
“Verso l’ultima sillaba”. Sulla poesia di Ernst Meister
Pangea - Monday, June 9, 2025Ci vuole lavorio d’ago per estrarre qualche filo, qualche bava d’alga dalla vita altrimenti sigillata di Ernst Meister. Allo stesso modo, i versi di Ernst Meister resistono cristallini, come sfingi di diamante, ignifughi al ‘significato’ – poiché “le parole sono sfinite” occorre andare per altre promiscuità, occorre sgelare le ultime fonti e farsi spiga dei mercenari. Così, le poesie di Meister sono ciò che resta dopo aver dragato un lago: frammenti di selce, l’elmo di un popolo sconosciuto, il femore di un bue a tre teste; resoconti geologici, cronache cristiche da un millenarismo sradicato, di cui resta l’amen e il sibilo, la mera fibula.
Nato nel 1911 a Hagen, Meister studia a Marburgo e a Berlino: tra i suoi insegnanti figurano Karl Löwith e Gadamer. Predilige la filosofia, la teologia, la storia dell’arte; aurorale è la raccolta Ausstellung, uscita nel 1932. Seguirà un lungo lazo di silenzio, un silente strazio, in devozione ai disastri. L’era di Hitler tacita il poeta, estraneo al clima del tempo: arruolato durante la Seconda guerra, ferito, arrestato dagli Americani in Italia, ritorna in patria falciato nel cuore e nel corpo. Ritorna, lentamente, a scrivere: nel 1953 esce Unterm schwarzen Schafspelz; nel frattempo, il poeta, per un po’, lavora come giardiniere nella fabbrica del padre. Scriverà tanto – sedici raccolte, una manciata di racconti e di drammi –, spesso per piccole edizioni, votando tutto se stesso alla scrittura. Ottiene qualche premio – il “Petrarca-Preis”, ad esempio, nel ’76 –, ma il riconoscimento più importante, il “Büchner” – andato, tra gli altri, a Gottfried e a Paul Celan, a Thomas Bernhard e a Elias Canetti –, è postumo, assegnato nel 1979; il poeta muore quell’anno, a metà giugno. Scherzo del fato, si dirà, connaturato a un poeta che ha fatto di tutto per nascondersi.
Negli anni, l’opera di Meister si è rivelata tra le più vertiginose e gravide di gloria della poesia tedesca contemporanea. Così scrive, tra gli altri, Gerd Müller: “La produzione lirica di Meister è sorretta dalla tensione paradossale fra ciò che si sa a proposito del ‘fondamento’ intimo di tutte le cose e, contemporaneamente, la consapevolezza di non poter ‘comunicare’ sul piano linguistico questo sapere” (in: Storia della letteratura tedesca dal Settecento a oggi, Einaudi, 1991, III/2, pp.64-65, dove – ravvisiamo segni, gli imprevisti di una sparizione incipiente – il poeta è dato per morto nel 1971…). Da qui, il linguaggio franto, l’apparente inettitudine del verbo, un procedere più che per enigmi per agnizioni.
Di norma, le poesie di Meister sono accalcate a quelle di Paul Celan e di Nelly Sachs; di solito dicono di “poesia ermetica” (didascalia che, ermeticamente, serra il becco a ogni altra intrusione); nel mondo inglese – dove Meister è assai tradotto: in catalogo Wave Books – sono affascinati dalla relazione, apparente, con l’opera di Heidegger. In realtà, Ernst Meister non riepiloga un dire filosofico, non in quello si ripiega. In lui, è il premio di una allucinata concretezza. Se Celan, per così dire, tiene l’Iddio alla gola, fa speleologia nell’indicibile, Meister reca erbario dei piccoli elementi di Eden: foglia inerte, nodo di vespe, sabbia; adamica muratura. Se Celan pretende il primo verbo, Meister si sporge presso l’ultima sillaba.
Così il poeta annuncia, nel 1962, la propria poetica:
“Beato lo scrittore che ignora che cosa sia il poetare, per così dire il nero su bianco… ma in compenso scrive poesie che sono inventate, qui e ora”.
Al ‘nero su bianco’ – ideologia di una ‘chiarezza’ che ottunde, che oscura – va sostituito il ‘qui e ora’, l’eloquio dell’istante, grave di venti e di falchi: al poeta il compito di ammutinare il linguaggio, nel gergo della predazione.
In Italia, Ernst Meister è stato tradotto da Andrea Mecacci per l’editore Donzelli, nel 2000: il libro s’intitola Il respiro delle pietre. In calce, si riproducono alcune poesie da Ora, nella traduzione di Stefanie Golisch, finora inedite. “Per via della sua discrezione, il suo essere sfuggente, mi ricorda i quadri di Giorgio Morandi: la stessa aura di intoccabilità”, scrive la Golisch nelle sue riflessioni. Ne consegue il consiglio, aureo:
“Poesia da leggere in un lungo pomeriggio d’estate, all’ombra di un vecchio albero. Senza interpretare, fare, tirare le somme, cercare di capire cosa vogliono dire. Leggere per leggere, diventare al contempo più pesante e più leggero e alla fine, forse, cadere nel sonno come un bambino, stanco di giocare”.
In Germania, il volume che raccoglie die Gedichte di Meister edito da Suhrkamp (2011) è curato da Peter Handke, tra gli ammiratori del poeta. “Se esiste un criterio di scelta, è questo: includere i versi e i ritmi in cui è costante la selvaggia consapevolezza della morte, la necessità del morire, perché è questo che determina il ‘detto pietrificato’ di Ernst Meister, quella energumena ed eterea sospensione tra il lamento per l’atteso niente, il pegno di essere vivi, e l’amore. È la morte, in effetti – lo insegna anche Goethe –, a conferire entusiasmo alla vita, a infondere ritmo alla poesia”.
Poesia di greti, questa, di ingrata grazia – poesia di speroni rocciosi – che è poi: rivoltare un cespuglio scoprendo l’angelo agnellino, capire che il bimbo che ti fissa, nella fotografia, sul frigorifero, eri tu, tra qualche millennio ed è quello e doverlo chiamare fuoco.

***
LE PAROLE SONO SFINITE
cinta dai tuoi capelli
ciascuna.
Nessun ladro
può nulla
quando entrambi
perdono
i sensi.
Non si può
annientare
la visione.
*
NEL SONNO E
nelle gole del sonno
quando incontri Quella
che si svela
dopo il piacere come
la morta
con il cuore pulsante,
come quella al centro
della stanza lattea
colma di risa delle ginocchia
e delle cosce,
e che subito ti scaglia
nel labirinto
del sogno comprensibile.
*
IL LAMPO
nasce da sé
e accende
i tuoi capelli.
Che venga
un incendio
dove scoppia il tetto,
la terra si squarcia.
Vieni,
un gelo viene
il più ardente.
*
CIÒ CHE DI QUESTA TERRA
amiamo, che
tu ami, fu
davvero potente.
Dunque ci hai reso
forestieri
d’amore. Ciò
resta nella morte
la ferita.
*
ECO LONTANO
dell’amore.
Sapevo
l’inizio e la fine
coniugi
nel nulla, nell’oro.
Ma ora
è fine sola.
Come un cane
mangio dal trogolo
che l’angelo senza palpebre
posò
nel basso crepuscolo.
*
UN BAMBINO
guarda la ciotola
colmo di tempo,
vede sorseggiare
l’imponente farfalla
grigia,
un bambino
e va
a pascolare nere pecore
al buio.
*
E IN SOGNO…
Nei condotti delle mie orecchie
la vita selvaggia
aveva perso il filo.
Dormivo,
e in sogno le spighe del grande
campo di grano battevano il tempo.
Una talpa, vecchissima, tornata bambina,
cantava nel suo labirinto
dolci melodie.
Così gli animali della notte,
quelli dalle ferite sanguinanti,
avevano trovato il loro cantore.
*
QUANTO SIAMO
promiscui!
Lo vedi
nei mercati,
nella faccia morta
dell’animale.
Tu sei
nessuno tranne te
eppure sei tutti.
*
EPPURE SIAMO
figli della terra –
non lo sappiamo?
Parti dell’origine,
le cui sorti
non dovrebbero
esserci tanto estranee.
Ma terribilmente
diviso sembra
lo stesso principio dei principi.
*
SENZA FIATO
saltare così lontano
nella vicina
vicinanza, la
più vicina,
verso l’ultima
sillaba pronunciata.
Traduzione di Stefanie Golisch
*In copertina: Joseph Beuys, 1972. Foto: © Erich Puls (Klaus Lamberty)
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