T’ao Ch’ien – o meglio, Tao Yuanming – nacque nello Jiangxi, nel IV secolo.
Erede di un generale a servizio dei Jin, fece carriera come capace funzionario:
onori e incarichi lo attendevano. Ebbe cinque figli. Quarantenne, nella
primavera del 405, schifato dalla politica, alienato dalla vita familiare, mollò
tutti, rifugiandosi tra i monti.
Il rifugio, in verità, è una spoliazione estrema: T’ao Ch’ien si sveste dei
paramenti politici, per aderire – con sapienza d’abisso – al taoismo. Non
sopportava più le macchinazioni e i dissidi che sono fuori e dentro di noi, che
ci lacerano. Di lui si disse:
> “Preferì ambire a un’oscura povertà che logorarsi lottando per onori e denari.
> Visse felice, ubriacandosi e scrivendo poesie”.
Non fu il primo a voltare le spalle al mondo. La scelta dell’eremitaggio
artistico – in Oriente come in Occidente, da Saigyō a Rilke – è necessità che si
salda in topos: senza una qualche fede nell’invisibile, sfocia nel mero urlo,
nell’agonia del narciso. Soltanto una civiltà illuminata reca in sé i germi
della propria disfatta, reca come stemma l’agiografia dei santi che hanno scelto
di esaudirla combattendola, di esacerbarne la fragilità.
Le poesie di T’ao Ch’ien – apparse sporadicamente in Italia, sono un autentico
classico in Cina; tra gli altri (ne abbiamo parlato) hanno conquistato Ezra
Pound e Paul Valéry – sono, in fondo, il testamento di un sommo a-moralista. È
vero, il poeta tratteggia con suprema maestria il ‘paesaggio’ – è una sorta di
Monet in versi –, eppure, soprattutto, rimarca la felicità della sua scelta,
antartica a ogni etica. Nessun malinconico torpore inquina il fraseggio, nessuna
serpe del rimpianto: famiglia, società, regno sono, in diversi ordini
gerarchici, entità egualmente menzognere, frutto estremo di una ‘cultura’ da
estirpare. Alle poesie – che pure hanno varcato indenni millesettecento anni: e
sembrano, a leggerle, in bocciolo… – T’ao Ch’ien assegna il ruolo che hanno:
ceppi nel braciere, fiori occasionali, ‘passatempo’. Ma il tempo per questo
eremita non esiste più: le parole sono l’ultima variabile che lo separa dalla
pura natura – basta poco per vederlo garrire con le rondini, unirsi alla marcia
dei cervi, frusciare come il fiume e come l’erba. Non altro compito ha la
poesia: rompere ogni residua barriera, ogni umana vergogna.
Svergognato T’ao Ch’ien: in una poesia – qui si traduce dai Selected Poems of
T’ao Ch’ien, editi da Copper Canyon Press nel 1993, per la cura del poeta David
Hinton, autore, dieci anni fa, tra l’altro, di una sgargiante versione dell’I
Ching – narra, trasfigurandosi, la sua morte; nessuna compassione verso i figli
“abbondantemente viziati” che ora lo implorano, l’unico rammarico è quello di
“non essermi ubriacato abbastanza”. Il carisma del vino – la bevanda che dona la
sacra ebbrezza, che spalanca le porte della percezione – tornerà nei grandi
poeti di epoca T’ang; fornirà un tema permanente nella poesia persiana (pensiamo
ad Hafez e a Rumi).
Naturalmente, l’idillio è frutto di addestramento. T’ao Ch’ien soffre la fame,
l’isolamento, la povertà: dolori d’altra foggia rispetto a quelli subiti nella
‘civiltà’, indossando una vita fasulla. Così, in una agiografia a contrario,
redatta secondo lo stile degli antichi, il poeta parla di sé:
> “Nessuno sa da dove venisse. Anche i suoi nomi di battesimo sono un mistero.
> Parlava di rado, oziava, non lo intaccava desiderio di fama. Amava leggere,
> senza interrogarsi su ciò che leggeva. Amava il vino, ma non poteva
> permetterselo. Chi lo conosceva, lo invitava a bere con lui: si ubriacava
> quasi subito. Indossava un cappotto mal rattoppato. La sua tazza e la sua
> ciotola erano spesso vuote, ma continuava lo stesso a scrivere poesie che
> mostrano da quale indole era abitato. Dimenticò concetti come perdita e
> guadagno, finché giunse, naturalmente, alla morte”.
T’ao Ch’ien morì nel 427, dopo più di vent’anni di vita solitaria. Sarebbe bello
dire che il suo corpo è svanito, insieme alle foglie, in autunno. I manuali
elogiano la persuasiva semplicità dei suoi versi, forgiati da un’esistenza da
‘fuorilegge’. Ogni poeta scava la propria via – per seguirne un’altra, al di là
di ogni tracciato.
***
Da tempo sentivo che queste montagne
e questi laghi mi chiamavano: sarei partito
Immediatamente, ma i miei familiari
rifiutano la vita remota. Poi, un giorno
una strana sensazione mi ha pervaso e mi sono messo
in marcia, con il bastone in mano, verso la fattoria.
Non sarei mai più tornato indietro: su quelle
strade remote i villaggi erano ormai in rovina,
ma la mia capanna di paglia era bella come sempre
e i campi sembrano appena arati, come se qualcuno
li avesse curati per tutti questi anni. I venti della valle
sono freddi, ma il vino allevia la fatica del lavoro
benché non sia forte, dona una ebbrezza bambina
che solleva da ogni preoccupazione.
Con il passare dei mesi e degli anni, il rumore
del mondo frenetico si fa sempre più distante.
Arare e tessere ci forniscono ogni cosa.
Di cos’altro abbiamo bisogno. Via, via, lontano
dal mondo: così, in questa millenaria vita,
io e il mio destino vogliamo svanire.
*
Ho costruito la mia capanna dove vivono
altre persone, ma non c’è rumore di carri o cavalli.
Mi chiedi come sia possibile:
quando il cuore è lontano, alligna la solitudine.
Allora, raccolgo i crisantemi dalla siepe orientale
e vedo come si impennano le montagne del Sud.
L’aria è fresca fino al crepuscolo.
Gli uccelli si intrecciano in stormi.
In queste cose c’è una grande verità
ma per quanto provi a esprimerla
non trovo mai le parole esatte.
*
Successo e fallimento? Non li conosco.
Uno avanza quando l’altro declina. Ma chi
può dire se il Signore di Shao sia stato davvero
felice di governare uno Stato: forse avrebbe
preferito saccheggiare un campo di meloni.
Caldo e freddo, estate e inverno si alternano:
non è forse quella la via che un uomo deve
percorrere? Chi è “arrivato” conosce le proprie opportunità
e ha imparato a sciogliere i nodi della sapienza.
Ma il Saggio non parlava forse di nobili e di violenti?
Chi è davvero opportunista? Chi è “arrivato” conosce
i meandri del dubbio e non si preoccupa più.
Eppure, voi non dubitate, non lo fanno più neanche
i generali ora cadaveri, che hanno soppesato con cautela
le loro opportunità senza conoscere nulla del giusto
e dello sbagliato. Se all’improvviso vi viene
offerto del buon vino, lasciate che il sole tramonti. Godetevelo.
*
Un uccello ha smarrito lo stormo:
è inquieto e continua a volare, solo,
nel crepuscolo. Non ha un luogo in cui
riposare e notte dopo notte le sue grida
sono sempre più strazianti. La sua voce
anela al puro e al lontano: con quale
ansia fluttua nel vuoto!
Quando trova un pino quasi del tutto spoglio
ripiega le ali: ha finalmente trovato casa.
Il vento è impetuoso, ma quell’albero non
crolla. L’uccello ha scoperto un trespolo su cui
appollaiarsi: non lo mollerà per i prossimi mille anni.
*
Pensando ai poveracci dell’antichità
I
Diecimila cose, neppure un rifugio
tranne quella nuvola solitaria. Crepuscolo
di cieli vuoti, crepuscolo nudo
nessuna luce lo illumina.
Alba rosata, tagliagole
della notte, gli uccelli volano
superano i confini del bosco
ma a sera tornano ai nidi.
Risparmio le forze e vivo solo:
come posso evitare la fame?
Se nessuno mi comprende
per me sarà finita: cosa
dovrei ancora piangere?
II
Ardo di freddo. L’anno muore
così: rovine di sole, ho il cappotto.
Nulla nell’orto a sud, rami secchi
affollano l’orto a nord. Nemmeno
un chicco di riso nel barattolo.
Nella stufa, nessun alfabeto di fumo.
È tardi, leggere i classici non
mi conforta. Vita di niente –
Non è come ai tempi di Confucio:
anche allora si moriva di fame
si viveva nell’ira. Dove posso
trovare la pace? Ma certo:
gli antichi erano illuminati.
*
I grandi uomini vogliono i quattro mari:
io desidero soltanto passare inosservato.
La mia famiglia è ancora lì: figli
e nipoti si prendono cura tra loro.
Io vago nel nulla e a sera
bevo: la giara non è mai vuota.
Ho pochi abiti, vivo in disordine
e sono felice: a volte dormo
fino a tardi, a volte mi addormento
presto. Perché vivere come tutti
come quegli uomini eccelsi
con il cuore stretto tra il fuoco e il ghiaccio?
Anche loro finiranno nella tomba
l’ambizione è un’inutile via.
*
Salmo per la sepoltura
Chi vive, muore. Sono morto giovane
ma non mi ha sfracellato la sorte.
Ieri sera ero come tutti, stamane
sono registrato tra gli spettri.
Chissà dove si disperde lo spirito:
il corpo è secco, come un legno cavo.
I miei figli, abbondantemente viziati,
cercano il padre. Gli amici mi toccano
e piangono. Non conoscerò più
guadagno né perdita, non mi
occuperò più del bene né del male.
Dopo diecimila anni chi saprà
distinguere l’onore dal disonore?
Del mio passaggio sulla terra rimpiango
soltanto di non essermi ubriacato abbastanza.
*In copertina: Zhang Lu (1464-1538), da “Album di 18 dipinti taoisti.
L’immortale Cao Guojiu”
L'articolo “Desidero soltanto passare inosservato”. T’ao Ch’ien, il poeta
eremita proviene da Pangea.