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Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna, insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne, esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione pacificatoria del silenzio e della lentezza. Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali, pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni, pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione, ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.  La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute, dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema. Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973) opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il coinvolgimento di centinaia di artisti:  > “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per > sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e > straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del > mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata > lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo > soprannaturale”.  Faraonico e minimale. Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss. Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al 2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra del Teatro. Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di un’esperienza elettiva.  Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve, ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani, braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio, dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione. Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo, del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’  (1952, Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”, libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin, completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un piano scordato.  Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi – semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un “combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più significativo. Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile, votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro, partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.  Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel 1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate. Roberto Floreani *Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie Jansch L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
August 6, 2025 / Pangea
“L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock, da Orwell ai Muse
Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 – Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”. Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7 novembre al teatro Michelangelo di Modena[1]. 1984 di George Orwell (1949) In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure nessuno lo è mai stato tanto radicalmente. L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio, realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero, ormai atrofizzato. Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive, incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere sano, di essere libero.  Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di fronte allo sguardo del Grande Fratello. Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico, necessario. * L’album “The Resistance” dei Muse (2009) Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in tutto il mondo. La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal Grammy al miglior album rock. Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di “The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica, basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy. Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns. Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/ Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light” (Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre vite). Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”. È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.  * Muse 1984 – Resistance. Rock Opera Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la “resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto rivoluzionario di amore, libertà e pace. Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno, che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a risvegliare l’umanità intera. E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva, calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della propaganda. Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è forza”. Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista. Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità. Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”. Chiara Bianchi *Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo numero di “Studi Cattolici” -------------------------------------------------------------------------------- [1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e @muse1984. L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock, da Orwell ai Muse proviene da Pangea.
June 16, 2025 / Pangea
“Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano, tiranno-poeta
Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici, ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa fuoco. La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una poesia aristocratica. “Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce. Se ogni penna che mai prese un poeta ne avesse espresso tutto il sentimento, e ogni dolcezza che su temi ammirati ispirò i cuori e le menti e le Muse; se ogni celeste quintessenza che stilla dai loro fiori eterni di poesia dove vediamo come in uno specchio i più alti voli dell’ingegno umano; se tutto fosse messo in una strofa di combinata lode alla bellezza, pur rimarrebbe in quelle teste inquiete un pensiero, una grazia, uno stupore che nessun’arte può dire in parole. Ma quanto sono inadatti al mio sesso, al mio mestiere d’armi e cavalleria, al mio genio, al terrore del mio nome, questi pensieri effemminati e deboli! Salvo quel giusto applauso della bellezza, col cui istinto ogni anima è dotata; e ogni soldato rapito dall’amore della fama, il coraggio e la vittoria deve a volte pensare alla bellezza: io che ci penso e tutt’e due soggiogo… quel che ha abbassato la furia degli dèi dall’igneo velo costellato del cielo fino al fuoco gentile dei pastori per vivere in capanne di paglia sparsa io proverò, malgrado la mia nascita che solo il merito porta alla gloria e insegna all’uomo la nobiltà vera.” Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo. Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa. L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del poeta prometeico.  Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti. Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore del mondo”, “flagello di Dio”. > “Ma questo vostro viso celestiale > è degno solo di chi vincerà l’Asia, > e verrà detto il terrore del mondo > e stenderà i confini del suo impero > dall’est all’ovest come il corso di Febo” Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio. “Sete di regno, gioia di una corona, che il figlio anziano di Opi in cielo indussero a scacciare dal trono il vecchio padre per sostituirlo nel cielo imperiale: quello, mi spinse a dichiararti guerra. Quale esempio migliore del grande Giove? Natura che in noi mise quattro elementi sempre in guerra nel petto per regnare, ci insegna ad avere una mente ambiziosa; l’anima nostra, le cui facoltà intendono l’architettura stupenda del mondo e misurano il corso dei pianeti, sempre salendo a una scienza infinita, sempre movendosi come le sfere inquiete, vuole che ci esauriamo, senza riposo, fino a raggiungere il frutto più maturo, perfetta gioia, sola felicità, dolce fruizione di una corona in terra.” Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione. Christopher Marlowe ventenne, nel 1585 Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie. È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel cuore stesso dell’uomo. > “Ho il Destino ben saldo incatenato, > faccio girare la ruota della Sorte, > dovrà cadere il sole dalla sua sfera > prima che Tamerlano sia morto o vinto.” Andrea Falco Profili L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano, tiranno-poeta proviene da Pangea.
June 5, 2025 / Pangea
“Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.  Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza – ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita –, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la poesia resterà.  A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.  Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono con cui si dice padre.  * È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove. Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”, Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi, archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa, per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato – Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza: > “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho > messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia > sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di > Darwin. È un umorista preterintenzionale”.  Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967). In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.  * In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi, le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage, il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e innocente, canta e uccide.  Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.  Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla “notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore: compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro vanto.  * Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.  Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato, come un fazzoletto.  * Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”, un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.  A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia. “Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà. Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono decimati.  * Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.  Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di catastrofico successo. Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla Achmatova quando le capitava di incontrarla”.  * Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito d’addio”.  Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena, recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo, verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe binario morto, gambe Orient Express!  Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento. Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.  Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso, e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.  Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare la posta.  * Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra- Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.  Lapidare, lapidazione di labbra.  * Eccolo, lui: > “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli > occhi. > Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è > pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino > della donna maritata. > > Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi > come una cosa ovvia”.  Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia, Mandel’štam.  I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del merlo e della rupe cincia.  L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam proviene da Pangea.
March 21, 2025 / Pangea
Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino al 15 marzo. Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo. Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn). Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica (interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).  L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per citare alcuni illustri domenicani). Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale. L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora si manifesta il Logos. Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi – in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia. Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici, e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è nella creazione. Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente, al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino, percepibile nel mondo fisico e percepibile. Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano: il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe venuto di lì a poco. Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito. Carlo Ferdinando de Nardis L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale proviene da Pangea.
March 11, 2025 / Pangea