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Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per non cambiare: dal libro alla serie Netflix
Sicilia, 1860. Il principe di Salina, esponente dell’antica nobiltà isolana, traghetta la famiglia attraverso i moti risorgimentali, nel tentativo di strappare alla Storia uno scampolo di prestigio. Per farlo, dovrà scendere a compromessi con i nuovi ceti, gli sciacalli che minacciano i “gattopardi”, ormai ingabbiati nei loro palazzi in declino. Dopo oltre 60 anni dalla pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), dalla sua consacrazione allo Strega (1959) e dal sontuoso adattamento di Luchino Visconti (1963), Il Gattopardo è approdato a marzo su Netflix, in una trasposizione seriale prodotta da Indiana Productions e Moonage Pictures per la regia di Tom Shankland. Luisa Cotta Ramosino[1], Direttrice delle serie italiane Netflix, ci racconta gli ingranaggi della serie-evento. Il Gattopardo è il romanzo del “gran rifiuto” di Elio Vittorini per Mondadori ed Einaudi, e fu pubblicato da Feltrinelli solo dopo la morte dell’autore (1957). Da sempre divisivo, pesa sull’opera l’accusa di conservatorismo rivolta all’autore, come del resto al suo protagonista, già dai contemporanei. Eppure, fa ancora parlare di sé con una serie-evento: cosa lo rende intramontabile? È un romanzo che già al momento della sua nascita sta riflettendo su sé stesso, perché parla delle epoche di passaggio, è stato scritto in un’epoca di passaggio e non a caso noi lo abbiamo riproposto in un momento di grandi passaggi. I suoi personaggi vivono questo passaggio in maniera drammatica, sia a livello individuale e famigliare, sia a livello sociale. È un incastro di dimensioni che rende il romanzo particolarmente forte, perché insiste sui sentimenti umani in un mondo in cui, un po’ come oggi, tutto è messo alla prova. Un mondo che è raccontato e, sì, in parte è giudicato, ma non giudicato per guardare al “bel tempo che fu”, immobilizzato in un tempo perduto. C’è chi prova curiosità per il mondo che cambia, come Tancredi, e invece chi quel mondo che cambia lo teme, e chi è affezionato al passato. È una contrapposizione che credo non sia per niente banale: non si dice che il nuovo è a tutti i costi buono, anzi; ma nello stesso tempo non si dice neanche che conservare il passato è a tutti i costi sbagliato. C’è quindi una grande capacità di sfidare il lettore, e poi lo spettatore, a guardare il mondo con più complessità. E la complessità, per quanto sia più faticosa da affrontare rispetto a un racconto lineare, è incredibilmente affascinante.  Che è poi ciò che ha “salvato” il romanzo. È un romanzo che sfugge a ogni definizione: è stato salvato dal fatto che ognuno ci vedeva qualcosa di diverso, ed è questa grande complessità a renderlo unico. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”: le parole di Tancredi, nipote del Principe, sono forse le più conosciute del romanzo. Il mondo cambia, ma assistiamo, a livello nazionale e mondiale, a un fiorire del period drama, e questo nonostante gli alti costi di produzione: cosa è bene che rimanga com’è, e cosa è necessario che cambi, quando si racconta il passato per parlare al presente? Da una parte i sentimenti umani hanno un’universalità, e spesso e volentieri in questi personaggi del passato sono come amplificati. Dall’altra c’è il lavoro di scrittura, questo strano equilibrio per cui quel passato deve essere rievocato, attraverso i costumi, le scenografie, il racconto di alcuni fatti precisi, e allo stesso tempo bisogna cercare di fare capire allo spettatore cosa significassero quei sentimenti per le persone di quel mondo, e cosa di quei sentimenti conserviamo ancora noi oggi. Raccontare il passato non significa dire che questi personaggi erano uguali a noi, perché non lo erano. Eppure, avevano delle cose in comune con noi. Non credo che oggi tante ragazze di fronte al matrimonio del fidanzato con un’altra si chiuderebbero in convento, però di quel sentimento di Concetta possono riconoscere l’assolutezza e il dolore nudo da lei provato in quel momento, e in quello si riconoscono, e lo possono abbracciare. Come il sentimento di un genitore che vede un figlio che fa una scelta che non vorrebbe facesse, oppure che si rende conto di aver preferito un figlio a un altro, come capita a don Fabrizio. Sentimenti presenti nell’oggi, che lì vivono con una loro grandezza che li rende ancora più evidenti: il period ha questa capacità di essere come la realtà, ma con un grado più forte. Viviamo un momento in cui alcune tematiche, fondamentali da trattare e purtroppo tragicamente urgenti, sono onnipresenti nelle narrazioni che ci circondano e rischiano, soprattutto nelle ricostruzioni storiche, di essere o di essere percepite come…  Abusate. O anacronistiche, calate dall’alto rispetto alla storia, e alla Storia. Penso al potenziamento delle figure femminili: come avete trovato un equilibrio nella serie? Ci sono storie che già da qualche parte esistevano, ma che nessuno raccontava, perché non erano considerate importanti. C’è poi una differenza tra una serie storica che vuole essere la rievocazione di un’epoca, e una serie che voglia accogliere in quel passato un qualcosa che risuona ancora nel presente. Ci sono serie che spingono sull’attualizzazione, come Lidia Poët, altre che ci portano in un luogo dove siamo stati mille volte e ci fanno vedere che quel personaggio c’era, ma non avevamo colto quanto importante fosse, come per esempio le donne della serie I Medici, che in realtà anche nei libri di storia figurano come artefici della fortuna della famiglia, ma fino a quel momento erano sempre rimaste nell’ombra delle figure maschili. Dare attenzione a queste storie è giusto; forzare alcune linee narrative è meno interessante e richiede un livello di artificiosità che le rende meno appassionanti. Si trova la misura nel momento in cui una storia appassiona: se succede, lì c’è della verità. Quando l’autore deve metterci molto del suo, è perché probabilmente quella storia non ha una verità da raccontare, e forse si sta prendendo la strada sbagliata. La scelta de Il Gattopardo è un po’ diversa: il personaggio di Concetta era quasi invisibile, il fatto di averlo raccontato e reso presente lavorando sui vuoti è un modo per mettere in primo piano questo personaggio che nel romanzo esiste quasi solo in funzione degli altri. A proposito di lavorare sui vuoti: guardando la serie sembra di assistere a uno spin-off, a un ampliamento del materiale di partenza, al contrario di quanto avviene normalmente guardando le cosiddette “riduzioni” cinematografiche delle opere letterarie. Un period drama che diventa family drama, e sembra cercare tra le pieghe del testo un accenno o un silenzio per costruirvi una tridimensionalità che può essere abitata da tutta la famiglia dei personaggi, e non più solo dal protagonista. Il period tendenzialmente è già “famigliare” – Downton Abbey, per esempio, è la storia della famiglia. Raccontare la storia di un’intera famiglia permette di dare più sfumature a un’epoca, soprattutto quando ci si apre a diverse classi sociali. Non si tratta di un genere che prende il posto di un altro, perché di fatto i due generi coincidono: la saga famigliare, attraverso i suoi conflitti, è un modo di esplorare il passato, perché ognuno dei componenti della famiglia ha un’esperienza diversa di quell’epoca. Il Gattopardo ha al suo interno una quantità di personaggi che vengono anche solo accennati e aprono un orizzonte rispetto a quel mondo. Le parole di Tancredi riflettono alla perfezione anche il concetto stesso di adattamento transmediale, che spesso è chiamato a “tradire” la lettera dell’originale per custodirne lo spirito, a cambiare per rimanere come è. Qual è il più grande “tradimento” della serie nei confronti del romanzo, e perché è indispensabile? Il tradimento più grande – e lo dico anche con un certo orgoglio perché ho spinto molto per questo tradimento – è nel finale. Il finale del romanzo è molto triste: è la fine di un’epoca, c’è la morte del principe, ci sono le principesse ormai anziane, il cane imbalsamato… Si percepisce un senso di grande nostalgia per qualcosa che non c’è più. Inoltre, accade a distanza di alcuni anni rispetto al celebre ballo. I nostri sceneggiatori tenevano molto a mostrare la morte del principe, ma dedicarvi un intero episodio inevitabilmente avrebbe dato il senso di una grande sconfitta. Neppure Visconti lo ha mostrato. Invece il nostro finale, che è un piccolo finale, e che pure non è un happy ending, dà speranza: concludere la storia con i due fratelli che riportano dentro la famiglia alcune proprietà proprio grazie ai soldi del ceto emergente riguadagnati attraverso il matrimonio di Tancredi, che era stato vissuto come una sconfitta, personale e di classe, è una rivincita, e apre alla speranza. Come anche l’ultima passeggiata di Concetta, il nuovo Gattopardo. La tradizione rimane, ma preservare quel passato non significa immobilizzarlo, imbalsamarlo, perché questo passato, questa Sicilia che vediamo nella sua bellezza, ha un valore. Il finale non mette in scena un tramonto, ma un’alba: l’alba di un’epoca nuova, che non si sa cosa porterà, ma proprio per questo nasconde in sé anche una speranza per il futuro. Da un certo punto di vista c’è un tradimento del romanzo, però io credo che sia un tradimento che nell’economia del racconto, in cui Concetta è diventata la co-protagonista, era giusto dare e ci ha fatto piacere dare. Ormai la maggior parte delle opere audiovisive è composta da adattamenti: in un mondo in continua evoluzione, quali sono le storie a cui restare ancorati, per andare avanti e cambiare in meglio? Perché tutto cambi, cosa deve rimanere come è? Non è un caso che ci siano così tanti adattamenti letterari, perché il romanzo conferisce una naturale profondità ai personaggi che, è vero, si può costruire anche con storie originali, ma lì si può trovare con una tessitura consolidata dal tempo che l’autore ha impiegato nel raccontare. E poi spesso, quando si tratta di classici, esiste anche tutto il discorso che è nato intorno al romanzo, che è come se avesse dato un ulteriore spazio di apertura. Sembra una banalità, ma a rendere unica una storia è il fatto di avere dei personaggi indimenticabili: questo è ciò che attira come il miele l’audiovisivo. La cosa importante è trovare almeno un personaggio di cui ti innamori e dici: ecco, se riuscissi a trasferirlo sullo schermo sono sicura che la gente vorrebbe passare delle ore con questa persona per sentire la sua storia.  L’Italia è un Paese che legge poco. E in generale nel mondo la lettura, così legata allo sviluppo del pensiero critico e dell’empatia, è minacciata dai tanti stimoli offerti dalle nuove tecnologie e dalla competitività degli altri media. L’audiovisivo è un rivale o un alleato? E l’adattamento che ruolo ha in questa prospettiva?  La tragedia è che, se anche non ci fossero gli audiovisivi, la gente non leggerebbe comunque. Anzi, forse l’adattamento è un’occasione per invogliare a leggere il romanzo da cui è tratto. È ovvio che il tipo di fruizione è completamente diverso, perché il tempo della lettura – che sia su supporto fisico o digitale, pur nella differenza penso che qualunque forma di lettura sia da considerare positiva – è un tempo personale, in cui si riflette, ed è un tempo di solito più lungo rispetto al tempo di fruizione dell’audiovisivo. Spero però che una cosa non escluda l’altra. E poi il raccontare storie ha un valore di per sé: ci apre agli altri, perché una storia contiene un’esperienza umana che non è la nostra, e noi ne abbiamo terribilmente bisogno per non rimanere ancorati solo a noi stessi. Fruire le storie apre all’empatia, qualunque sia la forma. E la forma di quest’epoca è spesso quella della serialità televisiva.  E Netflix? Che tipo di storie sta cercando? È alle porte qualche progetto che vuole (e può) raccontarci? Ancora non c’è niente di annunciato. Però a me piacciono questo tipo di storie; è facile perciò che me ne arrivino altre di questo tipo. Per concludere, c’è qualche aspetto che desidera sottolineare, o aggiungere?  Avevamo il desiderio di raccontare l’identità italiana. Secondo me è stato esaudito, perché è stato fatto non in maniera teorica, ma attraverso i personaggi, grandi storie, grandi famiglie, grandi individualità, che ci portano dentro l’Italia di allora, che poi è anche quella di oggi. Credo che ci siano dei momenti che definiscono l’identità di un popolo, ed è sempre interessante raccontarli. L’Italia è un Paese che è arrivato tardi all’Unità: raccontare quel momento con tutte le sue contraddizioni, e quindi non con una celebrazione tout court, è sensato in un momento storico in cui i temi dell’identità nazionale danno vita a guerre. Queste storie hanno una capacità di parlare all’oggi e di essere urgenti a modo loro. Chiara Bianchi *Si pubblica per gentile concessioni delle Edizioni Ares; il servizio è in uscita su “Studi Cattolici” -------------------------------------------------------------------------------- [1] Luisa Cotta Ramosino è Director Local Language Series Netflix per l’Italia e coordina il team che, di concerto con i partner produttori, si occupa di sviluppare le serie italiane di Netflix, riportando a Tinny Andreatta. Si occupa poi direttamente dello sviluppo di alcune serie tra cui “Il Gattopardo”. Prima di arrivare a Netflix ha lavorato come sceneggiatrice e produttore creativo per diversi produttori italiani ed è stata responsabile delle coproduzioni internazionali per Lux Vide. L'articolo Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per non cambiare: dal libro alla serie Netflix proviene da Pangea.
May 5, 2025 / Pangea
Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i 180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della storia. Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti (tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas. Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a qualche festa di nozze o di battesimo»[1]. Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare, ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono inesorabilmente nel centro del suo gioco. Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede riaccendersi in sé la speranza.  * La serie Rai: una storia di riscatto Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio, che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora, l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio di ricevere. Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma 2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano), e Nicolas Maupas (Mare fuori). Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di vendetta e la possibilità di riscatto. A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza, tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August, infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia, altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo bisogna essere infedeli». Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.  Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso con Mercédès. In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei, davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente. photo Paolo Modugno Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio, quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura ottocentesca.  Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in trasparenza, quasi non fosse dovuto. Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e meno rigorosa nel richiamare ai doveri. * Il film Mediaset: una storia di redenzione Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023). Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino. Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e con essa la possibilità di vivere il loro amore. Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie, impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale. L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera. La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione. Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa, che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia. A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e sperare. * Aspettare e sperare: i Dantès di domani Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del Montecristo, e tanto è ancora da esplorare. Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:  «La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3]. E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e soprattutto nei confronti degli altri. Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:  > «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza > sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4]. Chiara Bianchi *In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870 *Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares  -------------------------------------------------------------------------------- [1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464. [2] Ibidem, p. 1214. [3] Ibidem, p. 48. [4] Ibidem, p. 1538. L'articolo Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità proviene da Pangea.
March 19, 2025 / Pangea