> «E questo tema del doppio, questo tema amato e variato, delibato e citato,
> fosse una maschera di comodo per il vero tema: del triplo, del quintuplo, del
> millesimo e via?».
>
> (M. Mari, Locus Desperatus, Einaudi, 2024)
In questo breve passaggio il protagonista di Locus desperatus di Michele Mari ci
riporta alla ricorrente paura del doppio, fino alle estreme conseguenze di una
riproduzione seriale, forse infinita dell’essere umano.
Il tema del doppio, del sosia, del gemello malvagio, del doppelgänger uscito da
qualche dimensione parallela, da qualche Loggia Nera, è un tema su cui si è
scritto moltissimo (per uno studio significativo, si veda O. Rank, Il doppio,
SE, Milano, 2001). Incarna forse una paura atavica dell’uomo moderno, così
ossessionato dalla propria individualità, dal suo essere unico e irripetibile,
che inevitabilmente compare una figura identica in tutto e per tutto, ma con
scopi spesso ignominiosi, partorita dalla mente o da un luogo oscuro, pronta a
sottrargli proprio questa unicità.
Immagini riflesse nello specchio che si staccano e vanno per la loro strada; la
propria ombra venduta al diavolo che torna per prendere il nostro posto; l’uomo
nero di Esenin, riflesso dello specchio, che si accosta al letto del poeta per
torturarlo nelle ore notturne: da E. A. T. Hoffmann fino a David Lynch, ci
rendiamo conto che non si tratta di una tematica unicamente letteraria;
nonostante si tratti di una fantasia, anche se del tutto improbabile che questo
capiti nella realtà, l’apparizione di un altro uguale a noi rappresenta forse la
più grande delle paure dell’uomo moderno fino ai giorni nostri, e l’idea che
l’altro si nasconda proprio dentro noi stessi rende il tutto ancora più
inquietante. Se questo tema viene periodicamente riproposto in differenti
chiavi, è per via dell’abitudine che ha l’uomo di torturarsi mettendo in scena
le proprie paure al fine di esorcizzarle. Si può dire che l’uomo, spinto da una
morbosa curiosità, goda nel gettare uno sguardo nell’abisso, almeno finché dal
fondo non emerge un altro se stesso, uguale in tutto e per tutto.
Il più grande libro su questa tematica è probabilmente Il sosia di Dostoevskij.
In questo racconto seguiamo la vicenda del burocrate Goliadkin che, fin dalle
prime pagine, stenta a esistere.Quest’uomo si vergogna di tutto, in particolare
della sua presenza; vive in modo appartato, mai in vista; quando noleggia una
carrozza per fare bella figura si vergogna se qualche conoscente lo riconosce;
pensa di essere un uomo onesto e di agire onestamente, ma è il più malizioso di
tutti; è ossessionato da ciò che gli altri pensano o dicono sul suo conto;
spesso si lascia andare a fantasticazioni a tal punto contorte e articolate da
materializzarsi davanti ai suoi occhi, tanto da credere in una fitta
cospirazione ordita ai suoi danni, così machiavellica da prevedere l’uso
sfacciato di un suo sosia reperito chissà dove. Anche se per tutto il racconto
Goliadkin lotterà con le sue forze (davvero esigue e inconcludenti, a dire il
vero) contro questo sosia malvagio, è stato lui in primis a rinnegare se stesso,
a non voler essere riconosciuto; e tale opera di estraniamento giunge al culmine
dopo l’ennesimo momento di profondo imbarazzo in società, dopo essersi
intrufolato a un ballo al quale era stato rifiutato, e quindi ricacciato via in
malo modo.
Questo sosia si insinua nella sua vita timidamente, come un possibile alleato,
ma ben presto rivela la sua natura malvagia. Esso incarna tutte quelle
caratteristiche che Goliadkin disprezza negli altri: il doppiogiochismo, la
natura adulatoria, l’oscenità dei modi, ecc. E grazie a queste sue “doti” riesce
più simpatico ai superiori e agli amici di Goliadkin, tanto da prenderne
progressivamente il posto. In un certo senso, la mente di Goliadkin sembra aver
partorito questo sosia malvagio per giustificare il suo rigetto dalla società:
in parole povere, se loro non mi vogliono, è perché io sono un uomo onesto,
mentre la buona società ammette solo persone false e arriviste.
Goliadkin è ben più di un semplice nevrotico che naufraga nella follia, è il
prototipo dell’uomo del sottosuolo: egli odia la società, ma allo stesso tempo
odia esserne escluso. Il sosia è un vincente, possiede tutte quelle viscide
caratteristiche che gli possono garantire il successo e di cui Goliadkin è
sprovvisto. Infatti l’originale accusa la sua copia di volergli rubare il posto,
ma lui, quel posto, non ce l’ha e mai lo potrà avere. Non gli spetta. Diremo di
più: tutta la vicenda è lo stesso Goliadkin a portarla avanti, in più occasioni
si ripromette di far finta di niente, di lasciare che le cose facciano il loro
corso, di continuare la sua vita rettamente, ma non ci riesce. Sono cose che
capitano, capita di avere un sosia, non c’è niente di male, si ripete; ma
qualcosa di male c’è eccome, perché non si tratta di un sosia, ma di una parte
di sé. Insiste nel dirsi una persona onesta, “Pulito, retto, lavato, piacevole,
senza rancore…”, ma è colpevole di vedere il male in ogni persona che lo
circonda, dall’umile servitore al capo del suo dipartimento. Ai suoi occhi,
straccioni e Eccellenze, amici e nemici, fanno tutti parte dello stesso liquame
che trama alle sue spalle.
Dostoevskij sembra suggerirci che la natura stessa dell’uomo è duplice, fondata
su bene e male.Goliadkin, avendo la presunzione di mostrarsi per quello che è,
in tutta la sua sincerità, perde la sua maschera, gli si stacca letteralmente di
dosso e incomincia una vita propria (come fece a suo tempo il naso di Gogol’).
Forse perché è la società stessa, con i suoi inganni, le sue riverenze, le sue
meschinità, a esigere che gli individui indossino una maschera.
Ma diremo di più: Dostoevskij lascia intendere che vedere il marcio in ogni cosa
credendosi senza peccato, porta verso il baratro, a perdere se stessi. Non
riconoscere la propria fragilità, le proprie debolezze, porta l’uomo a credersi
un dio e quindi a perdersi.
Un altro grande esempio è quello offertoci da Saramago: in una Lisbona
contemporanea e affollatissima, dai tratti meno cupi della San Pietroburgo
innevata di metà Ottocento, ambienta il suo dramma sul sosia con L’uomo
duplicato. Qui non ci troviamo di fronte alla paranoia di un uomo meschino che
sfocia nella follia, ma di un fatto, se non reale, verosimile. Seguiamo
l’esistenza di un professore di storia dal non comune nome di Tertulliano Maximo
Afonso, il quale conduce una vita grigia e inespressiva; a dare una svolta a
questa quotidianità è una scoperta sconcertante: in un film per nulla famoso, di
quelli a scarso budget, scorge un uomo del tutto identico a lui. È una comparsa,
o fa piccole particine, ma è uguale a lui. Incomincia così una forsennata caccia
all’uomo (all’uomo uguale a sé) in mezzo a milioni di individui.
Anche in questo caso salta subito agli occhi la futilità del tutto, perché una
volta rintracciato quell’uomo completamente identico tranne che nel nome, non sa
bene cosa fare. Una volta scoperta l’esistenza di un doppio, che però non si
conosce, cosa impedisce al protagonista di continuare la sua vita come prima?
Perché deve assolutamente trovarlo e parlargli? E per dirgli cosa? La scoperta
di un sosia è una cosa senza senso che però rende la vita di prima insensata,
invivibile. Dirà che lo ha voluto rintracciare per semplice curiosità, ma allo
stesso tempo qualcosa di minaccioso si insinua fra i due uomini uguali. Nascono
pensieri morbosi e ossessivi, come quelli sulla morte:
> “Un uomo uguale a un altro, che importanza ha, se vuole che glielo dica
> francamente, l’unica cosa che in questo momento mi preoccupa per davvero è se,
> visto che siamo nati nello stesso giorno, in uno stesso giorno moriremo pure
> […]”.
In una brulicante metropoli contemporanea, la presenza di un sosia blocca la
vita di un uomo; non può esserci un altro come me, non deve esserci. Possono
esistere milioni di persone, miliardi, ma la presenza di qualcuno col nostro
stesso volto è inammissibile. Saramago mette così in scena l’ossessione per i
corpi, in particolare per il vuoto che li abita. Corpi che possono essere
riempiti con un altro spirito, un’altra vita, a piacimento. Corpi
intercambiabili perché contengono spiriti scialbi, grigi e del tutto simili,
ugualmente meschini. Se questi spiriti non fossero così aridi, verrebbe da
pensare, avrebbero le qualità necessarie per accettare un simile scherzo della
natura, girarsi dall’altra parte e passare oltre, ma non ci riescono, perché
posseduti dalla stessa smania di unicità delle loro fattezze. Come il
protagonista, anche il sosia incomincerà a sentire la necessità di un confronto,
di mettersi di fronte a questo essere uguale, anche lui per curiosità, dice, ma
finendo investito dal panico generato dalla perdita dell’unica cosa che per loro
conta: l’esteriorità.
Ma tanto in Dostoevskij quanto in Saramago, la paura del sosia non si limita
solo al caso specifico, ma nasconde infine una paura più raccapricciante: se ne
esiste uno uguale a me, perché non potrebbero essercene molti altri?
> “…a ogni battere del suo piede sul granito del marciapiede, saltava fuori come
> di sotto terra un altro uomo, identico, esattamente simile al signor Goliadkin
> ma repugnante per depravazione di cuore. E tutti costoro, copie conformi,
> subito, al loro comparire, si mettevano a correre uno dietro l’altro e, come
> una fila di oche, si snodavano in lunga catena arrancando dietro il signor
> Goliadkin senior, sicché non c’era modo di sfuggire a quelle copie, e al
> signor Goliadkin, degno del tutto di comprensione, mancava il fiato per il
> terrore… e alla fine comparve una paurosa moltitudine di copie perfette, tanto
> che tutta la capitale pullulava di queste copie”.
>
> (F. Dostoevskij, Il sosia)
Valerio Ragazzini
*In copertina: René Magritte, La reproduction interdite, 1937
L'articolo “Un uomo uguale a un altro”. L’eterno tema del doppio: da Dostoevskij
e Saramago a “Twin Peaks” proviene da Pangea.