La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati
a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o
macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui
eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro
avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo
il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con
scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés
particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri
2020).
Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno
scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto,
restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del
Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe.
Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava
ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il
disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco,
1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla
nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera
d’arte. Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a
prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno
di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di
Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea
Sperelli.”[2]
Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era
in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo.
Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques
d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore
di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della
voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy»
della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai
agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di
artisti e intellettuali rinnegati in patria.
Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su
eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al
paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di
cantore del passato classico. Non esente dall’invettiva polemica, in aperta
sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a
carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de
Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di
Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.
Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”,
il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi
(tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di
lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società
benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso
wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i
borghesi:
> “[…] Contro un male sconosciuto
> Mettete alla porta Ganimede, e nudo,
> Benché segretamente ne conserviate la brama;
> Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti
> E vi scagliate sui nostri pretesi vizi.
> Credete di cancellare il riso di Narciso,
> Scapini che non siete, valletti di Cesare?”
In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord
Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di
giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si
rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di
Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua
giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata
da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel
romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei
conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano
l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle”
Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio
dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi
Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in
malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove
passò la crème de la crème di quegli anni.
L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia,
reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con
gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da
Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi
vennero cacciati dal ristorante Quisisana:
> “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio,
> calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître
> d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome
> dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a
> sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di
> Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar
> Wilde”.
Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del
primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu
con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie
dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei
fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario”
privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e
divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a
Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma
anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come
desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per
coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una
magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore»,
ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica,
divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la
gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di
accoliti.
Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia
insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923,
recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e
reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in
quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con
un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.
Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo
della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894),
mentre cade allucinato:
“O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre
Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto;
Angelo triste, esule dai divini paradisi,
Quale ombra serra il tuo funebre sorriso?
Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti,
L’abbraccio urlante e tenero dei giovani.
In te si è riflesso il loro più bel sonno
Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti.
I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca
E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto.
Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude
Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce,
Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci,
Spazzando la terra con le tue ali,
Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare
Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.”
Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro
malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze
desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a
quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo
sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca
il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta
la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso.
Pierluigi Piscopo
*****
Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie
giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del
signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si
stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti
prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly.
L’innario di Adone (Proemio)
Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata
Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte,
Per le aurore d’oro quando canti amici
Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci,
Son partito leggero, più leggero d’un capro,
Attraverso i campi arati e i boschi tremanti,
Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco,
Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca!
Udivo i richiami dei fiori e dei pastori,
– il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –
E qua e là dei canti modulati da lire,
Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza.
Vedevo fanciulli, come me, mormorare
Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli;
Offrendo lillà, profumi e latte.
E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri.
E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici,
Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste,
Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce,
Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco.
Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele,
Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore
Il fermento sconosciuto dei dolori divini
Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli:
I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio
Tra fuochi brillanti sulle alte montagne,
Un riposo virgiliano accarezzava i campi
E io mi sentivo puro, il male annientato.
I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero
Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa;
Avrei voluto morire di un bacio nel momento
Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio!
Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi,
Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba,
Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente
Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore.
E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica,
Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe,
Sogni infantili simili al cielo roseo
E la mia bocca umida per proferire questi inni!
*
Innocenza
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa,
I nostri cuori bambini han spiegato le ali,
Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi,
Li han fatti tremare come tortorelle;
Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse,
La lampada notturna ha posato il suo chiarore,
E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,
I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama.
A momenti, come il suono di una viola lontana,
Che vibra sulla pace di candide visioni,
Un brivido, un sospiro infantile si diffonde
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa.
*
Schoolboy
Era un liceo vecchio e cupo,
Mi ricordo, e come mi ricordo…
Nei miei occhi calarono le ombre,
La prima volta che vi entrai,
Il direttore era austero e duro,
Mi pareva un Dio,
E quando dovetti dire addio,
Separandomi dalla mamma,
Il mio cuore bambino non osò
Gridare dolore né incertezza,
Proseguii da solo sul selciato,
Fra ricordi di antiche carezze.
Un ragazzino mi condusse in aula,
Tutti a fissare il novizio,
Credendolo un vitellino,
E da solo trovai un posto.
Aprii un libro a caso,
Sentendo ronzare nella testa,
I giorni andati, come tamburi,
Che mi cantavano il caro abbandono.
Rivedevo la casa serrata,
Il grande sole la riscaldava,
E il giardino tremante
Di uccelli, insetti e rose.
Allora, non appena una lacrima
Stillò lungo il viso,
Per evitare scherni
E risate sulla mia tristezza,
Cercai qualcosa da scrivere
Laggiù, alla mia cara mamma,
Da scrivere a singhiozzi,
Che mi annoio senza il suo sorriso!
*Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni
dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai
volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia.
Bibliografia consigliata:
J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di
Roger Peyrefitte).
F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques
Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.
R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998.
J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005.
AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia,
Capri 2005.
T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021.
C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed
immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023.
*In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901
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[1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/
[2] https://caprinews.it/?p=22986
[3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1.
[4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html
[5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html
[6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/
[7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/
L'articolo “La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri
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Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo
dire. Riverginarlo. Resurrexi.
Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli
altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del
vocabolario.
Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.
Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba
a imbottirci di false speranze.
Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e
miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre
– altrove.
Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a
tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il
volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe
bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020,
Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72
anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta
di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel
luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia…
dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un
‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente
destabilizzante:
> “Il foyer della Poesia gode dei tentativi
> delle parole di trovare per lei
> una ragion d’essere
> (la poesia autorizza il conoscere
> non certo l’inverso)
>
> Riverso il capo tra le mani
> non rendo scaltre le poesie di agonie
> passate all’autopsia della notte:
> pratico alfabeti impropri
> estranei alla cappa del pensiero
> necessario a ordire le loro
> cronache contemporanee”
Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di
Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal
proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando
al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con
lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di
scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile
precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di
pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili.
In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata
Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica:
> “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì,
> allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È
> l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.
Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier
scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.
Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un
improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil
Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei
surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il
crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia
disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come
un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza.
Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande
editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile
“libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”.
Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond
Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che
sia pubblicato il suo Bestiaire.
Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si
installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in
prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una
pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto
borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è
improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).
Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica
all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry
Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard
Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come
trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto
per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire
l’universo”). Secondo il poeta
> “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso
> che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le
> mani”.
Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire
incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso
per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro
vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot,
contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.
Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può
restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo
mistico del verso.
Dunque, sì: documento-nocumento.
***
Crepita il crepuscolo e crolla la camera
sempre in quello stesso crollo
nell’atto della creatura randagia
finché Locarno non si serra
in una crisalide epica e crepa l’idea
Volto fisso
e freme la circolazione
nel particolare, oh, sì, l’unico
preso dal panorama, il convulso, il rovinoso
soprassalto della carne
la maestà che diviene sudore
e il più vile dei tratti:
il tutto rampogna la propria apoteosi
e
vivacità dell’ossessa pazienza
annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo
*
Lugano, la forma lappa
la sostanza del faticare
l’oscurità appena lambita
dalla speranza angolare
in aria si dispiega il rifugio
dello stesso volume o quasi
perché di rado l’arborescente visione
compie dell’asse degli anni
la nota astratta, la sorpresa
al calendario delle sentinelle
solo l’esasperazione
di un paradiso in sussiego
e il broncio corrugato come una goccia
preso da una divinità larva
che lavora al vertice
di un’immaginazione esperita
con tanto di balsamo addosso
con tanta redenzione priva di pareti.
*
Amadriadi arroganti al sole di maggio
C’era una lunga seta poetica
che nuotava con serica dolcezza.
“Intanto
della resina degli occhi
della sentinella che sfianca il giorno
la miscela è chiara
e il bruto atomo la sua fragranza
vinto al concerto
dalla prima”.
Amadriadi arroganti al sole di maggio
e perfino la grammatica dell’assenzio
le nuvole dei primati aggiunte
a quelle trasparenze su sopiti prati…
…su stupiti prati si slanciano
classifiche di ore al miele
e noi passiamo tra i punti e le virgole
per perderci (quando il medico mi ha auscultato
il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”)
*
L’autunno non sa redimersi dall’estate
quando esplodono le lacrime
perché è troppo – è difficile
il vano appello all’oggetto e al fine
Ed è rosa, è opaco
porge la sua tristezza
di rari alcolici
Da qui puoi vedere tutto
lo stato del risveglio
appena importato
Un torrente di carta & matita
i sorrisi della mano sinistra
frantumi di regni sconfitti
al culmine di una illogica velocità
Ma la vita è altro, è altrove
Matthieu Messagier
L'articolo “Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come
ribellione proviene da Pangea.
Leggere Días del bosque (Visor Libros, 2008; Premio Loewe 2007) significa
lasciarsi alle spalle la città, il cemento, i riquadri di cielo, per immergersi
in un’atmosfera che al primo sguardo non appartiene a chi vive respirando
gas. Bosco, fiume, cervo, luce, albero, uccelli, foglie, oscurità. Con questo
vocabolario Vicente Valero ci chiede di entrare in un altro ritmo e in un’altra
visione, dove l’estraneità iniziale a poco a poco si dissolve, si raccoglie e si
mette in ascolto.
Per avvicinarsi all’autore non si può tralasciare la sua nascita a Ibiza nel
1963, pervasa di tutto quello che un’isola porta in sé. L’insularità si presenta
infatti come un fattore significativo per la sua poesia e la sua opera
letteraria, di cui egli stesso prende coscienza pienamente nel momento in cui si
allontana per completare gli studi a Barcellona (perché solo lasciando un’isola
– afferma – si comprende cos’è un’isola). Alla domanda riguardo a come la
propria origine isolana abbia influito sulla sua opera, Valero ha risposto:
«L’unica cosa che oso dire è che in un’isola la natura si esprime in una forma
smisurata. Un’isola è di per sé un fenomeno prodigioso della natura,
paragonabile soltanto ai deserti e alle montagne più alte. L’artista insulare
diventa interprete di quell’eccesso e di quegli estremi. I colori e i profumi,
il sole, le notti, il mare: tutto si dà come un’inondazione, come un’onda
immensa e violenta. L’artista non sfugge all’onda, ma non si lascia trascinare a
riva: quando la vede arrivare, vi si tuffa a capofitto, la trapassa. Il suo
corpo lavato da quest’onda è l’unico tema».
Chiunque trascorra tempo, vita e pensieri su un’isola sa bene quanto ogni
elemento naturale si esprima nella sua forma estrema, conosce ogni
contraddizione o armonia tra furia e bonaccia, tra confine e infinito, voce e
silenzio, tutta la potenza racchiusa in uno spazio delimitato. Sa anche –
ricordando Pavese – che dovrà fare i conti con quel limite, come un orizzonte da
combattere o da accettare.
Il poeta si addentra dunque in questa natura potente con i sensi allertati e
ascolta, vede, sente, impara un nuovo linguaggio, perché la parola poetica
coinvolge tutti i sensi per Valero, e più ancora può agire come un senso
ulteriore del nostro corpo.
Alla luce di questo riferimento possiamo avvicinarci all’opera dell’autore
spagnolo, che è narratore, saggista, traduttore, ma soprattutto poeta, a partire
dal primo libro di poesie Jardín de la noche (El Serbal, 1987). La sua ultima
opera, El tiempo de los lirios (Periférica, 2024) si presenta invece nel profilo
un quaderno di viaggio: Valero percorre l’Umbria per incontrare, attraverso un
dialogo tra arte, cultura e natura, Francesco d’Assisi, proprio colui che in
forma altissima ha vissuto e riscritto la relazione di fraternità e consonanza
con ogni elemento del creato.
Ma cosa può essere el bosque per un poeta a cavallo tra due secoli accelerati
come i nostri? Se ci sentissimo ancora di pronunciare «nobis placeant ante omnia
silvae», che significato avrebbe?
La lettura de I giorni del bosco ci immerge in un ambiente naturale che non si
dà come un paesaggio fuori di noi, una bellezza con cui entrare in relazione e
di cui semplicemente godere, come egli stesso ha affermato:
> «non potevo situarmi di fronte e contemplare come un visitatore o un turista
> contempla o fotografa un paesaggio, ma parlarne dall’interno, lasciar parlare
> il mio corpo durante il transito per quel mondo solare, pieno di boschi
> riarsi, di segni millenari, invecchiati, di spiagge e sentieri, di notti
> profonde e albe umide. Credo che la mia poesia cerchi di esprimere una
> pulsione in cui i sensi, la memoria e la forza stessa degli elementi diventano
> una cosa sola, una sola verità».
Questa prospettiva unitaria supera quell’antropocentrismo predatorio che nel
libro è rappresentato da figure che creano un silenzio oscuro e mortale, la
morte del pensiero: il cliente, l’aviatore, il cacciatore che conosce le parole
ma il suo pensiero è lo sparo, e muore con la preda. Figure che non sono in
grado di incontrare e decifrare la parola dei luoghi né di vedere il cervo,
«quello che si lasciava vedere», la cui parola ogni volta è apparizione.
Il nostro bosco non è uno spazio idilliaco, ma un luogo di spari e
contraddizioni, di coltelli e sangue, di paura come lupo mite che ha perso il
branco, dove il dolore e la furia del vento si fanno palpabili. Allo stesso
tempo, è proprio qui che le parole scorrono come un fiume, parole che si
immergono e rinascono rinnovate, qui il poeta percepisce la sorgente che ha in
sé, il suo corpo, la sua mano diventano una fonte. Nell’osmosi tra parola, corpo
e bosco si rivela «questa lingua antica che risana».
Nel bosco di Valero, si fa strada la figura del caminante, che nel suo andare si
prepara alla visione nell’atto proprio di riconoscere di essere fatto della
stessa materia del bosco che attraversa. Il sangue che il viandante lascia sui
biancospini è verde come erba e si rinnova con la fioritura, le orme lasciate
sul terreno «sono come membra in più del suo corpo (…) sono polvere e fango –
come una qualsiasi altra parte del mio corpo», leggiamo nelle Dichiarazioni, le
ventiquattro prose poetiche che costituiscono la seconda parte de I giorni del
bosco, ognuna delle quali – in corrispondenza alle ventiquattro poesie che
aprono il libro – riprende e approfondisce le visioni e gli squarci che la prima
parte del testo – Poesie appunto – offre.
Colmo di stupore e solitario è l’animo del poeta, «nemmeno i suoi demoni lo
accompagnano», mentre si avventura nel «bosco segreto delle parole» dove con
forza analogica si avvicinano realtà che sembrano lontane ma che, accostate,
rivelano nuovi significati, si misurano con l’indecifrabile e l’indicibile,
perché, secondo Valero, è solo la parola poetica ciò che può proteggerci da
quanto non può essere detto o compreso. Qui le parole sono alberi elevati e
misteriosi: gli alberi sognano, le foglie sono «parole sagge e pronunciate a
bassa voce».
Acuta è la percezione del viandante, vedere, ascoltare, immergersi, toccare,
palpare sono i suoi verbi:
così può nascere quella «oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le
mani».
Immerso nel reale, Valero è un poeta che continua a credere nell’ispirazione che
si manifesta lungo un cammino di avvicinamento, mai del tutto compiuto, verso
una verità che può darsi solo per frammenti. Ma qualcosa può accadere in questo
spazio-tempo del cammino, la sete del poeta-caminante può calmarsi, può apparire
un segno che illumina, una ráfaga dice il poeta, un lampo che mette a fuoco
l’intuizione di quella verità che proprio la realtà ci sta rivelando.
Accogliere la forza animistica della parola di Valero, parola allo stesso tempo
concreta, sanguinante, sussurrata e stupefatta, significa accogliere la sua fede
nella parola, che scaturisce da una continua ricerca nel luogo in cui il
«mistero è tangibile», dove luce e ombra, oscurità e chiarezza si rincorrono,
dove anche la caduta è luminosa. Qui respira l’emboscado, come scrive l’autore
nella terza e ultima sezione Discorso in versi che conclude il libro, un uomo
nuovo, una figura inavvertita, tutt’uno con la materia infinita del bosco e
delle sue parole.
Cinzia Thomareizis
*
Poesie
I
Sono parole le foglie di questo albero di fico.
Parole sussurrate.
Il merlo le convoca e le pronuncia con la sua lingua nera
dell’alba. Io credo ancora in voi.
Credo nell’aria pallida di questo inverno e nelle foglie senza luce
che ora scivolano nude, scorrono come parole
ultime del mondo:
oscure messaggere di una più profonda e perfetta chiarezza.
II
Un giorno, nel bosco segreto delle parole, il cervo che avevo visto, quello che
si lasciava vedere, laggiù dove non ci sono strade né sentieri ma solo erba alta
e rami sparsi, mi disse che il fiume della notte illumina i disperati, a patto
che immergano senza paura il loro dolore.
III
L’aviatore non è come un uccello.
L’aviatore che ne sa, per esempio, di questo fango.
Di queste pietre azzurre sotto l’albero.
Che ne sa l’aviatore di queste radici.
Di questi rami putridi, di queste foglie bagnate:
così piacevoli e soffici.
VI
Sogna di essere stato una goccia di pioggia, un padre per gli usignoli.
Sogna anche di essere stato una lanterna nella notte, una dimora per gli esuli,
un’ombra per i viandanti a mezzogiorno.
Adesso che sta per essere abbattuto, sogna di essere stato un albero l’albero.
IX
Parole che abbiamo visto immergersi solitarie ogni notte nelle acque oscure di
questo fiume.
Il cervo che avevo visto allora beveva, lavava le sue ferite invisibili.
Nel buio una nuova lingua rinasceva, fremeva come un animale notturno, divampava
fino all’alba.
XI
Una volta sulla tavola del tramonto vidi anche dei bicchieri vuoti, i frammenti
azzurri di un pane sconosciuto. C’era sangue sulla tovaglia tessuta dagli dèi,
coltelli bruciati dal sole.
Mi avvicinai e mangiai. A quel tempo mi nutrivo soltanto di ferite oscure, di
antichi e violenti sacrifici.
XVII
Il vento cerca sempre il bosco: sa che qui il suo dolore sarà libero, potrà
gemere, erompere, far rabbrividire la terra.
Sa che qui potrà dichiarare il suo tormento:
il piacere della sua ira.
XX
Oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le mani, palpando la membrana
appiccicosa dei nidi, la crescita del muschio e della ragnatela, le vene bianche
delle foglie morte, l’aridità del formicaio.
XXI
La paura era solamente un povero lupo che correva mite e disperato verso nessun
luogo, un animale perso sotto la pioggia nera del bosco: solo un’ombra assente e
infelice del branco.
XXIII
Ho lasciato ogni giorno il mio sangue sui biancospini.
Il mio sangue in questo bosco è verde.
Quando i biancospini fioriscono, anche il mio sangue si rinnova.
Così ho imparato a fiorire.
Così ho imparato a contemplare il mio sangue
XXIV
Una goccia del mio sudore nel bosco farà crescere l’albero della sete. All’ombra
di quest’albero un giorno forse riposeranno altri viandanti.
F0rse, all’ombra di quest’albero, un giorno le parole del bosco saranno di nuovo
ascoltate, quel cervo che vidi sarà visto di nuovo.
Che una goccia del mio sudore sia questo.
*
Dichiarazioni
II
In questo nostro bosco di parole il cervo è servo del fiume e della luce, si
abbevera a un’acqua che rischiara. Ciò che dice e ciò che tace lo sa solo il
viandante, colui che sale sempre più in alto, colui che un giorno riuscirà a
vedere il cervo. Ogni sua parola è un’apparizione, un regalo del bosco.
Di notte – dove non ci sono strade né sentieri – il fiume scende con la sua
luce, le sue fiamme umide, le sue voci cristalline. Vengono allora ad
abbeverarsi di consolazione quelli che si sono persi nel bosco: gli uomini che
si immergono. Nel loro dolore si trova anche pace.
Il cervo è una trasparenza e un riflesso dell’acqua, un’ombra fuggita dal
giardino del salmista, uno strano evento. Un cervo ha sempre sete, per questo
conosce il cammino dei disperati, le orme riarse degli altri fiumi. Per questo
nella mia sete l’ho visto anch’io.
VII
Nessuno accompagna il viandante. Nemmeno i suoi demoni lo accompagnano quando si
mette in cammino, quando si addentra nel bosco.
È questa la solitudine del viandante solitario. È questo l’orizzonte nitido e
virtuoso di ogni suo cammino.
XV
Ho chiesto al bosco che si prenda cura della mia anima, che la bagni con essenze
luminose, con le sue resine rosse. Non desidero un’anima pura: solo un’anima che
profumi di rami bruciati dal sole, di nido e di muschio, di fiume senza ritorno.
Ho anche chiesto al bosco che renda la mia anima un recipiente migliore, creta
utile e bella, di cui si possano servire gli uccelli e i viandanti, i cervi e le
genette. Perché tutti un giorno possano bere acqua misericordiosa, acqua
dell’infinito.
Ho anche chiesto al bosco il calore della sua bocca, perché in questo modo la
mia anima possa per sempre sentire il fiato umido della luce, la saliva fertile
delle stagioni, il fermento oscuro di ogni radice.
Non voglio un’anima pura che miri semplicemente al cielo. Voglio un’anima che
porti il suo gemito fino alla bocca del bosco e che sia salvata se possibile dai
fiumi sotterranei, dalle promesse del lichene. E per questo ho chiesto al bosco
di lambire la mia anima con la sua lingua invisibile.
XX
Anche le mie mani possiedono una loro visione del bosco, hanno imparato ad
aprire le pagine segrete e a leggervi le parole invisibili. Ne palpano
l’oscurità e la temperatura, il timore e la speranza.
Le mie mani accarezzano il miracolo del nido, la sua pelle notturna. Accarezzano
l’aria esalata dalle radici, la forza dei frutti nuovi, la scia umida e
trasparente delle lumache.
Tastano la misera luce del muschio e il brusco presentimento dei rami spezzati.
Tastano l’età della corteccia e la consistenza della resina. Tastano l’umidità
del colore verde e l’alito degli scarabei.
Accarezzano anche gli occhi dell’animale morto e palpano nel suo sguardo l’ombra
azzurra di ogni cammino, l’acqua desiderata.
Accarezzano il polso fertile e misterioso della sua decomposizione.
Le mie mani parlano allora un’altra lingua: quella che hanno imparato toccando
il tessuto del bosco, il suo mistero tangibile.
XXIV
Là dove, infine, mi siedo a riposare ogni giorno c’è un odore di lichene
bruciato, di ruta e di timo.
È un luogo che abitava in me prima di conoscerlo. È un’ombra desiderata con
dolcezza.
Sotto quest’ombra, il mio corpo è una fonte. E adesso posso anche sentire il
freddo oscuro e sotterraneo, la sorgente invisibile che risiede in me. Che le
radici e gli uccelli di passo vengano ad abbeverarsi, se lo vogliono.
Nella mia fatica ho visto altre strade, una pineta più pura. Adesso osservo il
mio sudore e scrivo queste parole che sono foglie del bosco, foglie umide che
annunciano il suo segreto.
Prima di fare ritorno, prima di mettermi un’altra volta in cammino, un sole cupo
lava il mio corpo con la sua resina bianca.
Traduzione di Cinzia Thomareizis
*In copertina: Georgia O’Keeffe, From the Faraway, Nearby, 1937
L'articolo “Questa lingua antica che risana”. Nel bosco segreto di Vicente
Valero proviene da Pangea.
Thomas Chatterton si ammazza alla fine di agosto del 1770, in un angusto abbaino
di Londra, in Brook Street: avrebbe compiuto diciott’anni a novembre. Nato a
Bristol, si era trasferito nella capitale certo di poter vivere del proprio
estro poetico: scriveva versi di screanzata nobiltà da quando era bambino. Tra
l’altro, si era inventato un accattivante alter ego: Thomas Rowley, monaco
vissuto nel XV secolo, sagace nell’ode, nell’afflato epico – la Song from
Ælla in questo particolare canone è un piccolo capolavoro –, nell’inno
dall’ardore biblico. Un odore di selva, di Gerusalemme nei boschi, si respira
nelle poesie di Rowley. Per un po’, qualcuno credette agli inganni di
Chatterton, il ragazzino che trafficava con l’antica parlata inglese, leggeva
Edmund Spenser, adorava le Bibbie miniate, che celavano draghi e manifesti elfi
dietro il leggio degli evangelisti. È vero, era l’era dei rifacimenti medioevali
– l’Ossian forgiato da Macpherson, per dire – e delle liriche nate tra cimiteri
di campagna; in Chatterton, tuttavia, la razzia è raddoppiata, pura previsione
di Borges: a volte, il fittizio Rowley riscrive versi di Acca, il vescovo di
Hereford vissuto nell’VIII secolo. Traduceva Orazio.
A Londra, il ragazzino tentò di accattivarsi i favori di Horace Walpole: lo
scrittore del Castello di Otranto, l’inventore del gothic story, abile mestatore
di manoscritti ritrovati, frequentava il Parlamento, era conte di Ortford, tra i
più potenti e autorevoli intellettuali del tempo. Walpole cadde nel tranello di
Chatterton: quando scoprì che Rowley non esisteva, mero frutto della sua
adolescente invenzione, s’incupì, livido d’invidia; fece saltare una
pubblicazione già prevista, alienò Thomas dall’ambiente. Il ragazzo rispose con
le armi della poesia, inviando a Walpole un’ode altera, intrisa d’ira,
dall’attacco spiazzante, naturalmente postuma:
> Walpole, non avrei mai pensato
> che esistesse un cuore meschino come il tuo.
> Tu che, cullato dal lusso, fissi con disprezzo
> il ragazzo disperato, senza amici né padre…
Forlorn: così si descriveva Thomas the Boy – disperato, desolato, da tutti
desertificato. Si uccise con l’arsenico, non prima di aver fatto a pezzi i
propri residui versi. Nel quadro del preraffaellita Henry Wallis, The Death of
Chatterton (1856), il ragazzo è chino sul letto, pare un corpo di ceramica;
fulvi i capelli, i pantaloni viola; dalla finestra, semiaperta, un frammento
londinese: la luce è fulgida, sotto l’ala dell’arcangelo.
Thomas Chatterton, il primo poeta maledetto della storia della poesia moderna,
diventò un mito. A lui si riferiscono, a turno, inserendosi in quella imberbe
epopea, John Keats e Percy Bysshe Shelley; la sua fama varcò i confini
nazionali. Alfred de Vigny gli dedicò un’opera, Chatterton (1835), appunto, che
inaugura il tema – da allora dominante – del talento puro, barbarico,
inappropriato al proprio tempo, del poeta ingiuriato, suicidato dalla società.
Intorno a quel testo, Leoncavallo costruì Chatterton, opera lirica in tre atti,
andata in scena al Teatro Drammatico di Roma nel marzo del 1896 – senza troppi
successi, va detto. Prima della biografia di Rimbaud ordita da Ardengo Soffici,
Ettore Allodoli – amico di Papini, futuro biografo di Michelangelo, Cellini,
Giovanni delle Bande Nere e Savonarola –, nel 1904, firmò un rapace profilo
di Thomas Chatterton, secondo la moda delle agiografie dei ‘ribelli’. Scrisse
che leggendo Chatterton, una leggenda, “ci sentiamo turbati come dinanzi a
qualcosa di straordinario”.
Più che il genio sfiorito dalla sfortuna, l’idea del talento troppo presto
reciso, in Chatterton s’impone la profezia del prodigio. Intendo: la prodigalità
del verbo, la pronuncia inselvatichita da un eccesso di solitudine,
l’immaginario sbrindellato. È naturale che la città rigetti Chatterton, il poeta
provinciale, alla provincia dell’adultità, che vaga tra chiese dismesse e
dimesse valli, che ci impone un Medioevo dei sensi. A differenza di William
Blake, uomo ‘totale’, uomo celeste, compiuto nel creare, Thomas Chatterton è
il puer, l’infinitamente ingenuo, il totalmente ispirato, il tutto che spira:
ovvia, dunque, l’imperfezione, lo sbrego, la lingua mutilata, la speranza
messianica presto delusa. Egli sfregia l’ordine originario, la cultura
costituita: è, allo stesso tempo, un Jackson Pollock tra i poeti pompier e un
arcano bizantino agli occhi di chi crede di aver inventato la prospettiva
lirica. È esagerato tra i contemporanei, ma pure il più arguto tradizionalista.
Per tale intransigenza, Chatterton diventa l’inno e la coccarda dei Romantici
inglese.
È stato William Wordsworth ad affibbiare a Chatterton la definizione – the
marvellous Boy – che gli resta eternamente incisa: la troviamo in un Resolution
and Independence, il poema pubblicato nel 1807. Eppure, fu Samuel Taylor
Coleridge a nutrire una specie di demoniaca affinità con Chatterton. Della
sua Monody of the Death of Chatterton esistono sette versioni; la prima è del
1790, il poeta ha diciott’anni, vuole eguagliare l’estro funereo di Chatterton,
si aggrappa alla musa:
> “Musa, sussurra lirici lai
> il mio cuore s’imbatta nella lode!
> Ma, Chatterton… ora odo il tuo nome
> e Fantasia raggela, ragguaglia morte ogni Speranza di Fama.
>
> Quando Bisogno e Inettitudine hanno sfibrato la tua anima
> inzuppata nella tazza vedo Morte che assidera
> e il tuo cadavere abbagliante di lividi
> sulla cruda terra vedo, vedo
> l’ardore che già arma il mio immaginare
> e il petto sfodera un sospiro
> poi è l’Ira che lampeggia
> nella lacrima e mi erode gli occhi”.
Di questo dice questo raffazzonato articolo: dell’ossessione dei poeti per i
poeti che non ci sono più. Ciascuno ha i suoi: alcuni ci ruotano attorno come
cagnolini, altri ci crescono in seno come una serpe. C’è chi tiene accesa per
noi la luce, fino all’alba – chi screzia i nostri appunti. Chi imita il suono
del chiurlo o il rumore della pioggia; chi si traveste da civetta o da gatto.
Ciascun poeta vivo ha i propri poeti morti per padrini, di cui non sa nulla –
eppure, sono loro a introdursi nelle nostre vite di soppiatto, inattesi, a
testimonianza. Un poeta è vivo per il patto che ha stretto con un poeta morto.
L’ultima versione della Monody è del 1834: Coleridge è in punto di morte,
zittito, da tempo, dall’abuso di oppiacei, da una vita di flebili successi,
grave nel fallire. Nel 1817 aveva pubblicato la Biographia Literaria. Perfino
negli anni cruciali, quelli del Rime of the Ancient Mariner (1798), Coleridge
continua, con demoniaca furia, a riscrivere la Monody. È una sorta di sabba, di
ostile liturgia: Coleridge sfregia se stesso per evocare lo spirito di
Chatterton. La versione più riuscita è quella del 1829, in cui la vita di
Coleridge pareggia misticamente quella di Chatterton. Eccone alcuni squarci:
“Un miracolo pare pallore di morte:
tutti dormono con gaudio, Feti
e Infanti, Giovani e Vecchi, notte
che segue notte fino alla notte perenne!
Raddoppiata stranezza: la vita non è che
ansimare sulle ripide vie della Necessità.
Ma vai via, Fantasma col grugno, Re Scorpione, via!
Riserva i tuoi terrori, quel pavoneggiare di spine
ai Ricchi codardi, alla Colpa con la stola di Stato!
Ecco, io preferisco stare di fianco alla tomba di uno
marcato dal prodigio e dall’avaro Fato
(lui che tutto dona e tutto nega):
faceva risuonare enigmatiche cupole, antiche
campane con la voce di una Madre: torna
povero Puer, torna a casa, strenuo vagabondo!
O Chatterton! Questa smorfia di pietre ti protegge
dallo scempio, dal cupo gelo dell’abbandono.
Troppo a lungo l’irriconoscenza ti ha irritato.
Qui hai riposo, sotto questa zotica zolla!
Ma la tua parola vaga, non è congiunta alla terra
ma tra le abbacinanti schiere dei giusti
presso il trono di pietà del tuo Dio
dove l’amore redime nell’inno ogni cosa
(credici, anima mia), all’arpa dei Serafini. […]
Lontano dagli uomini, tra boschi dai sentieri
insensati, era solito vagare, come il raggio
di una stella che mareggia tra i rami dell’albero.
Qui, nella famelica ora degli ispirati
quando l’anima sente ribollire il proprio potere,
in queste terre selvagge, nel ruggire delle cave rocche
dove si libra il leonino gabbiano
sei passato, con gambe ineguali e sassoni
versando al vento la resina di un canto in coccio:
sulla soglia di qualche spaventoso scoglio
ti fermavi, fissando le onde, ovunque. […]
O Chatterton! Se fossi ancora vivo
di certo apriresti le danze della burrasca
ti uniresti a noi per guidarci verso
l’indivisa valle della Libertà;
e quando cadrà la sera, la serafica,
saremo una folla intorno a te, rapiti
dal tuo maestoso canto, esultanti
per quella Poesia dagli occhi di ragazzo
mascherata con la canizie dell’Antichità”.
In questa specie di manifesto romantico – il poeta canta nei meandri del bosco,
non nei club della City, si fa editare dagli alcioni e dalle querce – si
prefigura l’icona del Wanderer di Friedrich. Diversi decenni dopo, nel 1938,
tenendo insieme i toni di Coleridge e il mito di Chatterton, Dylan Thomas
scrive O Chatterton – come a dire che i morti non hanno requie, che tutto
reclamano. Il riferimento alla “valle della Libertà” è specificato nella strofa
finale, qui non tradotta. Coleridge cita il Susquehannah, il fiume che
attraversa la Pennsylvania, lo stato di New York e il Maryland. Coinvolto dalle
idee dell’amico Robert Southey, Coleridge voleva fondare in un luogo boschivo
non ben precisato intorno al Susquehannah una comunità egualitaria. Sarebbero
partiti in dodici, tutti poeti, con relative consorti. La loro idea di
vita, pantisocrazia, fondeva averi messi in comune, assenza di proprietà
privata, ricerca spirituale. Si trattava di una poetica dell’esistere: i poeti
avrebbero coltivato i campi per tre ore al giorno, destinando il resto del tempo
alla poesia e allo studio. Nessuno, in quella colonia, avrebbe primeggiato
sull’altro. Le donne, devote, avrebbero alienato i mariti dall’ira con le arti
dell’amore. Coleridge pensava che la politica europea, in sé, fosse rea di
schiavismo e di oppressione. Gli mancarono le sostanze economiche – e spirituali
– per realizzare gli intenti, presto naufragati. Preferiva baloccare con gli
spiriti. Chatterton, poeta irredento, non è mai morto: se non lo vedi è nascosto
lì, sotto il tuo palato, usa la tua lingua come una zattera. Azzannalo.
*In copertina: un disegno di Mervyn Peake
L'articolo “Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo
spirito inquieto di Chatterton proviene da Pangea.