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Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori
Ho letto Non sono più uscita dalla mia notte, della Ernaux, del 1997, Rizzoli, “Nasconde le mutande sporche sotto il cuscino”, dopo aver letto Perdonami madre, di Chessex, del 2006, Armando Dadò editore, “Con tante donne ho provato presto cosa sia la noia. Con mia madre non mi sono mai annoiato”. E non è passato molto tempo dalla lettura di Patrimonio di Joseph Roth, del 1991, Einaudi. Libri di figli e figlie che scrivono, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione che la vecchiaia, tramite la malattia, ha impartito alle loro madri, ai loro padri.  Dei citati sono morti tutti tranne la Ernaux, che il prossimo settembre ne compirà ottantacinque. Ernaux e Chessex hanno avuto figli, Philip Roth no, comunque a quanto ne so nessuno ha scritto, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione impartitagli dalla vecchiaia, nessuno ha ricambiato il favore – Roth per lo più ne ha scritto da sé.  Mi interrogo sul valore estetico e formale del raccontare il lutto e tutto ciò che lo precede e il poco che ne avanza. Cosa raccontano questi libri, come lo raccontano? Nel caso della Ernaux il testo è dichiaratamente diaristico, non rifinito, non rilavorato, non riscritto ovvero mai scritto, come questo bastasse ad attestarne l’autenticità, la sincerità. Chessex dichiara di scrivere procedendo per cancellazioni, per insoddisfazioni,  > “Scrivo di mia madre e forse dovrei preoccuparmi, perché esplicitando la sua > figura rischio di farle perdere, dentro di me, l’altra sua figura, quella più > profonda, più segreta, impossibile da dire”.  Ernaux e Chessex scrivono consapevolmente male, per non perdere del tutto coloro di cui scrivono. Scrivono da impauriti. Roth in Patrimonio scrive benissimo. Al cospetto della morte dei genitori a codesti figli talentuosi si palesa la mortalità, il diventare i prossimi della lista. Sentono d’aver fatto il passo avanti verso l’umiliazione. A me non dispiace che abbiano reso materiale narrativo i loro lutti, che altro avrebbero potuto o dovuto farsene?, ma la prevedibilità dell’uso che ne hanno fatto. Dai e dai tutti accampano lo stesso alibi: scrivendo garantiscono più lunga vita ai morti nei ricordi degli altri, di chi li leggerà. Ne difendono il ricordo, ricordandone la condizione umana umiliata dinanzi alla malattia e alla vecchiaia. Chi legge, va da sé, non ne saprà nulla di questi padri morti e di queste madri morte. Avrà avuto a che fare con dei personaggi letterari, più o meno riusciti (riusciti, tramite espedienti narrativi opposti, sono il padre di Roth e la madre della Ernaux; la madre di Chessex non traspare, traspare solo Chessex che la piange devo dire chiassosamente, e non me l’aspettavo da uno scrittore laconico, luciferino e letale qual è nei suoi romanzi), e se proprio ricorderà qualcosa sarà il come sono stati scritti, ovvero il chi li ha scritti, certo non avrà memoria di loro in quanto ispirati a veri-papà e vere-mamme. Ovvero: si scriva della morte di mamma, della morte di papà, ma senza alibi, più ammettendo che è un’occasione che una scrittrice e uno scrittore non possono lasciarsi sfuggire quella di poter raccontare in presa diretta la morte della loro carne di provenienza. Nota sui tempi che corrono: la vita allungandosi ha questa controindicazione, si diventa orfani a un’età in cui fino a poco tempo fa si moriva a propria volta. La madre della Ernaux muore nel 1986, la Ernaux è del 1940. La madre di Chessex muore nel 2001, Chessex nasce nel 1934. Roth va verso i sessant’anni quando suo padre muore andando verso i novanta. In queste condizioni risulta inevitabile che assistendo ai propri genitori moribondi si sviluppi l’impressione di starsi allenando per prendersi cure di sé stessi, per prepararsi a un peggio migliorabile in nulla, soltanto anticipato. Nell’epoca della morte intesa come eccezione alla regola si muore più a lungo e più volte del solito.  Per convincermi, cioè per essere interessanti al di là del coraggio dimostrato di non indietreggiare dinanzi all’orrore della morte di chi ha dato la vita a chi quel morire lo racconta, le narrazioni che mi piacerebbe leggere sarebbero scritte da figli su genitori ancora in vita o, ancora meglio, da genitori su figli vivi. Altrimenti è troppo comodo prendersi l’ultima parola quand’ormai ci ha pensato la morte a toglierla a coloro su cui quella parola si abbatte, ritraendoli definitivamente. Mi piacerebbe leggere della vita non legittimata dalla morte, non autorizzata dalla morte. La vita legittima sé stessa, e la letteratura lo stesso.  Scrivere in memoriam mi sa di pigrizia artistica, se non di pavidità di mezz’età di un averla tirata lunga ad arte per averlo fatto diventare un troppo tardi messo a propria disposizione.  Dopodiché: d’accordo l’apparir del vero, ma la vecchiaia è giocoforza una storia di rimbambimento, di degenza, di demenza? Sarà stato per il suo involontario effetto di controcanto se per questo ho apprezzato le vecchie donne raccontate da Willa Cather nei racconti raccolti da Adelphi in La nipote di Flaubert, nel 2005.  A proposito di Madame Franklin-Grouth, nipote eponima, la Cather scrive:  > “A ottantaquattro anni aveva ancora una capacità di provare piacere che molti > a questo mondo ignorano del tutto.”  E più avanti, a proposito di Mrs Field “vedova di James T. Fields, della casa editrice Ticknor and Fields”: “Quella donna aveva un vero talento per la sopravvivenza.”  (In E Baci, del 2013, per Il Fatto Quotidiano,  è invece confluito il testo di Aldo Busi sul suo incontro con l’editore Giunti forse già ultraottantenne, sull’averlo trovato un uomo bellissimo, accompagnato dalla riflessione su come la bellezza, che in Busi è una questione di stile, del saper far stare in sintonia la propria forma e il proprio contenuto, sia ormai diventata inseparabile dal mito obbligato della gioventù, e se solo ai giovani è consentito essere belli ai vecchi non resta che essere i brutti delle storie – ma vado a memoria, non ho il testo a portata, l’ho portato in salvo chissà dove tra un trasferirmi e l’altro per sfuggire al bradisismo in corso e l’ho dunque perduto prima del tempo.) La Cather fa una premessa per i suoi scritti raccolti in La nipote di Flaubert: “il libro avrà ben poche attrattive per chi ha meno di quarant’anni”, intendendo chi ne avesse meno di quaranta nel 1922. Perché “verso il 1922 il mondo si è spezzato in due”.  > “Com’è avvenuto questo cambiamento, ci si chiede. […] Certo il mondo delle > lettere emerso dalla guerra ha cambiato conio. In Inghilterra e in America i > «maestri» del secolo scorso hanno perso le loro credenziali, diventando figure > remote e incerte.”  Il mondo contemporaneo, con le tragiche esperienze delle guerre mondiali, è andato in pezzi e la letteratura con lei.  La letteratura per come è stata scritta fino ai tempi della Cather non può più essere scritta così. Cos’è che è andato irrimediabilmente perduto, con lei? La Cather, sempre a proposito della nipote eponima:  > “Nella sua mente c’era una sorta di grande chiarore, come nello studio di suo > zio a Croisset, con la fredda luce stemperata del Nord che si riversava dalle > molte finestre.”  L’accenno al chiarore della Cather mi rimanda al chiarore secondo, Handke letto nel suo irripetibile romanzo La ripetizione, 1986, Garzanti:  > “Nelle storie che scrivevo a quel tempo, l’insegnante mi aveva spesso > rimproverato d’inclinare al macabro, anzi d’essere addirittura assetato di > tenebra e raccapriccio; la legge della scrittura, diceva, era invece quella di > creare, lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba, il chiarore dei chiarori; > perfino un ultimo respiro doveva farsi, nella forma, respiro di vita.”   In un mondo a pezzi la sfida della letteratura è replicare la spezzatura o, per usare il gergo di Antonio Moresco, osare e inventare una nuova forma inedita, una nuova unità che non nasca dalla repressione degli opposti ma dal loro convivere, per utilizzare la parola totem di Aldo Busi in Le consapevolezze ultime, 2018, Einaudi, la sua ultima parola scritta, per ora? Non ho nulla contro le mutande sporche di merda nascoste sotto al cuscino dalle madri con l’Alzheimer, ricoverate nelle apposite strutture ospedaliere, ad averne. Per quest’Italia sanremese ad oltranza, disperatamente mammista perché qualcuna che ti perdoni tutto ancora prima che tu lo commetta torna utile sempre, per la quale è addirittura un colpo al cuoricino digerire un Simone Cristicchi quando canta “Preparerò da mangiare per cena, / io che so fare il caffè a malapena”, ben vengano i seminari sulla vecchiaia altrui scritti da Roth, Chessex, Ernaux. Purché non ci si rassegni al macabro, alla tenebra, al raccapriccio. Purché si osi ancora il chiarore. antonio coda *In copertina: un quadro di Lucian Freud L'articolo Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori proviene da Pangea.
March 17, 2025 / Pangea