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Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro
Chin P’ing Mei (in cinese 金瓶梅, pinyin Jīn Píng Méi, che si può tradurre come “Il fiore di prugno nel vaso d’oro”) è un celebre romanzo cinese scritto in lingua vernacolare (baihua) verso la fine della dinastia Ming, nel XVI secolo. L’autore – o forse autrice – rimane anonimo, conosciuto solo con lo pseudonimo di Lanling Xiaoxiao Sheng: forse il poeta Wang Shih-chen. Le prime copie del romanzo circolavano manoscritte, mentre la prima edizione a stampa risale al 1610. L’opera completa oggi comprende circa cento capitoli. La narrazione si incentra sulla figura di Ximen Qing (西门庆), tradotto anche come Hsi-Mên, un ricco mercante di medicinali, e sulle intricate vicende delle sue numerose mogli (Loto D’Oro, Madama Luna, Loto Fragrante, Madama P’Ing, Stelo di Giada, Girasole) e concubine. La famiglia, inizialmente immersa in ricchezze, piaceri e relazioni spesso moralmente ambigue, finisce per essere travolta da un lento ma inesorabile declino, che culmina con la morte dello stesso protagonista. Il romanzo offre uno spaccato vivace e dettagliato della società cinese durante la dinastia Song Settentrionale, nel XII secolo, fino agli eventi legati all’invasione tartara. Considerato da molti il “quinto” tra i Quattro Grandi Romanzi Classici della letteratura cinese, Chin P’ing Mei è noto per essere la prima grande opera della narrativa cinese a trattare in maniera esplicita il tema della sessualità. La storia prende avvio quando il giovane e benestante Hsi-Mên incontra casualmente Pan Jinlian (P’an Chin-lien, poi Loto D’Oro), moglie del modesto Wu Dalang. I due iniziano una relazione adulterina, e Pan Jinlian, stregata dalla passione e dall’opulenza del suo amante, arriva ad avvelenare il marito per poter entrare nell’harem di Ximen Qing come concubina. Mentre il fratello della vittima, Wu Sung, deciso a vendicare la morte del fratello, finisce per uccidere per errore un innocente e viene esiliato. Con la minaccia di vendetta sventata, Ximen Qing si abbandona completamente ai vizi e agli eccessi. Tra le nuove donne che accoglie nel suo harem vi sono Madama P’Ing, vedova di un suo amico, e Chunmei, una giovane schiava. Tuttavia, la fortuna della famiglia inizia a svanire: Madama P’Ing e il figlio muoiono, Loto D’Oro viene uccisa da Wu Sung al suo ritorno, che così può vendicarsi del fratello ucciso, per poi darsi alla macchia; Chunmei viene venduta, tutto questo dopo che lo stesso protagonista era deceduto, a causa di Loto D’Oro, che gli somministra una dose troppo elevata di pillole afrodisiache. Con il Paese invaso dai tartari, Madama Luna, la prima moglie di Hsi-Mên, cerca rifugio in un tempio buddhista insieme all’unico figlio rimasto in vita, Xiao Ke. Qui, in sogno, scopre che il bambino è la reincarnazione del defunto marito. Per evitare che il figlio segua lo stesso cammino dissoluto, decide di farlo diventare un monaco, in virtù di una promessa che era stata fatta anni prima a un’eremita. Questo romanzo, pubblicato agli albori del Seicento, dimostra quanto la narrativa cinese fosse già pienamente matura e strutturata. In Occidente, opere di simile complessità e respiro arriveranno solo molto più tardi, nel corso dell’Ottocento. Lo stile è fortemente imparentato col linguaggio teatrale: l’azione domina, le descrizioni sono al tempo stesso puntuali e cariche di poesia, il linguaggio ricco e stratificato. Nell’edizione da noi letta (Feltrinelli, 1970, nella traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, basata sulla versione inglese di Arthur Waley), il romanzo si estende per 919 pagine suddivise in quarantanove capitoli di altissima intensità. Dal punto di vista stilistico, si potrebbe paragonare all’unione di tre grandi nomi della letteratura occidentale: il naturalismo minuzioso di Zola, la delicatezza poetica di Flaubert e il senso del ritmo scenico di Maupassant. Quasi mille pagine raccontano un arco temporale piuttosto breve, pochi anni appena, eppure con tale dovizia di dettagli che sembra davvero di vivere accanto ai personaggi. Di loro apprendiamo ogni gesto, ogni pensiero quotidiano, dalle conversazioni ai banchetti, fino alle scene erotiche, anch’esse descritte con cura e senza veli. Proprio per questo, l’opera è stata spesso fraintesa, ridotta – anche per motivi pubblicitari – a romanzo erotico, e in passato soggetta a censure che eliminavano le parti più esplicite. Ma l’eros, in realtà, è trattato come una dimensione naturale e paritaria dell’esistenza, non viene enfatizzato né nascosto, bensì integrato nella narrazione complessiva della vita dei protagonisti. L’intento dell’autore è chiaro: restituirci l’eccesso, lo sfarzo, la smania di potere del protagonista. Questi, pur essendo già un amante esperto e insaziabile, ricorre a pillole afrodisiache per superare i limiti umani — ed è proprio questo abuso a condurlo infine alla morte. Così come accade al protagonista, anche gli altri personaggi del romanzo sono vittime delle proprie ossessioni, travolti da eccessi che li consumano. L’opera potrebbe idealmente essere divisa in due grandi momenti: una prima parte di ascesa e costruzione, e una seconda di decadenza e rovina. Tutte le colpe, le ambizioni e le esagerazioni che si manifestano nella prima metà trovano nella seconda il loro inevitabile contrappasso. > “Madama Luna finalmente si arrese alle sue sollecitazioni. Dette all’ancella > Gioietta le chiavi dei cancelli del parco, e tutte e tre – perché si unì a > loro la cognata Wu – vi si recarono insieme. Ma come era mutato il suo aspetto > nell’intervallo! Sui muri e sugli edifici, i variopinti stucchi eran svaniti, > ed in alcuni punti scrostati, cosicché rimaneva scoperta la nuda pietra, e qua > e là ci cresceva sopra il muschio. Le lastre di marmo e i blocchi dei gradini > e dei terrazzi si eran spostati, o erano sprofondati in modo disuguale entro > terra, cosicché so eran formati crepacci beanti, nei quali fiorivan le > erbacce. Sui tetti, le tegole si erano spezzate o spostate, aprendo il cammino > a una vigorosa vegetazione verde. Le pietre dure di valore e i minerali sui > margini del lago eran coperti di crosta di sporcizia e avevano perduto la > lucentezza. Il graticcio intrecciato dei mobili di vimini del padiglione era > strappato e cadeva a pezzi. L’ingresso della grotta era parato di spesse > ragnatele grige. Gli stagni dei pesci eran diventati dimora di rane. Il > Padiglione delle Nubi in Riposo era ora un covo di volpi. La Grotta della > Sorgente Celata brulicava di fecondissimi Topi“. > > (Dal capitolo 46, “Prugna Primaverile ritorna alla sua vecchia casa. Un amico > infedele svela il proprio volto di lupo”) Da questo brano si evince proprio la struttura di Chin P’ing Mei, dove in un primo momento viene mostrato il quadro di una famiglia felice e serena, immersa in un’atmosfera gioiosa; successivamente, però, quello stesso scenario si trasforma in un luogo desolato e abbandonato, in cui il locus amoenus si tramuta in locus horridus. La forma duale riflette uno dei principi fondamentali del Taoismo, più volte evocato nel testo: l’universo si regge su un equilibrio dinamico tra Yin e Yang, e ogni forza, giunta al suo apice, genera automaticamente il proprio opposto per ristabilire l’armonia. È una visione profondamente catartica dell’esistenza: la tragedia non è fine a sé stessa, ma necessaria al riequilibrio del cosmo e dell’animo umano. In questo senso, anche gli eventi più dolorosi — come il suicidio della moglie Loto Fragrante, la morte del giovane figlio maschio di Hsi-Mên, la scomparsa della moglie Madama P’Ing e infine quella del protagonista — assumono un significato più ampio e concettualmente conchiuso. Non sono semplici colpi di scena, ma tasselli di un disegno più grande, in cui ogni eccesso viene punito e ogni squilibrio viene sanato. Il romanzo, dunque, non si limita a raccontare un’epoca o una famiglia, ma si propone anche come monito morale: l’eccesso di lusso, potere e desiderio conduce inevitabilmente alla rovina. Solo agendo in nome dell’armonia e della misura si può sperare di mantenere un vero equilibrio. Impossibile, in un singolo articolo, rendere giustizia all’intero ventaglio di personaggi che popolano questo vasto romanzo. Tuttavia, tre figure spiccano per centralità e forza narrativa: il ricco e ambizioso Hsi-Mên, la sua quinta moglie, la seducente e inquieta Loto d’Oro, e la prima, Madama Luna. Hsi-Mên, come detto, è un imprenditore di successo nel campo dei medicinali, ma la sua sete di potere e piacere sembra inesauribile. Desidera tutto: ricchezze, donne, prestigio politico. Per ottenere ciò che vuole, non esita a ricorrere a mezzi disonesti, mostrandoci, attraverso le sue azioni, un sistema sociale corrotto, basato su tangenti e favori — dinamiche, peraltro, tristemente riconoscibili anche nella nostra contemporaneità. Eppure, accanto a questo lato calcolatore e spregiudicato, affiora talvolta un aspetto più umano e sentimentale. Hsi-Mên appare, a tratti, sinceramente innamorato della vita e delle sue donne, prigioniero di un conflitto interiore tra razionalità e impulso, tra controllo e desiderio. Diverso il caso di Loto d’Oro, donna di straordinaria bellezza e carica erotica, interamente guidata dall’istinto. La sua presenza in scena è destabilizzante: semina discordia, alimenta gelosie e manipola chi le sta attorno con feroce lucidità. Per legarsi a Hsi-Mên, partecipa all’assassinio del suo primo marito, e in seguito, accecata dalla gelosia verso Madama P’Ing, arriva persino a causare la morte del figlioletto che quest’ultima ha avuto con Hsi-Mên. Il suo comportamento oscillante tra idealizzazione e denigrazione degli altri delinea un profilo che oggi potremmo definire narcisistico, un personaggio moderno, nel suo essere tragicamente autodistruttivo. E infatti, come gli altri, pagherà il prezzo delle sue azioni. Dopo la morte di Hsi-Mên, verrà uccisa in modo crudo e spietato da Wu Sung, che la prende in moglie solo per vendicarsi. In uno dei capitoli più potenti e drammatici del romanzo — insieme a quelli dedicati alla morte del piccolo figlio di Madama P’Ing — Wu Sung, in un gesto tanto simbolico quanto brutale, le strappa il cuore con un coltello. Un epilogo che suggella, con forza tragica, il destino di chi vive nel segno della dismisura di brama e ambizione e infine della manipolazione. Infine, Madama Luna, è l’unico personaggio che spicca per fedeltà e virtù. Solo lei infatti, nonostante tutte le avversità e i contrasti con i quali deve vedersela, rimane moralmente intatta e sempre fedele a suo marito, nonostante questo sia profondamente lussurioso. Le sue scelte non sono di carattere istintivo e ingenuo, come sono quelle di altri soggetti – come il Giovane Ch’ên, uno degli amanti di Loto d’Oro. Le sue scelte si basano su razionalità e fermi principi. Grazie a lei proprio nel finale del romanzo, spicca un altro personaggio, al quale non si dà grande peso per tutto lo scritto, si tratta del servo Tai-An, che in effetti si è dimostrato sempre virtuoso e fedele. È proprio lui nel finale a diventare erede di tutto il patrimonio della famiglia, dopo che il figlio di Madama Luna viene preso in custodia dal monaco buddista. Per questa ragione Tai-An prenderà il nome di Il Piccolo Hsi-Mên. E anche questo è emblematico e rivela una verità fondamentale, che spesso chi opera nel nome del bene lo fa nell’ombra, senza apparire, senza azioni evidenti, semplicemente nel nome dell’equilibrio e della giustizia, e per questa ragione prima o dopo verrà ripagato. In definitiva, Chin P’ing Mei è giustamente considerato uno dei capolavori assoluti della letteratura cinese: dovrebbe essere riconosciuto come un classico della letteratura mondiale. Lo merita non solo per la ricchezza dei suoi contenuti, ma anche per lo stile raffinato, che alterna prosa e la poesia, e per l’eccezionale profondità psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi. Pur nell’ampiezza del cast narrativo, ogni figura è caratterizzata con precisione, vive di un’identità propria, autentica, che contribuisce a rendere l’universo del romanzo straordinariamente realistico e vitale. In queste pagine si respira la storia, la cultura, il pensiero cinese in tutta la loro complessità. Ma, al di là delle specificità culturali, emerge con forza un messaggio universale: Oriente e Occidente, pur nei rispettivi linguaggi e sensibilità, si sono sempre confrontati con le stesse grandi questioni umane – la lotta contro la corruzione, l’illusione del superfluo, il desiderio di potere. Laddove l’Occidente ha cercato soluzioni nella scienza e nella razionalità, l’Oriente ha affiancato a queste anche la spiritualità, non come elemento decorativo o astratto, ma come forza viva e trasformativa, capace di agire nella realtà. Una spiritualità che, nel romanzo, affiora spesso come voce interiore, come principio regolatore, come invito all’armonia. In fondo, ogni cultura – in modi diversi ma convergenti – tende verso un medesimo fine: la ricerca dell’equilibrio. Un equilibrio che non può essere raggiunto se si dà più valore all’esteriorità che alla sostanza, se si insegue il superfluo dimenticando ciò che davvero è cruciale. Stefano Duranti Poccetti *In copertina: il ‘Chin P’ing Mei’ nella versione scenica del Beijing Dance Theater L'articolo Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro proviene da Pangea.
May 12, 2025 / Pangea
“Torno da un sogno”. Li Quingzhao: vita & versi della poetessa millenaria
Quasi che tra cenere e sogno nessuna differenza sussista, se non quel sussulto, quello scarto tra il grigio e il ghigno del sopravvissuto.  Intrisa nel sogno, di bava d’ambra, onirica all’onestà, è l’opera di Li Quingzaho, perché è lì, nell’inconsolabile consistenza dell’inconsistente, che accade tutto: il lutto e l’amplesso, la gioia, a gorghi, e la rassegnazione, il primevo amore, il primato della razzia, i volti – tanti, ambiti, ambigui – come i fiori del pruno. Leggo che i fiori del pruno sono il simbolo della speranza, dell’eternità – in Li Quingzhao è la quieta disperazione ad avvincerci, piuttosto, l’incendio di nevi, la fuga tra corpi illusori, il senso, acuto, del transitorio. La nobiltà di questa poetessa recidiva nel recidere è in una sorta di infallibile debolezza. Così, quando scrive al Signore di Hu – una lettera intrisa di lacrime rattenute nel sangue –, alto funzionario imperiale, quella donna ai margini, tra i laterizi dell’esilio, non esita a insistere perché l’Imperatore ricordi che non è tempo di sotterfugi e negoziazioni quando decenni di caos hanno falciato i suoi sudditi, i suoi figli. Ma ancora una volta: la Storia non è che un sogno, la pietra levita in neve, la parola è cenere. Che incenerisca l’opera, allora, perché con quel nulla d’argento altri rifondino i toni, i tuoni. Se ne lordino il volto. Nacque nello Shandong, nel 1084, Li Quingzhao, in una famiglia di intellettuali: il padre era un insigne accademico, seguace dei circoli letterari più noti dell’epoca; la madre, nel cui lignaggio alligna un ministro del regno, scriveva poesie. In quell’aura libresca, Li Quingzhao si librò con eccezionale libertà: di precocissimo ingegno, già più che smaliziato, eccelse nel ci, poesia di irregolare lunghezza, modellate su toni e modelli definiti, cantabili. Si sposò nel 1101, diciottenne, con Zhao Mingcheng; fu un’unione al limite dell’idilliaco: entrambi poeti, praticavano la calligrafia e la scrittura, si inoltrarono nell’arte delle iscrizioni su pietra e su bronzo. Collezionavano libri – dialogavano in versi, durante le lunghe assenze di Zhao, impegnato nelle estenuanti prove per diventare burocrate del regno (la pratica lirica era una delle eccellenze essenziali per ‘fare carriera’ in quei ranghi).  Al tempo dell’unione, seguì quello della distruzione. Li Quingzhao e il marito vissero l’abisso della guerra che impegnò la dinastia Song contro i Jin – costretti alla macchia, subirono la razzia della casa. Non erano ricchi – i loro manoscritti furono bruciati, insieme ai libri. Nel fuoco, Li intravide lo stigma di una conversione.  Zhao morì durante i giorni della fuga, nel 1129 – Li passò mesi di vagabondaggio, di pieve in pieve, incenerita dal dolore. Finì i suoi anni a Hangzhou, dove i Song avevano stabilito la nuova capitale – ma tutto era già capitolato. Dicono di uno stuolo di pretendenti, malignano di un nuovo matrimonio, con un artista più giovane di lei, terminato in disastro; pare si sia data al buddhismo, piuttosto; le poesie misero il lutto: dai toni lievi, primaverili degli anni nell’oro, Li passò a quelli del rimorso, della malinconia, del grido in gola. Sono le poesie più belle, quelle in cui la neve si mescola al sogno, l’airone al pruno, vaghe figure della fugacità. Soltanto il vino offre un futile riparo al dolore: da ciò che si legge, Li sapeva precipitare nell’ebbrezza. Morì a 71 anni, pare – l’incerto consacra questa donna tra le semprevive leggende –, intorno al 1155 – del suo canzoniere, tra i più rinomati e noti del canone cinese, restano un centinaio di poesie, briciole per lo più di un’esistenza votata alla letteratura.  Li Qingzhao piaceva a Cristina Campo, che la voleva nel suo libro delle Ottanta poetesse (riprodotto da Magog, con l’aiuto di Giorgio Anelli, 2023); Farrar, Straus and Giroux ha da poco pubblicato i “Complete Poems of Li Qingzhao” con un titolo suggestivo, The Magpie at Night: i versi “della più grande poetessa cinese della storia” sono tradotti, con garbo minimalista, da Wendy Chen. Al di là dei tributi all’oggi, di quell’irreggimentare all’ovvio – si parla del “lavoro invisibile e irrequieto… di una donna che ha creato all’ombra dell’esilio, della guerra, di un ambiente letterario poco accogliente” – pare che facciano di Li una Emily Dickinson di Cina, rapita da una poesia fitta di intrepide ironie, da reclusa. In verità, Li era singolarmente nota ai tempi, e la poesia – pur apodittica, secondo i modi ideogrammatici d’Oriente – non artiglia l’intelligenza: dilata il cuore in lago.  Si sente, semmai, in sottofondo, un lento sciabordio: i versi inseguono la stesura del fiume, sono come cartigli, come foglie, lasciati alla livrea del rio. Prendili, a piena bocca: l’al di là del sogno è ricchezza in neve – non puoi lasciare tracce – né eseguirle.  *** Li Qingzhao In sogno Ricordo il giorno  passato sullo strame del rio: guardavi il tramonto che artigliava il padiglione. Così ubriachi da perdere la via del ritorno. Era tardi – fu troppo tardi. Voltammo la barca incagliandoci in un gorgo di radici di loto.  Remavi remavo –  splendevano, a riva, gli aironi.  * Mentre scorre il fiume L’equinozio si spezza primavera arriva. Legna nell’incensiere: da froge  di giada sfugge il fumo.  Torno da un sogno.  Cerco le forcine per i capelli sotto il cuscino. Le rondini di mare sono ancora lontane.  La gente gioca con l’erba, i fiori del pruno riempiono il fiume. Il salice germoglia una bava di seta. Compieta: l’altalena è bagnata dalla pioggia.  * Ubriaca alla festa del nono giorno  Nebbia sottile, nuvola esangue. Il giorno è il destriero del desiderio. Tronchi di canfora bruciano nella bocca di bestie dorate.  Festa del nono giorno. Cuscino di giada, tonaca zanzariera. Il gelo di mezzanotte azzanna il mondo. Crepuscolo. Mi ubriaca il chiostro che costringe Oriente e le mie maniche sono fragranti. Non dire che mi è indifferente amare. Quando il vento dell’ovest fa sbattere la tenda, sono più fragile di un fiore giallo.  Mi bruci la mano ma il tuo cuore è freddo.  * Sul tema “Come un sogno” Notte: vento violento lavacro di pioggia. Dagli abissi del sogno inebetita dal vino chiamo l’ufficiale delle tende che mi risponde: “i fiori di ciliegio e quelli di melo sono gli stessi” “Oh, ancora non lo sai? Il rosso si assottiglia il verde è diventato enorme”.  * Sul tema “Rosse le labbra” Nella più remota stanza: infiniti dolori infieriscono  su ogni lato del mio essere.  La primavera è passata troppo presto: piogge, come frecce, disperdono gli amici. Mi sporgo dal balcone: sono stanca.  Dov’è lui, il mio amato? La prateria non ha orizzonte avvizzisce: la strada del ritorno è ormai invisibile.  * Moribonda primavera – non ho voglia di sistemarmi i capelli.   Il pruno perde i fiori  che vagano tra le rive  del vento serale. Luna pallida, nubi in estro.  L’incenso non brucia più nella conca di giada, ha la forma di un’anatra –  la tenda ha ancora quell’antico pudore.  Basta il suono di un corno a spaventare il freddo?  * Lamento  Notte fonda: ebbra mi levo le vesti un fiore di pruno tra i capelli appassisce.  Tutto scema ma l’odore del vino sbriciola i sogni prima che l’anima  riconosca la via di casa.  Silenzio.  La luna indugia: accarezzo il fiore appassito accarezzo i petali profumati voglio il mio tempo perduto.  * Il sole si disfa come oro fuso le nuvole, a sera,  sono un disco di giada. La nebbia avvolge i salici e un flauto suona “Fiori di pruno”.  Quanti giorni ancora durerà primavera? La festa delle lanterne dovrebbe rendermi felice ma sono inerme al candore del tempo – quando torneranno il vento e la pioggia? * Ogni anno è nella neve che raccolgo i fiori del pruno: la loro bellezza mi inebria. Avida, li accarezzo: bagno la veste di lacrime ed è così che consumo il mio viso.  Quest’anno ho vagato fino  al limite della foce, fino al punto che inficia l’orizzonte – ormai  grige le tempie.  Il vento della sera è forte: non riuscirò più a godere del languore di quei fiori.  * Al Signore di Hu Non chiediamo della preziosa perla del Duca di Dui né dell’inestimabile disco di giada di Ho, sommo maestro. Chiediamo notizie della nostra patria. Il Palazzo dell’Illuminazione è ancora lì, in rovina? In che stato sono le pietre inabissate nell’erba quelle tigri messe a guardia della tomba imperiale? Dopo la razzia, pur al giogo, la nostra gente continua a piantare alberi di gelso.  Dicono che i mercenari pattugliano  le mura della città: è davvero così? Il nonno e il padre della vedova che vi scrive sono nati nello Shantung: benché non abbiano mai ricoperto alti incarichi, la loro fama veleggiava ovunque.  Ricordo quando discutevano alle porte  della capitale insieme ad altri studiosi: gente a ventate, sudore pari a pioggia.  I loro figli hanno attraversato il fiume molti anni fa per nutrirsi del sud: alla deriva, tra le rapide, tra i rifugiati. Invio lacrime torchiate nel sangue alle montagne della mia patria; spargo una tazza di terra sulla Rupe Orientale. Immagino il vostro arrivo, degno agnello di Sua Maestà: passerete per le capitali tra stole di genti – tutti faranno a gara per offrirvi il tè, per ostentare un torbido benvenuto… Il cuore dell’Imperatore soffre insieme a chi soffre:  siamo i suoi figli. Ditegli che la volontà celeste  ha memoria di ogni creatura. La fede con cui ci ricompensa brilla come il sole, è vero, ma non è tempo di negoziare per troppi anni siamo stati il cibo del caos.  L'articolo “Torno da un sogno”. Li Quingzhao: vita & versi della poetessa millenaria proviene da Pangea.
March 11, 2025 / Pangea