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“Questa lingua antica che risana”. Nel bosco segreto di Vicente Valero
Leggere Días del bosque (Visor Libros, 2008; Premio Loewe 2007) significa lasciarsi alle spalle la città, il cemento, i riquadri di cielo, per immergersi in un’atmosfera che al primo sguardo non appartiene a chi vive respirando gas. Bosco, fiume, cervo, luce, albero, uccelli, foglie, oscurità. Con questo vocabolario Vicente Valero ci chiede di entrare in un altro ritmo e in un’altra visione, dove l’estraneità iniziale a poco a poco si dissolve, si raccoglie e si mette in ascolto. Per avvicinarsi all’autore non si può tralasciare la sua nascita a Ibiza nel 1963, pervasa di tutto quello che un’isola porta in sé. L’insularità si presenta infatti come un fattore significativo per la sua poesia e la sua opera letteraria, di cui egli stesso prende coscienza pienamente nel momento in cui si allontana per completare gli studi a Barcellona (perché solo lasciando un’isola – afferma – si comprende cos’è un’isola). Alla domanda riguardo a come la propria origine isolana abbia influito sulla sua opera, Valero ha risposto: «L’unica cosa che oso dire è che in un’isola la natura si esprime in una forma smisurata. Un’isola è di per sé un fenomeno prodigioso della natura, paragonabile soltanto ai deserti e alle montagne più alte. L’artista insulare diventa interprete di quell’eccesso e di quegli estremi. I colori e i profumi, il sole, le notti, il mare: tutto si dà come un’inondazione, come un’onda immensa e violenta. L’artista non sfugge all’onda, ma non si lascia trascinare a riva: quando la vede arrivare, vi si tuffa a capofitto, la trapassa. Il suo corpo lavato da quest’onda è l’unico tema».  Chiunque trascorra tempo, vita e pensieri su un’isola sa bene quanto ogni elemento naturale si esprima nella sua forma estrema, conosce ogni contraddizione o armonia tra furia e bonaccia, tra confine e infinito, voce e silenzio, tutta la potenza racchiusa in uno spazio delimitato. Sa anche – ricordando Pavese – che dovrà fare i conti con quel limite, come un orizzonte da combattere o da accettare.  Il poeta si addentra dunque in questa natura potente con i sensi allertati e ascolta, vede, sente, impara un nuovo linguaggio, perché la parola poetica coinvolge tutti i sensi per Valero, e più ancora può agire come un senso ulteriore del nostro corpo. Alla luce di questo riferimento possiamo avvicinarci all’opera dell’autore spagnolo, che è narratore, saggista, traduttore, ma soprattutto poeta, a partire dal primo libro di poesie Jardín de la noche (El Serbal, 1987). La sua ultima opera, El tiempo de los lirios (Periférica, 2024) si presenta invece nel profilo un quaderno di viaggio: Valero percorre l’Umbria per incontrare, attraverso un dialogo tra arte, cultura e natura, Francesco d’Assisi, proprio colui che in forma altissima ha vissuto e riscritto la relazione di fraternità e consonanza con ogni elemento del creato. Ma cosa può essere el bosque per un poeta a cavallo tra due secoli accelerati come i nostri? Se ci sentissimo ancora di pronunciare «nobis placeant ante omnia silvae», che significato avrebbe?  La lettura de I giorni del bosco ci immerge in un ambiente naturale che non si dà come un paesaggio fuori di noi, una bellezza con cui entrare in relazione e di cui semplicemente godere, come egli stesso ha affermato:  > «non potevo situarmi di fronte e contemplare come un visitatore o un turista > contempla o fotografa un paesaggio, ma parlarne dall’interno, lasciar parlare > il mio corpo durante il transito per quel mondo solare, pieno di boschi > riarsi, di segni millenari, invecchiati, di spiagge e sentieri, di notti > profonde e albe umide. Credo che la mia poesia cerchi di esprimere una > pulsione in cui i sensi, la memoria e la forza stessa degli elementi diventano > una cosa sola, una sola verità». Questa prospettiva unitaria supera quell’antropocentrismo predatorio che nel libro è rappresentato da figure che creano un silenzio oscuro e mortale, la morte del pensiero: il cliente, l’aviatore, il cacciatore che conosce le parole ma il suo pensiero è lo sparo, e muore con la preda. Figure che non sono in grado di incontrare e decifrare la parola dei luoghi né di vedere il cervo, «quello che si lasciava vedere», la cui parola ogni volta è apparizione.  Il nostro bosco non è uno spazio idilliaco, ma un luogo di spari e contraddizioni, di coltelli e sangue, di paura come lupo mite che ha perso il branco, dove il dolore e la furia del vento si fanno palpabili. Allo stesso tempo, è proprio qui che le parole scorrono come un fiume, parole che si immergono e rinascono rinnovate, qui il poeta percepisce la sorgente che ha in sé, il suo corpo, la sua mano diventano una fonte. Nell’osmosi tra parola, corpo e bosco si rivela «questa lingua antica che risana». Nel bosco di Valero, si fa strada la figura del caminante, che nel suo andare si prepara alla visione nell’atto proprio di riconoscere di essere fatto della stessa materia del bosco che attraversa. Il sangue che il viandante lascia sui biancospini è verde come erba e si rinnova con la fioritura, le orme lasciate sul terreno «sono come membra in più del suo corpo (…) sono polvere e fango – come una qualsiasi altra parte del mio corpo», leggiamo nelle Dichiarazioni, le ventiquattro prose poetiche che costituiscono la seconda parte de I giorni del bosco, ognuna delle quali – in corrispondenza alle ventiquattro poesie che aprono il libro – riprende e approfondisce le visioni e gli squarci che la prima parte del testo – Poesie appunto – offre.  Colmo di stupore e solitario è l’animo del poeta, «nemmeno i suoi demoni lo accompagnano», mentre si avventura nel «bosco segreto delle parole» dove con forza analogica si avvicinano realtà che sembrano lontane ma che, accostate, rivelano nuovi significati, si misurano con l’indecifrabile e l’indicibile, perché, secondo Valero, è solo la parola poetica ciò che può proteggerci da quanto non può essere detto o compreso. Qui le parole sono alberi elevati e misteriosi: gli alberi sognano, le foglie sono «parole sagge e pronunciate a bassa voce». Acuta è la percezione del viandante, vedere, ascoltare, immergersi, toccare, palpare sono i suoi verbi: così può nascere quella «oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le mani».  Immerso nel reale, Valero è un poeta che continua a credere nell’ispirazione che si manifesta lungo un cammino di avvicinamento, mai del tutto compiuto, verso una verità che può darsi solo per frammenti. Ma qualcosa può accadere in questo spazio-tempo del cammino, la sete del poeta-caminante può calmarsi, può apparire un segno che illumina, una ráfaga dice il poeta, un lampo che mette a fuoco l’intuizione di quella verità che proprio la realtà ci sta rivelando.  Accogliere la forza animistica della parola di Valero, parola allo stesso tempo concreta, sanguinante, sussurrata e stupefatta, significa accogliere la sua fede nella parola, che scaturisce da una continua ricerca nel luogo in cui il «mistero è tangibile», dove luce e ombra, oscurità e chiarezza si rincorrono, dove anche la caduta è luminosa. Qui respira l’emboscado, come scrive l’autore nella terza e ultima sezione Discorso in versi che conclude il libro, un uomo nuovo, una figura inavvertita, tutt’uno con la materia infinita del bosco e delle sue parole.  Cinzia Thomareizis * Poesie I Sono parole le foglie di questo albero di fico. Parole sussurrate. Il merlo le convoca e le pronuncia con la sua lingua nera dell’alba. Io credo ancora in voi. Credo nell’aria pallida di questo inverno e nelle foglie senza luce che ora scivolano nude, scorrono come parole ultime del mondo: oscure messaggere di una più profonda e perfetta chiarezza.        II Un giorno, nel bosco segreto delle parole, il cervo che avevo visto, quello che si lasciava vedere, laggiù dove non ci sono strade né sentieri ma solo erba alta e rami sparsi, mi disse che il fiume della notte illumina i disperati, a patto che immergano senza paura il loro dolore.  III L’aviatore non è come un uccello. L’aviatore che ne sa, per esempio, di questo fango. Di queste pietre azzurre sotto l’albero. Che ne sa l’aviatore di queste radici. Di questi rami putridi, di queste foglie bagnate: così piacevoli e soffici. VI Sogna di essere stato una goccia di pioggia, un padre per gli usignoli. Sogna anche di essere stato una lanterna nella notte, una dimora per gli esuli, un’ombra per i viandanti a mezzogiorno. Adesso che sta per essere abbattuto, sogna di essere stato un albero l’albero. IX Parole che abbiamo visto immergersi solitarie ogni notte nelle acque oscure di questo fiume. Il cervo che avevo visto allora beveva, lavava le sue ferite invisibili. Nel buio una nuova lingua rinasceva, fremeva come un animale notturno, divampava fino all’alba. XI Una volta sulla tavola del tramonto vidi anche dei bicchieri vuoti, i frammenti azzurri di un pane sconosciuto. C’era sangue sulla tovaglia tessuta dagli dèi, coltelli bruciati dal sole. Mi avvicinai e mangiai. A quel tempo mi nutrivo soltanto di ferite oscure, di antichi e violenti sacrifici. XVII Il vento cerca sempre il bosco: sa che qui il suo dolore sarà libero, potrà gemere, erompere, far rabbrividire la terra. Sa che qui potrà dichiarare il suo tormento: il piacere della sua ira. XX Oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le mani, palpando la membrana appiccicosa dei nidi, la crescita del muschio e della ragnatela, le vene bianche delle foglie morte, l’aridità del formicaio. XXI La paura era solamente un povero lupo che correva mite e disperato verso nessun luogo, un animale perso sotto la pioggia nera del bosco: solo un’ombra assente e infelice del branco. XXIII Ho lasciato ogni giorno il mio sangue sui biancospini. Il mio sangue in questo bosco è verde. Quando i biancospini fioriscono, anche il mio sangue si rinnova. Così ho imparato a fiorire. Così ho imparato a contemplare il mio sangue XXIV Una goccia del mio sudore nel bosco farà crescere l’albero della sete. All’ombra di quest’albero un giorno forse riposeranno altri viandanti. F0rse, all’ombra di quest’albero, un giorno le parole del bosco saranno di nuovo ascoltate, quel cervo che vidi sarà visto di nuovo. Che una goccia del mio sudore sia questo. * Dichiarazioni II In questo nostro bosco di parole il cervo è servo del fiume e della luce, si abbevera a un’acqua che rischiara. Ciò che dice e ciò che tace lo sa solo il viandante, colui che sale sempre più in alto, colui che un giorno riuscirà a vedere il cervo. Ogni sua parola è un’apparizione, un regalo del bosco. Di notte – dove non ci sono strade né sentieri – il fiume scende con la sua luce, le sue fiamme umide, le sue voci cristalline.  Vengono allora ad abbeverarsi di consolazione quelli che si sono persi nel bosco: gli uomini che si immergono. Nel loro dolore si trova anche pace. Il cervo è una trasparenza e un riflesso dell’acqua, un’ombra fuggita dal giardino del salmista, uno strano evento. Un cervo ha sempre sete, per questo conosce il cammino dei disperati, le orme riarse degli altri fiumi. Per questo nella mia sete l’ho visto anch’io. VII Nessuno accompagna il viandante. Nemmeno i suoi demoni lo accompagnano quando si mette in cammino, quando si addentra nel bosco. È questa la solitudine del viandante solitario. È questo l’orizzonte nitido e virtuoso di ogni suo cammino. XV Ho chiesto al bosco che si prenda cura della mia anima, che la bagni con essenze luminose, con le sue resine rosse. Non desidero un’anima pura: solo un’anima che profumi di rami bruciati dal sole, di nido e di muschio, di fiume senza ritorno. Ho anche chiesto al bosco che renda la mia anima un recipiente migliore, creta utile e bella, di cui si possano servire gli uccelli e i viandanti, i cervi e le genette. Perché tutti un giorno possano bere acqua misericordiosa, acqua dell’infinito. Ho anche chiesto al bosco il calore della sua bocca, perché in questo modo la mia anima possa per sempre sentire il fiato umido della luce, la saliva fertile delle stagioni, il fermento oscuro di ogni radice. Non voglio un’anima pura che miri semplicemente al cielo. Voglio un’anima che porti il suo gemito fino alla bocca del bosco e che sia salvata se possibile dai fiumi sotterranei, dalle promesse del lichene. E per questo ho chiesto al bosco di lambire la mia anima con la sua lingua invisibile. XX Anche le mie mani possiedono una loro visione del bosco, hanno imparato ad aprire le pagine segrete e a leggervi le parole invisibili. Ne palpano l’oscurità e la temperatura, il timore e la speranza.  Le mie mani accarezzano il miracolo del nido, la sua pelle notturna. Accarezzano l’aria esalata dalle radici, la forza dei frutti nuovi, la scia umida e trasparente delle lumache.  Tastano la misera luce del muschio e il brusco presentimento dei rami spezzati. Tastano l’età della corteccia e la consistenza della resina. Tastano l’umidità del colore verde e l’alito degli scarabei. Accarezzano anche gli occhi dell’animale morto e palpano nel suo sguardo l’ombra azzurra di ogni cammino, l’acqua desiderata. Accarezzano il polso fertile e misterioso della sua decomposizione. Le mie mani parlano allora un’altra lingua: quella che hanno imparato toccando il tessuto del bosco, il suo mistero tangibile. XXIV Là dove, infine, mi siedo a riposare ogni giorno c’è un odore di lichene bruciato, di ruta e di timo. È un luogo che abitava in me prima di conoscerlo. È un’ombra desiderata con dolcezza. Sotto quest’ombra, il mio corpo è una fonte. E adesso posso anche sentire il freddo oscuro e sotterraneo, la sorgente invisibile che risiede in me. Che le radici e gli uccelli di passo vengano ad abbeverarsi, se lo vogliono. Nella mia fatica ho visto altre strade, una pineta più pura. Adesso osservo il mio sudore e scrivo queste parole che sono foglie del bosco, foglie umide che annunciano il suo segreto. Prima di fare ritorno, prima di mettermi un’altra volta in cammino, un sole cupo lava il mio corpo con la sua resina bianca. Traduzione di Cinzia Thomareizis *In copertina: Georgia O’Keeffe, From the Faraway, Nearby, 1937 L'articolo “Questa lingua antica che risana”. Nel bosco segreto di Vicente Valero proviene da Pangea.
April 3, 2025 / Pangea
“Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo spirito inquieto di Chatterton
Thomas Chatterton si ammazza alla fine di agosto del 1770, in un angusto abbaino di Londra, in Brook Street: avrebbe compiuto diciott’anni a novembre. Nato a Bristol, si era trasferito nella capitale certo di poter vivere del proprio estro poetico: scriveva versi di screanzata nobiltà da quando era bambino. Tra l’altro, si era inventato un accattivante alter ego: Thomas Rowley, monaco vissuto nel XV secolo, sagace nell’ode, nell’afflato epico – la Song from Ælla in questo particolare canone è un piccolo capolavoro –, nell’inno dall’ardore biblico. Un odore di selva, di Gerusalemme nei boschi, si respira nelle poesie di Rowley. Per un po’, qualcuno credette agli inganni di Chatterton, il ragazzino che trafficava con l’antica parlata inglese, leggeva Edmund Spenser, adorava le Bibbie miniate, che celavano draghi e manifesti elfi dietro il leggio degli evangelisti. È vero, era l’era dei rifacimenti medioevali – l’Ossian forgiato da Macpherson, per dire – e delle liriche nate tra cimiteri di campagna; in Chatterton, tuttavia, la razzia è raddoppiata, pura previsione di Borges: a volte, il fittizio Rowley riscrive versi di Acca, il vescovo di Hereford vissuto nell’VIII secolo. Traduceva Orazio. A Londra, il ragazzino tentò di accattivarsi i favori di Horace Walpole: lo scrittore del Castello di Otranto, l’inventore del gothic story, abile mestatore di manoscritti ritrovati, frequentava il Parlamento, era conte di Ortford, tra i più potenti e autorevoli intellettuali del tempo. Walpole cadde nel tranello di Chatterton: quando scoprì che Rowley non esisteva, mero frutto della sua adolescente invenzione, s’incupì, livido d’invidia; fece saltare una pubblicazione già prevista, alienò Thomas dall’ambiente. Il ragazzo rispose con le armi della poesia, inviando a Walpole un’ode altera, intrisa d’ira, dall’attacco spiazzante, naturalmente postuma: > Walpole, non avrei mai pensato > che esistesse un cuore meschino come il tuo. > Tu che, cullato dal lusso, fissi con disprezzo > il ragazzo disperato, senza amici né padre… Forlorn: così si descriveva Thomas the Boy – disperato, desolato, da tutti desertificato. Si uccise con l’arsenico, non prima di aver fatto a pezzi i propri residui versi. Nel quadro del preraffaellita Henry Wallis, The Death of Chatterton (1856), il ragazzo è chino sul letto, pare un corpo di ceramica; fulvi i capelli, i pantaloni viola; dalla finestra, semiaperta, un frammento londinese: la luce è fulgida, sotto l’ala dell’arcangelo.  Thomas Chatterton, il primo poeta maledetto della storia della poesia moderna, diventò un mito. A lui si riferiscono, a turno, inserendosi in quella imberbe epopea, John Keats e Percy Bysshe Shelley; la sua fama varcò i confini nazionali. Alfred de Vigny gli dedicò un’opera, Chatterton (1835), appunto, che inaugura il tema – da allora dominante – del talento puro, barbarico, inappropriato al proprio tempo, del poeta ingiuriato, suicidato dalla società. Intorno a quel testo, Leoncavallo costruì Chatterton, opera lirica in tre atti, andata in scena al Teatro Drammatico di Roma nel marzo del 1896 – senza troppi successi, va detto. Prima della biografia di Rimbaud ordita da Ardengo Soffici, Ettore Allodoli – amico di Papini, futuro biografo di Michelangelo, Cellini, Giovanni delle Bande Nere e Savonarola –, nel 1904, firmò un rapace profilo di Thomas Chatterton, secondo la moda delle agiografie dei ‘ribelli’. Scrisse che leggendo Chatterton, una leggenda, “ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario”.  Più che il genio sfiorito dalla sfortuna, l’idea del talento troppo presto reciso, in Chatterton s’impone la profezia del prodigio. Intendo: la prodigalità del verbo, la pronuncia inselvatichita da un eccesso di solitudine, l’immaginario sbrindellato. È naturale che la città rigetti Chatterton, il poeta provinciale, alla provincia dell’adultità, che vaga tra chiese dismesse e dimesse valli, che ci impone un Medioevo dei sensi. A differenza di William Blake, uomo ‘totale’, uomo celeste, compiuto nel creare, Thomas Chatterton è il puer, l’infinitamente ingenuo, il totalmente ispirato, il tutto che spira: ovvia, dunque, l’imperfezione, lo sbrego, la lingua mutilata, la speranza messianica presto delusa. Egli sfregia l’ordine originario, la cultura costituita: è, allo stesso tempo, un Jackson Pollock tra i poeti pompier e un arcano bizantino agli occhi di chi crede di aver inventato la prospettiva lirica. È esagerato tra i contemporanei, ma pure il più arguto tradizionalista. Per tale intransigenza, Chatterton diventa l’inno e la coccarda dei Romantici inglese.  È stato William Wordsworth ad affibbiare a Chatterton la definizione – the marvellous Boy – che gli resta eternamente incisa: la troviamo in un Resolution and Independence, il poema pubblicato nel 1807. Eppure, fu Samuel Taylor Coleridge a nutrire una specie di demoniaca affinità con Chatterton. Della sua Monody of the Death of Chatterton esistono sette versioni; la prima è del 1790, il poeta ha diciott’anni, vuole eguagliare l’estro funereo di Chatterton, si aggrappa alla musa: > “Musa, sussurra lirici lai > il mio cuore s’imbatta nella lode! > Ma, Chatterton… ora odo il tuo nome > e Fantasia raggela, ragguaglia morte ogni Speranza di Fama. > > Quando Bisogno e Inettitudine hanno sfibrato la tua anima > inzuppata nella tazza vedo Morte che assidera > e il tuo cadavere abbagliante di lividi > sulla cruda terra vedo, vedo > l’ardore che già arma il mio immaginare > e il petto sfodera un sospiro > poi è l’Ira che lampeggia > nella lacrima e mi erode gli occhi”. Di questo dice questo raffazzonato articolo: dell’ossessione dei poeti per i poeti che non ci sono più. Ciascuno ha i suoi: alcuni ci ruotano attorno come cagnolini, altri ci crescono in seno come una serpe. C’è chi tiene accesa per noi la luce, fino all’alba – chi screzia i nostri appunti. Chi imita il suono del chiurlo o il rumore della pioggia; chi si traveste da civetta o da gatto. Ciascun poeta vivo ha i propri poeti morti per padrini, di cui non sa nulla – eppure, sono loro a introdursi nelle nostre vite di soppiatto, inattesi, a testimonianza. Un poeta è vivo per il patto che ha stretto con un poeta morto.  L’ultima versione della Monody è del 1834: Coleridge è in punto di morte, zittito, da tempo, dall’abuso di oppiacei, da una vita di flebili successi, grave nel fallire. Nel 1817 aveva pubblicato la Biographia Literaria. Perfino negli anni cruciali, quelli del Rime of the Ancient Mariner (1798), Coleridge continua, con demoniaca furia, a riscrivere la Monody. È una sorta di sabba, di ostile liturgia: Coleridge sfregia se stesso per evocare lo spirito di Chatterton. La versione più riuscita è quella del 1829, in cui la vita di Coleridge pareggia misticamente quella di Chatterton. Eccone alcuni squarci: “Un miracolo pare pallore di morte: tutti dormono con gaudio, Feti e Infanti, Giovani e Vecchi, notte che segue notte fino alla notte perenne! Raddoppiata stranezza: la vita non è che ansimare sulle ripide vie della Necessità.  Ma vai via, Fantasma col grugno, Re Scorpione, via! Riserva i tuoi terrori, quel pavoneggiare di spine ai Ricchi codardi, alla Colpa con la stola di Stato! Ecco, io preferisco stare di fianco alla tomba di uno marcato dal prodigio e dall’avaro Fato  (lui che tutto dona e tutto nega): faceva risuonare enigmatiche cupole, antiche campane con la voce di una Madre: torna povero Puer, torna a casa, strenuo vagabondo! O Chatterton! Questa smorfia di pietre ti protegge dallo scempio, dal cupo gelo dell’abbandono.  Troppo a lungo l’irriconoscenza ti ha irritato.  Qui hai riposo, sotto questa zotica zolla! Ma la tua parola vaga, non è congiunta alla terra ma tra le abbacinanti schiere dei giusti presso il trono di pietà del tuo Dio dove l’amore redime nell’inno ogni cosa (credici, anima mia), all’arpa dei Serafini. […] Lontano dagli uomini, tra boschi dai sentieri insensati, era solito vagare, come il raggio  di una stella che mareggia tra i rami dell’albero.  Qui, nella famelica ora degli ispirati quando l’anima sente ribollire il proprio potere, in queste terre selvagge, nel ruggire delle cave rocche dove si libra il leonino gabbiano sei passato, con gambe ineguali e sassoni versando al vento la resina di un canto in coccio: sulla soglia di qualche spaventoso scoglio ti fermavi, fissando le onde, ovunque. […] O Chatterton! Se fossi ancora vivo di certo apriresti le danze della burrasca ti uniresti a noi per guidarci verso l’indivisa valle della Libertà; e quando cadrà la sera, la serafica,  saremo una folla intorno a te, rapiti dal tuo maestoso canto, esultanti per quella Poesia dagli occhi di ragazzo mascherata con la canizie dell’Antichità”. In questa specie di manifesto romantico – il poeta canta nei meandri del bosco, non nei club della City, si fa editare dagli alcioni e dalle querce – si prefigura l’icona del Wanderer di Friedrich. Diversi decenni dopo, nel 1938, tenendo insieme i toni di Coleridge e il mito di Chatterton, Dylan Thomas scrive O Chatterton – come a dire che i morti non hanno requie, che tutto reclamano. Il riferimento alla “valle della Libertà” è specificato nella strofa finale, qui non tradotta. Coleridge cita il Susquehannah, il fiume che attraversa la Pennsylvania, lo stato di New York e il Maryland. Coinvolto dalle idee dell’amico Robert Southey, Coleridge voleva fondare in un luogo boschivo non ben precisato intorno al Susquehannah una comunità egualitaria. Sarebbero partiti in dodici, tutti poeti, con relative consorti. La loro idea di vita, pantisocrazia, fondeva averi messi in comune, assenza di proprietà privata, ricerca spirituale. Si trattava di una poetica dell’esistere: i poeti avrebbero coltivato i campi per tre ore al giorno, destinando il resto del tempo alla poesia e allo studio. Nessuno, in quella colonia, avrebbe primeggiato sull’altro. Le donne, devote, avrebbero alienato i mariti dall’ira con le arti dell’amore. Coleridge pensava che la politica europea, in sé, fosse rea di schiavismo e di oppressione. Gli mancarono le sostanze economiche – e spirituali – per realizzare gli intenti, presto naufragati. Preferiva baloccare con gli spiriti. Chatterton, poeta irredento, non è mai morto: se non lo vedi è nascosto lì, sotto il tuo palato, usa la tua lingua come una zattera. Azzannalo. *In copertina: un disegno di Mervyn Peake L'articolo “Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo spirito inquieto di Chatterton proviene da Pangea.
April 2, 2025 / Pangea