Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.
Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la
seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il
memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza –
ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La
Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita
–, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la
poesia resterà.
A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che
brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per
sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e
senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.
Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono
con cui si dice padre.
*
È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in
radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove.
Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il
cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak
preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in
questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti
complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà
la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come
da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa
dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii
vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per
terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”,
Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi,
archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa
l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli
interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa,
per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un
taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno
mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione
naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato –
Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza:
> “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho
> messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia
> sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di
> Darwin. È un umorista preterintenzionale”.
Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il
più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad
Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967).
In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per
Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.
*
In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi,
le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le
nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage,
il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia
fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte
le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e
innocente, canta e uccide.
Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava
Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera
nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo
felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.
Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla
“notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla
Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di
Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di
sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore:
compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in
battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche
più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro
vanto.
*
Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali
di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del
linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.
Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso
Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in
Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i
sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e
l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato,
come un fazzoletto.
*
Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”,
un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era
sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza
abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a
volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo
Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano
nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.
A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia.
“Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al
novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la
supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case
editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà.
Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di
partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono
decimati.
*
Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena
Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può
circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al
trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è
il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.
Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso
al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la
patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi
negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan
firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia
sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero
stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica
di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a
Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di
catastrofico successo.
Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole
violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla
Achmatova quando le capitava di incontrarla”.
*
Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di
eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni
Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo
atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho
rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un
caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in
Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito
d’addio”.
Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico
attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena,
recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio
il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in
uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo,
verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe
binario morto, gambe Orient Express!
Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo
soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento.
Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.
Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un
libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero
mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il
burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la
ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico
per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la
scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto
al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo
stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che
spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E
poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una
Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che
sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano
immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le
ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa
regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita
quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso,
e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.
Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia
Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto
dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare
la posta.
*
Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura
armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la
parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare
rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra-
Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.
Lapidare, lapidazione di labbra.
*
Eccolo, lui:
> “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli
> occhi.
> Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è
> pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino
> della donna maritata.
>
> Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi
> come una cosa ovvia”.
Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia,
Mandel’štam.
I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del
merlo e della rupe cincia.
L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
proviene da Pangea.
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“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato
motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia
dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo
domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino
al 15 marzo.
Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco
per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart
schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque
temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo.
Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte
dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro
della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande
di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello
scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di
Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle
pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi
d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn).
Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto
realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la
parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica
(interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona
da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il
mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le
cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).
L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la
parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità
trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart
apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per
citare alcuni illustri domenicani).
Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e
argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale.
L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte
suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di
San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche
telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della
Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno
al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora
si manifesta il Logos.
Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di
San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato
costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma
come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi
– in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia.
Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo
creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene
altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette
l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici,
e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è
nella creazione.
Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e
Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente,
al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e
il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire
Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è
contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania
continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una
gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino,
percepibile nel mondo fisico e percepibile.
Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali
hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano:
il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa
d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di
Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti
più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione
personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi
preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere
nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe
venuto di lì a poco.
Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione
della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si
spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito.
Carlo Ferdinando de Nardis
L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano
alla Biennale proviene da Pangea.