“Non si può proibire a un uomo di farsi una grande bambola di cera e di
baciarla” è scritto in Anna Karenina. È scritto in un certo punto del libro,
ambientato in Italia, dove si discute di tecnica pittorica, spesso confusa col
talento vero. Questa frase di Lev Tolstoj, libratasi chissà come dal dedalo
della mia memoria, mi è posata tra le righe mentre leggevo un altro romanzo,
ambientato nella Germania del 1918, però fresco di stampa: La bambolaia di
Giuseppina Manin (La Nave di Teseo, 2025). Il pittore austriaco Oskar Kokoschka
è reduce di guerra, dove per ben due volte è stato ferito, ma non così a fondo
come ora, per la terza volta e da una bella donna. Rischierebbe forse di
gettarsi sotto un treno come Anna, o, peggio, di fare il contrario, per la
disperazione di avere perduto l’amore della donna amata, “la ragazza più bella
di Vienna”. Alma Schindler è il suo nome da ragazza, poi Alma Mahler o Alma
Grupius o Alma Werfel, secondo il marito di turno, a suo genio, a seconda del
genio a cui ha fatto girare la testa, quello che le orbita più vicino, secondo
il tempo, relativo come il sesso e l’amore carnale, irresistibilmente da lei
attratto, come stabilito dalla legge della gravidanza universale. E inoltre le
conquiste che le vengono attribuite, con ammirazione o per invidia, tante da far
concorrenza al catalogo sbrodolato dall’invidioso Leporello nel Don Giovanni;
una per tutte: il pittore dell’Angelus Novus, Paul Klee, che la ritrae come
Giuditta che decapitò l’Assiro, e come Salomè che volle la testa di Giovanni il
Battista. Quindi non fa meraviglia che anche Oskar Kokoschka abbia perduto la
testa.
L’esito di un’ossessione può essere tragico. Ricordo che in prigione conobbi uno
scultore – di cui per pietà e pudore non faccio il nome – che giunse al punto di
uccidere la giovane donna che voleva lasciarlo, forse con ciò credendo di
legarla a sé per l’eternità. Ma grazie al cielo (nel quale c’è da credere ben
più che alla psicanalisi o all’autoanalisi), Oskar Kokoschka riuscirà a
liberarsi dal delirio per la donna idolatrata con una folle idea che però si
rivelerà la sua salvezza: farsene creare un idolo per davvero. Per questo
ricorre a Hermine Moos, un’artigiana di Monaco, dietro suggerimento di un’altra
bambolaia, Lotte Pritzel. A lei il pittore si presenta, durante un’esposizione
in una prestigiosa galleria d’arte. Qui la bambolaia si trova a disagio, si
sente ed è un poco emarginata nello spazio meno in vista, con la sua “arte
minore”, fra tanti talenti e giovani promesse.
Oskar Kokoschka appare sulla scena con sguardo allucinato. Parrebbe solo un
maniaco feticista, poiché, ancor prima di presentarsi, si mette a palpare e
frugare sino nelle intimità più profonde le bambole esposte all’attenzione degli
amatori ma anche dei guardoni. Poi, finalmente, si accorge dell’esistenza
dell’artista o artigiana, che invece ha subito riconosciuto il giovane ma già
celebre pittore. Lui le chiede di incontrarla in altro luogo e in questo nuovo
incontro le proporrà di ricreare il simulacro del suo perduto amore. Benché
stupefatta e riluttante, Hermine Moss alla fine accetterà di dare forma e
materia al sogno o incubo dell’artista. Seguiranno dodici lettere maniacali di
Oskar Kokoschka, disegni su disegni, ordini, più che suggerimenti, sui materiali
da impiegare, e minuziose istruzioni per il montaggio della bambola con le quali
si conferma un po’ il feticista della prima impressione.
La sua ossessione rischia di contagiare la povera Hermine Moss che forse si sarà
sentita trattata lei stessa come una bambola, anzi come uno di quegli automi che
andavano di gran moda nel Settecento. Per salvarsi vorrebbe rinunciare alla
folle impresa in cui è stata coinvolta. Con questa intenzione si reca dal dottor
Gerhard Pagel, un neurologo amico di Oskar Kokoschka, sorta di messaggero delle
sue fantasie, come il mitico ‘messaggero d’amore’, ma che si rivelerà anche per
lei un vero amico. Egli la convince a non arrendersi e a continuare
nell’impresa. Sarà ancora lui a stimolarla, più avanti, accompagnandola a trarre
ispirazione da La sposa del vento, il capolavoro di Oskar Kokoschka e insieme il
quadro perfetto della sua disperazione. Ma il primo incontro con il dottor Pagel
ha luogo nella cornice storica della Germania nel 1918: un quadro clinico, un
ospedale, un ricovero dei pazzi, tra i gemiti e i resti di una generazione
sconfitta, smembrata dalla guerra, dalla fame, dall’umiliazione, sofferente
nell’anima come nella carne, ma dove già opera l’oscura forza malvagia che è già
intenta a rimetterne insieme i pezzi in un nuovo mostro da rianimare, riarmare e
indottrinare. Basterà una sola generazione e andrà in scena il secondo tempo
della ‘guerra civile europea’, guerra che ancora una volta incendierà il mondo.
A me viene in mente il Frankenstein militarista che si è risvegliato in Europa
ai giorni nostri e va cantando: “All’armi! All’armi! All’armi siam sinistri,
persino più dei destri terrore dei zaristi! A morte i pacifinti!” Un mostro di
bassa fantasia che va arruolando tutte le teste d’Europa in una “coalizione dei
volonterosi”, coniando uno slogan non certo originale, dal momento che l’ufficio
propaganda di Bush junior lo usò per l’accozzaglia di paesi partecipanti alla
seconda guerra del Golfo. Ma al di là della digressione (le digressioni del
resto non mancano nello stesso romanzo e ci stanno bene, come il richiamo al
mito, da Pigmalione al Prometeo moderno), ritorniamo al tema conduttore.
La gestazione della bambola richiederà nove mesi e per Hermine Moss sarà un
dolore non solo il parto ma la separazione, come può accadere in certi casi con
l’utero in affitto, la grande conquista progressista del secolo che per il
genere umano rischia di essere più breve e micidiale del precedente. “Cara
signorina Moss, mi raccomando la parrucca…”, le scrive il suo
tormentatore. Così, per soddisfarlo, la bambolaia sacrificherà anche i capelli,
i suoi stessi riccioli, non riuscendo a trovare di meglio. E per cosa? La
rivelazione, il gran finale, lasciamolo al lettore del bel romanzo di Giuseppina
Manin, scritto in un modo che si legge d’un fiato e ti rimane nel cuore.
Mi prendo però licenza di svelare almeno la fine di tre esistenze. Hermine Moss,
la bambolaia, morì suicida un decennio dopo. Così si risparmiò la tragedia dei
suoi cari e della famiglia ebraica cui apparteneva. Se pianse, fu dal “seno di
Abramo”. Alma la Bella ariana invece morì a New York da vecchia navigata però
nostalgica, più che del Kaiser, d’un aspirante pittore che per disgrazia era
stato respinto per ben due volte dall’Akademie der bildenden Künste Wien. Forse
trapassò sognando d’essere la prima donna ammessa e ammirata dai guerrieri nel
Walhalla. Oskar Kokoschka, il pittore de La sposa del vento, il tormentatore di
se stesso e della bambolaia ebrea, riprese a dipingere e morì in Svizzera,
“sazio di giorni”.
Enzo Fontana
*In copertina: Alma, l’idolo di Oskar Kokoschka, in forma di bambola
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