
Il mostro morale. Perché è sbagliato parlare di “banalità del male”
Pangea - Wednesday, May 21, 2025Anche se continuiamo a chiamarla «la banalità del male», il male non è mai banale. Il male è complicato, tortuoso, tende a negare sé stesso e ha una sua diabolica intelligenza. Del resto, la parola diábolos in greco vuol dire «dividere», o «colui che divide». E andrebbe inteso non tanto come calunniatore o seminatore di zizzania, quanto piuttosto come colui che scinde sé stesso in una doppia personalità: quella che commette il male e quella che rimuove il male commesso, oppure tende a cercare alibi, o più semplicemente a nasconderlo.
Quando la filosofa Hannah Arendt sottotitolò La banalità del male il suo celebre reportage sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann, per spiegare come le persone più ordinarie possano trasformarsi in carnefici e partecipi di un sistema totalitario, possano cioè diventare funzionali a un ingranaggio mostruoso di sopraffazione e sterminio, non poteva immaginare né che quella sua definizione sarebbe stata così inflazionata in seguito, né che essa nasceva da un clamoroso equivoco. Seguendo in veste di giornalista per il “New Yorker” il processo contro Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS, nel 1961, Arendt si trovò di fronte un grigio burocrate, inetto e poco intelligente. O almeno così le sembrò. Eichmann, il pianificatore della Shoah, colui che aveva organizzato il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei Lager, era caratterizzato, agli occhi della filosofa, da un’«assenza di pensiero». Eichmann non aveva nulla di demoniaco, né possedeva il carisma del male. Era un impiegato incolore, il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri». Le sue frasi interminabili al processo suonavano terribilmente noiose e il suo ritornello di aver agito su ordine e prestato giuramento di fedeltà lo facevano apparire come un uomo «spaventosamente normale».
Ma Arendt era caduta nella trappola tesa da Eichmann.
All’epoca non si conoscevano, infatti, tutti i documenti che sono emersi successivamente sul gerarca nazista. In particolare, le cosiddette «carte argentine», ovvero gli appunti dell’esilio, e i dialoghi e le interviste integrali di Willem Sassen registrate sui nastri, da cui emerge un Eichmann ben diverso: uno spietato, perverso criminale che al processo si finse «banale», mise in atto cioè una interpretazione, con notevoli doti da attore, per tentare di sfuggire alla condanna a morte (tentativo, peraltro, che si rivelò inutile, poiché i giudici israeliani non gli credettero). Quella «banalità» era, in altre parole, una maschera.
Quando Eichmann afferma al processo di «aver obbedito a precisi ordini superiori»; quando insiste nel dire di «non aver nutrito alcun odio personale per le vittime», anzi, di aver addirittura dovuto mettere a tacere la propria «sofferenza», sta solo recitando. Rimase, infatti, fino all’ultimo suo giorno fanaticamente fedele all’ideologia nazista e antisemita. Eichmann era presente alla Conferenza di Wansee, nel gennaio 1942, quando si decise, a tavolino, che la questione ebraica dovesse essere risolta con lo sterminio totale. La organizzò, quella Conferenza, e ne stese i verbali. Ne approvò le conclusioni. Non è vero che non aveva fatto altro che «temperare le matite a un tavolo in disparte». Eichmann era un uomo assetato di potere, che in Argentina, dove si era rifugiato per eludere il processo di Norimberga, si vantava con i suoi sodali nazisti superstiti, e il suo pubblico di affezionati, di aver mandato al gas sei milioni di ebrei, cifra che lui stesso aveva ricavato tenendo la contabilità dei trasporti. Totale era la sua abnegazione al genocidio, sadici i suoi festeggiamenti per i progressi della Shoah (sorseggiava cognac davanti al camino in compagnia dei suoi superiori), diffuso il terrore che seminava tra i prigionieri dei Lager.
La capacità di Eichmann di calarsi in un ruolo dimesso e anonimo, la sua abilità di manipolatore sociale ingannò, dunque, anche una mente sopraffina come quella di Arendt, che, basandosi sui verbali del processo, sugli interrogatori, raccontò a milioni di lettori un Eichmann fasullo. E, soprattutto, con quella sua nozione di «banalità del male», ha provocato interpretazioni riduttive e fuorvianti sulla natura stessa del nazismo e dei suoi crimini, soprattutto se si confronta con quella che emerse invece dieci anni dopo da un altro libro, uno sconvolgente libro, forse il più importante sulla Shoah, In quelle tenebre di Gitta Sereny. La giornalista e storica austriaca-britannica, di origini ebree ungheresi, raccolse i colloqui avuti nel 1971 – più di sessanta ore – nel carcere di Düsseldorf, con Franz Stangl, il boia austriaco comandante del campo di sterminio di Treblinka, dove più di un milione di persone trovò la morte. Sereny, a differenza di Arendt, non si ferma all’apparente «banalità del male» dell’ex comandante, ai suoi racconti spesso vittimistici – per quanto Stangl fosse un individuo molto più ordinario di quello che volle dar mostra di essere Eichmann –, ma sceglie di stanarlo e sondarlo, quel male, di guardarlo in faccia, di confrontarsi con esso.

Sereny registra ore e ore di conversazione con Stangl, intervista a lungo anche la moglie, e le figlie, conquistandosi la loro fiducia, e altre SS che lo hanno conosciuto, e i sopravvissuti al Lager. Ci sono pagine insostenibili in questo libro – alcuni racconti dei carnefici e delle vittime – perché ci immettono dentro la macchina della morte al lavoro, senza risparmiarci nulla di quell’orrore. Eppure, Sereny, che non deroga mai dal suo giudizio morale, che a volte vacilla di fronte ad alcune rivelazioni sconcertanti, che non smette di incalzare e pungolare il suo interlocutore, si lascia andare ad alcune considerazioni inaspettate, tipo questa: riferendosi al legame di Stangl con la moglie e al suo affetto incondizionato per le figlie, scrive: «non c’è dubbio, qualunque cosa egli sia divenuto, ch’egli sia stato capace di amore». E a conferma di questa intuizione, Frau Stangl, molte pagine dopo afferma:
«Paul era un padre incredibilmente buono e amoroso. Giocava sempre con le bambine. Gli faceva delle bambole, e poi le aiutava a vestirle. Lavorava con loro; gli insegnava una quantità di cose. Loro lo adoravano tutt’e tre. Era sacro, per loro…».
Come spiegare questa assurda dicotomia? Stangl ha iniziato la sua carriera nel nazismo occupandosi del “Programma Eutanasia” varato dal regime (detto anche Aktion T4), che sperimentò pionieristicamente le prime morti per gas sui disabili, come ampliamento di una legge del 1933 sulla sterilizzazione coatta; poi fu nominato alla direzione del campo di sterminio di Sobibór e infine a Treblinka. Una vita dedita allo sterminio di esseri umani, compresi centinaia di migliaia di bambini. Eppure, era un padre amorevole, un marito premuroso. E le sue figlie lo adoravano, e hanno continuato ad amarlo anche quando hanno scoperto chi era e che cosa aveva fatto.
Stangl è irritante nelle sue reticenze: per tutti gli incontri si ostina a negare le sue responsabilità, sostiene che non poteva fare altrimenti, che fu costretto dalle circostanze, scende continuamente a patti con la sua coscienza, svelando a Sereny il meccanismo psichico schizofrenico di difesa, «i due uomini che era diventato» per sopravvivere, evidente in maniera agghiacciante quando si compiace a un certo punto di aver reso Treblinka un posto «veramente bello», con uno zoo, le panchine, i fiori. Anche la moglie, che per tanto tempo ha preferito non sapere, rimuovere la verità, ci appare intollerabile. Eppure il metodo perseguito da Sereny – la strategia del ragno che tesse paziente la sua tela per bloccare la sua preda – alla fine del libro risulta vincente.
L’ultimo giorno in cui ha intervistato Stangl riesce finalmente a ottenere un’ammissione da lui. O almeno il massimo dell’ammissione che un uomo del genere poteva fare. «La mia colpa è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa» dice, dopo un’estenuante pausa in cui ha riconosciuto per la prima volta la sua responsabilità nello sterminio. Il giorno dopo, il 28 giugno 1971, Stangl muore in prigione per un attacco di cuore. Come se l’ammissione della sua colpa lo avesse letteralmente schiantato.

Questo malore mi ha fatto venire in mente una scena di un recente film, La zona d’interesse, di Jonathan Glazer, che racconta Auschwitz dall’altro lato, letteralmente, concentrandosi cioè sui carnefici, non sulle vittime: quello che vediamo non è il Lager, ma ciò che succede nei suoi paraggi, accanto, a ridosso, ai margini, ovvero la vita del comandante del campo Rudolf Höß e di sua moglie Hedwig che insieme ai loro cinque figli e il cane (oltre a una numerosa servitù locale) abitano in una casa e in un grande giardino in un terreno adiacente al muro del Lager. Un idillio ai confini dell’inferno. Lui va a pesca con i figli, racconta loro le fiabe per farli addormentare, lei cura le aiuole, riceve le amiche. Insieme organizzano feste con rinfreschi e bagni in piscina. Dall’altra parte del muro, intanto, rigorosamente fuori scena, proviene un paesaggio sonoro attutito, ma che non si interrompe mai: grida, pianti, lamenti, colpi di mitra, latrati di cani, ordini urlati, e soprattutto un rumore di fondo, continuo, incessante, un borbottio metallico che si presuppone provenga dai crematori, accompagnato da alcuni dettagli visivi che emergono dalla quotidianità della «famigliola» tedesca: il fumo delle ciminiere e quello dei treni in arrivo che si scorgono ai margini superiori di certe inquadrature, i bagliori notturni dei forni che si intravedono di notte alle finestre velate dalle tende della casa del comandante.
Il comandante ricorda molto Stangl, anche lui realizza il male con spietata freddezza, separando il suo ruolo di criminale da quello piccolo-borghese di padre di famiglia benevolo e marito premuroso, che persegue la sua piccola dose di felicità, fatta di benessere, status, sicurezza, carriera, rivalsa, una felicità molto kitsch, che si regge su un baratro di colpe, omissioni, indifferenza, omertà. Ma mentre la moglie è inamovibile nel non voler sapere e vedere (al punto che nasconde il muro del campo con gli alberi del suo giardino), tutta concentrata a mantenere ciò che possiede, lui a un certo punto del film ha un crollo fisico. Dopo aver ricevuto l’incarico di dirigere l’“Aktion Höß”, un’operazione a lui intitolata che consiste nel trasporto di 800.000 ebrei ungheresi nei diversi Lager, partecipa a una festa con le alte sfere del nazismo. Alla fine della serata è colto da conati di vomito sulla scalinata interna del palazzo, ed è costretto a sostare nel buio, nascosto, preoccupato che qualcuno possa vederlo.
A differenza di Stangl, Höß non prende consapevolezza di nulla, né si pente di nulla, ma quel vomito indica la verità del corpo contro una mente che tacita le sue colpe. È una verità fisica, che si ribella ai mascheramenti della coscienza. Quando ha riassunto il suo tempo passato con Stangl, Sereny non ha avuto dubbi nel dire che sentiva di «essere in presenza del male». Eppure Stangl era morto ammettendo una sua colpa, o forse a causa di quello, mentre in Eichmann non ci furono pentimento né ammissione alcuna. Ancora poco prima di essere processato si augurava che gli egiziani e gli arabi continuassero con Israele il lavoro iniziato da lui, sperava che i musulmani completassero lo sterminio totale che a lui era stato impedito. Sereny non ci offre una soluzione alla «divisione» diabolica che il male attua in chi lo compie: il male per lei resta un mistero. Come se calasse sull’umanità dall’alto.
«Io non credo che tutti gli uomini siano uguali, poiché la nostra caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi – scrive nell’epilogo del libro –. Ma l’individualità e la differenza non sono dovute soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci. V’è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo».
L’umiltà di Sereny nel non voler definire quel «nucleo» fa la differenza con l’approccio di Arendt. Sereny rifiuta i documenti – quelli su cui invece si concentra la filosofa – o almeno rifiuta di farne il centro della sua ricerca, per affidarsi invece all’ascolto della parola. In questo il suo metodo è simile a quello che Claude Lanzmann avrebbe utilizzato per il suo documentario Shoah, uscito nel 1985. Anche Lanzmann non crede nei documenti, in particolare – da regista – nelle immagini d’archivio. Nel suo documentario radicale, estremo, lungo quasi dieci ore, parte da un assunto etico rigorosissimo, da cui deriva anche un’estetica altrettanto rigorosa, ovvero quello dell’irrappresentabilità della Shoah, dell’impossibilità di restituirne l’immagine. Da qui la polemica con Steven Spielberg per Schindler’s List e il giudizio severo su La vita è bella di Benigni, film che considerava entrambi detestabili perché menzogneri. Per Lanzmann, in effetti, non c’è nulla da vedere nella Shoah – in particolare nei campi di sterminio di Chelmno, Belzec, Sobibór, Treblinka, Birkenau – nessuna immagine può riprodurre l’evento della «catastrofe». Un bel paradosso per un’opera filmica, che sceglie di rinunciare al materiale di repertorio.
Lanzmann lavora undici anni per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti (soprattutto dei pochissimi Sonderkommando scampati alla morte), ma anche dei testimoni, più o meno indifferenti (i contadini di Treblinka, gli abitanti di Chelmno), i collaboratori-complici, più o meno forzati (i conduttori dei treni, i ferrovieri, gli autisti delle SS), i carnefici stessi, e lo fa affidando alla parola l’unica forma di restituzione possibile, proprio come aveva fatto Sereny, spesso intervistando le stesse persone che abbiamo incontrato nel libro In quelle tenebre (come il notevole Richard Glazer, superstite di Treblinka). Pur sapendo che i «salvati» non hanno potuto fare realmente esperienza del Lager, non essendo entrati nelle camere a gas, come sosteneva anche Primo Levi, e nemmeno gli stessi «sommersi» (poiché sono morti appena arrivati, per la stragrande maggioranza), la parola, all’interno di un simile paradosso, mantiene la funzione fondamentale di ricostruzione della memoria. È una parola – quella della testimonianza dei sopravvissuti – sacralizzata attraverso la sua dissacrazione. Una parola che bisogna ascoltare insieme ai silenzi, alle incertezze, alle interruzioni provocati dagli improvvisi crolli emotivi, con il regista-intervistatore che incalza, incoraggia a continuare, a dire l’indicibile; una parola accompagnata dalle lente zoomate della cinepresa su quei volti segnati dall’inferno vissuto, quei volti che portano impresse, indelebili, le cicatrici dell’esperienza, volti di chi è sopravvissuto, sì, ma in qualche modo è anche morto dentro, nonostante una vita che è proseguita.
Le interviste avvengono spesso sui luoghi stessi dello sterminio, oppure, quando il testimone si trova altrove, sono montate con le immagini di quei luoghi, così che parola, volti e luoghi sono continuamente in dialogo tra loro. I luoghi, però, sono come appaiono adesso (ovvero al momento della realizzazione del film, nel 1985) e sono ripresi senza voci fuori campo, senza colonna sonora, senza commenti aggiuntivi: le lunghe, estenuanti carrellate che riprendono i prati, i boschi, le radure, le stazioni di Auschwitz, Treblinka, Sobibór, non testimoniano ciò che è stato, ma ciò che è rimasto. Anche quando la macchina da presa si inoltra all’interno dei Lager, e riprende i forni crematori, le docce, i cortili, è il vuoto che riprende. Ma indagando quel vuoto, che fa da contrappunto alla parola del ricordo, alla parola-testimonianza, certificando cioè quella irrappresentabilità dell’evento raccontato (quello che è successo non puoi vederlo, oggi non ci sono più in queste radure le montagne dei cadaveri, il fumo dei crematori, i nazisti, gli ebrei, non c’è più niente di ciò che stai ascoltando in quello che vedi), se ne evoca la verità con ancora più forza.

In fondo è questa la potenza del cinema di Lanzmann: quel montaggio così ipnotico, quei piani-sequenza, quegli indugi sugli spazi vuoti sono un racconto a parte, il vero nucleo di quel racconto, capace di farci percepire la memoria che i luoghi, ancor prima che le persone, conservano di ciò che è stato, con tutto il dolore e l’orrore della Storia di un intero popolo e dei suoi singoli individui. Ed è, forse, l’unica forma possibile di memoria su cui oggi – oggi che i sopravvissuti stanno scomparendo – possiamo contare. Ma se il metodo di Sereny sembra simile a quello di Lanzmann, le prospettive sono opposte. Basti confrontare, ad esempio, le interviste alla SS Franz Suchomel, detenuto nel 1963 e processato insieme ad altre dieci guardie di Treblinka. Lanzmann e Sereny attivano una diversa focalizzazione sulla stessa persona: mentre Lanzmann mantiene sempre un gelido distacco, un inflessibile rifiuto morale nei confronti dei carnefici («Signor Suchomel, non parliamo di lei, ma soltanto di Treblinka» gli dice a un certo punto, bloccando i suoi tentativi di giustificare il fatto che al momento della destinazione nessuno gli avesse detto che si trattava di un campo di sterminio), Sereny mostra invece sempre il tentativo intellettuale di accedere al cuore dei carnefici attraverso la ragione («La posizione che Suchomel ha adottato come ammiratore degli ebrei è altrettanto notevole della sua memoria, e psicologicamente interessante»). Proprio la ragione, così come la misura, e lo sforzo di comprendere l’incomprensibile, e la considerazione terenziana dell’«homo sum», rendono il libro di Sereny una degna risposta etica all’orrore, l’unica possibile forse, per evitare, come avvertiva Nietzsche, che lottare contro i mostri possa trasformare anche noi in un mostro.
Fabrizio Coscia
*Nota: dobbiamo allo straordinario lavoro documentale della filosofa e storica tedesca Bettina Stangneth, raccolto nel volume La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (pubblicato nel 2011 e tradotto in Italia nel 2017 dalla Luiss University Press), la demolizione del ritratto di Eichmann compiuto da Hannah Arendt.
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