> “Il sangue degli altri si sparge per terra.
> Io questa mattina mi sono ferito
> a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
> Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
> Oh povera gente, che triste è la terra!
> Non posso giovare, non posso parlare,
> non posso partire per cielo o per mare.
> E se anche potessi, o genti indifese,
> ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
> Potrei sotto il capo dei corpi riversi
> posare un mio fitto volume di versi?
> Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
> Mettiamo una maglia, che il sole va via”.
Con l’autore di questa poesia, Franco Fortini, un giorno di molti anni fa ebbi
occasione di parlare della sua Lettera agli ebrei italiani. Mi scappò persino
una battuta: “Come Paolo di Tarso!”. Fortini, Davide Maria Turoldo, Camillo De
Piaz e altri volonterosi venivano a incontrarci in una “casa del dolore”, me e i
miei compagni di ideali, di avventura e di sventura. Non ci parlarono mai da una
cattedra per riportarci alla ragione. Ci si parlava con franchezza.
Quel giorno, ad un certo punto, si parlò anche dei valori universali
dell’ebraismo di contro alla miopia degenerativa dei nazionalismi, cui nemmeno
quello ebraico fa eccezione, mentre dovrebbe, proprio in virtù della storia
dell’ebraismo e delle persecuzioni razziali. Si parlò delle allucinazioni
razziste e della pretesa purezza del sangue. Mi ricordai allora, e lo dissi, che
nelle arterie mi scorre lo 0 negativo, universalista fin nelle vene. Dissi ciò
che pensavo, ovvero che l’unico sangue puro è quello degli innocenti e che tutto
il resto, più o meno, col tempo si guasta.
Ci pensavo anche giorni fa quando, passando davanti a un’edicola, mi sono
imbattuto in un titolo grondante cattiveria e altrui sangue spruzzato in prima
pagina: Il circo di Gaza. Giganteggiava su un quotidiano nazionale, sempre uso,
più o meno come certi altri suoi simili, a lucrare e a sguazzare tra le altrui
lacrime, trattando le tragedie umane come burle, facendo sicuro affidamento
sulla stupidità dei suoi lettori, degni del circo massimo e del pollice
all’inverso. Osceno abuso della libertà di stampa! Ciò che riporto è solo un
piccolo esempio che però si inserisce a pieno titolo nella “storia universale
dell’infamia”, precisamente in quel capitolo in corso di svolgimento nella
striscia di Gaza.
Contro questa infamia, nel giorno in cui scrivo queste povere righe, nella
stessa Israele è in atto uno sciopero generale. In Israele comunque esiste e
resiste una opposizione a quell’infamia. Anche se è un’opposizione minoritaria,
per me acquista maggior valore. Scrivo e ribadisco la parola infamia nel preciso
significato etimologico del termine. Chi ha voluto e pubblicato quel titolo
derisorio della tragedia palestinese, ovviamente dirà che con il termine “circo”
intendeva smascherare i clowns della sinistra. Per quanto della sinistra siano
rimasti oramai più che altro dei giocolieri della parola, pronti a intrupparsi
(a parole) coi cavalieri teutonici, coi neonapoleonici e persino coi neonazisti
nella nuova crociata contro la Rus’ (come da plurisecolare tradizione, dal
medioevo ad oggi), il senso di quel titolo, come di tanti altri, è ben chiaro.
Chi lo ha voluto e pubblicato, in altri tempi, al tempo della svastica dilagante
e trionfante su tutti i fronti europei, avrebbe intitolato il suo commento Il
circo di Varsavia, in spregio al dolore e alle lacrime degli ebrei del ghetto.
Mi sono ritornate in mente le bestemmie pronunciate da un’eurodeputata, italiana
per nostra vergogna, che giorni fa, in un parlamento europeo semideserto – come
sempre quando si tratta dello sterminio dei semiti di serie b – in fin dei conti
giustificava l’uccisione dei bambini di Gaza in quanto “figli di terroristi”. In
altri tempi, gente della stessa pasta di quella degna rappresentante dei suoi
elettori avrebbe giustificato l’uccisione dei figli dei “perfidi giudei” fin
nella culla. Insomma, se credessi alla dottrina della reincarnazione, direi che
si tratta delle stesse anime nere ritornate dalle fogne dell’inferno a governare
“l’aiuola che ci fa tanto feroci”.
Però c’è di peggio delle anime nere. Ci sono le anime belle, benpensanti e,
peggio ancora, la massa amorfa delle anime indifferenti. Ci sono gli ignavi e
gli ipocriti, a cominciare dalla stragrande maggioranza dei leader europei,
della stragrande maggioranza dei direttori dei giornali e dei telegiornali che,
al massimo, blaterano ancora di “due popoli e due stati” e di riconoscimento
dello Stato di Palestina. Se fossero sinceri, per prima cosa dovrebbero imporsi
con tutti i mezzi di cui dispongono sostenendo almeno il diritto all’esistenza
in vita dei palestinesi; invece perlopiù biascicano e belano, codardi e timorosi
come sono soprattutto di urtare la “sensibilità” di forze, palesi e occulte, che
possono compromettere o addirittura stroncare la loro carriera. Si riempiono la
bocca di “valori europei” (quali? gli eurodollari? gli ideali o gli intascati?),
ma non rinuncerebbero a un mese di gratifica per tutto ciò in cui dicono di
credere. Però c’è dell’altro.
In un articolo che ho letto di recente, un giornalista-analista di notevole
intelligenza, di pasta ben diversa dal comune, suggerisce che la vecchia Europa,
coi suoi 450 milioni di abitanti (perlopiù sul viale del tramonto), si faccia
carico di accogliere un rifugiato palestinese ogni 10.000 anime, dal momento
che, se davvero si vuole uno stato, servono almeno dei sopravvissuti che lo
popolino. L’intenzione è sinceramente umanitaria, per quanto vi si potrebbe
rilevare qualcosa di inquietante: persino gli invasati coloni della Cisgiordania
accoglierebbero la proposta con grida di giubilo. Il trasferimento in Europa dei
palestinesi sarebbe certo meno doloroso della deportazione di due milioni di
persone in paesi già martoriati come la Libia, come il sud Sudan o come l’Uganda
(ancora l’Uganda, la terra vagamente promessa dai padroni dell’Africa orientale
al sionismo nascente!). Nello stesso articolo, il giornalista sostiene che
l’iniziativa potrebbe partire anche da un solo paese, ad esempio l’Italia, dando
comunque per scontata la reazione xenofoba che ne deriverebbe. L’Italia, anzi la
Padania, è infatti il paese che ha dato i natali all’illustre Salvini, il più
sfegatato fan del governo israeliano dai tempi del defunto senatore Spadolini,
quello che da giovine, al tempo in cui gli ebrei venivano sterminati, era un fan
repubblichino e, da adulto, un riciclato illustre leader repubblicano,
presidente del gran consiglio, uomo di grossa stazza morale, ecc. Di recente, il
caporale leghista, travestito da Golem di Padania, è stato insignito del premio
Italia-Israele 2025. Il cinismo di chi glielo ha assegnato va al di là di
qualunque commento. Insomma, non solo si vende un “mondo al contrario”, ma si
spaccia la storia al rovescio. Per cui è meglio non fare affidamento sull’Italia
per il soccorso ai palestinesi. Meglio però farebbe persino l’estrema destra
ebraica a non fidarsi dei Gasparri e dei Salvini, a parte il fatto che diffida
di chiunque.
A me invece è venuto in mente un altro paese che potrebbe e dovrebbe avviare
l’iniziativa di salvataggio dei salvabili. Quale? L’Inghilterra! Di recente il
premier britannico si è detto favorevole al riconoscimento dello Stato di
Palestina, dopo oltre un secolo dalla famosa Dichiarazione di quel lord che gli
irlandesi avevano appellato “Bloody Balfour!”, nome che i palestinesi non
smetteranno mai di benedire, se mai ne resteranno. Ma in attesa che lo stato
promesso ai palestinesi sorga non si sa dove e quando, dal momento che si tratta
di una promessa menzognera, l’Inghilterra potrebbe accogliere un ferito, un
bambino, e persino un moribondo ogni diecimila abitanti del Regno Unito.
Potrebbe incaricare il suo ministro degli esteri di formulare una dichiarazione
tipo quella che di seguito mi permetto di abbozzare:
“10 Downing Street, London…
Egregio Gran Muftì di Gerusalemme,
È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente
dichiarazione di sincero rammarico per i cent’anni di sciagure riversatesi su
generazioni di palestinesi a causa della lettera del 2 novembre 1917 del mio
illustre predecessore, lord Balfour, il quale, nel corso dell’odierna seduta
spiritica del gabinetto dei ministri, si è manifestato e ci ha dichiarato:
“Voglia il governo di Sua Maestà vedere con favore la costituzione nel Regno
Unito di un focolare nazionale per il popolo palestinese, e adoperarsi per
facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla dovrà
essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non
palestinesi nel Regno Unito, né i diritti e lo status politico dei palestinesi
nelle altre nazioni”.
Le sarò grato se vorrà portare la nuova dichiarazione Balfour a conoscenza
dell’Autorità nazionale palestinese, dichiarazione che è stata sottoscritta e
approvata dal governo di Sua Maestà al termine della stessa seduta spiritica.
Sinceramente suo…”
Una simile dichiarazione da parte dell’attuale segretario di stato per gli
affari esteri del Regno Unito, certo non potrebbe far risorgere i morti. Non ci
sono parole che possano compensare cent’anni di sofferenze causate dalla
dichiarazione di un lord a cui non importava né degli ebrei né dei palestinesi,
se non come pedine della scacchiera coloniale. Balfour, infatti, scrivendo al
barone Rothschild, il gran signore della finanza, non era certo mosso dalla
compassione per i poveri ebrei che erano giunti e che sempre più, nei neri anni
a venire, avrebbero cercato di raggiungere anche l’Inghilterra fuggendo dalle
persecuzioni nell’Europa orientale. (Consiglio ai lettori il monumentale
libro-testimonianza di Jeffrey Veidlinger, professore di Storia e Studi giudaici
presso la University of Michigan: L’Olocausto prima di Hitler. 1918-1921. I
pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei, Rizzoli,
2023) No, dei poveri lord Balfour voleva solo liberarsi, come l’illustre
economista Robert Malthus. Ovviamente c’erano altre ragioni di dominio
coloniale, ma una delle principali era quella di dirottare l’emigrazione ebraica
verso una terra dove potesse servire allo scopo. Insomma, se al mondo ci fosse
anche solo un briciolo di giustizia, il governo britannico, i popoli britannici,
come riparazione dovrebbero essere i primi ad accogliere i palestinesi a braccia
aperte. E invece… Ho cominciato con le parole di Franco Fortini e concludo con
le parole del pastore luterano di Betlemme, Munther Isaac, pronunciate nella
predica di Natale dell’Anno Domini 2023:
> “Noi palestinesi ci risolleveremo, l’abbiamo sempre fatto,
> anche se questa volta sarà più difficile.
> Non so voi però, voi che siete rimasti a guardare
> mentre ci sterminavano.
> Non so se potrete mai risollevarvi.”
>
> Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, Fazi Editore, 2025
Enzo Fontana
*In copertina: un’opera di Otto Dix
L'articolo La storia al rovescio. Ovvero: proposte per una nuova “Dichiarazione
Balfour” proviene da Pangea.
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Gli editori hanno avuto un’indubbia influenza sulla mia vita, in un modo o
nell’altro. A Milano, molti anni fa – e sono davvero molti – mi ritrovai a cena
con due amici e un alto funzionario della narrativa Mondadori. Questi amici che
intendo ricordare erano lo storico del cristianesimo Remo Cacitti e l’editore
Mario Guaraldi. L’uso dell’imperfetto è d’obbligo, poiché Remo è passato dal
tempo all’eterno il 3 marzo 2023, Mario ha intrapreso lo stesso viaggio lo
scorso 2 febbraio.
A quella sorta di convivio pensavo lo scorso 2 febbraio viaggiando verso Rimini,
dove il più lungimirante editore che io abbia conosciuto, Mario Guaraldi, stava
morendo. Di lui scrisse allora Davide Brullo qui su Pangea. Non mi soffermerò
quindi su ciò che è già stato scritto, e “con miglior plettro”. Ricorderò solo
qualcosa di quell’episodio dove Remo e Mario si incontrarono per la prima ed
ultima volta, poiché in seguito non ci sarebbe stata un’altra occasione.
Quella sera io avevo letteralmente le ore contate, nel senso che dovevo fare
rientro da una certa licenza (niente affatto poetica!) entro la mezzanotte, come
Cenerentolo, poiché a quell’ora finiva l’incantesimo della libertà. Si parlò di
molte cose, ed io, come al solito, più che alto rimasi ad ascoltare. Ma ad un
certo punto si fece il nome di Tolstoj, e qui trovai la forza di vincere la
timidezza. Parlai di Guerra e Pace, che avevo letto e riletto, in vari momenti
della mia vita, persino in francese e in inglese (conservo le edizioni Gallimard
e Collins), non avendo potuto leggerlo in originale. E, in particolare, mi venne
in mente e parlai di quelle che stimo alcune tra le più ispirate pagine della
letteratura universale: quelle della morte del principe Andrej. Pagine che –
chiunque le abbia lette – difficilmente può dimenticare. Ricordate, lettori?
Ferito nella battaglia di Borodino, il principe Andrej Bolkonskij viene
trasportato via da Mosca e una notte, in una isba, mentre la sua amata e
ritrovata Natascia lo veglia al lume di candela, in apparenza concentrata a far
la calza, egli si assopisce e sogna. Sogna una “cosa” che vuole entrare nella
stanza, e lui che la teme, però si sente impotente di fronte ad essa. Scende
giù dal letto e striscia sino alla porta e cerca di impedirglielo. Ma “quella
cosa” sembra onnipotente mentre l’energia vitale del principe Andrej è al
lumicino. Così la porta cede alla forza e “quella cosa” entra nella stanza e si
disvela: è la morte. Ma in quello stesso istante, il principe Andrej apre gli
occhi e intuisce che la morte è un risveglio.
Voglia Dio che lo stesso sia accaduto alle anime generose di Remo e Mario.
Ricordo che quella sera milanese l’editore Guaraldi sfogliava un post-libro che
aveva pubblicato col titolo Due viaggi di Ulisse. Conteneva un mio breve
racconto seguito dalle due versioni del viaggio: Pound che omaggia Dante col
XXVI canto dell’Inferno, dopodiché questi gli recita la versione contenuta
nei Cantos. Mario aveva voluto dedicare questo reciproco riconoscimento poetico,
non solo immaginario, alla figlia di Pound:
> “Si ringrazia Mary de Rachewiltz per essere stata al gioco di questo ideale
> dialogo fra Dante e Pound”.
L’alto funzionario intanto sembrava sorpreso (glielo leggevo nello sguardo) che
uno con la mia storia, un “ex combattente e reduce” della sinistra più
guerrigliera e sinistrata, potesse provare empatia per uno scrittore che – di
certo a sua insaputa (!) – era diventato l’icona dei buzzurri di Casa Pound.
Mario mi liberò dall’imbarazzo dicendo che io i Cantos li avevo letti e
apprezzati per davvero e che Mary de Rachewiltz non vedeva l’ora di liberare il
nome del padre incatenato in quella casa di tortura. (A tal fine, anni dopo Mary
de Rachewiltz avrebbe intentato persino una causa legale.) Remo Cacitti
intervenne ricordando un memorabile incontro che Pier Paolo Pasolini aveva avuto
nel 1968 a Venezia col grande vecchio e poeta maledetto.
Qui concludo il mio breve ricordo di quel convivio con i miei amici con poche
righe tratte dai Due viaggi di Ulisse.
> “Quando lo spirito di Ezra Pound dalla bella Venezia giunse al Limbo, qualcuno
> in cielo sentì una fitta all’anima. Era il suo pupillo T. S. Eliot, che in
> vita mortale gli aveva dedicato il poema La Terra Desolata: ‘Al miglior
> fabbro!’ Allora costui si alzò dal suo posto nella Rosa paradisiaca e si mise
> a girare tra gli altri beati con una petizione il favore dell’antico maestro.
>
> Anche Dante era pronto a firmare. Ma quando T. S. Eliot gli fu davanti rimase
> con la penna d’angelo sospesa in un dubbio, o forse era soltanto il desiderio
> di conoscere l’autore dei Cantos di Babele, prima di firmare per la salvezza
> della sua anima. Così decise e così si accinse a fare, dopo aver pregato
> l’Autore della vita affinché gli permettesse di lasciare il suo scranno per
> ritornare un poco nel Limbo dei sospiri. Poi che gli fu concesso, già esperto
> della strada in breve si ritrovò fra le tenebre dell’Inferno, nel primo
> cerchio: vide subito la ‘ghianda di luce’ dov’erano gli spiriti magni. Pound
> si aggirava nel settore orientale come Alice nel Paese delle meraviglie, a
> fare la conoscenza dei ricchi di scienza e arte…”
Enzo Fontana
L'articolo In memoria di due amici (e dell’incontro mistico tra Dante e Ezra
Pound) proviene da Pangea.
“Non si può proibire a un uomo di farsi una grande bambola di cera e di
baciarla” è scritto in Anna Karenina. È scritto in un certo punto del libro,
ambientato in Italia, dove si discute di tecnica pittorica, spesso confusa col
talento vero. Questa frase di Lev Tolstoj, libratasi chissà come dal dedalo
della mia memoria, mi è posata tra le righe mentre leggevo un altro romanzo,
ambientato nella Germania del 1918, però fresco di stampa: La bambolaia di
Giuseppina Manin (La Nave di Teseo, 2025). Il pittore austriaco Oskar Kokoschka
è reduce di guerra, dove per ben due volte è stato ferito, ma non così a fondo
come ora, per la terza volta e da una bella donna. Rischierebbe forse di
gettarsi sotto un treno come Anna, o, peggio, di fare il contrario, per la
disperazione di avere perduto l’amore della donna amata, “la ragazza più bella
di Vienna”. Alma Schindler è il suo nome da ragazza, poi Alma Mahler o Alma
Grupius o Alma Werfel, secondo il marito di turno, a suo genio, a seconda del
genio a cui ha fatto girare la testa, quello che le orbita più vicino, secondo
il tempo, relativo come il sesso e l’amore carnale, irresistibilmente da lei
attratto, come stabilito dalla legge della gravidanza universale. E inoltre le
conquiste che le vengono attribuite, con ammirazione o per invidia, tante da far
concorrenza al catalogo sbrodolato dall’invidioso Leporello nel Don Giovanni;
una per tutte: il pittore dell’Angelus Novus, Paul Klee, che la ritrae come
Giuditta che decapitò l’Assiro, e come Salomè che volle la testa di Giovanni il
Battista. Quindi non fa meraviglia che anche Oskar Kokoschka abbia perduto la
testa.
L’esito di un’ossessione può essere tragico. Ricordo che in prigione conobbi uno
scultore – di cui per pietà e pudore non faccio il nome – che giunse al punto di
uccidere la giovane donna che voleva lasciarlo, forse con ciò credendo di
legarla a sé per l’eternità. Ma grazie al cielo (nel quale c’è da credere ben
più che alla psicanalisi o all’autoanalisi), Oskar Kokoschka riuscirà a
liberarsi dal delirio per la donna idolatrata con una folle idea che però si
rivelerà la sua salvezza: farsene creare un idolo per davvero. Per questo
ricorre a Hermine Moos, un’artigiana di Monaco, dietro suggerimento di un’altra
bambolaia, Lotte Pritzel. A lei il pittore si presenta, durante un’esposizione
in una prestigiosa galleria d’arte. Qui la bambolaia si trova a disagio, si
sente ed è un poco emarginata nello spazio meno in vista, con la sua “arte
minore”, fra tanti talenti e giovani promesse.
Oskar Kokoschka appare sulla scena con sguardo allucinato. Parrebbe solo un
maniaco feticista, poiché, ancor prima di presentarsi, si mette a palpare e
frugare sino nelle intimità più profonde le bambole esposte all’attenzione degli
amatori ma anche dei guardoni. Poi, finalmente, si accorge dell’esistenza
dell’artista o artigiana, che invece ha subito riconosciuto il giovane ma già
celebre pittore. Lui le chiede di incontrarla in altro luogo e in questo nuovo
incontro le proporrà di ricreare il simulacro del suo perduto amore. Benché
stupefatta e riluttante, Hermine Moss alla fine accetterà di dare forma e
materia al sogno o incubo dell’artista. Seguiranno dodici lettere maniacali di
Oskar Kokoschka, disegni su disegni, ordini, più che suggerimenti, sui materiali
da impiegare, e minuziose istruzioni per il montaggio della bambola con le quali
si conferma un po’ il feticista della prima impressione.
La sua ossessione rischia di contagiare la povera Hermine Moss che forse si sarà
sentita trattata lei stessa come una bambola, anzi come uno di quegli automi che
andavano di gran moda nel Settecento. Per salvarsi vorrebbe rinunciare alla
folle impresa in cui è stata coinvolta. Con questa intenzione si reca dal dottor
Gerhard Pagel, un neurologo amico di Oskar Kokoschka, sorta di messaggero delle
sue fantasie, come il mitico ‘messaggero d’amore’, ma che si rivelerà anche per
lei un vero amico. Egli la convince a non arrendersi e a continuare
nell’impresa. Sarà ancora lui a stimolarla, più avanti, accompagnandola a trarre
ispirazione da La sposa del vento, il capolavoro di Oskar Kokoschka e insieme il
quadro perfetto della sua disperazione. Ma il primo incontro con il dottor Pagel
ha luogo nella cornice storica della Germania nel 1918: un quadro clinico, un
ospedale, un ricovero dei pazzi, tra i gemiti e i resti di una generazione
sconfitta, smembrata dalla guerra, dalla fame, dall’umiliazione, sofferente
nell’anima come nella carne, ma dove già opera l’oscura forza malvagia che è già
intenta a rimetterne insieme i pezzi in un nuovo mostro da rianimare, riarmare e
indottrinare. Basterà una sola generazione e andrà in scena il secondo tempo
della ‘guerra civile europea’, guerra che ancora una volta incendierà il mondo.
A me viene in mente il Frankenstein militarista che si è risvegliato in Europa
ai giorni nostri e va cantando: “All’armi! All’armi! All’armi siam sinistri,
persino più dei destri terrore dei zaristi! A morte i pacifinti!” Un mostro di
bassa fantasia che va arruolando tutte le teste d’Europa in una “coalizione dei
volonterosi”, coniando uno slogan non certo originale, dal momento che l’ufficio
propaganda di Bush junior lo usò per l’accozzaglia di paesi partecipanti alla
seconda guerra del Golfo. Ma al di là della digressione (le digressioni del
resto non mancano nello stesso romanzo e ci stanno bene, come il richiamo al
mito, da Pigmalione al Prometeo moderno), ritorniamo al tema conduttore.
La gestazione della bambola richiederà nove mesi e per Hermine Moss sarà un
dolore non solo il parto ma la separazione, come può accadere in certi casi con
l’utero in affitto, la grande conquista progressista del secolo che per il
genere umano rischia di essere più breve e micidiale del precedente. “Cara
signorina Moss, mi raccomando la parrucca…”, le scrive il suo
tormentatore. Così, per soddisfarlo, la bambolaia sacrificherà anche i capelli,
i suoi stessi riccioli, non riuscendo a trovare di meglio. E per cosa? La
rivelazione, il gran finale, lasciamolo al lettore del bel romanzo di Giuseppina
Manin, scritto in un modo che si legge d’un fiato e ti rimane nel cuore.
Mi prendo però licenza di svelare almeno la fine di tre esistenze. Hermine Moss,
la bambolaia, morì suicida un decennio dopo. Così si risparmiò la tragedia dei
suoi cari e della famiglia ebraica cui apparteneva. Se pianse, fu dal “seno di
Abramo”. Alma la Bella ariana invece morì a New York da vecchia navigata però
nostalgica, più che del Kaiser, d’un aspirante pittore che per disgrazia era
stato respinto per ben due volte dall’Akademie der bildenden Künste Wien. Forse
trapassò sognando d’essere la prima donna ammessa e ammirata dai guerrieri nel
Walhalla. Oskar Kokoschka, il pittore de La sposa del vento, il tormentatore di
se stesso e della bambolaia ebrea, riprese a dipingere e morì in Svizzera,
“sazio di giorni”.
Enzo Fontana
*In copertina: Alma, l’idolo di Oskar Kokoschka, in forma di bambola
L'articolo Oskar Kokoschka e la bambolaia. Ovvero: sul folle amore per Alma
proviene da Pangea.