava. La domanda ancora oggi è sempre la stessa: che cos’è questo libro che mai si chiude? Quest’oceano celeste sopra di noi che ancora mi incanta e mai mi delude? Un’opera d’arte, certo, un capolavoro. Un mistero. Il riflesso dell’animo mio inquieto. L’eco di qualcosa che ancora ci è segreto. E davanti a voi, luminose stelle la mia emozione si fa sempre meraviglia. Un uomo così piccolo, in mezzo alla sua grande famiglia. L'articolo “Camminare sull’orlo di un abisso”. Dialogo con Corrado d’Elia proviene da Pangea.
September 24, 2025 / Pangea
Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà
Nel 2026 Dario Fo compie cent’anni ed è certamente un giullare indelebile. Non ha mai realizzato parodie banali, tanto per far ridere. Le sue non sono mai state smorfie fini a se stesse, volgari mimesi per una grassa risata – ma la prova evidente di micro episodi espressivi, costruiti per l’esplorazione e recupero della realtà nella sua forma più ampia. Come ha scritto Bernard Dort “Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.”  Non importa se la realtà che affiora e dialoga con noi, grazie a queste immagini, viene colta nei suoi aspetti ridanciani, comici o tragici, oppure assorti e misteriosi. Quel suo fresco parlare senza parole s’appoggia nella comunicativa popolare per un contenuto morale, la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi, tra due concezioni, come ha scritto Gramsci. Si dice del teatro comico come di una reinvenzione cosciente della vita, presentata in forma immaginativa: in modo da suscitare interesse e partecipazione. Al punto di credere che, al suo meglio, riesca ad esprimere i nostri stessi sentimenti; per condurci in un mosaico di creature che come noi soffrono, gioiscono, lottano per evadere da se stesse. Si ride di ciò che costituisce il contenuto dell’argomentazione quanto degli schemi argomentativi. Si ride di ciò che si può o non si può dire. Si ride grazie alle astuzie della scelta, delle variazioni, dell’interpretazione patteggiata. Si ride grazie a smorfie appropriate non stolte. La maschera, i gesti, le espressioni argute, provocatorie e grottesche dei personaggi di Fo sono ancora oggi i lampi del presente. Walter Valeri con Dario Fo e Franca Rame Per tutta la vita, come l’autore delle Ceneri di Gramsci, Dario Fo ha odiato e fustigato gli indifferenti. Ha creato maschere comiche irresistibili, vive e messe in situazione come strutture gestuali. Un insegnamento prodigioso per una comicità civile, scrupolosa e sapiente. Oppure roboante e fracassona, se necessario. Perché no? In teatro, come in tutte le arti, la pigrizia non può essere di casa: il corpo, la mano che non risponde è già passata al suicidio. Le sue pantomime e i monologhi sono come scintille nella memoria di coloro che le hanno viste dal vivo. Quelli che ne hanno gioito, grazie ai video possono ancora gioire di capolavori ineguagliabili quali La nascita del giullare, La resurrezione di Lazzaro, Le nozze di Cana, La fame dello zanni poi confluiti in Mistero Buffo; sino a Francesco Giullare di Dio: un unicum dove l’esperienza ed esistenza creatrice dello spettatore e dell’attore coincidono. Questo grazie a migliaia di giullarate, situazioni comiche ispirate a fonti che spaziano dal teatro greco a quello medievale, da quello rinascimentale a quello moderno, nate sotto l’urgenza e il segno della dismisura. Una dismisura, portata avanti oggi da Mario Pirovano, o pazientemente distesa per parlare di noi e dei cortili sotto casa. Così è stato sin dagli esordi con Il dito nell’occhio, poi negli anni a seguire con la complicità geniale di Franca Rame, per denudare il potere politico, la logica pretestuosa dell’ovvietà, l’ipocrisia di chi si nutre della nostra quotidiana pigrizia. Maschere esorbitanti, pungenti e indomabili. Utili nell’additare delle contro-maschere ostili, filtrate dall’ipocrisia, dall’imperdonabile stanchezza o arroganza di essere al mondo, di volerlo così com’è.  Dario Fo è stato un giullare shakespeariano, Franca una giullaressa alla corte di un’umanità priva di cuore, bisogna dirlo. Un’umanità colpevole di decine di migliaia di femminicidi, carneficine insensate, morti bianche sul lavoro, produttrice di sprechi e di fame, insensibile alle necessità di centinaia di milioni di poveri. Un’umanità riottosa e ostile nei confronti di centinaia di migliaia di migranti, sepolti nell’acqua, diseredati persino del diritto al dolore. Walter Valeri *Walter Valeri ha pubblicato, tra l’altro, “Il Dario furioso. Franca Rame e Dario Fo. Teatro, politica e cultura nell’Italia del Novecento”, Il Ponte Vecchio, 2020 L'articolo Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà proviene da Pangea.
September 3, 2025 / Pangea
Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale
In vita ho avuto il privilegio di conoscere molte persone, al di qua e al di là dell’Oceano. Alcune nobili e straordinarie altre solo famose. Fra quelle nobili e straordinarie c’è senz’altro Franca Rame, con la quale ho avuto il privilegio di collaborare per oltre quindici anni a partire dal 1980. Nel corso del tempo ho avuto modo di vedere da vicino come le opere del premio Nobel Dario Fo siano state fortemente influenzate dalla sua sapienza attoriale. Oltre che dalla sua capacità organizzativa e coraggio politico.  Franca è stata per Dario il ‘miglior fabbro’. Non solo per i monologhi femminili ma per l’intero corpus della sua opera.  Era la prima a cui Dario leggeva i manoscritti, oppure la ‘fabula’ che, successivamente, sarebbe diventata il copione di scena: un testo provvisorio, non ancora pieno di cancellature e note a margine, che Franca aveva già vagliato e commentato, magari in cucina. Non a caso nell’edizione stampata delle commedie sta scritto ‘a cura di Franca Rame’. Non solo come riconoscimento editoriale, ma come traccia di un’intensa collaborazione e sinergia maturata nel corso di migliaia di recite realizzate in comune. Un’empatia esistenziale che, secondo Franca, implica un perenne “scambio della propria esperienza personale, della propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si fa, specie in teatro.”   Per realizzare quell’artificio insito nel mestiere dell’attrice Franca utilizzava una vis comica ed intelligenza che si è sviluppata  progressivamente. A seconda dei fatti politici del giorno, all’ideologia dominante sottoposta a critica severa, oppure con l’innesto a margine della propria vita a partire dalla prima infanzia. Per esemplificare, senza volermi inoltrare in un’analisi approfondita dell’argomento, cito direttamente dal monologo Ritorno alla vita scritto durante la veglia per la morte della madre Emilia, pubblicato su Teatri e sulla rivista online “lamacchinasognante”. > “È ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni. È mia > madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”, > così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era > sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto > un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia > sorella Pia in La passione del Signore atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti > Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore! > Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la > stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete > d’argento ha venduto il suo Signore!” Non era una gran parte, non ci devo aver > messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” dicevala mamma > paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!” Sono parole e pensieri che ci prendono per mano e indicano l’origine della sua esperienza attoriale. Tipica di una figlia d’arte, che negli anni a venire dedica l’intera esistenza al palcoscenico. Un’arte che nasce principalmente all’interno di una microsocietà aurorale e si sviluppa grazie al codice orale in virtù di un nucleo famigliare dove l’arte e la vita coincidono. Una grammatica di scena esistenziale ed immaginifica, eppure rigorosa, che riguarda ‘il farsi e disfarsi del linguaggio, come direbbe Roman Jakobson. Che ha a che fare con l’imprinting, l’unicità della lingua associata alle proprie emozioni, alla cognizione del dolore e della gioia. Così apprendiamo che all’inizio e alla fine di quella recita, l’angiolino Franca, ad appena tre anni, volente o nolente è stato gettato nella mischia, incitato con grandi cenni ad entrare in un carattere fondante la sua futura personalità di donna e attrice: > Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione > da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un > attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto > stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico > “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento > ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco. Ce l’avevo fatta: > l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da > allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il > più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a > piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza > riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.  Spesso nei suoi monologhi Franca ha trattato “con voce chiara e mesta” oppure comica e irata, il tema della madre con “quel tanto che serve”. Non a caso i titoli più famosi, scritti a quattro mani con Dario, sono Medea, Maria alla Croce, Mamma Togni, Michele lu lanzone, Il risveglio, Una madre, Lo stupro, Il diario di Eva, Lisistrata romana, etc. Sono testi in cui l’archetipo della madre trova una risonanza immediata, vitale e plausibile, sempre all’interno del processo di trasformazione del mondo femminile. Punto di transito, luogo ideale e reale, della presa di coscienza di una donna del XX secolo che ha fatto uso del palcoscenico per darsi voce e coraggio.  Franca Rame e Walter Valeri Un’altra dote di Franca, che non tutti conoscono, e di cui Dario ha abbondantemente beneficiato, era quella di saper orchestrare dall’interno la recita. Era come una sorta di regista al seguito. C’erano dei segnali precisi, magistrali e indiscutibili, con cui Franca interveniva all’insaputa del pubblico. Ad esempio: se Dario preso dalla foga si dilungava durante l’introduzione allo spettacolo, lei lo correggeva, lo avvertiva con dei piccoli colpi di tosse dalla quinta. Oppure, se un attore o un’attrice scendevano di tono perdendo il contatto con il pubblico, lei lo segnalava con un gesto discreto, con un colpo del piede sul palcoscenico; oppure servendosi  di un mezzo tono che, benché tagliente,  non valicava il boccascena. Franca recitava e ascoltava con distacco sé stessa e gli altri recitare. Come se fosse seduta fra il pubblico. Per una sorta di automatismo innato, senza farsene vanto, aveva del pubblico una percezione permanente ed esatta, quasi infallibile.  Durante le interviste o chiacchierate informali era solita schermirsi. Fare ironia nei confronti di quelli che indossavano una faccia da attori o da attrici. Ripeteva che quello del teatrante era un lavoro come un altro e andava svolto nel migliore dei modi, con estrema modestia, serietà e semplicità. Non c’era alcun medico che potesse prescrive ai pazienti l’obbligo di fare gli attori, di guadagnarsi la vita in scena. Anche se, personalmente, penso che il monologo autobiografico Lo stupro, abbia avuto per lei una funzione terapeutica. Più volte ha avuto modo di dichiarare “Ciò che appartiene alla sfera ‘personale’ appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa”. Ed è questa radicale compenetrazione fra il ‘personale’ e il ‘politico’ il nodo centrale del suo teatro.   Era una persona a modo suo religiosa; un po’ marxista e un po’ francescana ‘sine glossa’ come suol dirsi; a volte dolcissima e a volte inflessibile, benché pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva lo intendeva bene, mentre numeroso l’ascoltava recitare o in camerino. Tutti sapevano che i monologhi femminili di Tutta casa letto e chiesa erano un punto di riferimento preciso. Un’autentica opposizione ad ogni sopruso, ad ogni atto politico oppressivo nei confronti delle donne. Anche grazie a lei sappiamo che esiste un discrimine ‘inoffuscabile’ tra la verità e la sua negazione. Non parlo della menzogna che rende insensibili a tutto, perché tutto è già stato venduto e comprato (compreso gli occhi delle vittime innocenti) ma di quella descritta da Dostoevskij o Manzoni, che morde dentro. Con un sorriso malizioso ripeteva spesso “Dio esiste, ed è comunista”. Anche per questo la verità chiede dei sacrifici.  Una volta ho scritto: la verità in teatro, come per la religione, migra indistruttibile. La luminosa interezza di Franca Rame è simile alle ali di una farfalla che punge. Lo penso ancora. Fra i molti esempi di coerenza e dignità politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, c’è quello delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica. Lo ha fatto in modo trasparente. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed esemplare che andrebbe letta e commentata ancora oggi nelle scuole del nostro paese. Cuori e menti ad educare, come ha scritto parlando d’altro Franco Fortini, “la credibilità pretende autenticità. Nel nostro spazio di vita che è dell’inautentico, ogni atto di fede, foss’anche il più superstizioso, rammenta l’esigenza dell’autenticità.”  Forse anche per questo la stampa e i media, che sono soliti glorificare il nulla l’hanno dimenticata. I capo redattori preferiscono mandare in macchina vecchie baggianate tipo: Franca Rame insultava il Papa Benedetto XVI, semplicemente perché, con tutto il rispetto dovuto, Franca ebbe modo di ricordare al mondo che da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non aveva l’utero. Quindi anche sua santità, avrebbe dovuto mettersi in ascolto, più che dettare regole e imperativi intollerabili per il modo delle donne. Ora è il tempo delle fakenews, delle tempeste mediatiche procurate ad arte, di un pensiero che vorrebbe disintegrare l’intimo valore di ogni testimonianza e speranza di liberazione come non fosse mai esistita. Eppure, la testimonianza di Franca è stata quella di una donna veramente speciale.  Walter Valeri Abano Terme 7/8/2025 *Dario Fo e Franca Rame leggono le lettere, Milano, 4 dicembre 1962 (Olycom) L'articolo Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale proviene da Pangea.
August 8, 2025 / Pangea
Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna, insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne, esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione pacificatoria del silenzio e della lentezza. Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali, pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni, pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione, ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.  La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute, dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema. Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973) opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il coinvolgimento di centinaia di artisti:  > “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per > sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e > straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del > mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata > lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo > soprannaturale”.  Faraonico e minimale. Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss. Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al 2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra del Teatro. Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di un’esperienza elettiva.  Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve, ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani, braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio, dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione. Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo, del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’  (1952, Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”, libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin, completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un piano scordato.  Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi – semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un “combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più significativo. Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile, votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro, partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.  Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel 1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate. Roberto Floreani *Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie Jansch L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
August 6, 2025 / Pangea
“L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock, da Orwell ai Muse
Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 – Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”. Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7 novembre al teatro Michelangelo di Modena[1]. 1984 di George Orwell (1949) In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure nessuno lo è mai stato tanto radicalmente. L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio, realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero, ormai atrofizzato. Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive, incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere sano, di essere libero.  Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di fronte allo sguardo del Grande Fratello. Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico, necessario. * L’album “The Resistance” dei Muse (2009) Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in tutto il mondo. La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal Grammy al miglior album rock. Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di “The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica, basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy. Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns. Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/ Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light” (Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre vite). Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”. È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.  * Muse 1984 – Resistance. Rock Opera Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la “resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto rivoluzionario di amore, libertà e pace. Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno, che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a risvegliare l’umanità intera. E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva, calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della propaganda. Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è forza”. Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista. Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità. Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”. Chiara Bianchi *Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo numero di “Studi Cattolici” -------------------------------------------------------------------------------- [1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e @muse1984. L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock, da Orwell ai Muse proviene da Pangea.
June 16, 2025 / Pangea
“Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano, tiranno-poeta
Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici, ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa fuoco. La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una poesia aristocratica. “Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce. Se ogni penna che mai prese un poeta ne avesse espresso tutto il sentimento, e ogni dolcezza che su temi ammirati ispirò i cuori e le menti e le Muse; se ogni celeste quintessenza che stilla dai loro fiori eterni di poesia dove vediamo come in uno specchio i più alti voli dell’ingegno umano; se tutto fosse messo in una strofa di combinata lode alla bellezza, pur rimarrebbe in quelle teste inquiete un pensiero, una grazia, uno stupore che nessun’arte può dire in parole. Ma quanto sono inadatti al mio sesso, al mio mestiere d’armi e cavalleria, al mio genio, al terrore del mio nome, questi pensieri effemminati e deboli! Salvo quel giusto applauso della bellezza, col cui istinto ogni anima è dotata; e ogni soldato rapito dall’amore della fama, il coraggio e la vittoria deve a volte pensare alla bellezza: io che ci penso e tutt’e due soggiogo… quel che ha abbassato la furia degli dèi dall’igneo velo costellato del cielo fino al fuoco gentile dei pastori per vivere in capanne di paglia sparsa io proverò, malgrado la mia nascita che solo il merito porta alla gloria e insegna all’uomo la nobiltà vera.” Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo. Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa. L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del poeta prometeico.  Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti. Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore del mondo”, “flagello di Dio”. > “Ma questo vostro viso celestiale > è degno solo di chi vincerà l’Asia, > e verrà detto il terrore del mondo > e stenderà i confini del suo impero > dall’est all’ovest come il corso di Febo” Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio. “Sete di regno, gioia di una corona, che il figlio anziano di Opi in cielo indussero a scacciare dal trono il vecchio padre per sostituirlo nel cielo imperiale: quello, mi spinse a dichiararti guerra. Quale esempio migliore del grande Giove? Natura che in noi mise quattro elementi sempre in guerra nel petto per regnare, ci insegna ad avere una mente ambiziosa; l’anima nostra, le cui facoltà intendono l’architettura stupenda del mondo e misurano il corso dei pianeti, sempre salendo a una scienza infinita, sempre movendosi come le sfere inquiete, vuole che ci esauriamo, senza riposo, fino a raggiungere il frutto più maturo, perfetta gioia, sola felicità, dolce fruizione di una corona in terra.” Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione. Christopher Marlowe ventenne, nel 1585 Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie. È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel cuore stesso dell’uomo. > “Ho il Destino ben saldo incatenato, > faccio girare la ruota della Sorte, > dovrà cadere il sole dalla sua sfera > prima che Tamerlano sia morto o vinto.” Andrea Falco Profili L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano, tiranno-poeta proviene da Pangea.
June 5, 2025 / Pangea
“Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.  Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza – ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita –, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la poesia resterà.  A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.  Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono con cui si dice padre.  * È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove. Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”, Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi, archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa, per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato – Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza: > “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho > messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia > sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di > Darwin. È un umorista preterintenzionale”.  Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967). In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.  * In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi, le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage, il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e innocente, canta e uccide.  Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.  Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla “notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore: compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro vanto.  * Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.  Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato, come un fazzoletto.  * Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”, un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.  A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia. “Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà. Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono decimati.  * Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.  Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di catastrofico successo. Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla Achmatova quando le capitava di incontrarla”.  * Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito d’addio”.  Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena, recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo, verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe binario morto, gambe Orient Express!  Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento. Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.  Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso, e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.  Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare la posta.  * Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra- Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.  Lapidare, lapidazione di labbra.  * Eccolo, lui: > “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli > occhi. > Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è > pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino > della donna maritata. > > Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi > come una cosa ovvia”.  Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia, Mandel’štam.  I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del merlo e della rupe cincia.  L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam proviene da Pangea.
March 21, 2025 / Pangea
Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino al 15 marzo. Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo. Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn). Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica (interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).  L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per citare alcuni illustri domenicani). Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale. L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora si manifesta il Logos. Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi – in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia. Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici, e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è nella creazione. Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente, al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino, percepibile nel mondo fisico e percepibile. Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano: il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe venuto di lì a poco. Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito. Carlo Ferdinando de Nardis L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale proviene da Pangea.
March 11, 2025 / Pangea