Nel discorso critico su Yves Klein torna spesso il riferimento alla sua
frequentazione della cultura orientale, sviluppata anche attraverso la sua
passione per il judo e da un viaggio in Giappone iniziato nel 1952 e durato
circa 15 mesi. L’influenza di una metafisica d’Oriente – definita dal concetto
di vacuità, il Śūnyatā del buddismo – portò Klein a considerare l’esistenza
dalla parte del vuoto e, talvolta, la sua arte espresse l’impossibile tentativo
di rappresentare un’assenza. Questa fatale attrazione spiegherebbe anche la
predilezione per il blu, almeno nella sua personale concezione: «prima c’è il
nulla, poi c’è un nulla profondo, poi una profondità blu». Il suo cammino verso
il nulla lo porterà a cedere «zone di sensibilità pittorica immateriale»: puro
niente, il cui commercio richiedeva un complesso rito esoterico, dove la
ricevuta d’acquisto della cessione veniva bruciata e dispersa nelle acque di un
fiume insieme all’oro puro con cui era stata corrisposta. Due testimoni, meglio
se due critici d’arte, presenziavano alla cerimonia. La cenere della ricevuta si
disperdeva e, per un istante, le sottili lamine d’oro facevano brillare tutto il
resto.
Arrivati a questo punto, ora che sembrerebbe difficile immaginare qualcosa di
più inconsistente, una testimonianza di Dino Buzzati ci descrive l’ultima
impossibile opera di Klein: il sommo capolavoro di una certa linea dello
sviluppo dell’arte contemporanea, da Duchamp in poi. Buzzati racconta che
l’artista, prima di congedarlo da Parigi dove i due si erano incontrati per il
rito di cessione di una zona di sensibilità pittorica immateriale, gli consegnò
un foglietto che egli avrebbe dovuto leggere solo al suo rientro a Milano:
> «[…] Prima del commiato [Yves Klein] tenne a darmi un foglio sul quale aveva
> scritto d’urgenza qualche cosa. Disse che era molto importante. Lo leggessi
> poi a Milano. Il foglio ce l’ho qui sotto gli occhi. C’è scritto: “A parte il
> rito della cessione delle zone di sensibilità pittorica immateriale, Yves
> Klein ha partecipato a numerosi salons ed esposizioni in Europa e negli Stati
> Uniti nell’anonimato più assoluto. Questo a partire dal 1956, soprattutto,
> Yves Klein ha pure venduto degli ‘immateriali pittorici’ senza alcun rito, e
> il nome degli acquirenti non può essere rivelato”».
In questa indeterminatezza, per cui Klein avrebbe potuto realizzare queste opere
o avrebbe potuto anche non averle realizzate, ritroviamo, almeno parzialmente,
l’interpretazione che Giorgio Agamben propone del Bartleby di Herman Melville.
Per il filosofo, Bartleby è una potenza che, in senso aristotelico, in quanto
tale si rifiuta di depotenziarsi nel passaggio all’atto. Bartleby è una potenza
che ha possibilità di fare o di non fare, di essere o di non essere; perché, se
avesse soltanto facoltà di fare o di essere, non sarebbe più una potenza ma un
atto compiuto.
Yves Klein e Dino Buzzati durante il rituale di cessione di una Zone de
sensibilité picturale immatérielle. Parigi, 26 gennaio 1962.
Nel «preferirei di no» c’è l’impedimento del raggiungimento dell’atto che
depotenzierebbe la potenza originaria, togliendole la possibilità di non essere.
Le lettere smarrite descritte nella parte conclusiva del racconto
rappresenterebbero le svariate possibilità di ciò che poteva essere: le tante
potenze che potevano verificarsi in atto, ma che non sono state: le tracce di
varie occasioni che ci sarebbero state se le potenze si fossero affermate
divenendo atti. Per questo Bartleby, suggerisce Agamben, sarebbe un Cristo
venuto per redimere non ciò che è stato, ma ciò che non è stato.
Anche Klein, nell’indeterminatezza del foglio consegnato a Buzzati, si
costituisce come potenza: un’energia che, in quanto tale, ha potere di aver
fatto o di non aver fatto e, dunque, di fare e di non fare. Nell’impossibilità
di riscontrare questi atti realizzati, ossia queste opere immateriali vendute
nell’anonimato in luoghi e tempi sconosciuti, Klein non depotenzia la sua
energia artistica, lasciando aperta la possibilità che non abbia realmente
realizzato la sua potenza in un atto.
Yves Klein, ex-voto di Santa Rita da Cascia (1961)
Certo, esiste la possibilità che questo foglietto sia l’invenzione della fervida
fantasia di Buzzati. Se così fosse saremmo comunque perfettamente in linea con
una funzione-Klein: ci muoveremmo dentro quello spazio a cui si giunge quando un
autore tenta di sviluppare quel che nell’opera di un altro autore è rimasto non
detto (o non fatto). Quello spazio in cui – lo stesso Agamben lo ha più volte
indicato – non si sa più se quello che si trova appartiene a un autore o
all’altro. Che questa del biglietto sia un’invenzione di Buzzati o di Klein
importa relativamente. Qui, in questo foglietto di fatale nichilismo, troviamo
il punto estremo di una tendenza di attacco all’opera d’arte come ente, il punto
oltre al quale non è possibile procedere. Si trattava, come scrisse Buzzati, del
massimo capolavoro di Klein, «fatto esclusivamente di vuoto, il vuoto di cui
egli era signore». Oltre questo punto, la morte: improvvisa e misteriosa,
all’età di 34 anni.
Antonio Soldi
*In copertina: Yves Klein fotografato da John Hammond nel 1961
L'articolo Yves Klein, il niente e la potenza. Piccolo discorso sul Bartleby
della storia dell’arte contemporanea proviene da Pangea.
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Eccoci qui, ancora soli. Queste parole, con cui Céline apriva il suo romanzo più
intimo e sofferto, riempiono l’ideale esergo di ogni fotografia di ritratto. Ci
guardiamo in queste foto come in strani specchi, incuriositi da un’immagine che,
pur appartenendoci, sembra sempre un po’ troppo estranea. Il volto si staglia
nella fotografia, intorno non c’è rumore e lì, inappellabili, restiamo soli con
noi stessi. Con indifferenza o curiosità, oppure non senza una certa amarezza,
ci rendiamo conto di come, nonostante tutto, siamo ancora soli.
*
Guardarsi nelle proprie fotografie può essere un’esperienza spaesante e
malinconica. Le righe che seguono costituiscono un commentario a due foto che mi
ritraggono e, soprattutto, alla produzione dei fotografi che le hanno scattate.
Sono ritratti contingenti, frutto di assolute accidentalità. Mai cercati e mai
voluti, eppure, poi, accettati senza riserve, apprezzati come ineludibili
attestazioni di me. Divertente l’episodio in cui Ray Banhoff scattò la
fotografia: era la prima volta che lo incontravo, una mattina in uno squallido
bar di periferia nei pressi del casello di Chiesina Uzzanese – uno di quei
luoghi che lui ama tanto (li amo anche io). Mentre ci scambiavamo parole di
circostanza Banhoff si interruppe bruscamente. Fattomi cenno di aspettare, tornò
dall’auto con la macchina fotografica e mi immortalò davanti a un androgino
bersaglio per freccette. Con Gianluca Vitelli fu diverso. La sua foto giunse al
termine di una preziosissima estate del 2019, in un verde prato fiorentino,
all’imbrunire. La sua foto sigilla un’amicizia che vale un tesoro. Un
commentario dunque: un commentario personalissimo e piuttosto incongruo (ma, del
resto, potrebbe essere altrimenti?).
G. Vitelli, Ritratto di anziana signora ricoverata presso un centro per disturbi
cognitivi e demenze di Toronto, 2013. Courtesy: Gianluca Vitelli
Nelle fotografie la nostra immagine è mediata dal modo in cui il fotografo ci
vede: da come egli pensa che siamo, oppure da come egli vuole che siamo. Ci
vediamo attraverso di loro, osservando il prodotto della loro sensibilità che, a
sua volta, riflette la nostra più o meno consapevole forza di azione sull’altro.
Se non fosse già abbastanza, ci sarebbe anche da considerare la parte di mistero
che attiene allo strumento. Esso, nel suo imponderabile inconscio macchinale, ha
delle ragioni che non possiamo comprendere. Prima di continuare un’avvertenza:
sarebbe facile pensare a queste righe, con cui un autore commenta le foto di cui
è ritratto, come a un esercizio di narcisismo. Il narcisismo, almeno qui, non
c’entra: Montaigne lo indicava limpidamente scrivendo che l’uomo che conosceva
meglio era sé stesso e, pertanto, di sé stesso si sarebbe spesso occupato. In un
perverso classico del post-strutturalismo francese si legge che non serve
arrivare al punto in cui non si deve più dire “io”, ma bisogna raggiungere
quello spazio in cui non ha più nessuna importanza dire o non dire “io”. A volte
questo sì che sarebbe il massimo.
*
Dei due ritratti, quello scattato da Gianluca Vitelli è il più datato anche se,
in fondo, non si tratta che di pochi anni. Il cambiamento fisico non riflette
che una minima parte di quello interiore occorso dal giorno della fotografia a
oggi. Vitelli è un fotografo sensibile e raffinatissimo che nel 2013, appena
diciottenne, presentò un servizio su un gruppo di pazienti malati di
Alzheimer. Sono foto meravigliose di cui nel genere non si trova l’eguale:
un’anziana signora, una delle pazienti ritratte, ci guarda rigorosa e profonda,
in tutta l’irriducibile dignità del suo essere donna. Su questa autorevolezza la
malattia non può niente. Nel volto di un uomo, invece, ci commuove uno sguardo
ingenuo e vago, e nasce il sospetto che lì ci sia una quiete che la condizione
di normalità preclude.
G. Vitelli, Panoramica realizzata per Ellen Allien al Galactica Festival di
Bologna, 2019. Courtesy: Gianluca Vitelli
Quando Vitelli fotografa la città la rende tenera o spietata, felice o
malinconica, luminosa od oscura – sempre silenziosa, però. Talvolta ce ne
presenta il lato più autentico: un’essenza urbana pura, lo spirito di cosa una
città dovrebbe essere se non fosse quello che è costretta a diventare. In queste
fotografie Vitelli prende il mistero celato nella quotidianità più spontanea,
dove le persone immortalate hanno il fascino di magnetici divi dello schermo (è
sempre così per chi sa guardare veramente). Talaltra, invece, la città diventa
un luogo affascinante e lievemente sinistro: è l’altra faccia della realtà
urbana, quando cala il buio e le strade si popolano di spettri. In queste
fotografie il tempo è sospeso e non è difficile ritrovare l’atmosfera della
pittura di Hopper. Negli scatti ai grandi eventi musicali, invece, Vitelli
restituisce un mondo fantasmagorico e febbrile dove effetti di luce, giochi di
fumo e scenografie tecno-barocche creano un futuro capriccioso e ipnotico. Qui,
dove saremmo portati a credere che essa fosse più trattenuta, la fantasia del
fotografo esplode, immortalando mondi impossibili di luce e di
sogno. Diversamente dal caso di Banhoff, con Vitelli ci conosciamo profondamente
e siamo uniti da un’amicizia che dura da circa venticinque anni. Anche in forza
di questo legame non è un caso che nella sua foto mi riconosca come poche altre
volte mi è capitato. Nel ritratto di Vitelli mi vedo giovane e soddisfatto. Non
indosso gli occhiali: gli occhiali ti separano dal mondo, ti costringono a
guardare tutto da un oblò e finisci per sentirti un po’ più solo. La foto di
Vitelli mi fa pensare che sarebbe bello essere giovani per sempre.
G. Vitelli, Ritratto di bimba a Cascia, 2015. Courtesy: Gianluca Vitelli
*
Per quanto la parola possa oggi sembrare insignificante, Ray Banhoff è un vero
artista. Lo è in un senso concettuale per cui di artistico, più che le foto in
sé, è l’operazione che lui fa con i suoi scatti. Banhoff si interessa al
margine, a ciò che è periferico. Luogo di provincia o grande città, è
consapevole che, prima di un dato meramente territoriale, la periferia è una
condizione dello spirito. In un certo senso la sua è un’operazione di recupero:
il tentativo di far resistere ciò che è minimo, bizzarro, anacronistico,
inclassificabile e inassimilabile. Dare magistero a ciò che la società esclude,
relega ai margini e rifiuta; oppure a ciò che fagocita e, vergognandosene, tenta
di nascondere. Si tratta di un’operazione epidermica, condotta senza retorica o
compiacimenti nostalgici. Inoltre, pur riconoscendo quanto l’estetica dei
Novanta lo abbia segnato, gli faremmo un torto a considerarlo perso in uno
sguardo esclusivamente retrò e predigitale. Banhoff è perfettamente ricettivo
rispetto alla cultura pop più contemporanea. Capisce il presente come pochi
altri e, perciò, talvolta lo rifiuta disgustato.
Per uno strano transfert Banhoff diventa egli stesso il perfetto soggetto di una
foto alla Banhoff. Del resto, anche fisicamente è un po’ un’opera d’arte, con
quell’assurda Facies Christi che si ritrova e di cui è perfettamente
consapevole, tanto che in un suo progetto sui sosia si è ritratto come doppio di
Gesù. Di vero artista, oltre al talento, ha anche la personalità: mercuriale,
egocentrico, eccentrico per snobismo e snob per eccentrismo, irresistibile e
insopportabile. Insopportabile: come quando a Cremona, interrompendomi
continuamente, ha impedito la mia relazione su Spengler, mancando di rispetto a
me, a Spengler, e alla memoria di mio nonno Guido che negli anni Trenta si
laureò con una tesi sul Tramonto dell’Occidente.
Ray Banhoff, DJ Franchino con canino, 2020. Courtesy: Ray Banhoff
Le sue foto sono importanti per la vita che custodiscono. In ogni suo ritratto
il miracolo dell’uomo, nelle sue bassezze e nelle sue ferite, ma anche nella sua
impensabile e assurda unicità. Dietro a ogni foto un pezzo di quell’anima
incompresa, commossa, consumata, derisa, ma sempre grandiosa, grandiosa e
definitiva come soltanto l’anima dell’uomo può essere. Banhoff ha ritratto molte
celebrità. Celebrità di un tipo particolare però e, anche in questo caso, si è
spesso rivolto alla periferia del mondo dello spettacolo, con i suoi freaks più
discussi e vilipesi. Lo scatto a Fabrizio Corona è kitsch fino al sublime, in un
ribaltamento per cui la volgarità viene trasfigurata. Corona, a petto nudo e con
l’espressione di una carpa giapponese, si punta, languido, un cafonissimo
pugnale alla gola. Il fotoritratto di Franchino è commovente, con il vecchio
vocalist, fragile e remoto, con la faccia malsanamente scavata e il suo amato
cagnolino in braccio. Dietro si intravedono cuffie e consolle, i ferri del
mestiere. Morgan, invece, lascia che la sigaretta che tiene in mano si consumi
lentamente, e ci guarda con due occhi come quarzi marroni, occhi buoni e
vagamente tristi. Ma Banhoff non si interessa solo a personalità ampiamente
riconosciute, e il meglio lo dà quando sceglie i suoi soggetti tra la gente
comune, come nel progetto sui sosia dei divi dello spettacolo, stanati in
improbabili locali di frontiera o in paesini sperduti nella Toscana più
squallida. Sono sosia speciali che, come precisa Banhoff, devono incarnare il
loro archetipo e non semplicemente somigliarci. Ma è sbagliato parlare di gente
comune: i modelli di Banhoff mostrano sempre una loro bizzarria, una fascinosa
singolarità, e di comune non hanno niente. Sono vip al contrario: sovrani senza
regni, divi in un mondo che non possiamo capire.
Banhoff sa benissimo che, come scrive il suo amato Bukowski, «il miglior
spettacolo sono le persone e non devi neanche pagare il biglietto». Per molti
aspetti la sua ricerca potrebbe essere avvicinata a quella di Juergen Teller, ma
con un senso di verità nettamente più profondo, una verità che non lascia
scampo. Compiaciuto di essere stato scelto, vengo alla mia fotografia dove,
suscitando lo sguardo spiritato, alzando il colletto della camicia e
costringendomi a una tensione particolare, Banhoff mi ha nietzschianamente
costretto a diventare ciò che sono, estraendo una componente aggressiva ed
elettrica. Il bersaglio alle spalle mi fa martire e carnefice. Qui mi vedo
pronto all’annientamento; risoluto fino allo schianto, con l’amaro nodo in gola
che precede il silenzio.
Ray Banhoff, Cacciatore con fucile Browning, 2015. Courtesy: Ray Banhoff
*
Non c’è due senza tre, e qualche giorno fa un terzo ritratto fotografico si è
aggiunto agli altri. È ancora presto per parlarne, e ancora devo capirlo. Ha
scattato Marco Onofri, un grande fotografo di ritratti. Ha fatto leva sulla mia
naturale vanità, lusingandomi con un’offerta che sarebbe stato sciocco
rifiutare: si è detto incuriosito dal mio collo molto lungo, cosa di cui non mi
ero mai accorto prima. E poi alcuni suoi ritratti fotografici appesi alla parete
erano troppo belli per sprecare un’occasione simile. Un grande fotografo come
lui è capace di far brillare qualsiasi soggetto.
Se la fotografia di Vitelli potrebbe rappresentare uno stadio di tesi, quella di
Banhoff, nella contrazione dell’istante prima di un’esplosione, ne sarebbe
l’antitesi. La fotografia di Onofri, almeno per ora, sarebbe la sintesi tra le
due fasi, nella determinazione di una maturità raggiunta e precaria.
Antonio Soldi
*In copertina: Ray Banhoff, “Antonio Soldi come bersaglio umano”, 2024.
Courtesy: Ray Banhoff
L'articolo Eccoci qui, ancora soli. Sul ritratto fotografico, rito violento e
inappellabile proviene da Pangea.
Li abbandonava dappertutto. Manoscritti dimenticati ovunque, quaderni dispersi
in polverose stazioni, fogli lasciati nelle stanze di squallidi ostelli. Il
vagabondaggio di Kenneth Patchen nell’America della Grande Depressione fu
un’esperienza intensa e totalizzante. Ovunque andasse, racconta la moglie
Miriam, «lui creava sempre», disseminava versi, irradiava il prodotto di
un’invincibile urgenza creativa. Dopo un periodo di studi all’Università del
Wisconsin nel 1929, Patchen, affascinato dalla storia di poeti come Walt Whitman
o Carl Sandburg, iniziò a viaggiare negli Stati Uniti vivendo dei lavori che la
provvidenza gli avrebbe offerto. L’incontro con quel mondo rurale, così
irrimediabilmente prostrato dalla crisi, fu determinante; la capacità di
setacciare la realtà alla ricerca di un tesoro nascosto, la potente
immaginazione e l’indiscutibile talento fecero il resto.
L’educazione di Patchen si svolse in un contesto di discreta povertà. Il padre,
Wayne, era impiegato nelle acciaierie di Youngstown. La madre, fervente nella
fede, diede al piccolo Kenneth una formazione cattolica. Il poeta patì la
violenza dell’industrializzazione nelle piccole città rurali dell’Ohio. Questo
disagio fu denunciato nei suoi versi, come nel componimento May I Ask You a
Question, Mr. Youngstown Sheet & Tube?, in cui leggiamo di «case sporche e
grigie, con le tende abbassate», del «fumo giallo-marrone che soffia
continuamente» e del «sapore di catrame in bocca». Dal 1937 un grave problema
alla colonna vertebrale costrinse Patchen a svariati interventi chirurgici,
esonerandolo dalle armi. Dopo un incidente in sala operatoria la situazione si
aggravò, costringendo il poeta a passare molto tempo steso su un letto.
Kenneth Patchen (1911-1972)
Patchen fu un convinto pacifista, risolutamente contrario all’entrata in guerra
degli Stati Uniti e, tra i molti riferimenti alle sue posizioni di obiettore,
spicca il romanzo sperimentale pubblicato nel 1941 e intriso di surrealtà e
pacifismo, The Journal of Albion Moonlight (probabilmente capitato nelle mani di
Bob Dylan). L’indifferenza che la critica accademica riservò a Pacthen fu
risarcita dal sostegno di figure come Robert Penn Warren, Richard Eberhart,
William Carlos Williams, Lawrence Ferlinghetti ed Henry Miller. Quest’ultimo,
nel saggio Patchen: Man of Anger and Light, descrive il poeta come un uomo
tenero e spietato al contempo, che ha la capacità di allontanare coloro che
cercano di aiutarlo: «un uomo inesorabile», che «non ha maniere, né tatto, né
grazia», «che non fa sconti e, come un gangster, segue un codice tutto suo».
La visione poetica di Patchen fu anche il frutto di una situazione culturale di
assoluta libertà da schemi e gerarchie. Le avanguardie avevano rotto il
cristallo che separava la sostanza artistica dalla banalità della vita più
ordinaria, e ora – anche se l’effetto, oggi lo sappiamo, non sarebbe durato che
pochi decenni – questa sostanza faceva brillare il mondo di una luce nuova. Così
come era possibile fare arte con qualsiasi cosa, era possibile fare letteratura
con qualsiasi immagine. Certo, questa semplicità non rendeva facile il lavoro
del poeta e Patchen era consapevole della precarietà su cui si muoveva,
sull’orlo dell’abisso della banalità, in bilico sull’unico piccolo punto da dove
è permesso spiccare il volo verso sublimi altezze. Significativo, in questo
senso, il divertimento con cui il poeta si descrive in Memorie di un pornografo
timido, scherzando sul rischio di un destino di opaca sciatteria:
> «E Patchen? – chiese lei con la matita pronta. – Ah, Patchen. Nessuno lo
> prende sul serio – disse uno di loro. – Patchen ha perso l’imbarco – disse il
> signor Brill –. Ha fatto lo sbaglio di credere che la poesia sia una specie di
> pattumiera dove si può buttare di tutto, e di sicuro parecchie volte ha
> passato i limiti».
In realtà l’equilibrista Patchen questi limiti non li superò mai. Come amano
ripetere le antologie, aprì la strada ai poeti della Beat Generation, con cui,
senza presentarne i tratti nichilistici e autodistruttivi, condivise il piglio
anticapitalistico ed eversivo (per inciso: difese pubblicamente Allen Ginsberg e
Lawrence Ferlinghetti nel processo per l’osceno poema l’Urlo). Decostruì il
romanzo, fu maestro nella poesia concreta, combinò letteratura e jazz in
singolari performance e sperimentò con scrittura e pittura – si vedano i
suoi Painted Books, che stupiscono per gli esiti tutt’altro che dilettantistici.
Memorabile, a sigillo del suo radicale sperimentalismo, il
componimento L’uccisione di due uomini da parte di un ragazzo in guanti giallo
limone, dove Patchen riesce nell’impresa di fare poesia con il nulla, con
l’attesa di qualcosa che deve succedere. Le parole non dicono niente, se non
trasmettere la forza di un’azione subitanea; l’immaginazione deve intervenire,
ricamando sulla bizzarra informazione di un assassino «in guanti giallo limone».
Negando ogni riferimento, si negava l’atto stesso del fare poesia. Più o meno
consapevolmente, Patchen si stava muovendo sullo stesso impervio sentiero di
certa pittura astratta e, forse, non è improprio avanzare un paragone con
i tagli di Lucio Fontana e con il gioco di attesa e azione che essi
presuppongono.
Attingere agli strumenti della quotidianità, si sa, non esclude la forza di
visioni di profonda suggestione. Come nella sua più bella poesia, La
ventitreesima strada porta al Paradiso, in cui la città, stanca, verso sera
dischiude il suo segreto, proiettando il poeta in una realtà parallela di
altissima purezza. Proprio lì, nel mezzo della tetra atmosfera di una città nel
«Sabbat prima della cena», tra il miagolio di gatti randagi e il fastidio degli
strilloni per strada, gli amanti sono «per un po’ al sicuro, salvi fino a
domani». Gli amanti consumano una cena frugale e sono meravigliosi. O ancora
in La scuola all’angolo della strada, in cui l’inquietudine del memento
mori scende tra un gruppo di giovani. Guardando le ragazze di passaggio e
bevendo gin scadente, i giovani se ne stanno nello squallore dei loro giorni
vuoti, aspettando che il tempo ricopra d’erba le loro tombe. I ragazzi,
«sonnambuli in una terra buia e terribile, dove la solitudine è un coltello
sporco alla gola», dissipano i propri anni, sotto l’indifferente sguardo di
«stelle fredde e puttane».
Non di rado, la visionarietà della poesia di Patchen porta a furiose accensioni,
ed è allora che i versi si infuocano di toni cosmici che ricordano le più
riuscite prove di Dylan Thomas. È quanto accade in Finché il sole spenderà
ancora il suo favoloso denaro, «in cui il succo fumante dell’universo» si
riversa «come il cervello spaccato di Dio», in un’oscura consacrazione finale;
oppure in Accettiamo la pazzia apertamente, in cui il tempo del poeta, che è
il nostro tempo, si trascina «dentro la dimora serrata dell’eternità». Non c’è
possibilità di salvezza e il componimento, di titanica disperazione, si chiude
nella visione di una «marcia palude di enormi aride tombe» che abita le nostre
teste.
Quando Patchen era ancora adolescente, la sorellina Kathleen fu investita da
un’auto. La sua morte fissata in versi commoventi e terribili:
> “Com’è commovente il suo sonno.
> Ora il suo limpido respiro è immobile.
> Nulla cade stanotte,
> Uomo o uccello,
> Più caro di lei.
> Nessun luogo dove debba andare
> Senza di me. Niente se non il mio richiamo.
> Oh niente oltre al freddo lamento della neve”.
La perdita della sorella non fu mai del tutto superata. Oltre a questo, la
madre, Eva, a lungo aveva desiderato che il figlio Kenneth si facesse prete.
Antonio Soldi
*
Notte, sii musica
Notte, sii musica
Affinché il suo sonno possa errare
Dove gli angeli hanno i loro alti cori bianchi
Mare, sii una mano
Affinché i suoi sogni possano osservare
Il tuo esploratore che tocca la verde pelle del mondo
Cielo, sii una voce
Affinché si possano contare le sue bellezze
E le stelle piegheranno i loro volti silenziosi
Nello specchio della sua grazia
Terra, sii una strada
Affinché il suo passo possa condurti
Dove le città del paradiso innalzano le loro vive guglie
Dio, sii un mondo e un trono
Affinché la sua vita possa trovare il suo momento
E le anime di antiche campane in un libro per bambini
Possano guidarla nella Tua casa meravigliosa
*
La scuola all’angolo della strada
Il prossimo anno ci coprirà l’erba della tomba.
Ora stiamo in piedi e ridiamo;
Guardando le ragazze che passano;
Puntando su lenti cavalli; bevendo Gin scadente.
Non abbiamo niente da fare; nessun posto dove andare; nessuno.
L’anno scorso era un anno fa; niente di più.
Non eravamo più giovani allora; né ora siamo più vecchi.
Riusciamo a mantenere un aspetto da giovani;
Dietro le facce non sentiamo nulla, in un modo o nell’altro.
Probabilmente non saremo del tutto morti quando moriremo.
Non siamo stati mai niente per tutto il tempo; nemmeno dei soldati.
Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati.
Sonnambuli in una terra oscura e terribile,
Dove la solitudine è un coltello sporco alla gola.
Stelle fredde ci guardano, amico,
Stelle fredde e le puttane.
*
Per Miriam
Oh mio tesoro
Finché il sole spenderà ancora il suo favoloso denaro
Per i regni nell’occhio di un folle,
Continuiamo a sprecare le nostre vite
Gridando bellezza al mondo
E continuiamo a lodare verità e giustizia
Sebbene gli occhi delle stelle diventino neri
E il succo fumante dell’universo,
Come il cervello spaccato di Dio,
Diluvi su di noi in una consacrazione finale.
*
La Ventitreesima Strada porta al Paradiso
Stai vicino alla finestra mentre le luci lampeggiano
Lungo la strada. Da qualche parte un tram, che porta
a casa commesse e impiegati, sferraglia attraverso
Questo Sabbat prima della cena. Un gatto in un vicolo piange
Per i cassonetti trovati chiusi; gli strilloni
Iniziano il loro giro di omicidi-a-penny.
Siamo chiusi dentro, al sicuro per un po’, salvi fino a
Domani. Ti sfili il vestito, abbassi
Le calze, attenta a non smagliarle. Nuda ora,
Morbida luce su morbida pelle, ti fermi
Per un momento; ti volti e mi guardi –
Sorridi come sanno solo le donne
Che sono state a lungo distese col proprio amante
Per uscirne più vergini.
La nostra cena è povera ma noi siamo meravigliosi.
*
Accettiamo la pazzia apertamente
Accettiamo la pazzia apertamente. Oh uomini
della mia generazione. Seguiamo
Le orme di questa macellata epoca:
Guardatela trascinarsi per la cupa terra del Tempo
Dentro la dimora serrata dell’eternità
Col rumore che ha la morte,
Col volto indossato dalle cose morte –
Né mai diremo
Volevamo di più; cercavamo di trovare
Una porta aperta, un completo atto d’amore,
Che trasformasse la maligna oscurità del giorno;
ma
Noi trovammo tanto inferno e nebbia
Sulla terra, e dentro la testa
Una marcia palude di enormi aride tombe.
*
Dobbiamo essere lenti
Perché io e te siamo lavati nel silenzio:
Qui dove la campagna tutt’intorno
È silenziosa; assopita nella tenerezza
Di questa stella della sera; scintillante
Al polso della notte. Le luci del paese,
Come antichi bardi in preghiera, vengono
A noi dolcemente su campi germoglianti di grano
E docili pecore. Vorremmo far parte
Di questo luogo, dove il sonno non è quello della città,
Dove il sonno è pieno e lieve e intimo
Come il profilo di una foglia in un bicchiere di tè; ma
La conoscenza nel cuore di ognuno di noi
Ha dipinto occhi marci dentro
La testa: non abbiamo scelta: vediamo
Tutte le cose che piangono e i giorni volgari
Sopra questa umile terra, che mischiano
Clacson di Taxi e disperazione senza fine
Ad ogni paesaggio, qui, o ovunque.
*
I leoni di fuoco avranno la loro caccia
I leoni di fuoco
Cacceranno in questa terra nera
I loro denti strazieranno le vostre tenere gole
I loro artigli uccideranno
Oh i leoni di fuoco si sveglieranno
E le valli fumeranno della loro furia
Perché siete ammalati dello sporco del vostro denaro
Perché siete maiali che razzolate nella broda della vostra guerra
Perché siete meschini e subdoli e pieni del pus del vostro
assassinio ipocrita
Perché avete voltato le spalle a Dio
Perché avete sparso le vostre empietà ovunque
Oh i leoni di fuoco
Attendono nell’oscurità strisciante del vostro mondo.
E i loro terribili occhi vi osservano
*
Una buona giornata per un linciaggio
Gli agenti sembrano tristi vecchi giudici
In una strana corte. Puntano i loro musi
Al Negro che si muove a scatti nel cappio;
I suoi piedi si agitano come corvi sopra questi
Uomini onorevoli che ridono mentre soffoca
Non conosco questo nero
Non conosco questi bianchi
Ma so che una delle mie mani
È nera, e una è bianca. Io so che
Una parte di me viene strangolata
Mentre l’altra orrendamente ride.
Finché non cambierà,
Io per sempre ucciderò; e sarò ucciso.
Traduzione di Francesco Soldi
*In copertina: Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1966
L'articolo Kenneth Patchen, il poeta inesorabile, l’uomo “che non fa sconti e
segue un codice tutto suo” proviene da Pangea.