Questa mattina, uscendo di casa, ho notato che c’era un topo, fermo sotto la
pioggia, in mezzo alla corte interna di casa mia. Credo fosse ferito, perché non
è scappato al mio passargli di fianco, e il pelo, fradicio di pioggia, era
sporco di sangue. Stava immobile in mezzo al cortile, solo inclinava la testa su
e giù, davanti a una pozza d’acqua e di sangue; ed era come se con quel
movimento esprimesse un lamento, o una richiesta di aiuto. Al vederlo gli sono
passata di fianco quasi di corsa, inorridita ed impietosita allo stesso tempo.
Ho pensato, come forse è probabile, che qualche gabbiano avesse tentato di
prenderlo, e che lo avesse ferito. I gabbiani, qui a Venezia sono una sorta di
piaga. Sono molto grandi, sempre in cerca di cibo. Più volte mi è capitato
vederli nutrirsi di topi, di pesci presi dalla laguna, o addirittura di
contendersi il corpo senza vita di qualche piccione. In Campo Santa Margherita,
a Venezia, dove abito, ce ne sono sempre moltissimi, soprattutto la mattina,
quando i pescatori allestiscono il banco del pesce. Spessissimo li vedo planare
dall’alto in direzione di qualche malcapitato turista – ignaro di questa assurda
problematica veneziana e strappargli dalle mani una fetta di pizza, o un
panino, o un gelato.
Superato il corpo del topo, uscita dalla corte interna sono sbucata nel campo, e
l’ho attraversato, per dirigermi verso la biblioteca. I gabbiani stavano sempre
lì appostati attorno al banco del pesce. Ce n’erano tre o quattro radunati in un
cerchio, tenevano le ali aperte come in posizione di sfida, e emettevano
quell’orribile e raggelante garrito che in continuazione si sente nel cielo
sopra Venezia. La loro vista e quel suono mi hanno gelata nel sangue, e sono
passata per il campo a testa china, camminando velocemente sotto la pioggia. In
quel momento il mondo mi è sembrato essere di un’ostilità fredda e inquietante,
ed era come se tutto mi fosse nemico, pronto a rapirmi.
Ieri sera invece, durante una delle mie solite camminate serali, avevo provato
tutto l’opposto. A un certo punto mi ero fermata, come spesso faccio, a bere a
una fontanella che si trova a un crocicchio di calli, subito dopo la basilica
della Madonna della Salute, la cui cupola troneggia sopra le case. Una di queste
calli è, piuttosto, un lungo viale che conduce verso la fondamenta, il cui
centro è occupato da un filare di alberi. Per tutto l’inverno, al passarci
davanti durante le mie passeggiate, li avevo osservati, tanto più perché a
Venezia la natura non si impone con forza, e si deve, mi pare, prestare una
certa attenzione per poterla notare. I rami di quegli alberi erano stati, per
tutto l’inverno, spogli, secchissimi e scuri. Ieri sera invece, dopo aver bevuto
alla fontanella, qualcosa mi ha spinta, chissà perché, ad alzare lo sguardo, e
ho notato che i rami avevano preso colore: erano di un marrone più chiaro, e
come più gonfi. Tutta la loro lunghezza era intessuta di piccoli germogli, di un
verde vivo ed acceso. Ho spostato lo sguardo dall’albero che avevo sopra la
testa, e ho osservato, in un solo colpo, tutti quelli che stavano in fila lungo
viale. Erano tutti così: vivi ed accesi allo stesso modo. Io, immobile e in
piedi di fronte a loro, mi sono immaginata la linfa che vi stava scorrendo
all’interno, la terra umida che li nutriva da sotto, e tutto un processo vitale,
invisibile e sconosciuto ai miei occhi, ma che segretamente si stava svolgendo
in quello stesso momento; e mi è sembrato che tutto l’universo, in quel momento,
lodasse e celebrasse la vita. Un profondo e solenne silenzio si è fatto strada
nell’aria, si sentiva solo lo scroscio lieve dell’acqua che dalla bocca della
fontanella cadeva di sotto. Poi, dalla basilica della Salute, un solo rintocco
di campana è suonato. Erano le otto.
A quel rintocco il mio animo si è ridestato dall’incantesimo in cui era caduto.
Sono tornata in me e ho ripreso la mia camminata. Camminando ripensavo a quel
passaggio di Guerra e pace che avevo letto la sera prima, in cui il principe
Andrèj attraversa in carrozza il bosco di betulle che fioriscono in primavera, e
si riscopre incapace di apprezzare la sua armoniosa e celebrativa
bellezza. Nota, piuttosto, una vecchia ed enorme quercia, la cui oscurità si
impone in modo sgraziato nel mezzo del bosco, e pensa che solo lei, solo quella
quercia, ha capito cosa davvero è reale, e che con la sua bruttezza sembra
schernire l’ingenua gioia celebrativa delle betulle. Scrive Tolstoj:
> Sul ciglio della strada si ergeva la quercia. Era probabilmente dieci volte
> più vecchia delle betulle che costituivano il bosco, dieci volte più grossa e
> due più alta di ogni betulla. Era una quercia gigantesca, ci volevano due
> uomini per abbracciarne il tronco, con dei rami già da tempo spezzati, la
> corteccia strappata in più punti, segnata da antiche ferite. Con le sue rozze,
> enormi braccia e dita che si divaricavano sgraziatamente, asimmetricamente,
> essa si ergeva come un mostro vecchio, sdegnato e sprezzante tra le sorridenti
> betulle. Soltanto lei non voleva cedere alla seduzione della primavera, non
> voleva vedere la primavera, né il sole.
>
> “La primavera, l’amore, la felicità!”, sembrava dire la quercia. “Com’è
> possibile che non vi sia ancora venuto a noia questo sciocco, insensato
> inganno! È sempre la stessa cosa, ed è tutto un inganno! Non esiste la
> primavera, né il sole, né la felicità. Guardate questi morti alberi
> schiacciati, sempre solitari, guardate come anch’io ho disteso queste mie dita
> spezzate, scortecciate, dovunque siano cresciute, sul dorso o sui fianchi. Io
> sto sempre così come mi sono cresciute, e non credo alle vostre speranze ai
> vostri inganni.”
Ora, a scriver di questo, mi vengono in mente quelle parole di Pascal, che nei
suoi Pensieri scrive che nulla, nell’ordine dell’universo, permette di dedurre
l’esistenza o l’inesistenza di Dio. Tutto nella natura, sia umana che non, è
intriso di una rete inestricabile di contraddizioni, di miseria e grandezza. Una
mia professoressa, per spiegarci questo a lezione, ci riportava l’esempio di
Leopardi, il quale diceva che al guardare un bellissimo albero in fiore, nel
mezzo di un bosco, non ci accorgiamo che sul suo tronco magari si muovono e
proliferano migliaia di tarme, che divorano la sua corteccia e lo conducono
verso la morte. Niente del mondo o dell’animo umano garantisce per la
convenienza o meno di aver fede in Dio. Forse, semplicemente, non si deve aver
fede per convenienza, ma per speranza, per passione, e per amore.
Ieri sera però, nel dirmi così, mi sono anche detta che stavo facendo, di nuovo,
il medesimo errore di sempre, e che di nuovo pretendevo che quel sentimento
d’amore potesse bastare a se stesso, e darmi lui solo tutta la linfa vitale di
cui avevo bisogno. La verità però è che la vita costringe sempre alla verità di
una mancanza incolmabile, una malinconia, che si traduce in un nobile anelito di
ricerca, uno slancio verso qualcosa. Quel qualcosa credo sia il corpo. Di questo
credo d’essermene resa conto poco tempo fa, quando ho letto un passaggio de I
fratelli Karamazov in cui “I due fratelli fanno conoscenza”, e Ivan e Aleša
hanno quella lunga e bellissima conversazione, che avevo atteso fin dall’inizio
del libro. Al di là di ciò che vien detto in essa, una frase in particolare, al
termine della conversazione, mi aveva colpita. Sono le parole che Ivan rivolge
ad Aleša, quasi come una provocazione, dicendogli:
> “Ti ho portato alla mia confessione, perché essa serve soltanto a te. Non hai
> bisogno di Dio, hai bisogno soltanto di sapere come vive il fratello al quale
> vuoi tanto bene. E io te l’ho detto.”
Ed erano state queste parole, queste parole che ho segnato in corsivo, a
colpirmi violentemente, come una folgorazione. In quel momento ho avuto la
sensazione di capire ciò di cui forse, più di tutto, avevo sofferto per tutta la
vita. E quel qualcosa era la mancanza, nello sguardo degli altri, di Dio, e
dell’amore. È stato nel dirmi questo che ho capito, allora, l’importanza del
corpo, che non è altro che l’importanza degli altri, del loro amore, e della
storia; non è altro che la speranza che i propri desideri e speranze possano
prendere corpo all’esterno, e che non siano invece destinati a rimaner chiusi
nel proprio cuore. Forse, più semplicemente (ma non banalmente), è la speranza
d’essere amati, e non solo d’amare.
Cima da Conegliano, Incredulità di san Tommaso col vescovo Magno, 1505 ca.
Dicendomi questo, a quel punto, ero anche riuscita a spiegarmi un fatto che nei
mesi precedenti avevo notato, che mi aveva molto stupita, e che tuttavia non
riuscivo a comprendere. Notavo infatti che nell’approfondire lo studio del
quarto Vangelo (il Vangelo di Giovanni), come stavo facendo, la mia attenzione
si soffermava su certi passaggi, o su certi episodi, che avevano tutti in comune
una stessa caratteristica, ossia il fatto di essere potenziali indizi circa la
veridicità storica dei fatti narrati. Mi ero stupita, ai tempi, di notare in me
questa cosa, e mi dicevo: perché insistere sulla questione storica? Se venisse
fuori che Cristo non è mai nemmeno esistito, che il Vangelo di Giovanni è il
vangelo di un ciarlatano, continuerei ad avere fede? Continuerei ad amare Cristo
pur sapendo che si tratta in realtà di una figura inventata? Di un personaggio
di finzione? Leggendo Il signore degli anelli, L’idiota, o I fratelli Karamazov,
mi sono innamorata profondamente delle figure di Gandalf, di Frodo, del Principe
Myskin, di Alëša. Queste figure hanno edificato in me l’amore e la fede, con
estrema efficacia (anche pratica), e non ha avuto per me alcuna importanza che
queste siano state il prodotto della mente del loro autore. Ma perché allora con
Cristo io sento che qualcosa è diverso, che a questo dettaglio il mio animo non
è in grado di rinunciare; che se venisse fuori che egli non è mai esistito il
mio cuore e tutte le sue speranze sarebbero ridotte in frantumi? Solo
successivamente, leggendo quel passo de I fratelli Karamazov, ho capito che il
punto di Cristo era proprio questo: che il Verbo si facesse carne.
Quando ho riportato tutti questi pensieri a un mio professore lui mi ha fatto
notare che, al centro di tutto questo, c’era l’evento della resurrezione; che è
forse l’unico e reale aspetto irrinunciabile del cristianesimo. E, nel dirmi
questo, mi ha riportato le parole del suo maestro, che mi sono così tanto
rimaste in mente, secondo il quale, se si venisse a sapere, con assoluta
certezza, che in realtà la tomba non era vuota, e che per davvero al suo interno
giaceva il corpo di Cristo morto, allora certamente il cristianesimo avrebbe
fine.
Per settimane, dopo quella nostra conversazione, mi sono tormentata
all’inverosimile. Leggevo con avidità il libro che mi era stato dato, La
tradizione storica nel quarto Vangelo, di Harold Dodd, e mi pareva d’esser
caduta dentro una rete infinita di indizi e dettagli, al cui centro stava un
mistero impossibile da districare, e che io mai, mai assolutamente sarei giunta
a toccarne e comprenderne la natura. Mi pareva di star precipitando in un vicolo
cieco, ed era come se tutta la terra mi venisse sottratta da sotto i piedi. In
continuazione, in quei giorni, ho pensato a Tommaso, e alla scena descritta nel
Vangelo di Giovanni, in cui il discepolo è invitato a metter la mano nel costato
ferito di Gesù risorto. Nel leggere per l’ennesima volta quel passaggio del
testo avevo pensato, con sconforto, che io non ero affatto Giovanni, bensì ero
Tommaso, e che, senza la prova del corpo, non avrei mai ceduto.
Poi, nei giorni seguenti, è accaduto qualcosa. Mi è capitato infatti, di avere
una lunga conversazione con un altro dei miei professori, e di parlargli di
questi miei ragionamenti. Parlando stavamo seduti su una panchina del cortile
interno della biblioteca di Padova, subito fuori dal roseto che gli è stato
posto nel mezzo. Sopra di noi il cielo di marzo, dal terso azzurro di quella
mattina, iniziava a diventar grigio, e una brezza profumata e frizzante iniziava
a farsi strada nell’aria. Gli uccelli, in sottofondo, continuavano il loro
docile ed ipnotico cinguettio.
Il mio professore parlava, e già in quel momento, ascoltandolo, mi rendevo conto
che nulla di quelle sue parole sarei riuscita in alcun modo a ripetere
successivamente, e che avrei dovuto solo lasciarmi trasportare dalla loro forza
gentile e segreta, e dalla loro limpidezza. Nell’ascoltarlo infatti, per quanto
intendessi ogni cosa, avevo allo stesso tempo la sensazione che dietro le sue
parole vi fosse una chiarezza ben più profonda, e una verità indicibile che in
quel momento l’attraversava, e attraverso di lui si faceva strada verso di me,
come alitandomi addosso. D’un tratto, mentre lui continuava a parlare, sono
stata invasa dalla fortissima sensazione di trovarmi dentro alla verità, e che
per quanto io non fossi davvero capace d’afferrarla completamente lei comunque
stava avvolgendo, e abbracciando, la mia intera persona. È stato in quel momento
che mi sono tornate in mente le parole che il principe Andrèj sente sorgere nel
suo animo, all’udire le convinzioni dell’amico Pierre riguardo a Dio, all’amore,
e alla verità della vita. Tolstoj scrive in quel passo:
> Il principe Andrèj stava in piedi appoggiato al parapetto della chiatta e,
> ascoltando Pierre, guardava, senza staccarne gli occhi, i rossi riflessi del
> sole sull’acqua azzurrastra. Pierre tacque. Regnava un completo silenzio. La
> chiatta era stata attraccata da un pezzo e si udiva soltanto il fievole
> sciabordio della risacca che batteva contro il fondo del battello. Al principe
> Andrèj parve che lo sciabordio della risacca si unisse alle parole di Pierre
> nel dirgli: ‘è la verità, prestagli fede’.
È stato a quel punto che il mio professore ha concluso il suo ragionamento
dicendo, d’un tratto, che se io mi ero innamorata, e sentivo che quella era la
verità, allora quella era l’unica strada che avrei dovuto seguire, perché a Dio
in nessun altro modo sarei arrivata, se non per quella via che è l’amore. Dopo
tutto questo, ieri, sono tornata a casa con un profondo senso di gratitudine
addosso, e con la profonda sensazione che di nuovo qualcosa fosse
irreversibilmente cambiato dentro al mio animo, che un altro strato della
corazza fosse andato in frantumi, e che io fossi ancor più vicina a qualcosa di
enorme, infinito, che sta nascosto dentro al mio cuore.
Matthias Stomer, Incredulità di San Tommaso, 1645 ca.
Appunto, però, quest’amore non può bastare a se stesso: ha bisogno di un corpo,
ha bisogno dell’altro, ed è, in quanto tale, strutturalmente segnato da una
mancanza. Questa mancanza può essere, tuttavia, ciò che attiva il desiderio e
l’amore o ciò che ne segna la condanna e l’impedimento. Questo vale con Dio,
così come nelle relazioni tra le persone.
Questa mattina presto pensavo a tutto questo. Mi trovavo ancora nel letto, la
sveglia non era ancora suonata ma io avevo già perso sonno. Fuori il sole
sorgeva alle spalle di un muro di nuvole grigie, dalle quali cadeva una sottile
pioggia di marzo. Ancora avvolta dal torpore del sonno mi lasciavo trasportare,
per l’ennesima volta, da questi pensieri; e avevo la sensazione che anche nel
corso dell’intera nottata mi avessero occupato la mente: era come se li avessi
sognati. In quel momento pensavo di nuovo a Tommaso, e mi sentivo sempre più in
sovrapposizione con questa figura. Questa sovrapposizione però non mi pareva
più, come mi era sembrato all’inizio, una tragica e disperata condanna, bensì
era come se segretamente, come con gentilezza, cercasse di suggerirmi qualcosa.
Ho pensato, infatti, che, nonostante le numerose rappresentazioni pittoriche di
questa scena (forse la più nota è quella di Caravaggio), Tommaso, stando
all’andamento narrativo del passo, non mette il dito dentro al costato, è solo
invitato a farlo, ed è come se, solo grazie a questo invito, egli cedesse, e
credesse. Ed io, al risveglio di questa mattina, mi sono sentita esattamente
così, e ho pensato che, per quanto fosse importante quel corpo risorto, toccarlo
non sarebbe stato decisivo per la mia fede. Decisivo è solo l’invito, una
chiamata, fatta immemorabile tempo fa, in un tempo antico e avvolto dentro al
mistero; e con lei la risposata, che credo ciascuno, nell’intimità segreta di
ogni mattina, è chiamato a dare.
Bianca Cesari
*In copertina: Caravaggio, Incredulità di san Tommaso, 1600-1601
L'articolo Tra malinconia e inganno. Pensieri sul corpo, l’incarnazione e il
costato. Ovvero: sulla disperata vitalità di Cristo proviene da Pangea.
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> «E questo tema del doppio, questo tema amato e variato, delibato e citato,
> fosse una maschera di comodo per il vero tema: del triplo, del quintuplo, del
> millesimo e via?».
>
> (M. Mari, Locus Desperatus, Einaudi, 2024)
In questo breve passaggio il protagonista di Locus desperatus di Michele Mari ci
riporta alla ricorrente paura del doppio, fino alle estreme conseguenze di una
riproduzione seriale, forse infinita dell’essere umano.
Il tema del doppio, del sosia, del gemello malvagio, del doppelgänger uscito da
qualche dimensione parallela, da qualche Loggia Nera, è un tema su cui si è
scritto moltissimo (per uno studio significativo, si veda O. Rank, Il doppio,
SE, Milano, 2001). Incarna forse una paura atavica dell’uomo moderno, così
ossessionato dalla propria individualità, dal suo essere unico e irripetibile,
che inevitabilmente compare una figura identica in tutto e per tutto, ma con
scopi spesso ignominiosi, partorita dalla mente o da un luogo oscuro, pronta a
sottrargli proprio questa unicità.
Immagini riflesse nello specchio che si staccano e vanno per la loro strada; la
propria ombra venduta al diavolo che torna per prendere il nostro posto; l’uomo
nero di Esenin, riflesso dello specchio, che si accosta al letto del poeta per
torturarlo nelle ore notturne: da E. A. T. Hoffmann fino a David Lynch, ci
rendiamo conto che non si tratta di una tematica unicamente letteraria;
nonostante si tratti di una fantasia, anche se del tutto improbabile che questo
capiti nella realtà, l’apparizione di un altro uguale a noi rappresenta forse la
più grande delle paure dell’uomo moderno fino ai giorni nostri, e l’idea che
l’altro si nasconda proprio dentro noi stessi rende il tutto ancora più
inquietante. Se questo tema viene periodicamente riproposto in differenti
chiavi, è per via dell’abitudine che ha l’uomo di torturarsi mettendo in scena
le proprie paure al fine di esorcizzarle. Si può dire che l’uomo, spinto da una
morbosa curiosità, goda nel gettare uno sguardo nell’abisso, almeno finché dal
fondo non emerge un altro se stesso, uguale in tutto e per tutto.
Il più grande libro su questa tematica è probabilmente Il sosia di Dostoevskij.
In questo racconto seguiamo la vicenda del burocrate Goliadkin che, fin dalle
prime pagine, stenta a esistere.Quest’uomo si vergogna di tutto, in particolare
della sua presenza; vive in modo appartato, mai in vista; quando noleggia una
carrozza per fare bella figura si vergogna se qualche conoscente lo riconosce;
pensa di essere un uomo onesto e di agire onestamente, ma è il più malizioso di
tutti; è ossessionato da ciò che gli altri pensano o dicono sul suo conto;
spesso si lascia andare a fantasticazioni a tal punto contorte e articolate da
materializzarsi davanti ai suoi occhi, tanto da credere in una fitta
cospirazione ordita ai suoi danni, così machiavellica da prevedere l’uso
sfacciato di un suo sosia reperito chissà dove. Anche se per tutto il racconto
Goliadkin lotterà con le sue forze (davvero esigue e inconcludenti, a dire il
vero) contro questo sosia malvagio, è stato lui in primis a rinnegare se stesso,
a non voler essere riconosciuto; e tale opera di estraniamento giunge al culmine
dopo l’ennesimo momento di profondo imbarazzo in società, dopo essersi
intrufolato a un ballo al quale era stato rifiutato, e quindi ricacciato via in
malo modo.
Questo sosia si insinua nella sua vita timidamente, come un possibile alleato,
ma ben presto rivela la sua natura malvagia. Esso incarna tutte quelle
caratteristiche che Goliadkin disprezza negli altri: il doppiogiochismo, la
natura adulatoria, l’oscenità dei modi, ecc. E grazie a queste sue “doti” riesce
più simpatico ai superiori e agli amici di Goliadkin, tanto da prenderne
progressivamente il posto. In un certo senso, la mente di Goliadkin sembra aver
partorito questo sosia malvagio per giustificare il suo rigetto dalla società:
in parole povere, se loro non mi vogliono, è perché io sono un uomo onesto,
mentre la buona società ammette solo persone false e arriviste.
Goliadkin è ben più di un semplice nevrotico che naufraga nella follia, è il
prototipo dell’uomo del sottosuolo: egli odia la società, ma allo stesso tempo
odia esserne escluso. Il sosia è un vincente, possiede tutte quelle viscide
caratteristiche che gli possono garantire il successo e di cui Goliadkin è
sprovvisto. Infatti l’originale accusa la sua copia di volergli rubare il posto,
ma lui, quel posto, non ce l’ha e mai lo potrà avere. Non gli spetta. Diremo di
più: tutta la vicenda è lo stesso Goliadkin a portarla avanti, in più occasioni
si ripromette di far finta di niente, di lasciare che le cose facciano il loro
corso, di continuare la sua vita rettamente, ma non ci riesce. Sono cose che
capitano, capita di avere un sosia, non c’è niente di male, si ripete; ma
qualcosa di male c’è eccome, perché non si tratta di un sosia, ma di una parte
di sé. Insiste nel dirsi una persona onesta, “Pulito, retto, lavato, piacevole,
senza rancore…”, ma è colpevole di vedere il male in ogni persona che lo
circonda, dall’umile servitore al capo del suo dipartimento. Ai suoi occhi,
straccioni e Eccellenze, amici e nemici, fanno tutti parte dello stesso liquame
che trama alle sue spalle.
Dostoevskij sembra suggerirci che la natura stessa dell’uomo è duplice, fondata
su bene e male.Goliadkin, avendo la presunzione di mostrarsi per quello che è,
in tutta la sua sincerità, perde la sua maschera, gli si stacca letteralmente di
dosso e incomincia una vita propria (come fece a suo tempo il naso di Gogol’).
Forse perché è la società stessa, con i suoi inganni, le sue riverenze, le sue
meschinità, a esigere che gli individui indossino una maschera.
Ma diremo di più: Dostoevskij lascia intendere che vedere il marcio in ogni cosa
credendosi senza peccato, porta verso il baratro, a perdere se stessi. Non
riconoscere la propria fragilità, le proprie debolezze, porta l’uomo a credersi
un dio e quindi a perdersi.
Un altro grande esempio è quello offertoci da Saramago: in una Lisbona
contemporanea e affollatissima, dai tratti meno cupi della San Pietroburgo
innevata di metà Ottocento, ambienta il suo dramma sul sosia con L’uomo
duplicato. Qui non ci troviamo di fronte alla paranoia di un uomo meschino che
sfocia nella follia, ma di un fatto, se non reale, verosimile. Seguiamo
l’esistenza di un professore di storia dal non comune nome di Tertulliano Maximo
Afonso, il quale conduce una vita grigia e inespressiva; a dare una svolta a
questa quotidianità è una scoperta sconcertante: in un film per nulla famoso, di
quelli a scarso budget, scorge un uomo del tutto identico a lui. È una comparsa,
o fa piccole particine, ma è uguale a lui. Incomincia così una forsennata caccia
all’uomo (all’uomo uguale a sé) in mezzo a milioni di individui.
Anche in questo caso salta subito agli occhi la futilità del tutto, perché una
volta rintracciato quell’uomo completamente identico tranne che nel nome, non sa
bene cosa fare. Una volta scoperta l’esistenza di un doppio, che però non si
conosce, cosa impedisce al protagonista di continuare la sua vita come prima?
Perché deve assolutamente trovarlo e parlargli? E per dirgli cosa? La scoperta
di un sosia è una cosa senza senso che però rende la vita di prima insensata,
invivibile. Dirà che lo ha voluto rintracciare per semplice curiosità, ma allo
stesso tempo qualcosa di minaccioso si insinua fra i due uomini uguali. Nascono
pensieri morbosi e ossessivi, come quelli sulla morte:
> “Un uomo uguale a un altro, che importanza ha, se vuole che glielo dica
> francamente, l’unica cosa che in questo momento mi preoccupa per davvero è se,
> visto che siamo nati nello stesso giorno, in uno stesso giorno moriremo pure
> […]”.
In una brulicante metropoli contemporanea, la presenza di un sosia blocca la
vita di un uomo; non può esserci un altro come me, non deve esserci. Possono
esistere milioni di persone, miliardi, ma la presenza di qualcuno col nostro
stesso volto è inammissibile. Saramago mette così in scena l’ossessione per i
corpi, in particolare per il vuoto che li abita. Corpi che possono essere
riempiti con un altro spirito, un’altra vita, a piacimento. Corpi
intercambiabili perché contengono spiriti scialbi, grigi e del tutto simili,
ugualmente meschini. Se questi spiriti non fossero così aridi, verrebbe da
pensare, avrebbero le qualità necessarie per accettare un simile scherzo della
natura, girarsi dall’altra parte e passare oltre, ma non ci riescono, perché
posseduti dalla stessa smania di unicità delle loro fattezze. Come il
protagonista, anche il sosia incomincerà a sentire la necessità di un confronto,
di mettersi di fronte a questo essere uguale, anche lui per curiosità, dice, ma
finendo investito dal panico generato dalla perdita dell’unica cosa che per loro
conta: l’esteriorità.
Ma tanto in Dostoevskij quanto in Saramago, la paura del sosia non si limita
solo al caso specifico, ma nasconde infine una paura più raccapricciante: se ne
esiste uno uguale a me, perché non potrebbero essercene molti altri?
> “…a ogni battere del suo piede sul granito del marciapiede, saltava fuori come
> di sotto terra un altro uomo, identico, esattamente simile al signor Goliadkin
> ma repugnante per depravazione di cuore. E tutti costoro, copie conformi,
> subito, al loro comparire, si mettevano a correre uno dietro l’altro e, come
> una fila di oche, si snodavano in lunga catena arrancando dietro il signor
> Goliadkin senior, sicché non c’era modo di sfuggire a quelle copie, e al
> signor Goliadkin, degno del tutto di comprensione, mancava il fiato per il
> terrore… e alla fine comparve una paurosa moltitudine di copie perfette, tanto
> che tutta la capitale pullulava di queste copie”.
>
> (F. Dostoevskij, Il sosia)
Valerio Ragazzini
*In copertina: René Magritte, La reproduction interdite, 1937
L'articolo “Un uomo uguale a un altro”. L’eterno tema del doppio: da Dostoevskij
e Saramago a “Twin Peaks” proviene da Pangea.