Questa storia, in cui tutto è possibile, inizia – o finisce – all’abbazia di
Pomposa, folgorante edificio del IX secolo, nel ferrarese, dove si dirama,
divorandosi, il Po. Affreschi e sculture, spesso arcani, incutono sacro terrore.
Qui pare sia stato redatto, nel XVII secolo, il De arte nihil credendi; dello
scrittore, Matteo Cnuzen, altrimenti detto Matthias Knutzen, predicatore
tedesco, ateo, si ignora la data di morte. Il testo – di cui non si ha altra
notizia – è custodito presso la Biblioteca Classense, “non è mai stato
pubblicato… ho potuto solo farne una copia a mano”, scrive l’autore. Un
fascicolo dal titolo analogo porta la firma di Geoffrey Vallée, anticlericale
estremista: in quel libello – titolato, in verità, La béatitude des Chrétiens ou
le Fléau de la foy – l’autore dimostra che la fede, fondata sull’ignoranza e sul
timore di Dio, riduce l’uomo a una bestia, a uno schiavo. Vallée fu arrestato,
impiccato e passato al rogo il 9 febbraio del 1574: aveva ventiquattro anni.
Il testo di Knutzen – che mesce, in cocktail micidiale, reminescenze di Lucrezio
e di Spinoza, di Garlandus Compotista e di Levi Smolinides, di Gregorio di Narek
e di Sabinus Serrat (faccio scoprire a voi chi di questi è un personaggio
fantomatico, fittizio) – è utilizzato dal poeta austriaco Raoul Schrott come
monito per un libro dal titolo emblematico, L’arte di non credere a nulla,
uscito in Germania, presso Hanser Verlag, dieci anni fa, tradotto ora da
Federico Italiano per Crocetti. I brani dell’incendiario pamphlet di Knutzen –
veri, verosimili, inventati? l’autore rifiuta spiegazioni – sono corrosivi,
perciò corroboranti. Ne cito alcuni:
> “sono avido se voglio tutto ciò che si può ottenere dalla vita – avere amici e
> allo stesso tempo stare solo? ciò che desidero è difficile da raggiungere –
> eppure una volta in mio possesso sono insoddisfatto come se avessi raggiunto
> nulla”;
> “sii come la neve che si scioglie: dal silenzio nascono i fiori – la lingua
> sia il loro bocciolo”;
> “tutto inizia con il sangue · inzuppati di sangue veniamo al mondo a testa in
> giù: tutto inizia con una separazione e in un mondo capovolto · avvinghiati a
> un seno non vediamo che oscurità: ora vivi amaro e cupo · da bambini
> scorrazziamo qui e là: e inquieti rimarremo · nella giovinezza ci dissolviamo
> sentendoci estranei: è solo un periodo di traviamento e confusione · con la
> vecchiaia la mente si annebbia: non aspettarti quindi la beatitudine da vecchi
> strampalati · così perplessi procediamo nelle tombe: senza riconoscere da
> nessuna parte un’anima o qualcosa di puro – solo imperfezione”
Siamo nei dintorni dell’atroce Albert Caraco più che in quelli dell’ardito
Zenone, il protagonista de L’opera al nero, il romanzo di Marguerite Yourcenar.
Nella prefazione, Schrott cita la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e il
Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna e il magnetico trattato De tribus
impostoribus, di cui si discute – senza traccia di testo – dal XIII secolo:
sarebbe piaciuto a Borges. I legami con il maestro argentino, però, finiscono
qui: le poesie di Schrott – affratellate ai violenti aforismi del fatidico
Knutzen – non hanno nulla dell’enciclopedica freddezza di Borges. Al contrario,
è la vita presente, quotidiana, quella convocata da Schrott: nei suoi testi ci
sono il pizzaiolo e lo stilita (“qualcuno disposto a stare sull’orlo del
precipizio”), la cassiera (“il mondo è fatto di cose standard/ che mangiamo ·
beviamo · trasformiamo in esistenza”), il macellaio (“siamo e diventiamo ciò che
mangiamo/ con gli occhi spalancati rivoltandoci al pungolo…/ carne trafitta in
via di macellazione verso l’assoluto”). L’arte di non credere a nulla è un libro
che dà credito alla carne, in crepitio di eros; è un libro pieno di corpi
esposti e di rapporti cannibali. In lo sguardo di dio si canta “la vita baciata
e gettata come un pezzo di pane”; in una poesia si imitano i toni di una single
– donna – fine quaranta; è bello il finale: “la dolcezza · sale tra le mie gambe
· orma d’animale selvatico”. In viaggi notturni – forse, il testo più bello –
c’è una donna “nuda sul sedile distesa/ lo sguardo rivolto verso il nord che
manca come casa”: “il compendio della nostra vaga esistenza/ tali scrupoli
appena li considera:/ nomina il desiderio · vuole vederlo divenire realtà/ ma
biasima ogni indifferenza”.
Il libro è sigillato – va da sé – dal motto riassuntivo del trattatello di
Knutzen: “l’assoluto opera nel nulla”. Quando l’autore – troppo intelligente per
cadere nella trappola del refuso – mi dice che il modello de L’arte di non
credere a nulla è la Vita nuova di Petrarca (ovviamente, è di Dante), so che mi
sta sfidando. D’altronde, Raoul Schrott è una delle menti più sfrenate e
sofisticate della letteratura tedesca: mi ricorda, per impeto, Werner Herzog.
Nato a Landeck, Tirolo, nel 1964 – ma ha detto, a volte, di essere nato a San
Paolo, in Brasile, quando non in nave – è cresciuto tra Tunisi e Zurigo; insegna
all’Università di Vienna, dopo aver insegnato a Napoli, a Berlino e a Tubinga,
insieme allo scrittore Christoph Ransmayr. Romanziere, poeta, studioso, Schrott
è a abituato alle imprese impossibili: ha scritto resoconti tratti dalle sue
esplorazioni nel deserto (Il deserto di Lop è stato pubblicato da La Grande
Illusion nel 2022); ha partecipato a una spedizione, supportata dall’Università
di Colonia, in luoghi del Ciad ancora inesplorati. Da ragazzo, ha studiato il
Dadaismo, è stato il segretario di Philippe Soupault, a Parigi; ha tradotto
Derek Walcott e Seamus Heaney, la Teogonia di Euripide e l’Epopea di Gilgamesh;
nel 2008 ha pubblicato la sua traduzione – sgargiante, a dire dei più –
dell’Iliade: la tesi secondo cui Omero fosse uno scriba greco al servizio degli
assiri, vissuto a Karatepe, in Cilicia, gli attirò critiche. Tra l’altro,
Schrott ha scritto romanzi audaci in immaginario, imprevedibili fin nel titolo
(uno di questi fa pressappoco, Racconto del vento, ovvero dell’artigliere
tedesco che circumnavigò il mondo una prima volta e poi una seconda e una terza
volta); ha vinto premi. Con Erste Erde (2016), libro di magnetica forza, ha
tentato di dire in versi la storia del mondo, dal Big Bang a oggi.
L’ultimo progetto – benché non strettamente letterario – è altrettanto
‘mostruoso’: l’“Atlante dei cieli stellati” (Atlas der Sternenhimmel),
pubblicato da Hanser lo scorso anno, raccoglie – dispiegandoli – diciassette
cieli; le costellazioni degli antichi egizi e degli aborigeni australiani, degli
Inuit, dei Tuareg e dei Boscimani. Si narra, così, la storia dell’uomo e di ogni
civiltà, a partire dal rapporto con gli astri. Quasi che il cielo sia una
bibbia, le stelle una scrittura piena di brusii, vocalizzi, grida.
Insomma, abbiamo preteso Raoul Schrott al dialogo.
Preliminari: esiste davvero il “Manuale dell’esistenza transitoria” o è frutto
della sua transitoria immaginazione?
Esiste? Tutto ciò che scriviamo e leggiamo – che sia romanzo, poesia o filosofia
– esiste: è il frutto della nostra immaginazione.
Come è nata l’idea di accostare le poesie a un trattato del XVII secolo? Qual è
stato il ‘metodo’ di costruzione del libro? Vedo, ad esempio, che le poesie non
sono disposte in ordine cronologico.
In sostanza, le poesie riferiscono di una visione atea della vita e dell’amore,
da prospettive differenti. Per me, poesia è un modo di pensare più concentrato e
compiuto: ecco perché tutti i miei libri in versi sono centrati su un tema – gli
hotel; il sublime; il sacro; l’assenza – e incorniciati da un saggio. Qui si
tratta, letteralmente, dell’arte di non credere a nulla. Per costruire un
contesto alle poesie la – sbalorditiva – breve storia dell’ateismo mi è parsa
più che appropriata.
La maggior parte delle poesie sono ritratti di individui che ostentano le loro
opinioni, plasmate dal lavoro che svolgono, dai desideri, dalle circostanze. È
una galleria di professioni (di cui ho incidentalmente dimenticato il maestro).
Sono raggruppate tematicamente, poi completate da alcuni versi tratti
dal Manuale dell’esistenza transitoria, per dare a ogni poesia un significato
ulteriore. Se crede, il modello è la Vita nuova di Petrarca (sic!).
Come costruisce le proprie poesie? Intendo: parte da un concetto, da un insieme
di parole che combaciano audacemente assieme, da una ‘scena’, da una idea
narrativa…
Tutti questi elementi concorrono: intuizione, esperienza, l’incontro con
qualcuno (il cassiere del supermercato che ho incontrato sul treno per Berlino
non smetteva più di parlare). Questi elementi consegnano, come diceva Valéry,
il vers donnés su cui poi la poesia si sviluppa in vers calculés. In queste
poesie, il calcolo provvede alle rime (comunque discrete, difficili da scovare).
Tuttavia, la parola in rima di rado ha a che fare con la parola con cui rima,
introduce un elemento imprevisto, un frammento del mondo in generale – così che
il procedere pensando deve fermarsi in stazioni diverse. Questo rende la
scrittura, almeno per me, uno stupore continuo.
Come penetra nel suo linguaggio la lingua delle origini, dei testi che ha
tradotto, Iliade, Gilgamesh, Teogonia?
La loro lingua non penetra nella mia. Tradurre quei testi, però, ha significato
comprendere la tradizione e approfondire il mestiere: per scrivere da quel
centro del presente.
Che senso ha, oggi, la poesia?
La poesia è la macchina di tutto ciò che è umano, individuale, soggettivo. Ci
pensi: i romanzi, in quanto finzione, sono menzogne realistiche (presentano una
verità in modo elegante e persuasivo, certo), narrazioni che si basano su trame
e personaggi plausibili. La poesia, invece, non può che essere veritiera;
esprime i pensieri e le emozioni più profonde: è autentica. Tutto il contrario
della plausibilità. Questo vale anche per le poesie peggiori, in cui non si
capisce un cazzo [in italiano, ndt], tanto sono autoreferenziali. Dunque:
autenticità. Inoltre: la poesia sincronizza le tre modalità cognitive
dell’essere: le immagini in cui pensiamo; il linguaggio con cui ci esprimiamo;
la musica – metro e ritmo – che corrisponde ai battiti del cuore, al ritmo del
respiro, al moto delle ciglia. Ditemi quale altra arte riesce a fare tutto
questo con così pochi mezzi!
Che rapporto esiste, a suo dire, oggi, tra poesia e storia, la poesia e
‘politica’?
Credo che la poesia sia a-storica, nella misura in cui esprime intuizioni senza
tempo (pur se fugaci), verità soggettive che nella loro individualità sono
sempre in contrasto con la storia come fenomeno di massa. La poesia è il rifugio
e l’espressione di tutto ciò che è umanamente possibile, pensabile,
sperimentabile in tutta la sua stranezza e bellezza, in tutta la sua assurdità,
in tutto il suo orrore. La letteratura è sempre a-politica e a-morale. Non si
preoccupa e non deve occuparsi delle ideologie e dell’etica di una comunità,
altrimenti diventerà agitprop, slogan, un manifesto, insomma. La letteratura – e
in particolar modo la poesia – deve esprimerci come individui, con tutte le
nostre emozioni e pensieri, positivi o negativi essi siano, senza vincoli,
liberi, per essere autenticamente veritiera. Almeno, così è sempre stato.
Mi racconti qualcosa del suo “Atlante dei cieli stellati”: come nasce il
progetto, perché, come si insinua nel suo lavoro poetico?
L’Atlante dei cieli stellati non ha a che fare con la mia scrittura. A parte la
visibile poesia che raffigurano le costellazioni, è un lavoro accademico: come
professore di letteratura comparata ho compiuto ricerche per rintracciare i
cieli stellati di diciassette diverse culture del pianeta. Benché l’Unesco li
abbia dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non sono mai
stati studiati in modo esauriente: le costellazioni, graficamente ricostruite;
il simbolismo e la sapienza che le accompagna; la storia della tradizione
astronomica che le spiega; i miti delle origini che narrano la creazione del
cielo e della terra, del sole, della luna, delle stelle. Ci sono voluti sette
anni di lavoro per ricostruire il cielo dei babilonesi e dei cinesi, degli inuit
e dei boscimani, degli inca e degli arabi, dei tahitiani e dei maori… ciò che
questa ricerca ha prodotto (con mio grande stupore) sono settantamila anni di
storia culturale di cui nessuno sapeva nulla.
*In copertina: Raoul Schrott in un ritratto fotografico di Barbara Seyr
L'articolo “L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott proviene da
Pangea.
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Qualcun altro per lui ha seminato bene crepuscoli. Sotto lo sguardo vigile di
Cerbero, vendemmia grappoli di tenebra nei suoi occhi prima ancora che nel
cielo. Al ritmo di un precipitare, dà coordinate esatte alla disperazione.
Grodek, 1914, novanta commilitoni squarciati nella carne e nell’anima che
chiedono sollievo e l’inutile perché di una guerra: troppo esili le sue spalle
per farsi carico di quel dolore, solo e senza farmaci – non resta che spingere
la prosodia fino alle porte dell’Orco per strapparla un’ultima volta alla sua
morsa. C’è Grete, “oscuro amore/ d’una selvaggia stirpe” e solo per questo casa
vuol dire ancora qualcosa. Compagna di sangue e di abisso; sorella di
un’innocenza che hanno perduto insieme, mano nella mano. Distilla bagliori
autunnali in punta di dita, come “oro di stelle cadute” (Al fanciullo Elis).
Si cammina in giorni bui come nei boschi fitti – che riparo c’è, dove –, nella
stagione signora del freddo e delle foglie ingiallite, non si capisce, nel tempo
che impiegano a cadere dondolando, se la musica muta che le muove è giuramento
di una prossima, lontana rifioritura o memoria volatile di un verde
irripetibile. L’eterno, ciclico incedere pare spezzarsi e le pupille inchiodano
un tramonto dove anche Dio, per un istante tutto umano, si raccoglie in
solitudine al termine della battaglia quotidiana col poeta. L’orlo di un
bicchiere di vino promette naufragi di porpora per domande troppo oscure, mentre
il sambuco tace e “presto s’annideranno stelle nelle ciglia dell’estenuato”
(L’autunno del solitario).
Georg Trakl, nato dipartito. Con perizia di aruspice indaga le viscere del
mondo, in un allucinato andare e tornare tra sogno e veglia ma sempre verso sé
stesso, come scrive in una lettera ad Irene Amtmann. L’amico fraterno Karl
Kraus, il bianco pontefice della Verità in una poesia a lui dedicata, non
comprende del tutto come Georg possa vivere. E infatti, come si vive quaggiù non
essendo di quaggiù? Sempre straniero in questa distesa sublunare che lacrima
sangue nel clamore delle armi, dentro il quale tutti gli orizzonti cortissimi
dell’eclissi del sacro cadono uno dopo l’altro, anche loro come soldati.
L’indigenza dell’arrischiato, scritta con la calma dei passi inesorabili, è la
frantumazione del centro. Schegge di uno specchio rotto, le immagini familiari
(la casa, un vecchio album di famiglia, il padre, la madre, etc…) sono ombre e
volti di pietra; tutte le cose, dice Trakl, tacciono mentre gli enigmi
dell’anima si sottraggono ad una chiarezza.
Nella poesia di Trakl – secondo Angelo Lumelli giocata tutta contro le
aspettative del discorso – il poeta raccoglie e accoglie come compagnia, lungo
la strada della parola, fantasmi, cioè silenzi che non redimono le domande più
ostinate, rinunciando a scioglierle in risposte comode ma fragili. Sacrifica la
tentazione di dire l’indicibile e per questo apre varchi ad azzurri diversi da
quelli del pensiero.
[…] Sotto cupi abeti
due lupi mescolavano il loro sangue
in abbraccio pietroso; d’oro
si perdeva la nuvola sul varco,
pazienza e silenzio dell’infanzia.
Di nuovo s’incontra il tenero cadavere
Sullo stagno del Tritone
Assopito nella sua chioma di giacinto.
Oh finalmente s’infrangesse il fresco capo!
Ché sempre segue, azzurra fiera,
un occhieggiare tra ombre crepuscolari d’alberi,
questi varchi più bui
vegliando e mossa da notturna armonia,
dolce delirio;
o suonava di oscura estasi
piena la musica
ai freschi piedi dell’espiatrice
nella città di pietra.
Cosa va distruggendo in poesia, mentre tocca ad una “fiera azzurra” la custodia
dell’”armonia degli anni spirituali” (Declino dell’estate)? Qui disperazione non
è semplicemente sprofondare; è il tentativo di recuperare la durata, di
strappare la vita alla marcescenza dell’epoca.
Ogni grande poeta va capito nel paradosso. Proprio perché si sottrae alle
allodole del discorso, Trakl non canta la morte, ma dice, sanguinando, dunque
proprio morendo, la vita. Al piano di sopra, noi che non siamo poeti e crediamo
di essere al riparo dei paradossi, dei loro agguati, chiamiamo vita
quest’andatura più o meno ordinata, regolare, ignari che c’è un poeta, proprio
dove non osiamo scendere, pronto ad ingaggiare per il troppo amore quel duello
decisivo contro il sole falso che abbiamo posto a misura dei nostri destini
traditi. Sui passi di quella fiera azzurra, torna il poeta verso la sua
infanzia, verso sé stesso con sfrontatezza da angelo caduto.
III
Voi grandi città
innalzate di pietra
Sulla pianura!
Così muto segue
chi non ha patria
con oscura fronte il vento,
alberi spogli sul colle.
Voi correnti che lontane albeggiate!
Potente affanna
orrore d’un tramonto
nei nembi della tempesta
Voi popoli morenti!
Pallida onda
che si rompe alla spiaggia della notte,
cadenti stelle.
(Occidente)
(I versi citati sono nella traduzione di Leone Traverso)
Livia Di Vona
L'articolo “Azzurra fiera”. Inseguire Georg Trakl nel suo allucinato andare tra
sogno e veglia proviene da Pangea.
In questo momento storico esagitato, ora che il mondo che credevamo di conoscere
si sta rivelando non essere affatto come credevamo che fosse, svincolatosi dalle
leggi che credevamo lo governasse, in questo momento storico forsennato in cui
si svela che il mondo ha smesso da così tanto tempo di essere regolato dalle
leggi che credevamo lo governassero da rivelarsi praticamente a tutti così com’è
diventato, come sta diventando, per tutti intendo anche me che sono uno tra i
tutti, tutti tranne quei relativamente pochi che lo sanno da chissà quanto tempo
che le regole del mondo sono cambiate, che il mondo ha infranto le regole
precedenti e ne sta rodando delle nuove, che io non so affatto quali siano ma
che spero ci siano, senza regole quali che siano il gioco del mondo
semplicemente si fermerebbe invece il mondo gioca eccome, in questo momento
storico prepotente e angosciante, apocalittico, omicida a livelli più che
novecenteschi, ma progresso ormai non significa altro che aumento
dell’intensità, del profitto e del danno, in questo momento storico che sarà
storico anche lui come lo sono stati tutti quelli primi e che a me,
personalmente, non piace lungo i suoi sommi capi, io leggo Ludwig
Hohl, Note, Marcos y Marcos, e grazie a Ludwig Hohl – che nel 1980 curò una
nuova edizione delle note “scritte nei tre anni che vanno dal 1934 al 1936,
durante i quali vissi in Olanda in uno stato di assoluto isolamento
spirituale” – ora so che la lettera tedesca ß, cioè la doppia S tedesca, si
chiama Eszett o scharfes S (fonte: Wiki), lo so perché Hohl nella Nota
3 della Parte VI – Scrivere scrive: “Quanti leggono oggi Lichtenberg o
Kaßner?”.
Io non ho mai letto né l’uno né l’altro ma se cercare Lichtenberg su Google è
stato semplice non lo è stato per Kaßner: intanto dovevo capire come si
inserisse il carattere ß, non ho mai usato il carattere ß, e anche una volta
copiato online il carattere, una volta inserito sul motore di ricerca Kaßner,
niente, nessun responso, perché l’occorrenza vale per Kassner, Rudolf Kassner:
che piacque molto a Rilke oltre che a Hohl, si scopre navigando navigando, e
Hohl su Rilke? Da una nota alla Nota 4 sempre della Parte VI – Scrivere: “Mi
riferisco qui al tardo Rilke. E anche costui, allorché scrissi questo testo,
venne da me sopravvalutato.”
In questo momento storico allarmato, valicato, sbeffeggiato, trucidato e molto
molto molto commentato posso ancora addormentarmi la notte contento di aver
imparato la lettera nuova di una lingua che non parlo, la ß che si pronuncia
come una doppia esse in italiano e che allora potremmo ereditare, in questi
tempi di scrittura stringata, raccorciata, stritolata, politicamente pudibonda,
reticente, vieppiù omertosa, potremmo scrivere taßo e rifleßo e aßaßinio o, per
bypaßare la censura delle piattaforme così perbenino a modo loro, per non temere
di eßere derankizzati potremmo scrivere seßo quando avremo voglia di parlare di
seßo – siccome parlare è già un po’ un fare e siccome è indubbio che qualcosa
aßolutamente dobbiamo fare in questo momento storico demenziale, oßeßionato,
impanicato, frustrato, esploso.
Che fare? Leggere Hohl, per esempio.
antonio coda
L'articolo Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero,
sul senso della lettera ß proviene da Pangea.
Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente
un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si
stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano
più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui
polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo
sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce
dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che
sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva
del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche,
quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma
soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la
prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio
suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo
siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella
condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia
agisca sul nostro sistema vitale.
Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un
discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund
Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che
due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei
sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di
conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea:
> «Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza
> quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo
> senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto
> strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e
> del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel
> che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione
> esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa
> delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a
> lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra
> angelo e bestia».
Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo
è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un
“privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e
“spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza.
Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento
dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È
l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra
queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e
una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio
indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile
che è l’uomo in quanto tale.
*
La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912,
Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una
sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a
Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo
quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di
Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a
questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla
fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine
della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di
diario del 1919 Mann scrive:
> «Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in
> mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto,
> ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come
> inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma
> anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per
> il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente
> alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo
> consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di
> corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e
> Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della
> guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave
> umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo
> umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto
> Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le
> loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans
> Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare
> all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le
> sue componenti, quella cristiana e quella pagana».
*
Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale,
orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna
che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da
qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre
settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il
suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse
stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per
giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi
sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura
autonoma, l’altra di emozioni.
> «La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi
> la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri
> a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue
> palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le
> palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia
> o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non
> ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza
> scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi
> bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più
> alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo
> veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto
> intensa, ma totalmente autonoma».
«Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con
l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona
per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una
condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp
sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare,
addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno
stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo
vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo
quello che il corpo suggerisce.
Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era
qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la
malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La
questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o
con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente
alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è
l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da
Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è
che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il
primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il
manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un
disagio di cui non si conosce la natura, o la causa.
A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico
e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra
per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere
perfettamente sano.
> «Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato!
> Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […]
> Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né
> psichico?».
Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle
conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei
morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non
solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori
dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella
parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono
tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di
discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del
romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone
Settembrini,
> «lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno
> delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti,
> privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo
> abisso».
Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un
abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la
malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo
ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse
è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta
un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di
laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo
incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale
muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da
una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria,
si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo
malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la
montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di
entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una
condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti
di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la
propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui
tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del
respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa
dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere
di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara
di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo:
> «Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò
> adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è
> stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi
> sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […]
> Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi
> sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la
> vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto
> che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia».
Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore
che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei
modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né
tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di
libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il
funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde
dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la
più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale
di noi che ci abita, sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo
studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia
esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che
la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non
è possibile definire scientificamente.
> «L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da
> respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere,
> quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o
> superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A
> un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non
> ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che
> costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però
> alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si
> spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e
> inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e
> immateriale».
La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è
che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare
vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma.
Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso
di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la
malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale
che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure,
misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia,
il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica
e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega
il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro
quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp
percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.
*
Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa.
Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in
modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse
l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non
più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della
psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da
somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la
“questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello
che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a
pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi,
che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una
malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri,
e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni).
Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del
respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver
significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza
di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in
termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro
in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla
vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito”
dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi
fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica
immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una
molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si
relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si
affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è
la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca?
Thomas Mann (1875-1955)
*
Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo
da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio
particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È
chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine
della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che
molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia:
> «La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con
> la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua
> troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei
> confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato
> tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di
> altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la
> malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi
> concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio,
> un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi,
> allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo,
> questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto,
> diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema
> aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è
> sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la
> malattia se non separazione dalla natura?».
Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la
narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una
dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio,
che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere
esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro
dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una
voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un
rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha
in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di
vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni –
discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente
il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che
mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella
conferenza su Goethe e Tolstoj.
> «Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella
> sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da
> dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale
> di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la
> malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e
> rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua
> dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice
> corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia,
> invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato.
> L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende
> umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a
> ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei
> fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti,
> quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come
> profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a
> disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere
> l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se
> stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello
> spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua
> nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il
> genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor
> Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il
> progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua
> esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro
> non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero
> vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che
> consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla
> follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la
> salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e
> godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla
> malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…».
Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione
dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti
gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come
elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o
come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita
ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che
questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura
personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà,
dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione
condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano,
esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li
rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non
ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un
uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita
ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere
dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire
se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso
discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini
puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli
stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte
–: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia.
*
È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp
un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo
prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È
l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria
follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”,
sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più
speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino
Joachim,
> «Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze
> strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse
> affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo
> in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi
> propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei
> moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…».
Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle
ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la
morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i
vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a
immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori
dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro.
Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio
nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la
vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere
e di spiegare.
La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li
tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla
vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non
muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi
ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo
vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli
spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza
macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con
riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la
Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia.
Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si
entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi
del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un
fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann
stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita;
che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui
siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno
di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di
quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché
del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti
indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma
di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui
che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma
appunto le maschere che ognuno di loro indossa.
È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di
desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia
Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare
alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che
annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta
d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto.
Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento.
Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che
quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi
che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una
conoscenza più profonda.
Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la
cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito
lascia scoperte:
> «La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di
> quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente
> della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva
> reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio
> mio!”».
È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato»
questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo
desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso.
> «Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato
> di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata».
L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale.
Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo
entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera
abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo
prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue.
Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come
tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione
della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala
conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione
pubblica che ha come tema l’amore e la malattia.
> «I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i
> quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano
> per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura
> borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della
> psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni
> devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla
> norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di
> questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria
> della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante
> bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli
> hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e
> all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e
> complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una
> vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare
> né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche
> nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della
> castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale
> forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […]
> Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa
> camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato».
La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo
travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in
una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso
della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più
della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese,
in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a
utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in
maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere,
> «Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un
> sogno particolarmente profondo».
Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un
nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la
specifica funzione di farlo abbandonare:
> «Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata,
> proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose
> che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è
> lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è
> questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un
> lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna;
> dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della
> vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più
> venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare…
> perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro
> che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il
> corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e
> il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e
> vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere
> adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della
> forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una
> inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di
> tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è
> fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e
> corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!».
C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi,
sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo
trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp,
con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile
perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione,
volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la
felicità e la disperazione.
Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da
non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa
chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro,
come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la
sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al
contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp
è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e
dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere
umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato,
proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.
Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore,
somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura
pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono,
era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla
filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe
sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal
e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi
sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie
contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva
interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo
e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla
vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di
quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa
un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento
che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del
destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a
osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo
l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una
molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio –
malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a
volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto
ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui
nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze,
lacerazioni.
L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può
consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una
“crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua
impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione
lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per
violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere
numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine
si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere
disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro
proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di
morte.
Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si
allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina.
Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha
pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una
finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in
virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel
paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un
gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in
montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia
cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue
più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare
si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia
percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto
la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per
l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve
lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita
nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per
provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è
caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come
Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità
di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte
immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella
dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce,
mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre
allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un
estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima,
alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di
luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di
spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un
sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta
compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al
mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando
a tacerlo.
Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la
sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in
contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della
propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che
l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la
terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano
tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo,
pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto
se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio
che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella
forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni
sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che
scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il
libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte
il dominio dei suoi pensieri». Una frase che fa eco alla domanda con cui si
conclude il romanzo,
> «Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e
> maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno
> innalzarsi l’amore?».
Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna
che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di
laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la
grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo
appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide;
si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di
Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante
parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude,
lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio
alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non
sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento
freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla
testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo
sento mormorare:/ là troverai la pace».
Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato
Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia
degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il
sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai
nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde
il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero
divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare.
Andrea Caterini
*L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La
montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata
Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011.
L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di
Thomas Mann proviene da Pangea.
Un esile monolite austero, essenziale, incandescente. Breve come una sentenza
capace di incidere nella carne viva della Storia, la domanda che nessun
fiammifero riesce a pronunciare senza bruciare: da dove nasce un assassino?
Il male non ha un principio teatrale, non comincia con un grido o
un’esplosione. Il male indossa i panni del giorno feriale, siede in cattedra,
detta compiti, chiede declinazioni. Il male, spesso, si impara. E in un breve
romanzo – un pugno e una preghiera – Alfred Andersch ci porta dentro l’aula dove
il suo alter ego, Franz Kien, adolescente inquieto, è protagonista di
un’inquietudine più grande: la sua espulsione dalla ginnasio per mano del
preside Himmler; sì, il padre di quel Himmler, quell’Heinrich al tempo ancora
ragazzino, ancora impacciato, ancora figlio, colui che diverrà generale,
poliziotto e criminale di guerra tedesco; il diretto organizzatore della
soluzione finale all’origine dell’Olocausto.
Il padre di un assassino (Der Vater eines Mörders) è l’ultimo testo che Alfred
Andersch pubblica, un ago di luce infilato nel passato, rivolto al silenzio. È
un’invocazione contro l’oblio travestita da racconto scolastico. Scrivere questo
libro – nel 1980, un mese prima della sua morte – fu per Andersch una forma
di testamento civile. Trasmettere una ferita.
> “Il giovane Himmler è un tipo molto a posto – gli aveva detto suo padre – un
> giovanotto in gamba, un seguace di Hitler, ma non fazioso.”
È il 1928. Siamo in un Gymnasium bavarese. Andersch è protagonista di una scena
apparentemente banale: un’interrogazione, un errore, uno sguardo che si fa
giudizio. Ma tra quei banchi, tra quelle frasi arcaiche e le pause imposte dal
silenzio, si gioca qualcosa di più profondo: il rito della sottomissione.
Il preside Himmler è il custode di un mondo morente, quello della Germania
imperiale, della pedagogia rigida come il passo dell’oca, del latino come lingua
sacra dell’obbedienza. Il preside. L’autorità. Il vetro. L’arma. Kien, invece, è
l’erede di un tempo nuovo, ancora oscuro, ancora informe, ma già indotto a
sfidare la violenza. L’atto educativo diventa allora un processo al bambino
stesso: il preside non insegna, giudica. E il giudizio, lo sappiamo, è la prima
forma di condanna.
> “Le pagelle scolastiche sono l’unico documento personale della mia infanzia e
> della mia adolescenza che sia sopravvissuto alla guerra. Sono firmate dal
> preside del ginnasio Wittelsbach: Himmler.”
Nato nel 1914 a Monaco, Alfred Andersch cresce nel cuore di una Germania ancora
traumatizzata dalla sconfitta nella Prima guerra e dalle turbolenze della
Repubblica di Weimar. Abbandona presto la scuola, rifiutando la disciplina
soffocante dell’istruzione tradizionale. Si iscrive giovanissimo al partito
comunista e subisce l’internamento a Dachau.
Durante la seconda guerra mondiale viene arruolato nella Wehrmacht e, nel 1944,
diserta in Italia per farsi catturare dagli Alleati. Passa il resto della guerra
come prigioniero in un campo americano. Al ritorno, fonda con Hans Werner
Richter il celebre Gruppo 47, fucina della nuova letteratura tedesca del
dopoguerra.
> “Non serve davvero a niente, pensò Franz, che io continui a fingere che le
> risposte alle sue domande mi vengano a mancare proprio quando me le pone.
> Perchiò butto fuori un ‘no’ a bassa voce, ma senza esitazione.”
Andersch è un autore schivo e complesso, fin troppo antiaccademico per l’élite
letteraria, troppo borghese per la sinistra rivoluzionaria. È tuttavia sempre
lucido, sempre inquieto. Mai compromesso nonostante le censure. Reduce dal
dissenso, esule per scelta, narratore del margine, egli affida al ricordo
l’onere della resistenza. Scrive con la sobrietà di chi ha molto visto e poco
dimenticato. Non c’è pianto, non c’è retorica. Il suo stile è secco come una
sentenza scolastica ma ci fa sentire come se sotto la superficie asciutta del
testo si agitasse un magma di colpa e domande senza risposta. Lui stesso spiega
il motivo dell’uso di un alter ego:
> “Il raccontare in terza persona permette a uno scrittore di essere il più
> sincero possibile. Lo aiuta a superare le inibizioni di cui difficilmente puo’
> liberarsi quando dice – Io –”.
Perché, però, raccontare questo spaccato d’infanzia congelata? Perché lì, in
quella mattina di maggio, Andersch ha visto l’origine del nazismo: non nei
proclami, non nella folla, ma nell’educazione come strumento di controllo, nella
famiglia come prima caserma, nella scuola come anticamera del Reich. Il ventre
in cui si forma la disciplina cieca, il seme del fanatismo, la grammatica
dell’obbedienza. Una frase come una misura. Una bilancia. Un confine. È tutto
qui, nel gesto minimo del giudicare, Andersch cerca la radice, osserva, ricorda
la forma mentis che rende possibile l’assassinio; egli scrive per non tacere..
> “La definizione di assassino per Heinrich Himmler è molto mite; non è stato un
> assassino qualsiasi ma, fin dove arrivano le mie nozioni storiche, il più
> grande sterminatore di vite umane che sia mai esistito.”
Il vero tema del libro, dunque, non è Himmler o lo stesso Andersch: è il modo in
cui si costruisce un individuo incapace di scegliere. Andersch lascia che la
scena parli da sé. L’assassino non nasce per vocazione. Ma per esposizione
quotidiana a una cultura che educa all’obbedienza come virtù. Il vero Nazismo è
un’enorme pedagogia del conformismo.
Quando nel 1961 Hannah Arendt assiste al processo Eichmann a Gerusalemme,
formula la celebre teoria della Banalità del male. Eichmann non è un mostro, non
è un sadico: è un uomo mediocre, che si è rifiutato di pensare. Un funzionario
della morte che ha applicato regole. Un alunno modello del sistema. Il padre di
un assassino mostra qualcosa di simile: il male come effetto collaterale
dell’obbedienza, come frutto dell’incapacità di mettere in discussione
l’autorità, di dire “no”. Il preside Himmler, con la sua educazione cinica, non
guida; misura. E nella misura c’è già la distanza, e nella distanza,
l’abbandono.
> “Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà
> e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli
> istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo.”
>
> Hannah Arendt
Il padre di un assassino (uscito, in Italia, per Guanda e per Marcos y Marcos) è
anche un trattato implicito su come l’istruzione possa deformare l’essere umano.
Il giovane Himmler, sconosciuto all’Andersch ragazzino, non è all’epoca l’uomo
dei campi di sterminio, ma è guidato verso la metamorfosi in
mostro. Foucault affermava che la scuola, così come la caserma e la prigione, è
un’istituzione che plasma i corpi e le menti attraverso la microfisica del
potere. L’autorità si interiorizza nei gesti quotidiani, nei voti, negli
sguardi. Chi obbedisce non lo fa più per pa1ura, ma perché ha imparato che
obbedire è giusto. In questo senso, il padre di Himmler — preside, figura
autorevole, rappresentante della vecchia Germania imperiale — è un’emanazione
viva del potere disciplinare. Ma non è un carnefice. Non è nemmeno un ideologo.
È un funzionario. Un nodo nella rete.
Anche Nietzsche, in Al di là del bene e del male, smaschera l’educazione, la
intende come meccanismo di addomesticamento. La cultura borghese tedesca, quella
in cui è nato Himmler, ha prodotto individui obbedienti, ben nutriti e incapaci
di pensiero critico. L’uomo addestrato non è l’uomo libero. La massa, infatti,
come spiega EliasCanetti, desidera il comando, e l’autorità diventa figura sacra
proprio perché intoccabile, distante, paterna. La scena del preside che espelle
il giovane Andersch è perfetta per incarnare una distanza sacralizzata: il
potere che si legittima non parlando mai abbastanza.
> “Io mi sono tratto d’impaccio, poichè ho tentato di scrivere la storia di un
> ragazzo che non ha voglia di studiare. E neppure in questo senso la cos aè
> priva di ambiguità: ci saranno lettori che, di fronte allo scontro fra il Rex
> e Franz Kien, prenderanno le parti del preside.”
La tragedia non è che Himmler diventerà un assassino. È che nessuno glielo
impedirà in tempo, perché tutti avranno fatto della disciplina la regola della
sopravvivenza. Andersch ci da quindi un avvertimento. Un libro breve come un
ricordo, ma duro come un monito inciso nella carne. Ogni società educa i propri
figli. Ogni educazione trasmette una visione del mondo. Quale mondo stiamo
insegnando?
In un tempo in cui vige la reificazione dell’uomo; in un’epoca che ama la
performance, il ranking, la produttività, e che premia il silenzio mascherandolo
da competenza, questo libro resta un contrappunto filosofico radicale. Forse non
è l’odio a generare l’assassino. Forse è l’obbedienza cieca, il rispetto con la
benda sugli occhi, il sistema che premia chi non mette in dubbio nulla. Forse,
siamo tutti fanatici prigioneri.
Tommaso Filippucci
L'articolo Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero:
imparare a obbedire proviene da Pangea.
Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è
il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia
italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di
una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi
magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per
dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare
del suo precipitare.
“L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”,
scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio,
degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi
millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca
gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica;
la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a
tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le
vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud
strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora,
un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme
alle cosiddette “Poesie della torre”.
“Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”,
scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire
l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al
verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti
più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il
poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma
una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande
poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.
Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice
ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come
una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi
ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore,
che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel
poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni
nel 1949).
Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin
è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti
il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non
avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”),
da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio
Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin –
insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca
lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso
sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo
setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci
permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del
linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si
rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del
libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin
realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro,
poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:
> “Ma a noi non è dato
> riposare in un luogo,
> dileguano precipitano
> i mortali dolenti, da una
> all’altra delle ore, ciecamente,
> come acqua di scoglio
> in scoglio negli anni
> già nell’Ignoto”
>
> da Canto di Iperione e del destino
In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo
abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il
fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga
“Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe
“presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di
Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo
guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”,
scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di
Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde
l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni
vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti
categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire
poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in
sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il
poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto
giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le
cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel
cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro
che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca
betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.
Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste
stelle?
Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito
da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende
dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le
lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché,
detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione.
Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel
momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea
lui.
Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più
pericoloso dei beni?”
Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in
cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la
vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice
creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la
funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla
condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea
assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè,
di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia
alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per
Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo
penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente
al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine
dolorosissima.
…ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura:
quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo
del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove
di pone Hölderlin?
Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico
(Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione
dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito
fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il
nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso
eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del
titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento
di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le
sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il
suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive
infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi
all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di
immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel
senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente
dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e
apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara,
per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel
linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una
pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.
…e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e
cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori,
cosa ci resta in mano?
In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi
che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità:
o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il
dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita
solitudine.
Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché.
Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura
nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo
inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed
ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione
di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima,
“celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità.
Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che
per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli
indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla
creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli
artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova
in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta
cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non
c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”,
potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno
della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il
sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra
prima e dopo la “pazzia”.
Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.
Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore,
l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è
difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di
una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.
Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che
senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’?
Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la
pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio
Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia
per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i
valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa
considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo
trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano
volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in
luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una
propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos,
in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una
solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se
nulla di immortale si vede”?
Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola?
Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può
partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una
poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa
mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si
disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista
meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un
dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri.
Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con
Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.
*In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta,
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L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
Nel 1994 la New Directions, la mitica casa editrice fondata da James Laughlin su
ispirazione di Ezra Pound, pubblica come Shadow Lands un’antologia di versi di
Johannes Bobrowski, “il più importante poeta tedesco di questo secolo”. Il poeta
era morto trent’anni prima, a Berlino Est, a causa dell’aggravarsi di
un’appendice; non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Di Bobrowski – al di là
della poesia, vertiginosa – attiravano due cose, a giustificare il ‘successo’
nel mercato editoriale inglese. La prima è nascosta nel titolo: Shadow
Lands consuona con The Shadow Line, il più noto – non il più bello – tra i
romanzi di Joseph Conrad. Bobrowski, nato a Tilsit, il borgo eretto dall’Ordine
Teutonico nel XIV secolo, già Prussia Orientale, Russia dalla Seconda guerra,
era il trisnipote di Conrad. In particolare, il suo avo, Tadeusz Bobrowski, è
stato zio e mentore di Conrad: nel 1991 Sellerio ha tradotto le sue Lettere al
grande scrittore inglese. Se Conrad è stato il cantore dei mari, degli uomini
soli a conflitto con la furia degli elementi, Johannes Bobrowski, diciamo così,
è stato un costruttore di miti, ha navigato – su zattera – nei meandri
dell’oceano interiore. Ma a questo arriveremo dopo.
Un’altra cosa affascinava gli anglofoni. Nato nel 1917 da un ufficiale delle
ferrovie, cresciuto a Königsberg (ora Kliningrad), sempre sui confini, Bobrowski
viene arruolato nel ’39, partecipa alla guerra su tutti i fronti – francese,
polacco, sovietico – fino a essere arrestato dai russi, nel ’45, per quattro
anni, costretto ai lavori forzati in una cava di carbone. Bobrowski nasce poeta
in guerra (“Ho cominciato a scrivere nel 1941, lungo le rive del lago Ilmen sul
paesaggio russo, ma da straniero, da tedesco. Di qui ne è scaturito un tema che
potrebbe suonare così: i tedeschi e l’oriente europeo”); sorprende il contrasto
tra l’orrore e la necessità di dissotterrare i miti di una terra martoriata,
dove tedeschi e lituani, polacchi ed ebrei vivano consuonando. Nel dire di
Bobrowski si vaga tra leggende lucidate nel sangue e nel latte, in un sovrappiù
di innocenza: si va con l’arco a tracolla, con la canoa, nel senzatempo
dell’infanzia dell’uomo. Si va con postura d’agguato – con la foga di chi ha
perso tutti gli alfabeti, gli restano le briciole, e con quelle tenta di
adescare, ancora e ancora, la poiana e la nottola, la volpe e l’ermellino, e
ricomporre un canto che dica la fanciullezza delle betulle, il cielo appena
tosato, il suo urlo. Nell’azione lirica di Bobrowski i paesaggi abbacinanti di
Isaak Levitan levitano nel nero incanto di Georg Trakl, il Kalevala, finnico
innario, epico canto, si fonde con la lingua di Novalis.
Quanto al resto, Bobrowski lavorò come redattore in diverse case editrici.
Esordì nel 1961 con la raccolta Sarmatische Zeit: nei Sarmati del Baltico, il
poeta intravede l’orda di una poetica, di una drittura morale – nell’era
orizzontale, monca di miti, il poeta volta la nostalgia in lotta, segue il poema
nel greto, diventa uccello e parente dei sonnambuli, si dice erede dell’astore e
del lupo. Nell’aprile del 1943, durante una licenza, aveva sposato Johanna
Buddrus: il matrimonio avvenne nella fattoria dei genitori di lei. Il poeta,
figlio di battisti, aveva conosciuto Johanna ventenne: avranno quattro figli.
Per un po’, frequentò il Gruppo 47 – in cui transitarono, tra i tanti, Uwe
Johnson, Paul Celan, Hans Magnus Enzensberger –; pare abbia avuto una relazione
con lo scrittore Hubert Fichte.
La vita lirica di Bobrowski si compie con altre due raccolte, Schattenland
Ströme (1962) e Wetterzeichen(1966), che lo rendono uno dei poeti tedeschi più
autorevoli del secondo Novecent. Herta Müller ha detto delle sue “inaudite
immagini linguistiche”, di “una lingua che ferisce durante la lettura”. In
Italia, Bobrowski è stato pubblicato da Mondadori (una raccolta di Poesie è
uscita nel 1969 a cura di Roberto Fertotani); nel 2013 l’editore Di Felice ha
pubblicato un’antologia di Poesie a cura di Davide Racca. Nel 1968 Garzanti ha
pubblicato Il mulino di Levin, curioso romanzo del poeta.
C’è qualcosa di aurorale nelle poesie di Bobrowski, c’è il volto del pioniere,
il coraggio di andare oltre la ‘linea d’ombra’ della letteratura. Sempre si
arranca verso il futuro arretrando. Come il cacciatore, saturo d’erba, che in
cuor suo ha dimenticato la patria e la via del ritorno, che a forza di sognare
il giaguaro è diventato preda, l’essere più fragile, a cui non resta che il
canto, l’estremo sparo che unisce questa ferita terra alla gorgiera dell’ultimo
cielo.
***
Strade di uccelli
I
Nella pioggia dormivo,
nel canneto di pioggia mi svegliai.
Prima che sfogli, vedo la luna vicina,
sento il grido degli uccelli di passo,
lo scuotitore dell’aria, il bianco
grido, che frantuma l’aria.
Rapida e acuta
come fiutano i lupi,
sorella, ascolta: Väinämöinen
canta in mezzo al vento,
getta l’ala di neve
sulla tua spalla, noi siamo spinti
a volo nel vento dei canti –
II
ma sotto grandi
cieli solitari, abbandonate
strade delle pennute
schiere, che trascorsero –
dormendo sui venti
passarono, un nuovo
sole si accese, la vampa
si levò nell’alto, loro bruciarono
nell’albero di cenere.
Là hanno preso il volo
anche i nostri canti.
Sorella, le tue mani
si sbiancano, tu nel buio mi svanisci
nel sonno – quando io devo
cantare l’angoscia degli uccelli?
(Traduzione di Roberto Fertotani)
*
Canti di Lettonia
Mio padre lo sparviero.
Un lupo mio nonno.
E l’antenato il pesce predone nel mare.
Io, imberbe, un folle,
barcollando agli steccati,
con mani nere
soffoco un agnello alla prima luce dell’alba. Io,
che braccai le bestie
invece del bianco
signore seguo i carri che sfrecciano
lungo i greti dragati dall’acqua,
mi volgo verso gli sguardi
delle zingare. Poi
sulla riva baltica incontro Uexküll, il signore.
Cammina sotto la luna.
Le tenebre mormorano dietro di lui.
*
Pianura
Lago.
Il lago.
Sprofondate
le rive. Sotto la nube
la gru. Bianchi, lucenti
i millenari popoli
dei pastori. Con il vento
ho risalito il monte.
Qui voglio vivere. Io ero
un cacciatore, ma l’erba
mi ha catturato.
Insegnami a parlare, erba,
insegnami a essere morto, ad ascoltare
a lungo e a parlare, pietra,
insegnami a restare, acqua,
e tu, vento, di me non chiedere.
*
Sera estiva
Guarda, guarda oltre il rossore
oltre la foresta e la nera muraglia.
L’acqua brilla ancora ed è bianca.
Il silenzio è vivo, lì, è segreto e buono.
E tu, dove vivi? La Terra non è
abbastanza per te, l’inesplicata?
Spazio in abbondanza offre, spazio
senza contegno, per gioire e morire.
Guarda, sopra ogni cosa fluttuano le nubi
e si stagliano le stelle… Come posso ripeterlo?
Oh Terra, Terra, mai angusta, troppo
ricca per noi, troppo generosa.
*
Figure invernali
Nient’altro che neve. Vasta pianura.
Il blu è appena levigato
e viene in massa oltre le colline.
Finalmente, oscurità – silenzio.
Queste sono le foreste. Umili strati
sotto l’imperiale costruzione
del cielo. All’orizzonte, il rebus
delle nubi è già grigio, a frantumi.
Nessun sentiero sfida i colli
Un rapace dissotterra il nero
dal bianco. Recinti di filo spinato
tracciano linee nell’inesplorato.
*
E nominare, sempre:
l’albero e l’uccello in volo
la rossa rupe su cui scorre
il fiume e il pesce
nel bianco fumo, mentre il buio
sovrasta i boschi.
Segni, colori, è un gioco –
ne dubito – potrebbe
non finire bene.
E chi mi insegna
ciò che ho dimenticato: il sonno
delle pietre, il sonno
degli uccelli in volo
e quello degli alberi – forse
il loro parlare continua
al buio?
Se esistesse un dio
se esistesse nel corpo
e potesse chiamarmi
gli andrei incontro
per aspettarlo.
*
Era fiacco il vento
e noi vivevamo nelle capanne
in riva al fiume. Mentre le rive
si oscuravano, fischiavano le canne.
Eravamo bambini
e ci allettava il canto.
Venne il gelo e la pioggia
venne il tuono e la nube –
così sulla terra passa il tempo.
Quel tempo che è
passato di mano in mano
come frutti rossi. L’inverno
scorreva nella luce.
Quel tempo è passato:
abbiamo abbandonato i villaggi
alla sabbia e non ci ha sedotti
la nostalgia della zattera.
Che dolore fare il fuoco
per lo straniero – qualcuno
cantava la canzone:
un tempo fioriva il melo.
Dove volete
vivere? Tutto è sempre
terra ma noi ci sdraiamo
perché i bambini
non hanno più un villaggio.
Ma i boschi e le canne
la costa e i covoni e la gente
che veniva dalla foresta
tornano in noi – il falco
che plana su un’eco blu.
Scoloriscono gli sguardi
quando varchiamo l’arco
dei nostri anni, quando
contiamo le gioie della terra.
Il sangue romba nel cuore
e appella ai figli, li prende
per i capelli: quando cala
la sera, dici Resta ancora così
come quando non sapevi
chi eri.
Johannes Bobrowski
L'articolo “Mio padre lo sparviero”. Le poesie leggendarie di Johannes Bobrowski
proviene da Pangea.
Ci fu un tempo – non troppo lontano, eppure, pleistocenico all’oggi – in cui il
poeta era la creatura critica. Si poneva come punto di contraddizione, come
scandalo – era l’immorale e l’immolato. Tale era il significato, ai suoi occhi,
della parola politica: imporsi dal lato dell’assoluta debolezza. Irrompere a
difesa. Irritare con la corona di spine delle cause perse.
Di Nicolas Born, in Italia, non c’è quasi nulla. Grazie a Giovanni Nadiani e
alle edizioni Mobydick di Faenza, uscì, nel 2012, una selezione di
testi, Nessuno per sé, tutti per nessuno; Gio Batta Bucciol, nel 2019, ha
dedicato al poeta tedesco un servizio su “Poesia” (n. 347, “Tra bagliori e
abbagli”). Eppure, a dire di chi sa, Nicolas Born è stato tra i più importanti
poeti di Germania negli anni Sessanta e Settanta. Tra l’altro, uno dei più
venduti e dei più presenti nel cosiddetto ‘dibattito pubblico’. Das Auge des
Entdeckers, la raccolta edita nel 1972, fu un cambio di passo nella poesia del
tempo: Nicolas Born – che in verità si chiamava Klaus, era nato a Duisburg
l’ultimo giorno del 1937, il padre, poliziotto, aveva combattuto sul fronte
russo, a Stalingrado – si ribellava ai messia delle folle che annientano la
singolarità dell’individuo; odiava gli ideologi del progresso, “il mondo della
macchina”; quando lo invitavano in tivù si scagliava contro “il folle sistema
della nostra realtà”. In prima battuta, il libro vendette ottomila copie;
quell’anno, Born conobbe Peter Handke. “Qui fa freddo ed è meraviglioso perché
nulla può nascondersi. I fiammiferi ardono sul ghiaccio: vorrei comprarmi dei
pattini e noi dovremmo parlare, parlare, lontano dal chiasso letterario”, gli
scrisse, tra l’altro, a ridosso del suo compleanno.
A Martin Grzimek – scrittore ancora oggi sugli scudi – il poeta dettagliò in
qualche modo la sua ferrea poetica:
> “Non dirla rassegnazione, scetticismo, piuttosto – se non è anche questo un
> inganno. La letteratura in cui credo è quella dell’insicurezza universale, la
> veglia sulla catastrofe. La letteratura deve scuotere questo clima di false
> certezze, la fiducia in se stessi di chi governa sulla crisi di milioni. Alla
> scrittura questo è legittimo, allo scrittore non si può chiedere di più:
> anch’egli va ascritto tra i patetici, tra i miserabili”.
Era il marzo del 1978 – sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1979, Nicolas
Born, di un tumore ai polmoni, fulminante. Aveva da poco pubblicato l’ultimo
libro, un romanzo, Die Fälschung: il protagonista è un giornalista inviato in
Libano a raccontare una ‘realtà’ di cui non riconosce più i contorni. È una
sorta di epica dell’atrofia della scrittura, genia di fraintesi. Il libro fu
tradotto in un film, L’inganno (1981), con Bruno Ganz nel ruolo centrale.
La stessa violenta lotta contro il reale, contro l’insensatezza, a stordire
l’assurdo, permea i versi di Born. Autodidatta, cominciò a lavorare in una
tipografia, scriveva nei ritagli di tempo. Fu Ernst Meister, il poeta dalla
scrittura enigmatica, a riconoscere per primo in Nicolas Born le stimmate del
talento. Così, Born, nel 1963, riuscì a partecipare agli importanti
“Literarisches Colloquium” a Berlino: diventò amico di Günter Grass e di Uwe
Johnson, lo scrittore de I giorni e gli anni. Si diede, con un certo successo,
al romanzo: Die erdabgewandte Seite der Geschichte fu tradotto in diverse
lingue. Una borsa di studio, nel 1970, gli consentì di perfezionare le proprie
ricerche all’Università dell’Iowa: conobbe, tra i tanti, Charles Bukowski e
Allen Ginsberg. Preferiva un linguaggio ‘oggettivo’, finché l’oggetto, tuttavia,
finisce per liquefarsi tra le sue mani: in quel liquame di immagini, di tumide
asserzioni, il lettore si aggira a piedi nudi, il lettore deve bagnarsi.
Riuscì a comprarsi una casa nel Wendland, in Bassa Sassonia, tra i boschi:
scrisse per bambini, scrisse per la radio, diventò un autore imprescindibile,
così si diceva un tempo. Un segno lo marchiò come il forcipe dell’angelo: il 3
settembre del 1976 la casa nel bosco va a fuoco, inceneriti la biblioteca e i
manoscritti di Born. Al poeta Jürgen Theobaldy, poco dopo, scrisse “Vorrei
prendere le distanze da così tante cose – è ingiusto che si debbano ‘conoscere’
– che tutto allora divenga linguaggio”.
Venticinque anni dopo la sua morte, Katharina Born, la figlia più piccola, ha
ripubblicato i suoi versi, con diversi inediti. È stata una sorta di rinascita,
culminata con un paio di premi postumi e il riconoscimento dell’alto, grigio
magistero di Born. Katharina era nata nel 1973, dalla seconda moglie di Born: il
poeta aveva tre figlie.
In una poesia epigrafica, Michael Krüger – la cui opera, in Italia, giace tra
Einaudi, La Nave di Teseo, Mondadori e Donzelli – ricorda la sua amicizia con
Nicolas Born:
> “Parlavamo di
> ciò che non era
> di ciò che non sarà.
> Ah, la triste ricchezza
> dei suoi canti, grida così acute.
> C’erano ragni anche allora:
> ora tessono una tela
> in cui sto soffocando”.
Che immagine ambigua e robusta. A volte, l’amicizia è una ragnatela: si scopre
di essere sotto veleno dopo tanto tempo, quando il ragno è ormai assente. A
volte, è il poeta a tessere una tela per intrappolarsi, ragno a se stesso.
***
Dentro il poema
Non puoi vivere
sfidando la realtà
della realtà non si vive
ma puoi sopravvivere all’assedio
e riprenderti tutto
e attraversare la vita
tramite rapida virtù di immagini
tu eri questo
tu eri vita che pullula
popolo che ansima sotto le lapidi
con sospiro continentale
da te agli antenati
mutilata intromissione
terra e acqua restano
il cielo resta
tu resisti
tu, l’impreparato a tutto
piccoli soli imperlano la tua democrazia e
l’eletto alla vita e alla morte
tu e le tue molte belle voci
tu la moltitudine
tu la pelle la pelle e in fondo
nient’altro che la pelle
tu il pioniere della vita
l’impresario delle bianche apparizioni
tu sei un essere spaziale che fluttua
tu l’autore dei flussi della storia
puoi stampare il tempo come un libro
tu pesi setacci ami mentre macerie di dittafoni
rombano nel vento
l’irragionevolezza è alla sua gemma
tu sei il fiore dell’irragionevolezza
tu sei giorno e notte ogni giorno e notte
tu sei l’omicida
apolide nel suo stesso sangue
sei il padre e il figlio
sei l’indiano a processo
sei i colori e le razze
sei la vedova e l’orfano
sei la rivolta dei prigionieri
sei l’ululato increscioso
coltelli spiritati e colpi sparati
sei il magnifico corridore della maratona del sogno
acquazzone di segni nella capitale democratica
sei il devastatore di tutte le catene
sei la formula magica delle segrete delle luce
l’insegna
l’avanguardia dei refettori
sei l’umano e
l’animale che odora di morte
sei solo e sei tutto
sei la tua morte e il grande desiderio
sei il progetto che infuria e
sei la tua morte
*
Per Pasolini
In sogno, Pasolini mi si avvicina
nel ruolo del protagonista.
Splende, lampeggia blu come una macchina
un attore in tutto –
Pasolini salta tra vaste pozzanghere, può essere
basso, laido, oscuro, asociale
ma è Pasolini ed è sempre altro a se stesso.
Poi si ferma sulla soglia delle palazzine
saluta dalle impalcature.
Indica una piramide di vecchie auto:
L’intero borgo
è il suo amante
e con la macchina da presa scopre paesi
che non può più vedere attraverso gli occhiali scuri.
Le mia immagini mugolano dice
dovrei fare film muti;
non sento una parola da anni.
Si strofina su di me e questo
mi piace.
Poi cade in una buca del cantiere.
Un auto arde.
Pioggia rimbalza sul mare.
Nel cinema, l’acquazzone è bianco – ancora.
olas
*
L’apparizione di un uomo nella folla
Benedetto essere soli
nel gulag dei pensieri, senza testimoni
senza l’occhio del pioniere che scorge il primato
senza l’orecchio disciplinato della folla.
Che valore ha un fatto che non si può spartire?
Che cos’è l’universo senza il tuo tremare
il tuo tremore sul palco davanti a file di sedie vuote?
La folla marcia sulla terra
e nessuno muore nella folla
sul dorso di ragnatele ronzanti
finché non accade la grande contraddizione:
l’apparizione di un uomo nella folla
*
Martedì, orrore
I dormienti
binari del tram, pavimentati
di asfalto, aspettano i vecchi tempi
come il ritorno della scrittura a mano
Inattesa pioggia, è pomeriggio
un po’ di luce fa nido sui volti
vergati in grigio, nei campi
tenebrosi canali, alberi pigmei
Colletti bagnati, bagnate le labbra
un vecchio guidato da una bimba con le trecce bagnate
Silos di cemento sopra binari morti
stormi di uccelli come stendardi
una commessa saluta dal vetro
I sobborghi si infiammano verso le sei
e io penso alla scoperta dell’“isola della mente”
Una gru, promontori di crudo cemento
guardo un mondo che ascende
che sa cosa significhi sopravvivere
*
La ballerina
Piuttosto piccola sullo schermo
signore e signori –
la ballerina
balla meravigliosamente anche per noi profani
favolose fiabe
di morte e di mutamento
a teatro
So che qualcuno dice
chi è quella?
dovrebbe ballare
dovrebbe muovere le gambe
con coerenza
in modo da non essere soltanto bella
ma disciplinata
con la sapienza sulla spalle
una danzatrice e un’artista
ben recinta nel suo ruolo
I miei amici hanno ragione
quanto conforta
esprimere il proprio talento
con totale dedizione
guardate la ballerina
osservate quei meditabondi gesti
la risonanza malinconica
in minore
la posa divina
guardate la ballerina sullo schermo
che interpreta il mondo
meglio del notiziario
*
Desideri
I fatti non sono che torbide torture.
Non sarebbe bello avere tre desideri
soltanto, ma che si avverino tutti?
Vorrei una vita senza pause
mentre i muri vengono presi a fucilati
rispetto a una vita percorsa in rapina
dai tesorieri.
Vorrei scrivere lettere in cui
esisto in parte.
Vorrei un libro in cui tutti abbiano accesso
e da cui possa uscire senza troppi drammi.
Non vorrei mai dimenticarmi che è più bello
amarti che essere amato.
Nicolas Born
L'articolo “Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born proviene
da Pangea.
Ci vuole lavorio d’ago per estrarre qualche filo, qualche bava d’alga dalla vita
altrimenti sigillata di Ernst Meister. Allo stesso modo, i versi di Ernst
Meister resistono cristallini, come sfingi di diamante, ignifughi al
‘significato’ – poiché “le parole sono sfinite” occorre andare per altre
promiscuità, occorre sgelare le ultime fonti e farsi spiga dei mercenari. Così,
le poesie di Meister sono ciò che resta dopo aver dragato un lago: frammenti di
selce, l’elmo di un popolo sconosciuto, il femore di un bue a tre teste;
resoconti geologici, cronache cristiche da un millenarismo sradicato, di cui
resta l’amen e il sibilo, la mera fibula.
Nato nel 1911 a Hagen, Meister studia a Marburgo e a Berlino: tra i suoi
insegnanti figurano Karl Löwith e Gadamer. Predilige la filosofia, la teologia,
la storia dell’arte; aurorale è la raccolta Ausstellung, uscita nel 1932.
Seguirà un lungo lazo di silenzio, un silente strazio, in devozione ai disastri.
L’era di Hitler tacita il poeta, estraneo al clima del tempo: arruolato durante
la Seconda guerra, ferito, arrestato dagli Americani in Italia, ritorna in
patria falciato nel cuore e nel corpo. Ritorna, lentamente, a scrivere: nel 1953
esce Unterm schwarzen Schafspelz; nel frattempo, il poeta, per un po’, lavora
come giardiniere nella fabbrica del padre. Scriverà tanto – sedici raccolte, una
manciata di racconti e di drammi –, spesso per piccole edizioni, votando tutto
se stesso alla scrittura. Ottiene qualche premio – il “Petrarca-Preis”, ad
esempio, nel ’76 –, ma il riconoscimento più importante, il “Büchner” – andato,
tra gli altri, a Gottfried e a Paul Celan, a Thomas Bernhard e a Elias Canetti
–, è postumo, assegnato nel 1979; il poeta muore quell’anno, a metà giugno.
Scherzo del fato, si dirà, connaturato a un poeta che ha fatto di tutto per
nascondersi.
Negli anni, l’opera di Meister si è rivelata tra le più vertiginose e gravide di
gloria della poesia tedesca contemporanea. Così scrive, tra gli altri, Gerd
Müller: “La produzione lirica di Meister è sorretta dalla tensione paradossale
fra ciò che si sa a proposito del ‘fondamento’ intimo di tutte le cose e,
contemporaneamente, la consapevolezza di non poter ‘comunicare’ sul piano
linguistico questo sapere” (in: Storia della letteratura tedesca dal Settecento
a oggi, Einaudi, 1991, III/2, pp.64-65, dove – ravvisiamo segni, gli imprevisti
di una sparizione incipiente – il poeta è dato per morto nel 1971…). Da qui, il
linguaggio franto, l’apparente inettitudine del verbo, un procedere più che per
enigmi per agnizioni.
Di norma, le poesie di Meister sono accalcate a quelle di Paul Celan e di Nelly
Sachs; di solito dicono di “poesia ermetica” (didascalia che, ermeticamente,
serra il becco a ogni altra intrusione); nel mondo inglese – dove Meister è
assai tradotto: in catalogo Wave Books – sono affascinati dalla relazione,
apparente, con l’opera di Heidegger. In realtà, Ernst Meister non riepiloga un
dire filosofico, non in quello si ripiega. In lui, è il premio di una allucinata
concretezza. Se Celan, per così dire, tiene l’Iddio alla gola, fa speleologia
nell’indicibile, Meister reca erbario dei piccoli elementi di Eden: foglia
inerte, nodo di vespe, sabbia; adamica muratura. Se Celan pretende il primo
verbo, Meister si sporge presso l’ultima sillaba.
Così il poeta annuncia, nel 1962, la propria poetica:
> “Beato lo scrittore che ignora che cosa sia il poetare, per così dire il nero
> su bianco… ma in compenso scrive poesie che sono inventate, qui e ora”.
Al ‘nero su bianco’ – ideologia di una ‘chiarezza’ che ottunde, che oscura – va
sostituito il ‘qui e ora’, l’eloquio dell’istante, grave di venti e di falchi:
al poeta il compito di ammutinare il linguaggio, nel gergo della predazione.
In Italia, Ernst Meister è stato tradotto da Andrea Mecacci per l’editore
Donzelli, nel 2000: il libro s’intitola Il respiro delle pietre. In calce, si
riproducono alcune poesie da Ora, nella traduzione di Stefanie Golisch, finora
inedite. “Per via della sua discrezione, il suo essere sfuggente, mi ricorda i
quadri di Giorgio Morandi: la stessa aura di intoccabilità”, scrive la Golisch
nelle sue riflessioni. Ne consegue il consiglio, aureo:
> “Poesia da leggere in un lungo pomeriggio d’estate, all’ombra di un vecchio
> albero. Senza interpretare, fare, tirare le somme, cercare di capire cosa
> vogliono dire. Leggere per leggere, diventare al contempo più pesante e più
> leggero e alla fine, forse, cadere nel sonno come un bambino, stanco di
> giocare”.
In Germania, il volume che raccoglie die Gedichte di Meister edito da Suhrkamp
(2011) è curato da Peter Handke, tra gli ammiratori del poeta. “Se esiste un
criterio di scelta, è questo: includere i versi e i ritmi in cui è costante la
selvaggia consapevolezza della morte, la necessità del morire, perché è questo
che determina il ‘detto pietrificato’ di Ernst Meister, quella energumena ed
eterea sospensione tra il lamento per l’atteso niente, il pegno di essere vivi,
e l’amore. È la morte, in effetti – lo insegna anche Goethe –, a conferire
entusiasmo alla vita, a infondere ritmo alla poesia”.
Poesia di greti, questa, di ingrata grazia – poesia di speroni rocciosi – che è
poi: rivoltare un cespuglio scoprendo l’angelo agnellino, capire che il bimbo
che ti fissa, nella fotografia, sul frigorifero, eri tu, tra qualche millennio
ed è quello e doverlo chiamare fuoco.
***
LE PAROLE SONO SFINITE
cinta dai tuoi capelli
ciascuna.
Nessun ladro
può nulla
quando entrambi
perdono
i sensi.
Non si può
annientare
la visione.
*
NEL SONNO E
nelle gole del sonno
quando incontri Quella
che si svela
dopo il piacere come
la morta
con il cuore pulsante,
come quella al centro
della stanza lattea
colma di risa delle ginocchia
e delle cosce,
e che subito ti scaglia
nel labirinto
del sogno comprensibile.
*
IL LAMPO
nasce da sé
e accende
i tuoi capelli.
Che venga
un incendio
dove scoppia il tetto,
la terra si squarcia.
Vieni,
un gelo viene
il più ardente.
*
CIÒ CHE DI QUESTA TERRA
amiamo, che
tu ami, fu
davvero potente.
Dunque ci hai reso
forestieri
d’amore. Ciò
resta nella morte
la ferita.
*
ECO LONTANO
dell’amore.
Sapevo
l’inizio e la fine
coniugi
nel nulla, nell’oro.
Ma ora
è fine sola.
Come un cane
mangio dal trogolo
che l’angelo senza palpebre
posò
nel basso crepuscolo.
*
UN BAMBINO
guarda la ciotola
colmo di tempo,
vede sorseggiare
l’imponente farfalla
grigia,
un bambino
e va
a pascolare nere pecore
al buio.
*
E IN SOGNO…
Nei condotti delle mie orecchie
la vita selvaggia
aveva perso il filo.
Dormivo,
e in sogno le spighe del grande
campo di grano battevano il tempo.
Una talpa, vecchissima, tornata bambina,
cantava nel suo labirinto
dolci melodie.
Così gli animali della notte,
quelli dalle ferite sanguinanti,
avevano trovato il loro cantore.
*
QUANTO SIAMO
promiscui!
Lo vedi
nei mercati,
nella faccia morta
dell’animale.
Tu sei
nessuno tranne te
eppure sei tutti.
*
EPPURE SIAMO
figli della terra –
non lo sappiamo?
Parti dell’origine,
le cui sorti
non dovrebbero
esserci tanto estranee.
Ma terribilmente
diviso sembra
lo stesso principio dei principi.
*
SENZA FIATO
saltare così lontano
nella vicina
vicinanza, la
più vicina,
verso l’ultima
sillaba pronunciata.
Traduzione di Stefanie Golisch
*In copertina: Joseph Beuys, 1972. Foto: © Erich Puls (Klaus Lamberty)
L'articolo “Verso l’ultima sillaba”. Sulla poesia di Ernst Meister proviene da
Pangea.
Il fuoco e la paglia, il crampo tra la noce moscata e il chiodo di garofano, il
nubìvago dimenticato; Salomo Friedlaender – alias Mynona – è il filosofo
giambico che fece della carezza prima dello schiaffo la chiave della sua
rivolta. Nel deserto dei cadaveri dell’identità sociale, l’assurdo balla, il
delirio squarta, la cicciona sconfigge l’orco; Mynona è la maschera che non
chiede scusa – ma che ride, e ride, e ride…
Nato nel 1871 a Gollantsch, allora terra tedesca, oggi Polonia, Salomo
Friedlaender sboccia nella prigione della serietà; figlio di un medico ebreo e
di una madre musicista, crebbe al crocevia tra rigore e dissonanza, scienza e
poesia. La sua vita fu un ponte levatoio tra l’interno e l’esterno, tra la
filosofia e il grottesco, tra la maschera e la verità assoluta.
Studente di medicina a Monaco, poi filosofo per vocazione a Berlino e Jena,
Friedlaender non cercava risposte, bensì domande più grandi. Ben presto trovò
nella speculazione il suo teatro interiore. A Berlino si immerse nei circoli
bohémien, accanto agli espressionisti, ai dadaisti, ai visionari. Qui nacque
Mynona: “Anonym” (anonimo) scritto al contrario – la firma di una scrittura che
ride sotto i baffi, di un giocoliere grottesco.
Dal 1909 iniziò a firmare racconti, satire e poesie che sembravano sfuggire a
ogni logica – o meglio, che reinventavano la logica come un carnevale perpetuo e
provocatore.
> “Affermo con coraggio di essere attualmente l’unico a rappresentare una certa
> sintesi tra Kant e il clown Chaplin”.
Il suo mondo era popolato da personaggi eccentrici, situazioni impossibili,
frasi che si rincorrevano come equilibristi sul filo dell’assurdo. “Fasching als
Logik” – il carnevale come logica – divenne la sua poetica. Mynona è sempre
attratto dall’aspetto pietoso o derisorio della condizione umana; una situazione
è spinta all’estremo fino a sfociare nell’assurdo o nel surreale.
> “Tutto questo è, Dio ce ne scampi, solo una zuffa da topi, una piccola rissa
> teologica da gattini.”
Tra il 1910 e il 1920, Berlino fu il suo laboratorio: una metropoli in fermento,
tra avanguardie artistiche e tempeste politiche. Dietro la maschera
dell’umorismo, infatti, Friedlaender celava un pensiero radicale. Dopo
un’iniziale passione per Schopenhauer, fu Kant a segnare per lui una
“rivoluzione spirituale”. Visse un’esistenza laboriosa da insegnante e al
contempo una vita bohémien con i suoi amici, in particolare Paul Scheerbart e
Carl Einstein. Fu parte dei gruppi d’avanguardia, dei circoli espressionisti,
dadaisti e attivisti, e nel cenacolo della rivista Der Sturm. Fin dall’inizio
del secolo, apparse spesso sulla scena del “Neopathetisches Cabaret”, dove,
insieme a Kurt Hiller, Jakob van Hoddis, Georg Heym, René Schickele, e Frank
Wedekind, portò al successo la satira, la polemica e l’umorismo nero, leggendo i
suoi testi grotteschi.
> “Posso solo darvi un buon consiglio: non urlate mai dentro un uovo! provoca un
> tale trambusto rotolante, che vi farà stare malissimo”.
Dal 1911 al 1914, collaborò con Die Aktion e, già dal 1910, il suo nome apparve
nei sommari di una serie di periodici d’avanguardia, spesso molto effimeri, di
cui adotta volentieri il tono aggressivo e polemico. La libertà del pensiero,
l’indipendenza dello spirito, la religione della ragione: la sua teorizzazione
di “Indifferenzza Attiva” è un invito a non lasciarsi ingabbiare: né dai dogmi,
né dalle ideologie, né dalle identità imposte.
Nei suoi scritti, filosofia e letteratura si confondono: ogni aforisma è
un’esperienza, ogni racconto una domanda. Divenne un maestro del grottesco, una
figura inclassificabile che destabilizza e incanta. “Nessun autore di lingua
tedesca, prima o dopo di lui, ha sviluppato la forma del grottesco a un tale
livello di maestria,” scrive Hartmut Geerken.
La sua associazione al movimento dadaista potrebbe facilmente specchiarsi
nell’affermazione di Hugo Ball:
> “Il dadaista combatte contro l’agonia e il delirio di morte del suo tempo…
> Quello che celebriamo è al tempo stesso una buffonata e una messa funebre”.
Ma Friedlaender resta, nonostante tutto, un metafisico e un moralista, e di
certo non mancano le critiche dei suoi colleghi, così Thomas Mann rispose a una
lettera di René Schickele nel 1939, che gli chiedeva di sostenere Mynona:
> “Non mi piace Mynona e non voglio vederlo in giro. Ha sempre avuto una bocca
> sfacciata alla Tersite”.
Anche il mondo accademico faticò a seguirlo. Mentre l’Europa si avviava verso
l’orrore, Mynona si mise in guardia dai “pigrotti della svastica”, anticipando
con ironia disperata la propria emarginazione.
Con l’ascesa del nazismo, la sua voce si fece più affilata e più tragica. Nel
1933 fuggì in esilio a Parigi, dove visse anni difficili, dimenticato dai più,
ma fedele al proprio stile, scriveva ancora, anche se il mondo attorno sembrava
non ascoltare.
> “Da un secolo ormai mi sforzo enormemente di solleticare il mio popolo con
> ogni sorta di pagliuzze nel naso, senza che esso abbia finora davvero voluto
> starnutire”.
Morì a Parigi nel 1946, nella povertà assoluta, lasciando dietro di sé un’opera
frammentaria, scomoda, impossibile da incasellare. Fu grazie a Ellen Otten e ad
altri studiosi che la sua opera cominciò a riemergere, come un enigma letterario
da decifrare; fu tradotto solamente in lingua inglese e spagnola ed è inedito in
Italia.
> “Chi porta alla luce, in modo stridente e urlante, il grottesco della nostra
> esistenza, apre uno scorcio indiretto su una vita autentica, tanto oscura
> quanto certa”.
Come un caleidoscopio in cui apparenza e verità, comicità e profondità, si
rincorrono all’infinito, Mynona è un invito a guardare il mondo da
un’angolazione obliqua, dove solo chi ride può intuire davvero l’assoluto.
La raccolta Rosa, die schöne Schutzemannsfrau. Grotesken (1913), segnò il suo
debutto e uno dei suoi maggiori successi. Nel breve racconto da cui prende il
nome (tradotto a fine articolo), Mynona trasforma il desiderio e il potere in un
grottesco paradosso. L’eroismo della divisa si trasforma in un feticismo
erotico. Rosa, la bella donna del poliziotto, non è attratta dall’uomo che
indossa il simbolo del potere, ma dal potere stesso che l’uniforme incarna. Rosa
è la protagonista di una “Verkehrung”, un’inversione in cui ciò che è sacro –
l’autorità – diventa oggetto di desiderio erotico. Il potere, anziché essere la
forza dell’individuo, diventa simbolo di un vuoto identitario. Mynona gioca con
il linguaggio, distorcendolo per smascherare le contraddizioni della modernità.
La risata che nasce da questa inversione non è solo comica, ma una critica
feroce ai valori stabiliti, dove il sacro e il profano si mescolano. In questa
parodia del potere, l’isteria diventa la chiave per vedere il mondo con occhi
nuovi, finalmente liberi dalle maschere dell’autorità.
Egli non solo deride le convenzioni, ma le riplasma, le distorce, le trasforma
in una lingua che è tanto poetica quanto inquietante. In ogni battuta, in ogni
paradosso, invita a riflettere: se l’ordine è il caos vestito da divisa, cosa
rimane della nostra identità? Se l’erotico è ridotto a ideologia, quanto siamo
davvero liberi di scegliere ciò che amiamo?
> “Il creatore del grottesco è profondamente convinto che bisogna quasi
> ‘disinfettare con lo zolfo’ questo mondo che ci circonda, per purificarlo da
> ogni parassita; egli diventa un disinfestatore dell’anima”.
Mynona – duplice firma bastarda – è il simbolo di una scrittura che non si
inginocchia, di un pensiero che osa schernire l’assoluto. Friedlaender fu
pensatore clandestino, artista dell’inversione, solitario in dialogo con
l’infinito. Leggerlo è un sogno lucido; da evitare se si cercano certezze, da
seguire se si ama l’estremo.
Salomo Friedlaender è il vento metafisico scandito da folate di parodia; il
riflesso di uno specchio infranto, la maschera derisoria che trasfigura, che
rovescia. Dietro smorfie e lazzi, caricature da cabaret sono i lapilli di un
pensiero che scoppietta sotto la lingua. Mynona è un vulcano travestito da
giullare, un alchimista utopico, un’ombra deforme che mantiene la sua promessa.
L’identità moderna non può tirare i freni dell’uomo, le vertigini non possono
fermare la rivoluzione, la resa non può essere un’alternativa; con il viso nella
lava, nell’Atanor, nel buio del mondo, Mynona assapora la possibilità di
rimanere umani.
Tommaso Filippucci
***
Rosa, la bella donna del poliziotto
Avete presente le ore uggiose in cui il poliziotto rimane sotto la pioggia per
ore e ore, e la sua donna nel mentre…?
Ma Rosa, la bella donna del poliziotto, era completamente diversa. Perché?
Perché era così diversa? Non erano certo le circostanze, ma lei stessa. E non
era certo a causa del marito, un tipo all’antica, diciamo, che Rosa amava. Ma un
miglior conoscitore di donne (con la fortuna negli occhi) una volta mi disse: la
donna è un bel segreto. E quando non fui d’accordo con lui, aggiunse: svelala
solo esteriormente, mai emotivamente! Poi disse qualcosa di Schiller, una
citazione che ho dimenticato, ma che non dimenticherò mai! Nel frattempo, Rosa
uscì e – credetemi! – camminava così bene che la bocca di un antico invalido si
aprì di scatto e la sua pipa divenne anch’essa invalida. Rosa camminava
sull’asfalto bagnato; attraversava uno splendido passaggio, superava il
terrapieno con la gonna alta. All’angolo si trovava l’uomo che l’amava, non suo
marito, ma anche lui un uomo.
Così a quest’uomo scese una lacrima alla vista della profumata Rosa che
passeggiava (non camminava come le signore d’accordo con se stesse, né
problematicamente come le donne di mezzo mondo, e certamente non come la troppo
nota ragazza del popolo, sapete, formosa e allegrotta; camminava, non posso
dirlo in altro modo: come se camminasse nella sua persona). Un monocolo sarebbe
stato generalmente più seducente, ma questo insegna l’autocontrollo, e l’uomo
non lo aveva per lei. Rosa non si accorse dell’uomo fino a che non gli si
avvicinò di corsa e gli parlò con foga:
“Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa! Non dire niente, ti capisco. Ma
lei non mi capisce, non si rende conto di quanto sto soffrendo e di quanto sono
felice nonostante tutto. Non dire niente! Mio marito è in servizio, piove, sta
in piedi sul bagnato, è un poliziotto. Non è questo! Ma non riesco a superarlo.
Oh! Gli sono ancora più fedele quando non è con me. So che mi ami.
Non è un pericolo – oh mio Dio! Potremmo possederci a vicenda. . . Certo! Ed è
interiormente impossibile per me: non come moglie, ma come donna del poliziotto.
Vi amo – se questo vi consola! Niente mi può consolare, sono peggio di una
suora, perché lei può rinunciare ai suoi voti, io sono legata a me stessa”.
Ricordo che l’uomo aveva due gambe, che iniziarono ad agitarsi in modo
particolare durante le parole di Rosa. A volte stava a destra, a volte a
sinistra, si toglieva anche il cappello e si passava la mano tra i ricchi e
folti capelli bruni. Stava in piedi sulla testa, sospirando come un uccello
della foresta sognante, schiaffeggiando i polpacci con il bastone da passeggio,
roteando gli occhi come Nerone al rogo di Roma. Rosa concluse così:
“Comprendimi! Già da piccola, quando vedevo una guardia, avevo le convulsioni.
Non so se è così per tutti. La mia coscienza non mi lascia riposare, questa
divisa è ciò che mi rende donna, qualcosa di morbido, pallido, tremante,
sopraffatto”.
Nella testa dell’uomo si accese una luce, percepì qualcosa come la nascita
dell’uniforme dallo spirito dell’erotismo. Poi all’improvviso chiese
gelidamente: “E se osassi indossare un’uniforme come quella? E dicessi: che cosa
ha tuo marito in più degli altri?”.
Rosa arricciò il naso da Venere: “Prima, assolutamente niente, ma ora tutto,
tutto! Quando ne ho preso uno, per gli altri era finita – sì, anche se ci ha
fatto il favore di rendermi vedova – non potevo dimenticarlo! Non è amore,
l’amore è stupido al confronto, sono questa donna del poliziotto con tutto il
corpo e l’anima. Lo sono e lo resterò”.
L’uomo barcollò come Golia quando fu colpito dalla fionda di Davide… beh, già lo
sapete. Ma non cadde; urlò così forte che un poliziotto si avvicinò. Urlò come
un pazzo: “Ma questa è follia! Bisogna lasciarla andare via con l’ipnosi! È una
cosa facilissima da determinare psicoanaliticamente. Oh, devo andare subito a
Vienna da Freud in persona…”
Non andò oltre; una di quelle mani pesanti, familiari a quasi tutti i nativi
tedeschi, si posò sulla sua spalla contratta: “Non lo farai!” affermò il
poliziotto di Rosa – era lui. “Per favore, andatevene in modo discreto e
decoroso. Non mi preoccupo per mia moglie. Tutti la amano e lei ama tutti.
Nell’amore non c’è resistenza. È giovane, bella e focosa: basta guardarla! Ma ha
la stoffa per farlo! Hai sentito. E adesso basta! Spesso non sono a casa, non
posso fermarti – ma sono più protetto dalle corna. Avrebbe rotto il matrimonio
senza esitazione, ma non questo; È così garantito da ciò che hai appena chiamato
follia che io stesso – a volte si hanno pensieri del genere – non potrei
cambiarlo. Nanu Adieu!”.
Se ne andò con Rosa. L’uomo, stordito, nella direzione opposta. Non vide mai più
Rosa. Non riuscì mai a strappare dal suo cuore l’amore per lei. Fu molto più
tardi (davanti alla cattedrale di Strasburgo) che mormorò cupamente tra sé e sé:
“Rosa, adorabile segreto! Sfinge di tutta la gendarmeria!”
“Accidenti”, disse qualcuno quando glielo dissi, “Reprimi meglio le tue idee!”.
Oh sì! Tutti dovrebbero tenere la bocca chiusa sulla Sfinge, più Sfinge della
Sfinge. “E non chiamate la mia bocca bocca!”, mi interruppe la sfinge nel suo
silenzio lungo un miglio.
L'articolo “Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore
grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin proviene da Pangea.