Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più
emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso,
sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe
sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di
riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde
dell’umana vicenda.
Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo
recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come
critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a
tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita
a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione
dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i
tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da
un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano
a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e
deterministico principio di ascendenza scientifica.
In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di
una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una
risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle
latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è
preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il
sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema
della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità
confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della
società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica
essenza.
L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del
protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura
dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del
sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso
e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla
consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da
risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una
logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni
interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica
che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure
incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza.
Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è
costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita
quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a
schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni
impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica.
In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo
regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia
entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del
razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua
solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due
quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di
impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o
liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita
e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di
continuità.
La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera
non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo
abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi.
Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci
obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana:
l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di
liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come
perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un
luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma
diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che,
pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi
con i limiti intrinseci della propria esistenza.
La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è
centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce
mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di
comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con
l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come
un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere
umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso,
troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi
modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa
consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad
interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo
esito certo.
In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia
dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci
presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre
stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa
di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è
mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua
potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua
prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i
conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione
sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una
coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé
stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è,
dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un
esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il
paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione
di risposte conchiuse.
La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma
manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana,
che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri
contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa
divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile,
l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale
sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi
di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è
ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si
pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in
spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo.
Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente
al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione
e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza
diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che
sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e
distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si
disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il
protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di
pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la
propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività
e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile.
Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al
raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto
e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso
auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo
confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente
tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla.
La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni
episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione
cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi,
rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una
storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni
che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla
sofferenza e all’impotenza.
I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non
sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria
inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per
una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la
condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo
kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un
eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere
fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue
riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa.
La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata,
ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le
aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una
condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del
sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro
dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le
forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza
che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze
più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di
autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma
preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con
pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni
possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui
l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non
si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di
pacificazione.
Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che
non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta
nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione
sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva
e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi
compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce
un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il
proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o
che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di
riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere
privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In
fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché
rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto
ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa
libertà di pensiero autoriferito.
Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione
dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che
segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi
interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una
teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso
singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta
senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del
sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il
conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto,
questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è
la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua
nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua
incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in
cui si svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della
società, una lotta che non trova mai conciliazione.
Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta
in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità
illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il
tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e
disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la
ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre
alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che
si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e
scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa
effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità
ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente
l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che
vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate,
nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra
frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di
organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa
razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità
morale.
L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il
raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia
asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in
sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere
completamente spiegata e regolata da calcoli:
> “…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia
> già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né
> capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte
> o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di
> natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma
> da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire
> queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e
> vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno
> calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei
> logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora,
> usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari
> enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al
> mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”
L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la
complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con
dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di
follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi
viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà,
certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la
ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni
edificazione razionale.
Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della
società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una
propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero
utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo
senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento
dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene
nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la
rettorica:
> “Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune
> debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca
> convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto
> attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione
> complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che
> eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta
> in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina
> pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è
> cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico
> dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società,
> che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel
> suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario,
> poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti
> individualità accumulato dai secoli…”
Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il
mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a
modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente
paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà
autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di
autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con
i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà
apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e
autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il
demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La
consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta
con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il
peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una
via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti
spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma
anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno.
La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio
irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni
romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una
domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo
libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà,
se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora
che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante:
l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa
coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce
inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi
dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e
risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una
risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere
quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni
più tragiche.
L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la
domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi,
se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla
disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la
fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità
inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più
auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e
effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere
risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai
essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla
lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore.
La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta
deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si
configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non
riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere
parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad
offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è
semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per
necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e
fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire
il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il
progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce
il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude
dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una
figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che,
pur dolorosa, appare ineludibile.
Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo
lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri
ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è
liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione,
tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata
dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la
crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad
un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a
rivelazioni.
Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella
solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione
spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo,
un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità
universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La
ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si
rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla
purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova
visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a
qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può
essere elaborato.
L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo
nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il
suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza
redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono
mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una
condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema
stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente
nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento
rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia.
La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la
natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà
che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente
conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di
agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita
all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in
un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è
una riflessione autofaga.
Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis
inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di
un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto.
Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare
esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista
diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo
esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste.
In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di
una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero
esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa,
che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita
e tragicamente contraddittoria.
Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura.
L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna
che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e
della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi
significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di
autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di
prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui
l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che
ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non
per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così
che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda. Ma la
società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento
della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata.
Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più
sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con
una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra
la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un
esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé,
avvitandosi in una stagnazione spiraliforme.
L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare
soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva
e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come
atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non
eluda la fragilità dell’esistere.
Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e
l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta
dunque come una sfida ancora aperta.
Massimo Triolo
*In copertina: un ritratto di Valentin Serov
L'articolo Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un
outsider totale proviene da Pangea.
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Questa mattina, uscendo di casa, ho notato che c’era un topo, fermo sotto la
pioggia, in mezzo alla corte interna di casa mia. Credo fosse ferito, perché non
è scappato al mio passargli di fianco, e il pelo, fradicio di pioggia, era
sporco di sangue. Stava immobile in mezzo al cortile, solo inclinava la testa su
e giù, davanti a una pozza d’acqua e di sangue; ed era come se con quel
movimento esprimesse un lamento, o una richiesta di aiuto. Al vederlo gli sono
passata di fianco quasi di corsa, inorridita ed impietosita allo stesso tempo.
Ho pensato, come forse è probabile, che qualche gabbiano avesse tentato di
prenderlo, e che lo avesse ferito. I gabbiani, qui a Venezia sono una sorta di
piaga. Sono molto grandi, sempre in cerca di cibo. Più volte mi è capitato
vederli nutrirsi di topi, di pesci presi dalla laguna, o addirittura di
contendersi il corpo senza vita di qualche piccione. In Campo Santa Margherita,
a Venezia, dove abito, ce ne sono sempre moltissimi, soprattutto la mattina,
quando i pescatori allestiscono il banco del pesce. Spessissimo li vedo planare
dall’alto in direzione di qualche malcapitato turista – ignaro di questa assurda
problematica veneziana e strappargli dalle mani una fetta di pizza, o un
panino, o un gelato.
Superato il corpo del topo, uscita dalla corte interna sono sbucata nel campo, e
l’ho attraversato, per dirigermi verso la biblioteca. I gabbiani stavano sempre
lì appostati attorno al banco del pesce. Ce n’erano tre o quattro radunati in un
cerchio, tenevano le ali aperte come in posizione di sfida, e emettevano
quell’orribile e raggelante garrito che in continuazione si sente nel cielo
sopra Venezia. La loro vista e quel suono mi hanno gelata nel sangue, e sono
passata per il campo a testa china, camminando velocemente sotto la pioggia. In
quel momento il mondo mi è sembrato essere di un’ostilità fredda e inquietante,
ed era come se tutto mi fosse nemico, pronto a rapirmi.
Ieri sera invece, durante una delle mie solite camminate serali, avevo provato
tutto l’opposto. A un certo punto mi ero fermata, come spesso faccio, a bere a
una fontanella che si trova a un crocicchio di calli, subito dopo la basilica
della Madonna della Salute, la cui cupola troneggia sopra le case. Una di queste
calli è, piuttosto, un lungo viale che conduce verso la fondamenta, il cui
centro è occupato da un filare di alberi. Per tutto l’inverno, al passarci
davanti durante le mie passeggiate, li avevo osservati, tanto più perché a
Venezia la natura non si impone con forza, e si deve, mi pare, prestare una
certa attenzione per poterla notare. I rami di quegli alberi erano stati, per
tutto l’inverno, spogli, secchissimi e scuri. Ieri sera invece, dopo aver bevuto
alla fontanella, qualcosa mi ha spinta, chissà perché, ad alzare lo sguardo, e
ho notato che i rami avevano preso colore: erano di un marrone più chiaro, e
come più gonfi. Tutta la loro lunghezza era intessuta di piccoli germogli, di un
verde vivo ed acceso. Ho spostato lo sguardo dall’albero che avevo sopra la
testa, e ho osservato, in un solo colpo, tutti quelli che stavano in fila lungo
viale. Erano tutti così: vivi ed accesi allo stesso modo. Io, immobile e in
piedi di fronte a loro, mi sono immaginata la linfa che vi stava scorrendo
all’interno, la terra umida che li nutriva da sotto, e tutto un processo vitale,
invisibile e sconosciuto ai miei occhi, ma che segretamente si stava svolgendo
in quello stesso momento; e mi è sembrato che tutto l’universo, in quel momento,
lodasse e celebrasse la vita. Un profondo e solenne silenzio si è fatto strada
nell’aria, si sentiva solo lo scroscio lieve dell’acqua che dalla bocca della
fontanella cadeva di sotto. Poi, dalla basilica della Salute, un solo rintocco
di campana è suonato. Erano le otto.
A quel rintocco il mio animo si è ridestato dall’incantesimo in cui era caduto.
Sono tornata in me e ho ripreso la mia camminata. Camminando ripensavo a quel
passaggio di Guerra e pace che avevo letto la sera prima, in cui il principe
Andrèj attraversa in carrozza il bosco di betulle che fioriscono in primavera, e
si riscopre incapace di apprezzare la sua armoniosa e celebrativa
bellezza. Nota, piuttosto, una vecchia ed enorme quercia, la cui oscurità si
impone in modo sgraziato nel mezzo del bosco, e pensa che solo lei, solo quella
quercia, ha capito cosa davvero è reale, e che con la sua bruttezza sembra
schernire l’ingenua gioia celebrativa delle betulle. Scrive Tolstoj:
> Sul ciglio della strada si ergeva la quercia. Era probabilmente dieci volte
> più vecchia delle betulle che costituivano il bosco, dieci volte più grossa e
> due più alta di ogni betulla. Era una quercia gigantesca, ci volevano due
> uomini per abbracciarne il tronco, con dei rami già da tempo spezzati, la
> corteccia strappata in più punti, segnata da antiche ferite. Con le sue rozze,
> enormi braccia e dita che si divaricavano sgraziatamente, asimmetricamente,
> essa si ergeva come un mostro vecchio, sdegnato e sprezzante tra le sorridenti
> betulle. Soltanto lei non voleva cedere alla seduzione della primavera, non
> voleva vedere la primavera, né il sole.
>
> “La primavera, l’amore, la felicità!”, sembrava dire la quercia. “Com’è
> possibile che non vi sia ancora venuto a noia questo sciocco, insensato
> inganno! È sempre la stessa cosa, ed è tutto un inganno! Non esiste la
> primavera, né il sole, né la felicità. Guardate questi morti alberi
> schiacciati, sempre solitari, guardate come anch’io ho disteso queste mie dita
> spezzate, scortecciate, dovunque siano cresciute, sul dorso o sui fianchi. Io
> sto sempre così come mi sono cresciute, e non credo alle vostre speranze ai
> vostri inganni.”
Ora, a scriver di questo, mi vengono in mente quelle parole di Pascal, che nei
suoi Pensieri scrive che nulla, nell’ordine dell’universo, permette di dedurre
l’esistenza o l’inesistenza di Dio. Tutto nella natura, sia umana che non, è
intriso di una rete inestricabile di contraddizioni, di miseria e grandezza. Una
mia professoressa, per spiegarci questo a lezione, ci riportava l’esempio di
Leopardi, il quale diceva che al guardare un bellissimo albero in fiore, nel
mezzo di un bosco, non ci accorgiamo che sul suo tronco magari si muovono e
proliferano migliaia di tarme, che divorano la sua corteccia e lo conducono
verso la morte. Niente del mondo o dell’animo umano garantisce per la
convenienza o meno di aver fede in Dio. Forse, semplicemente, non si deve aver
fede per convenienza, ma per speranza, per passione, e per amore.
Ieri sera però, nel dirmi così, mi sono anche detta che stavo facendo, di nuovo,
il medesimo errore di sempre, e che di nuovo pretendevo che quel sentimento
d’amore potesse bastare a se stesso, e darmi lui solo tutta la linfa vitale di
cui avevo bisogno. La verità però è che la vita costringe sempre alla verità di
una mancanza incolmabile, una malinconia, che si traduce in un nobile anelito di
ricerca, uno slancio verso qualcosa. Quel qualcosa credo sia il corpo. Di questo
credo d’essermene resa conto poco tempo fa, quando ho letto un passaggio de I
fratelli Karamazov in cui “I due fratelli fanno conoscenza”, e Ivan e Aleša
hanno quella lunga e bellissima conversazione, che avevo atteso fin dall’inizio
del libro. Al di là di ciò che vien detto in essa, una frase in particolare, al
termine della conversazione, mi aveva colpita. Sono le parole che Ivan rivolge
ad Aleša, quasi come una provocazione, dicendogli:
> “Ti ho portato alla mia confessione, perché essa serve soltanto a te. Non hai
> bisogno di Dio, hai bisogno soltanto di sapere come vive il fratello al quale
> vuoi tanto bene. E io te l’ho detto.”
Ed erano state queste parole, queste parole che ho segnato in corsivo, a
colpirmi violentemente, come una folgorazione. In quel momento ho avuto la
sensazione di capire ciò di cui forse, più di tutto, avevo sofferto per tutta la
vita. E quel qualcosa era la mancanza, nello sguardo degli altri, di Dio, e
dell’amore. È stato nel dirmi questo che ho capito, allora, l’importanza del
corpo, che non è altro che l’importanza degli altri, del loro amore, e della
storia; non è altro che la speranza che i propri desideri e speranze possano
prendere corpo all’esterno, e che non siano invece destinati a rimaner chiusi
nel proprio cuore. Forse, più semplicemente (ma non banalmente), è la speranza
d’essere amati, e non solo d’amare.
Cima da Conegliano, Incredulità di san Tommaso col vescovo Magno, 1505 ca.
Dicendomi questo, a quel punto, ero anche riuscita a spiegarmi un fatto che nei
mesi precedenti avevo notato, che mi aveva molto stupita, e che tuttavia non
riuscivo a comprendere. Notavo infatti che nell’approfondire lo studio del
quarto Vangelo (il Vangelo di Giovanni), come stavo facendo, la mia attenzione
si soffermava su certi passaggi, o su certi episodi, che avevano tutti in comune
una stessa caratteristica, ossia il fatto di essere potenziali indizi circa la
veridicità storica dei fatti narrati. Mi ero stupita, ai tempi, di notare in me
questa cosa, e mi dicevo: perché insistere sulla questione storica? Se venisse
fuori che Cristo non è mai nemmeno esistito, che il Vangelo di Giovanni è il
vangelo di un ciarlatano, continuerei ad avere fede? Continuerei ad amare Cristo
pur sapendo che si tratta in realtà di una figura inventata? Di un personaggio
di finzione? Leggendo Il signore degli anelli, L’idiota, o I fratelli Karamazov,
mi sono innamorata profondamente delle figure di Gandalf, di Frodo, del Principe
Myskin, di Alëša. Queste figure hanno edificato in me l’amore e la fede, con
estrema efficacia (anche pratica), e non ha avuto per me alcuna importanza che
queste siano state il prodotto della mente del loro autore. Ma perché allora con
Cristo io sento che qualcosa è diverso, che a questo dettaglio il mio animo non
è in grado di rinunciare; che se venisse fuori che egli non è mai esistito il
mio cuore e tutte le sue speranze sarebbero ridotte in frantumi? Solo
successivamente, leggendo quel passo de I fratelli Karamazov, ho capito che il
punto di Cristo era proprio questo: che il Verbo si facesse carne.
Quando ho riportato tutti questi pensieri a un mio professore lui mi ha fatto
notare che, al centro di tutto questo, c’era l’evento della resurrezione; che è
forse l’unico e reale aspetto irrinunciabile del cristianesimo. E, nel dirmi
questo, mi ha riportato le parole del suo maestro, che mi sono così tanto
rimaste in mente, secondo il quale, se si venisse a sapere, con assoluta
certezza, che in realtà la tomba non era vuota, e che per davvero al suo interno
giaceva il corpo di Cristo morto, allora certamente il cristianesimo avrebbe
fine.
Per settimane, dopo quella nostra conversazione, mi sono tormentata
all’inverosimile. Leggevo con avidità il libro che mi era stato dato, La
tradizione storica nel quarto Vangelo, di Harold Dodd, e mi pareva d’esser
caduta dentro una rete infinita di indizi e dettagli, al cui centro stava un
mistero impossibile da districare, e che io mai, mai assolutamente sarei giunta
a toccarne e comprenderne la natura. Mi pareva di star precipitando in un vicolo
cieco, ed era come se tutta la terra mi venisse sottratta da sotto i piedi. In
continuazione, in quei giorni, ho pensato a Tommaso, e alla scena descritta nel
Vangelo di Giovanni, in cui il discepolo è invitato a metter la mano nel costato
ferito di Gesù risorto. Nel leggere per l’ennesima volta quel passaggio del
testo avevo pensato, con sconforto, che io non ero affatto Giovanni, bensì ero
Tommaso, e che, senza la prova del corpo, non avrei mai ceduto.
Poi, nei giorni seguenti, è accaduto qualcosa. Mi è capitato infatti, di avere
una lunga conversazione con un altro dei miei professori, e di parlargli di
questi miei ragionamenti. Parlando stavamo seduti su una panchina del cortile
interno della biblioteca di Padova, subito fuori dal roseto che gli è stato
posto nel mezzo. Sopra di noi il cielo di marzo, dal terso azzurro di quella
mattina, iniziava a diventar grigio, e una brezza profumata e frizzante iniziava
a farsi strada nell’aria. Gli uccelli, in sottofondo, continuavano il loro
docile ed ipnotico cinguettio.
Il mio professore parlava, e già in quel momento, ascoltandolo, mi rendevo conto
che nulla di quelle sue parole sarei riuscita in alcun modo a ripetere
successivamente, e che avrei dovuto solo lasciarmi trasportare dalla loro forza
gentile e segreta, e dalla loro limpidezza. Nell’ascoltarlo infatti, per quanto
intendessi ogni cosa, avevo allo stesso tempo la sensazione che dietro le sue
parole vi fosse una chiarezza ben più profonda, e una verità indicibile che in
quel momento l’attraversava, e attraverso di lui si faceva strada verso di me,
come alitandomi addosso. D’un tratto, mentre lui continuava a parlare, sono
stata invasa dalla fortissima sensazione di trovarmi dentro alla verità, e che
per quanto io non fossi davvero capace d’afferrarla completamente lei comunque
stava avvolgendo, e abbracciando, la mia intera persona. È stato in quel momento
che mi sono tornate in mente le parole che il principe Andrèj sente sorgere nel
suo animo, all’udire le convinzioni dell’amico Pierre riguardo a Dio, all’amore,
e alla verità della vita. Tolstoj scrive in quel passo:
> Il principe Andrèj stava in piedi appoggiato al parapetto della chiatta e,
> ascoltando Pierre, guardava, senza staccarne gli occhi, i rossi riflessi del
> sole sull’acqua azzurrastra. Pierre tacque. Regnava un completo silenzio. La
> chiatta era stata attraccata da un pezzo e si udiva soltanto il fievole
> sciabordio della risacca che batteva contro il fondo del battello. Al principe
> Andrèj parve che lo sciabordio della risacca si unisse alle parole di Pierre
> nel dirgli: ‘è la verità, prestagli fede’.
È stato a quel punto che il mio professore ha concluso il suo ragionamento
dicendo, d’un tratto, che se io mi ero innamorata, e sentivo che quella era la
verità, allora quella era l’unica strada che avrei dovuto seguire, perché a Dio
in nessun altro modo sarei arrivata, se non per quella via che è l’amore. Dopo
tutto questo, ieri, sono tornata a casa con un profondo senso di gratitudine
addosso, e con la profonda sensazione che di nuovo qualcosa fosse
irreversibilmente cambiato dentro al mio animo, che un altro strato della
corazza fosse andato in frantumi, e che io fossi ancor più vicina a qualcosa di
enorme, infinito, che sta nascosto dentro al mio cuore.
Matthias Stomer, Incredulità di San Tommaso, 1645 ca.
Appunto, però, quest’amore non può bastare a se stesso: ha bisogno di un corpo,
ha bisogno dell’altro, ed è, in quanto tale, strutturalmente segnato da una
mancanza. Questa mancanza può essere, tuttavia, ciò che attiva il desiderio e
l’amore o ciò che ne segna la condanna e l’impedimento. Questo vale con Dio,
così come nelle relazioni tra le persone.
Questa mattina presto pensavo a tutto questo. Mi trovavo ancora nel letto, la
sveglia non era ancora suonata ma io avevo già perso sonno. Fuori il sole
sorgeva alle spalle di un muro di nuvole grigie, dalle quali cadeva una sottile
pioggia di marzo. Ancora avvolta dal torpore del sonno mi lasciavo trasportare,
per l’ennesima volta, da questi pensieri; e avevo la sensazione che anche nel
corso dell’intera nottata mi avessero occupato la mente: era come se li avessi
sognati. In quel momento pensavo di nuovo a Tommaso, e mi sentivo sempre più in
sovrapposizione con questa figura. Questa sovrapposizione però non mi pareva
più, come mi era sembrato all’inizio, una tragica e disperata condanna, bensì
era come se segretamente, come con gentilezza, cercasse di suggerirmi qualcosa.
Ho pensato, infatti, che, nonostante le numerose rappresentazioni pittoriche di
questa scena (forse la più nota è quella di Caravaggio), Tommaso, stando
all’andamento narrativo del passo, non mette il dito dentro al costato, è solo
invitato a farlo, ed è come se, solo grazie a questo invito, egli cedesse, e
credesse. Ed io, al risveglio di questa mattina, mi sono sentita esattamente
così, e ho pensato che, per quanto fosse importante quel corpo risorto, toccarlo
non sarebbe stato decisivo per la mia fede. Decisivo è solo l’invito, una
chiamata, fatta immemorabile tempo fa, in un tempo antico e avvolto dentro al
mistero; e con lei la risposata, che credo ciascuno, nell’intimità segreta di
ogni mattina, è chiamato a dare.
Bianca Cesari
*In copertina: Caravaggio, Incredulità di san Tommaso, 1600-1601
L'articolo Tra malinconia e inganno. Pensieri sul corpo, l’incarnazione e il
costato. Ovvero: sulla disperata vitalità di Cristo proviene da Pangea.
> «E questo tema del doppio, questo tema amato e variato, delibato e citato,
> fosse una maschera di comodo per il vero tema: del triplo, del quintuplo, del
> millesimo e via?».
>
> (M. Mari, Locus Desperatus, Einaudi, 2024)
In questo breve passaggio il protagonista di Locus desperatus di Michele Mari ci
riporta alla ricorrente paura del doppio, fino alle estreme conseguenze di una
riproduzione seriale, forse infinita dell’essere umano.
Il tema del doppio, del sosia, del gemello malvagio, del doppelgänger uscito da
qualche dimensione parallela, da qualche Loggia Nera, è un tema su cui si è
scritto moltissimo (per uno studio significativo, si veda O. Rank, Il doppio,
SE, Milano, 2001). Incarna forse una paura atavica dell’uomo moderno, così
ossessionato dalla propria individualità, dal suo essere unico e irripetibile,
che inevitabilmente compare una figura identica in tutto e per tutto, ma con
scopi spesso ignominiosi, partorita dalla mente o da un luogo oscuro, pronta a
sottrargli proprio questa unicità.
Immagini riflesse nello specchio che si staccano e vanno per la loro strada; la
propria ombra venduta al diavolo che torna per prendere il nostro posto; l’uomo
nero di Esenin, riflesso dello specchio, che si accosta al letto del poeta per
torturarlo nelle ore notturne: da E. A. T. Hoffmann fino a David Lynch, ci
rendiamo conto che non si tratta di una tematica unicamente letteraria;
nonostante si tratti di una fantasia, anche se del tutto improbabile che questo
capiti nella realtà, l’apparizione di un altro uguale a noi rappresenta forse la
più grande delle paure dell’uomo moderno fino ai giorni nostri, e l’idea che
l’altro si nasconda proprio dentro noi stessi rende il tutto ancora più
inquietante. Se questo tema viene periodicamente riproposto in differenti
chiavi, è per via dell’abitudine che ha l’uomo di torturarsi mettendo in scena
le proprie paure al fine di esorcizzarle. Si può dire che l’uomo, spinto da una
morbosa curiosità, goda nel gettare uno sguardo nell’abisso, almeno finché dal
fondo non emerge un altro se stesso, uguale in tutto e per tutto.
Il più grande libro su questa tematica è probabilmente Il sosia di Dostoevskij.
In questo racconto seguiamo la vicenda del burocrate Goliadkin che, fin dalle
prime pagine, stenta a esistere.Quest’uomo si vergogna di tutto, in particolare
della sua presenza; vive in modo appartato, mai in vista; quando noleggia una
carrozza per fare bella figura si vergogna se qualche conoscente lo riconosce;
pensa di essere un uomo onesto e di agire onestamente, ma è il più malizioso di
tutti; è ossessionato da ciò che gli altri pensano o dicono sul suo conto;
spesso si lascia andare a fantasticazioni a tal punto contorte e articolate da
materializzarsi davanti ai suoi occhi, tanto da credere in una fitta
cospirazione ordita ai suoi danni, così machiavellica da prevedere l’uso
sfacciato di un suo sosia reperito chissà dove. Anche se per tutto il racconto
Goliadkin lotterà con le sue forze (davvero esigue e inconcludenti, a dire il
vero) contro questo sosia malvagio, è stato lui in primis a rinnegare se stesso,
a non voler essere riconosciuto; e tale opera di estraniamento giunge al culmine
dopo l’ennesimo momento di profondo imbarazzo in società, dopo essersi
intrufolato a un ballo al quale era stato rifiutato, e quindi ricacciato via in
malo modo.
Questo sosia si insinua nella sua vita timidamente, come un possibile alleato,
ma ben presto rivela la sua natura malvagia. Esso incarna tutte quelle
caratteristiche che Goliadkin disprezza negli altri: il doppiogiochismo, la
natura adulatoria, l’oscenità dei modi, ecc. E grazie a queste sue “doti” riesce
più simpatico ai superiori e agli amici di Goliadkin, tanto da prenderne
progressivamente il posto. In un certo senso, la mente di Goliadkin sembra aver
partorito questo sosia malvagio per giustificare il suo rigetto dalla società:
in parole povere, se loro non mi vogliono, è perché io sono un uomo onesto,
mentre la buona società ammette solo persone false e arriviste.
Goliadkin è ben più di un semplice nevrotico che naufraga nella follia, è il
prototipo dell’uomo del sottosuolo: egli odia la società, ma allo stesso tempo
odia esserne escluso. Il sosia è un vincente, possiede tutte quelle viscide
caratteristiche che gli possono garantire il successo e di cui Goliadkin è
sprovvisto. Infatti l’originale accusa la sua copia di volergli rubare il posto,
ma lui, quel posto, non ce l’ha e mai lo potrà avere. Non gli spetta. Diremo di
più: tutta la vicenda è lo stesso Goliadkin a portarla avanti, in più occasioni
si ripromette di far finta di niente, di lasciare che le cose facciano il loro
corso, di continuare la sua vita rettamente, ma non ci riesce. Sono cose che
capitano, capita di avere un sosia, non c’è niente di male, si ripete; ma
qualcosa di male c’è eccome, perché non si tratta di un sosia, ma di una parte
di sé. Insiste nel dirsi una persona onesta, “Pulito, retto, lavato, piacevole,
senza rancore…”, ma è colpevole di vedere il male in ogni persona che lo
circonda, dall’umile servitore al capo del suo dipartimento. Ai suoi occhi,
straccioni e Eccellenze, amici e nemici, fanno tutti parte dello stesso liquame
che trama alle sue spalle.
Dostoevskij sembra suggerirci che la natura stessa dell’uomo è duplice, fondata
su bene e male.Goliadkin, avendo la presunzione di mostrarsi per quello che è,
in tutta la sua sincerità, perde la sua maschera, gli si stacca letteralmente di
dosso e incomincia una vita propria (come fece a suo tempo il naso di Gogol’).
Forse perché è la società stessa, con i suoi inganni, le sue riverenze, le sue
meschinità, a esigere che gli individui indossino una maschera.
Ma diremo di più: Dostoevskij lascia intendere che vedere il marcio in ogni cosa
credendosi senza peccato, porta verso il baratro, a perdere se stessi. Non
riconoscere la propria fragilità, le proprie debolezze, porta l’uomo a credersi
un dio e quindi a perdersi.
Un altro grande esempio è quello offertoci da Saramago: in una Lisbona
contemporanea e affollatissima, dai tratti meno cupi della San Pietroburgo
innevata di metà Ottocento, ambienta il suo dramma sul sosia con L’uomo
duplicato. Qui non ci troviamo di fronte alla paranoia di un uomo meschino che
sfocia nella follia, ma di un fatto, se non reale, verosimile. Seguiamo
l’esistenza di un professore di storia dal non comune nome di Tertulliano Maximo
Afonso, il quale conduce una vita grigia e inespressiva; a dare una svolta a
questa quotidianità è una scoperta sconcertante: in un film per nulla famoso, di
quelli a scarso budget, scorge un uomo del tutto identico a lui. È una comparsa,
o fa piccole particine, ma è uguale a lui. Incomincia così una forsennata caccia
all’uomo (all’uomo uguale a sé) in mezzo a milioni di individui.
Anche in questo caso salta subito agli occhi la futilità del tutto, perché una
volta rintracciato quell’uomo completamente identico tranne che nel nome, non sa
bene cosa fare. Una volta scoperta l’esistenza di un doppio, che però non si
conosce, cosa impedisce al protagonista di continuare la sua vita come prima?
Perché deve assolutamente trovarlo e parlargli? E per dirgli cosa? La scoperta
di un sosia è una cosa senza senso che però rende la vita di prima insensata,
invivibile. Dirà che lo ha voluto rintracciare per semplice curiosità, ma allo
stesso tempo qualcosa di minaccioso si insinua fra i due uomini uguali. Nascono
pensieri morbosi e ossessivi, come quelli sulla morte:
> “Un uomo uguale a un altro, che importanza ha, se vuole che glielo dica
> francamente, l’unica cosa che in questo momento mi preoccupa per davvero è se,
> visto che siamo nati nello stesso giorno, in uno stesso giorno moriremo pure
> […]”.
In una brulicante metropoli contemporanea, la presenza di un sosia blocca la
vita di un uomo; non può esserci un altro come me, non deve esserci. Possono
esistere milioni di persone, miliardi, ma la presenza di qualcuno col nostro
stesso volto è inammissibile. Saramago mette così in scena l’ossessione per i
corpi, in particolare per il vuoto che li abita. Corpi che possono essere
riempiti con un altro spirito, un’altra vita, a piacimento. Corpi
intercambiabili perché contengono spiriti scialbi, grigi e del tutto simili,
ugualmente meschini. Se questi spiriti non fossero così aridi, verrebbe da
pensare, avrebbero le qualità necessarie per accettare un simile scherzo della
natura, girarsi dall’altra parte e passare oltre, ma non ci riescono, perché
posseduti dalla stessa smania di unicità delle loro fattezze. Come il
protagonista, anche il sosia incomincerà a sentire la necessità di un confronto,
di mettersi di fronte a questo essere uguale, anche lui per curiosità, dice, ma
finendo investito dal panico generato dalla perdita dell’unica cosa che per loro
conta: l’esteriorità.
Ma tanto in Dostoevskij quanto in Saramago, la paura del sosia non si limita
solo al caso specifico, ma nasconde infine una paura più raccapricciante: se ne
esiste uno uguale a me, perché non potrebbero essercene molti altri?
> “…a ogni battere del suo piede sul granito del marciapiede, saltava fuori come
> di sotto terra un altro uomo, identico, esattamente simile al signor Goliadkin
> ma repugnante per depravazione di cuore. E tutti costoro, copie conformi,
> subito, al loro comparire, si mettevano a correre uno dietro l’altro e, come
> una fila di oche, si snodavano in lunga catena arrancando dietro il signor
> Goliadkin senior, sicché non c’era modo di sfuggire a quelle copie, e al
> signor Goliadkin, degno del tutto di comprensione, mancava il fiato per il
> terrore… e alla fine comparve una paurosa moltitudine di copie perfette, tanto
> che tutta la capitale pullulava di queste copie”.
>
> (F. Dostoevskij, Il sosia)
Valerio Ragazzini
*In copertina: René Magritte, La reproduction interdite, 1937
L'articolo “Un uomo uguale a un altro”. L’eterno tema del doppio: da Dostoevskij
e Saramago a “Twin Peaks” proviene da Pangea.