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Yves Klein, il niente e la potenza. Piccolo discorso sul Bartleby della storia dell’arte contemporanea
Nel discorso critico su Yves Klein torna spesso il riferimento alla sua frequentazione della cultura orientale, sviluppata anche attraverso la sua passione per il judo e da un viaggio in Giappone iniziato nel 1952 e durato circa 15 mesi. L’influenza di una metafisica d’Oriente – definita dal concetto di vacuità, il Śūnyatā del buddismo – portò Klein a considerare l’esistenza dalla parte del vuoto e, talvolta, la sua arte espresse l’impossibile tentativo di rappresentare un’assenza. Questa fatale attrazione spiegherebbe anche la predilezione per il blu, almeno nella sua personale concezione: «prima c’è il nulla, poi c’è un nulla profondo, poi una profondità blu». Il suo cammino verso il nulla lo porterà a cedere «zone di sensibilità pittorica immateriale»: puro niente, il cui commercio richiedeva un complesso rito esoterico, dove la ricevuta d’acquisto della cessione veniva bruciata e dispersa nelle acque di un fiume insieme all’oro puro con cui era stata corrisposta. Due testimoni, meglio se due critici d’arte, presenziavano alla cerimonia. La cenere della ricevuta si disperdeva e, per un istante, le sottili lamine d’oro facevano brillare tutto il resto.  Arrivati a questo punto, ora che sembrerebbe difficile immaginare qualcosa di più inconsistente, una testimonianza di Dino Buzzati ci descrive l’ultima impossibile opera di Klein: il sommo capolavoro di una certa linea dello sviluppo dell’arte contemporanea, da Duchamp in poi. Buzzati racconta che l’artista, prima di congedarlo da Parigi dove i due si erano incontrati per il rito di cessione di una zona di sensibilità pittorica immateriale, gli consegnò un foglietto che egli avrebbe dovuto leggere solo al suo rientro a Milano: > «[…] Prima del commiato [Yves Klein] tenne a darmi un foglio sul quale aveva > scritto d’urgenza qualche cosa. Disse che era molto importante. Lo leggessi > poi a Milano. Il foglio ce l’ho qui sotto gli occhi. C’è scritto: “A parte il > rito della cessione delle zone di sensibilità pittorica immateriale, Yves > Klein ha partecipato a numerosi salons ed esposizioni in Europa e negli Stati > Uniti nell’anonimato più assoluto. Questo a partire dal 1956, soprattutto, > Yves Klein ha pure venduto degli ‘immateriali pittorici’ senza alcun rito, e > il nome degli acquirenti non può essere rivelato”». In questa indeterminatezza, per cui Klein avrebbe potuto realizzare queste opere o avrebbe potuto anche non averle realizzate, ritroviamo, almeno parzialmente, l’interpretazione che Giorgio Agamben propone del Bartleby di Herman Melville. Per il filosofo, Bartleby è una potenza che, in senso aristotelico, in quanto tale si rifiuta di depotenziarsi nel passaggio all’atto. Bartleby è una potenza che ha possibilità di fare o di non fare, di essere o di non essere; perché, se avesse soltanto facoltà di fare o di essere, non sarebbe più una potenza ma un atto compiuto.  Yves Klein e Dino Buzzati durante il rituale di cessione di una Zone de sensibilité picturale immatérielle. Parigi, 26 gennaio 1962. Nel «preferirei di no» c’è l’impedimento del raggiungimento dell’atto che depotenzierebbe la potenza originaria, togliendole la possibilità di non essere. Le lettere smarrite descritte nella parte conclusiva del racconto rappresenterebbero le svariate possibilità di ciò che poteva essere: le tante potenze che potevano verificarsi in atto, ma che non sono state: le tracce di varie occasioni che ci sarebbero state se le potenze si fossero affermate divenendo atti. Per questo Bartleby, suggerisce Agamben, sarebbe un Cristo venuto per redimere non ciò che è stato, ma ciò che non è stato. Anche Klein, nell’indeterminatezza del foglio consegnato a Buzzati, si costituisce come potenza: un’energia che, in quanto tale, ha potere di aver fatto o di non aver fatto e, dunque, di fare e di non fare. Nell’impossibilità di riscontrare questi atti realizzati, ossia queste opere immateriali vendute nell’anonimato in luoghi e tempi sconosciuti, Klein non depotenzia la sua energia artistica, lasciando aperta la possibilità che non abbia realmente realizzato la sua potenza in un atto.  Yves Klein, ex-voto di Santa Rita da Cascia (1961) Certo, esiste la possibilità che questo foglietto sia l’invenzione della fervida fantasia di Buzzati. Se così fosse saremmo comunque perfettamente in linea con una funzione-Klein: ci muoveremmo dentro quello spazio a cui si giunge quando un autore tenta di sviluppare quel che nell’opera di un altro autore è rimasto non detto (o non fatto). Quello spazio in cui – lo stesso Agamben lo ha più volte indicato – non si sa più se quello che si trova appartiene a un autore o all’altro. Che questa del biglietto sia un’invenzione di Buzzati o di Klein importa relativamente. Qui, in questo foglietto di fatale nichilismo, troviamo il punto estremo di una tendenza di attacco all’opera d’arte come ente, il punto oltre al quale non è possibile procedere. Si trattava, come scrisse Buzzati, del massimo capolavoro di Klein, «fatto esclusivamente di vuoto, il vuoto di cui egli era signore». Oltre questo punto, la morte: improvvisa e misteriosa, all’età di 34 anni.  Antonio Soldi *In copertina: Yves Klein fotografato da John Hammond nel 1961 L'articolo Yves Klein, il niente e la potenza. Piccolo discorso sul Bartleby della storia dell’arte contemporanea  proviene da Pangea.
December 8, 2025 / Pangea