Nel 2026 Dario Fo compie cent’anni ed è certamente un giullare indelebile. Non
ha mai realizzato parodie banali, tanto per far ridere. Le sue non sono mai
state smorfie fini a se stesse, volgari mimesi per una grassa risata – ma la
prova evidente di micro episodi espressivi, costruiti per l’esplorazione e
recupero della realtà nella sua forma più ampia. Come ha scritto Bernard Dort
“Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della
mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di
abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli
uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.”
Non importa se la realtà che affiora e dialoga con noi, grazie a queste
immagini, viene colta nei suoi aspetti ridanciani, comici o tragici, oppure
assorti e misteriosi. Quel suo fresco parlare senza parole s’appoggia nella
comunicativa popolare per un contenuto morale, la rappresentazione di un urto
necessario tra due mondi, tra due concezioni, come ha scritto Gramsci. Si dice
del teatro comico come di una reinvenzione cosciente della vita, presentata in
forma immaginativa: in modo da suscitare interesse e partecipazione. Al punto di
credere che, al suo meglio, riesca ad esprimere i nostri stessi sentimenti; per
condurci in un mosaico di creature che come noi soffrono, gioiscono, lottano per
evadere da se stesse. Si ride di ciò che costituisce il contenuto
dell’argomentazione quanto degli schemi argomentativi. Si ride di ciò che si può
o non si può dire. Si ride grazie alle astuzie della scelta, delle variazioni,
dell’interpretazione patteggiata. Si ride grazie a smorfie appropriate non
stolte. La maschera, i gesti, le espressioni argute, provocatorie e grottesche
dei personaggi di Fo sono ancora oggi i lampi del presente.
Walter Valeri con Dario Fo e Franca Rame
Per tutta la vita, come l’autore delle Ceneri di Gramsci, Dario Fo ha odiato e
fustigato gli indifferenti. Ha creato maschere comiche irresistibili, vive e
messe in situazione come strutture gestuali. Un insegnamento prodigioso per una
comicità civile, scrupolosa e sapiente. Oppure roboante e fracassona, se
necessario. Perché no? In teatro, come in tutte le arti, la pigrizia non può
essere di casa: il corpo, la mano che non risponde è già passata al suicidio. Le
sue pantomime e i monologhi sono come scintille nella memoria di coloro che le
hanno viste dal vivo. Quelli che ne hanno gioito, grazie ai video possono ancora
gioire di capolavori ineguagliabili quali La nascita del giullare, La
resurrezione di Lazzaro, Le nozze di Cana, La fame dello zanni poi confluiti
in Mistero Buffo; sino a Francesco Giullare di Dio: un unicum dove l’esperienza
ed esistenza creatrice dello spettatore e dell’attore coincidono. Questo grazie
a migliaia di giullarate, situazioni comiche ispirate a fonti che spaziano dal
teatro greco a quello medievale, da quello rinascimentale a quello moderno, nate
sotto l’urgenza e il segno della dismisura. Una dismisura, portata avanti oggi
da Mario Pirovano, o pazientemente distesa per parlare di noi e dei cortili
sotto casa. Così è stato sin dagli esordi con Il dito nell’occhio, poi negli
anni a seguire con la complicità geniale di Franca Rame, per denudare il potere
politico, la logica pretestuosa dell’ovvietà, l’ipocrisia di chi si nutre della
nostra quotidiana pigrizia. Maschere esorbitanti, pungenti e indomabili. Utili
nell’additare delle contro-maschere ostili, filtrate dall’ipocrisia,
dall’imperdonabile stanchezza o arroganza di essere al mondo, di volerlo così
com’è.
Dario Fo è stato un giullare shakespeariano, Franca una giullaressa alla corte
di un’umanità priva di cuore, bisogna dirlo. Un’umanità colpevole di decine di
migliaia di femminicidi, carneficine insensate, morti bianche sul lavoro,
produttrice di sprechi e di fame, insensibile alle necessità di centinaia di
milioni di poveri. Un’umanità riottosa e ostile nei confronti di centinaia di
migliaia di migranti, sepolti nell’acqua, diseredati persino del diritto al
dolore.
Walter Valeri
*Walter Valeri ha pubblicato, tra l’altro, “Il Dario furioso. Franca Rame e
Dario Fo. Teatro, politica e cultura nell’Italia del Novecento”, Il Ponte
Vecchio, 2020
L'articolo Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà proviene da
Pangea.
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In vita ho avuto il privilegio di conoscere molte persone, al di qua e al di là
dell’Oceano. Alcune nobili e straordinarie altre solo famose. Fra quelle nobili
e straordinarie c’è senz’altro Franca Rame, con la quale ho avuto il privilegio
di collaborare per oltre quindici anni a partire dal 1980. Nel corso del tempo
ho avuto modo di vedere da vicino come le opere del premio Nobel Dario Fo siano
state fortemente influenzate dalla sua sapienza attoriale. Oltre che dalla
sua capacità organizzativa e coraggio politico.
Franca è stata per Dario il ‘miglior fabbro’. Non solo per i monologhi femminili
ma per l’intero corpus della sua opera.
Era la prima a cui Dario leggeva i manoscritti, oppure la ‘fabula’ che,
successivamente, sarebbe diventata il copione di scena: un testo provvisorio,
non ancora pieno di cancellature e note a margine, che Franca aveva già vagliato
e commentato, magari in cucina. Non a caso nell’edizione stampata delle commedie
sta scritto ‘a cura di Franca Rame’. Non solo come riconoscimento editoriale, ma
come traccia di un’intensa collaborazione e sinergia maturata nel corso di
migliaia di recite realizzate in comune. Un’empatia esistenziale che, secondo
Franca, implica un perenne “scambio della propria esperienza personale, della
propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si
fa, specie in teatro.”
Per realizzare quell’artificio insito nel mestiere dell’attrice Franca
utilizzava una vis comica ed intelligenza che si è
sviluppata progressivamente. A seconda dei fatti politici del giorno,
all’ideologia dominante sottoposta a critica severa, oppure con l’innesto a
margine della propria vita a partire dalla prima infanzia. Per esemplificare,
senza volermi inoltrare in un’analisi approfondita dell’argomento, cito
direttamente dal monologo Ritorno alla vita scritto durante la veglia per la
morte della madre Emilia, pubblicato su Teatri e sulla rivista
online “lamacchinasognante”.
> “È ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni. È mia
> madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”,
> così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era
> sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto
> un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia
> sorella Pia in La passione del Signore atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti
> Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore!
> Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la
> stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete
> d’argento ha venduto il suo Signore!” Non era una gran parte, non ci devo aver
> messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” dicevala mamma
> paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!”
Sono parole e pensieri che ci prendono per mano e indicano l’origine della sua
esperienza attoriale. Tipica di una figlia d’arte, che negli anni a venire
dedica l’intera esistenza al palcoscenico. Un’arte che nasce principalmente
all’interno di una microsocietà aurorale e si sviluppa grazie al codice orale in
virtù di un nucleo famigliare dove l’arte e la vita coincidono. Una grammatica
di scena esistenziale ed immaginifica, eppure rigorosa, che riguarda ‘il farsi e
disfarsi del linguaggio, come direbbe Roman Jakobson. Che ha a che fare con
l’imprinting, l’unicità della lingua associata alle proprie emozioni, alla
cognizione del dolore e della gioia. Così apprendiamo che all’inizio e alla fine
di quella recita, l’angiolino Franca, ad appena tre anni, volente o nolente è
stato gettato nella mischia, incitato con grandi cenni ad entrare in un
carattere fondante la sua futura personalità di donna e attrice:
> Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione
> da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un
> attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto
> stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico
> “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento
> ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco. Ce l’avevo fatta:
> l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da
> allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il
> più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a
> piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza
> riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.
Spesso nei suoi monologhi Franca ha trattato “con voce chiara e mesta” oppure
comica e irata, il tema della madre con “quel tanto che serve”. Non a caso i
titoli più famosi, scritti a quattro mani con Dario, sono Medea, Maria alla
Croce, Mamma Togni, Michele lu lanzone, Il risveglio, Una madre, Lo stupro, Il
diario di Eva, Lisistrata romana, etc. Sono testi in cui l’archetipo della madre
trova una risonanza immediata, vitale e plausibile, sempre all’interno del
processo di trasformazione del mondo femminile. Punto di transito, luogo ideale
e reale, della presa di coscienza di una donna del XX secolo che ha fatto uso
del palcoscenico per darsi voce e coraggio.
Franca Rame e Walter Valeri
Un’altra dote di Franca, che non tutti conoscono, e di cui Dario ha
abbondantemente beneficiato, era quella di saper orchestrare dall’interno la
recita. Era come una sorta di regista al seguito. C’erano dei segnali precisi,
magistrali e indiscutibili, con cui Franca interveniva all’insaputa del
pubblico. Ad esempio: se Dario preso dalla foga si dilungava durante
l’introduzione allo spettacolo, lei lo correggeva, lo avvertiva con dei piccoli
colpi di tosse dalla quinta. Oppure, se un attore o un’attrice scendevano di
tono perdendo il contatto con il pubblico, lei lo segnalava con un gesto
discreto, con un colpo del piede sul palcoscenico; oppure servendosi di un
mezzo tono che, benché tagliente, non valicava il boccascena. Franca recitava e
ascoltava con distacco sé stessa e gli altri recitare. Come se fosse seduta fra
il pubblico. Per una sorta di automatismo innato, senza farsene vanto, aveva del
pubblico una percezione permanente ed esatta, quasi infallibile.
Durante le interviste o chiacchierate informali era solita schermirsi. Fare
ironia nei confronti di quelli che indossavano una faccia da attori o da
attrici. Ripeteva che quello del teatrante era un lavoro come un altro e andava
svolto nel migliore dei modi, con estrema modestia, serietà e semplicità. Non
c’era alcun medico che potesse prescrive ai pazienti l’obbligo di fare gli
attori, di guadagnarsi la vita in scena. Anche se, personalmente, penso che il
monologo autobiografico Lo stupro, abbia avuto per lei una funzione terapeutica.
Più volte ha avuto modo di dichiarare “Ciò che appartiene alla sfera ‘personale’
appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa”. Ed è questa radicale
compenetrazione fra il ‘personale’ e il ‘politico’ il nodo centrale del suo
teatro.
Era una persona a modo suo religiosa; un po’ marxista e un po’ francescana ‘sine
glossa’ come suol dirsi; a volte dolcissima e a volte inflessibile, benché
pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva lo
intendeva bene, mentre numeroso l’ascoltava recitare o in camerino. Tutti
sapevano che i monologhi femminili di Tutta casa letto e chiesa erano un punto
di riferimento preciso. Un’autentica opposizione ad ogni sopruso, ad ogni atto
politico oppressivo nei confronti delle donne. Anche grazie a lei sappiamo che
esiste un discrimine ‘inoffuscabile’ tra la verità e la sua negazione. Non parlo
della menzogna che rende insensibili a tutto, perché tutto è già stato venduto e
comprato (compreso gli occhi delle vittime innocenti) ma di quella descritta da
Dostoevskij o Manzoni, che morde dentro. Con un sorriso malizioso ripeteva
spesso “Dio esiste, ed è comunista”. Anche per questo la verità chiede dei
sacrifici.
Una volta ho scritto: la verità in teatro, come per la religione, migra
indistruttibile. La luminosa interezza di Franca Rame è simile alle ali di una
farfalla che punge. Lo penso ancora. Fra i molti esempi di coerenza e dignità
politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, c’è quello
delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica. Lo ha fatto in modo
trasparente. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed
esemplare che andrebbe letta e commentata ancora oggi nelle scuole del nostro
paese. Cuori e menti ad educare, come ha scritto parlando d’altro Franco
Fortini, “la credibilità pretende autenticità. Nel nostro spazio di vita che è
dell’inautentico, ogni atto di fede, foss’anche il più superstizioso, rammenta
l’esigenza dell’autenticità.”
Forse anche per questo la stampa e i media, che sono soliti glorificare il nulla
l’hanno dimenticata. I capo redattori preferiscono mandare in macchina vecchie
baggianate tipo: Franca Rame insultava il Papa Benedetto XVI, semplicemente
perché, con tutto il rispetto dovuto, Franca ebbe modo di ricordare al mondo che
da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non
aveva l’utero. Quindi anche sua santità, avrebbe dovuto mettersi in ascolto, più
che dettare regole e imperativi intollerabili per il modo delle donne. Ora è il
tempo delle fakenews, delle tempeste mediatiche procurate ad arte, di un
pensiero che vorrebbe disintegrare l’intimo valore di ogni testimonianza e
speranza di liberazione come non fosse mai esistita. Eppure, la testimonianza di
Franca è stata quella di una donna veramente speciale.
Walter Valeri
Abano Terme 7/8/2025
*Dario Fo e Franca Rame leggono le lettere, Milano, 4 dicembre 1962 (Olycom)
L'articolo Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale
proviene da Pangea.
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di
Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per
parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua
straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione
artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e
originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di
duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi
cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou
Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo
anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre
un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna,
insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo
tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal
compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne,
esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del
Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente
delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni
grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei
suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate
sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che
il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì
permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza
penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare
il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione
pacificatoria del silenzio e della lentezza.
Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali,
pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da
un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza
di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni
rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni,
pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo
l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone
estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro
di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione,
ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla
lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni
dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa
scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.
La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute,
dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle
scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una
decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso
tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George
Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro
di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua
balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata
affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema.
Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con
l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e
sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue
movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto
dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene
rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che
evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher
Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro
Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973)
opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il
coinvolgimento di centinaia di artisti:
> “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per
> sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e
> straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del
> mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata
> lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo
> soprannaturale”.
Faraonico e minimale.
Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i
suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera
che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel
1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss.
Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The
Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua
sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere
d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà
espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali
ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto
della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di
prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al
2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta
virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla
Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del
Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di
Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra
del Teatro.
Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire
esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore
impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore
di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato
interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente
ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la
scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di
un’esperienza elettiva.
Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue
avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole
ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere
bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve,
ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani,
braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo
sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati
come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio,
dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con
questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio
Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio
fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove
sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione.
Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più
distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il
suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di
continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo
reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai
suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo
multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni
disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo,
del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’ (1952,
Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di
luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile
capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di
San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”,
libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con
pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e
sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin,
completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un
piano scordato.
Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia
il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi –
semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta
anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un
“combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie
discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati
raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri
partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non
attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo
di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più
significativo.
Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza
immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson
dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie
all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da
tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce
dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei
popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di
riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte
come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti
nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile,
votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con
gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della
situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la
pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro,
partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la
perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.
Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran
lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a
chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel
1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi
preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti
delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate.
Roberto Floreani
*Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie
Jansch
L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 –
Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una
delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e
una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura
novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”.
Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la
drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7
novembre al teatro Michelangelo di Modena[1].
1984 di George Orwell (1949)
In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra
post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di
ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e
ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e
come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio
memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da
colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure
nessuno lo è mai stato tanto radicalmente.
L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i
fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio,
realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un
eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente
riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non
sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste
solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza
sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla
Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero,
ormai atrofizzato.
Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci
delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine
immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive,
incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere
sano, di essere libero.
Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore
e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici
rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre
un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di
attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di
fronte allo sguardo del Grande Fratello.
Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il
romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella
grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che
accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora
troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin
dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro
lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico
sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche
lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il
Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e
psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico,
necessario.
*
L’album “The Resistance” dei Muse (2009)
Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto
album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti
a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris
Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più
prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo
album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in
tutto il mondo.
La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa
volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed
estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal
Grammy al miglior album rock.
Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di
“The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di
espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal
metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi
e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica,
basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale
gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy.
Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un
inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di
umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più
intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi
con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via
dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I
Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione
dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns.
Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding
Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in
quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è
utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le
guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al
fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica
realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/
Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno
specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche
di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti
arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy
interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di
Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un
aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi
nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light”
(Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida
rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce
guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre
vite).
Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre
movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”.
È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare
percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che
separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco
che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.
*
Muse 1984 – Resistance. Rock Opera
Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la
“resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto
rivoluzionario di amore, libertà e pace.
Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie
all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare
dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come
quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche
grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in
recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un
concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come
nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata
a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno,
che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da
Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo
del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a
fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel
mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della
salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a
risvegliare l’umanità intera.
E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva,
calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco
Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il
protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi
implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo
della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della
propaganda.
Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili
i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle
più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo
Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi
alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la
maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati
dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei
suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è
forza”.
Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche
finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E
così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada
perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista.
Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il
pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si
distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un
presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la
solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora
drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità.
Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa
preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende
umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”.
Chiara Bianchi
*Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo
numero di “Studi Cattolici”
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[1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il
sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e
@muse1984.
L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock,
da Orwell ai Muse proviene da Pangea.
Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto
giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una
creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la
folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i
fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi
poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma
per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia
in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero
sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento
alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un
profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la
sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici,
ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per
trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa
fuoco.
La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di
tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando
all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue
campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che
ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua
tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una
poesia aristocratica.
“Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce.
Se ogni penna che mai prese un poeta
ne avesse espresso tutto il sentimento,
e ogni dolcezza che su temi ammirati
ispirò i cuori e le menti e le Muse;
se ogni celeste quintessenza che stilla
dai loro fiori eterni di poesia
dove vediamo come in uno specchio
i più alti voli dell’ingegno umano;
se tutto fosse messo in una strofa
di combinata lode alla bellezza,
pur rimarrebbe in quelle teste inquiete
un pensiero, una grazia, uno stupore
che nessun’arte può dire in parole.
Ma quanto sono inadatti al mio sesso,
al mio mestiere d’armi e cavalleria,
al mio genio, al terrore del mio nome,
questi pensieri effemminati e deboli!
Salvo quel giusto applauso della bellezza,
col cui istinto ogni anima è dotata;
e ogni soldato rapito dall’amore
della fama, il coraggio e la vittoria
deve a volte pensare alla bellezza:
io che ci penso e tutt’e due soggiogo…
quel che ha abbassato la furia degli dèi
dall’igneo velo costellato del cielo
fino al fuoco gentile dei pastori
per vivere in capanne di paglia sparsa
io proverò, malgrado la mia nascita
che solo il merito porta alla gloria
e insegna all’uomo la nobiltà vera.”
Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire
Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non
insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare
il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il
secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il
potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo.
Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la
fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di
Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col
timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma
più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una
frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla
come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non
sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa.
L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione
teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella
figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del
poeta prometeico.
Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un
raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora
delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti.
Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore
del mondo”, “flagello di Dio”.
> “Ma questo vostro viso celestiale
> è degno solo di chi vincerà l’Asia,
> e verrà detto il terrore del mondo
> e stenderà i confini del suo impero
> dall’est all’ovest come il corso di Febo”
Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe
scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio
Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la
profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così
l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che
cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza
che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere
apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che
certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio.
“Sete di regno, gioia di una corona,
che il figlio anziano di Opi in cielo indussero
a scacciare dal trono il vecchio padre
per sostituirlo nel cielo imperiale:
quello, mi spinse a dichiararti guerra.
Quale esempio migliore del grande Giove?
Natura che in noi mise quattro elementi
sempre in guerra nel petto per regnare,
ci insegna ad avere una mente ambiziosa;
l’anima nostra, le cui facoltà intendono
l’architettura stupenda del mondo
e misurano il corso dei pianeti,
sempre salendo a una scienza infinita,
sempre movendosi come le sfere inquiete,
vuole che ci esauriamo, senza riposo,
fino a raggiungere il frutto più maturo,
perfetta gioia, sola felicità,
dolce fruizione di una corona in terra.”
Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è
l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome
dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto
dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione.
Christopher Marlowe ventenne, nel 1585
Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie.
È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su
come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto
si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a
combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello
spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si
tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo
rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza
della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel
cuore stesso dell’uomo.
> “Ho il Destino ben saldo incatenato,
> faccio girare la ruota della Sorte,
> dovrà cadere il sole dalla sua sfera
> prima che Tamerlano sia morto o vinto.”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano,
tiranno-poeta proviene da Pangea.
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.
Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la
seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il
memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza –
ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La
Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita
–, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la
poesia resterà.
A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che
brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per
sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e
senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.
Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono
con cui si dice padre.
*
È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in
radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove.
Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il
cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak
preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in
questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti
complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà
la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come
da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa
dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii
vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per
terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”,
Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi,
archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa
l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli
interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa,
per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un
taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno
mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione
naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato –
Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza:
> “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho
> messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia
> sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di
> Darwin. È un umorista preterintenzionale”.
Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il
più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad
Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967).
In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per
Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.
*
In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi,
le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le
nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage,
il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia
fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte
le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e
innocente, canta e uccide.
Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava
Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera
nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo
felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.
Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla
“notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla
Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di
Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di
sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore:
compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in
battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche
più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro
vanto.
*
Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali
di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del
linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.
Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso
Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in
Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i
sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e
l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato,
come un fazzoletto.
*
Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”,
un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era
sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza
abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a
volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo
Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano
nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.
A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia.
“Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al
novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la
supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case
editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà.
Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di
partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono
decimati.
*
Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena
Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può
circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al
trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è
il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.
Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso
al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la
patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi
negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan
firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia
sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero
stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica
di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a
Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di
catastrofico successo.
Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole
violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla
Achmatova quando le capitava di incontrarla”.
*
Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di
eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni
Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo
atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho
rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un
caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in
Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito
d’addio”.
Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico
attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena,
recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio
il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in
uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo,
verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe
binario morto, gambe Orient Express!
Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo
soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento.
Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.
Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un
libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero
mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il
burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la
ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico
per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la
scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto
al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo
stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che
spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E
poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una
Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che
sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano
immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le
ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa
regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita
quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso,
e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.
Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia
Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto
dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare
la posta.
*
Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura
armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la
parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare
rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra-
Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.
Lapidare, lapidazione di labbra.
*
Eccolo, lui:
> “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli
> occhi.
> Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è
> pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino
> della donna maritata.
>
> Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi
> come una cosa ovvia”.
Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia,
Mandel’štam.
I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del
merlo e della rupe cincia.
L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
proviene da Pangea.
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato
motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia
dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo
domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino
al 15 marzo.
Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco
per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart
schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque
temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo.
Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte
dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro
della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande
di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello
scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di
Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle
pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi
d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn).
Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto
realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la
parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica
(interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona
da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il
mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le
cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).
L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la
parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità
trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart
apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per
citare alcuni illustri domenicani).
Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e
argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale.
L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte
suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di
San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche
telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della
Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno
al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora
si manifesta il Logos.
Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di
San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato
costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma
come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi
– in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia.
Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo
creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene
altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette
l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici,
e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è
nella creazione.
Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e
Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente,
al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e
il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire
Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è
contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania
continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una
gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino,
percepibile nel mondo fisico e percepibile.
Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali
hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano:
il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa
d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di
Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti
più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione
personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi
preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere
nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe
venuto di lì a poco.
Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione
della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si
spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito.
Carlo Ferdinando de Nardis
L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano
alla Biennale proviene da Pangea.