A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015,
accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che
forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza.
Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di
Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il
torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und
Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto
il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo
punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide
autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un
mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole
successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von
Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia
rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal
punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida
trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in
quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra,
rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri
di un’infanzia mai più riconquistata.
Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna
pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con
martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in
Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante
parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della
Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate
e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato
avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in
Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a
Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua
tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro,
spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans
Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale
sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann,
Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello
stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella
del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la
lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla
nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori
romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi
di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli
anni.
Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo),
del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e
respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del
lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato
e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia
dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970,
sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una
particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel
secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io
parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni
tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso
toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità,
non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti.
La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi
da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei
provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una
compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953
contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del
regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e
agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e,
malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare
una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli
abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà
alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente
repressa.
Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato
alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile
poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’
d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di
tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):
> “Una portaerei americana
> e una cattedrale gotica
> reciprocamente
> s’affondarono
> nel Pacifico.
> Suonò l’organo fino alla fine
> il giovane vicario. –
> Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei
> e non possono atterrare.”
Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante,
e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto
convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la
reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne
elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che
nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia.
Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle
popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva
– con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo
baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria
persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il
nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al
Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie
d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in
Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in
favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le
discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la
“coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma
attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di
Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era
lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana.
A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata
alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca,
Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori,
allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello
Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena
uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della
rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i
due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva
qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in
merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé
citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità,
asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto
fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla
Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece
accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due
Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione
l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland
nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito
nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la
caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie
di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche
una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la
pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando
la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che
fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo
metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi
ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia –
un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito,
ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E
se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito,
era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il
fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una
posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi
detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale
quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima
d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato
del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività
letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria
carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.
Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus
Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine
Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel
1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente
riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque
quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che
prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di
annullare l’evento previsto.
Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e
nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente
personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un
grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro
in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è
stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri
traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici
riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare
agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si
spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza
pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne
addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola
rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade
in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione
del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di
correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali
Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei
traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era –
aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona
fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di
tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per
garantirsi una relativa immortalità.
Raoul Precht
L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come
coscienza critica proviene da Pangea.
Tag - letteratura tedesca
Qualche giorno fa, alla radio, davano Il mattino di Grieg. Alle elementari, il
maestro di musica ci faceva suonare Il mattino: gli Aulos fischiavano nell’aula,
pervasa da un improvviso odore di larici. Nulla, nella periferia torinese dove
si esercitavano quei bambini, ricordava la Norvegia o le gesta di Peer Gynt,
l’eroe scapestrato di Ibsen. Le Alpi, lontane, inaccessibili, sembravano bianche
sfingi. Secondo i pitagorici, il flauto è “troppo sfrenato” (così Giamblico) per
indurre alla contemplazione: le loro danze si sviluppano lungo le elitre della
lira. Eppure, Il mattino è una musica vitrea, traslucida, si frantuma ovunque,
come crisalidi di zucchero.
Non ricordavo che Edvard Grieg si fosse fatto seppellire in una parete rocciosa,
poco lontano dalla sua casa, Trodhaugen, presso Bergen. Il sepolcro guarda
l’oceano, assediato da felci, muschi, piante – nessuno, tranne gli uccelli
marini, può onorare il grande compositore. Grieg non voleva fiori, non voleva
pianti. Grieg è raffigurato sempre con lunghi baffi che rassegnano il suo viso a
quello di uno sparviero.
*
Il sepolcro di Grieg – e la sua poetica, da autodidatta e naïf – rimanda in me
alla poesia di Christine Lavant. Inaccessibile, vertiginosa per eccesso di
semplicità, rivolta agli elementi primi del creato – il sole e la luna, la
pioggia e la pietra – più che all’uomo. Tesa, intendo, verso l’umano, verso
quella candida ferocia, che non all’umanità: verbo che mette conifere e artigli,
che spaura l’inno in uno scoccare di frecce.
*
Nata Thonhauser nel luglio del 1915, in Carinzia, Christine Lavant – il nome
ricalca quello della valle in cui è cresciuta – è tra i poeti più eccentrici e
insondati del secolo. Figlia di un minatore e di una sarta, afflitta dalla
scrofola, da continui mali, diseguale l’educazione, presto interrotta, la Lavant
scrive come in una camera d’attesa del creato, nell’antiporta dell’Eden, di
uomini ancora indecisi tra la forma dell’angelo e quella del leone, della serpe
e del toro. Il sentire della Lavant, il suo dire scampanio, non ha mediazione
retorica, giunge dal fondaco biblico, da quel residuo d’uomo che chiamiamo
candore.
*
Sulla strada della Lavant, Rilke, il lupo orfico, che la marchia a fuoco. Lo
legge durante uno dei ricoveri, a Klagenfurt, negli anni Trenta. Christine
impara a cucire per darsi in pasto al quotidiano; scrive come una forma
dell’andare mendicando. Tentare un gemellaggio tra ago e penna, tra cucitura e
scrittura – punto intermedio: la cicatrice.
Seguono i primi rifiuti, le violente reazioni: brucia i taccuini, albeggianti
nel fuoco, tenta il suicidio, affossa nella depressione. Di lì, l’ingresso nella
casa di cura – i valligiani le danno della pazza, e lei è lì, reclina nell’aura
di santità dei marginali e dei dementi. Dopo la morte dei genitori, nel 1938 –
che è poi uno sbandarsi, un vivere senza più bende – Christine si sposa con
Josef Habernig, pittore, colto, già proprietario di terre, di trentacinque anni
più grande di lei. Usava indossare un velo, a celare il cranio.
> “Dopo la morte dei miei genitori, mi sono trasferita in una soffitta. Così,
> interruppi l’incanto. Pensai che l’ira con cui scrivevo fosse una malattia,
> volevo sedarla, non si addiceva alla povera persona che ero. Finché non ebbi
> trent’anni. Lavoravo a maglia tutto il giorno per i contadini, leggevo, mi
> auguravo – secondo i modi di nostra madre – di avere un tetto sopra il cranio
> e un posto buono per dormire. Finché un giorno, contro mia volontà, mi è stato
> imposto un volume di versi di Rilke. Lo presi per non offendere la
> bibliotecaria che me l’aveva offerto. Nulla sapevo di Rilke, non intendevo
> leggere poesie – ostacolavano il mio lavoro. Poi l’ho letto. Galoppata di
> nuvole sopra di me. Non ho fatto che scrivere versi. Giorno e notte”.
*
Miracolata da Rilke, che giunge come un dio tra le nubi – ma di Rilke, Christine
tiene l’esubero, la carcassa. Nessun vello retorico, nessun veicolo filosofico:
soltanto denti, ossa, le scattanti figure della predazione. Di Rilke, il profilo
centauro.
*
Lento, lentissimo approvvigionarsi di onori. La prima raccolta nel 1949; nel ’54
ottiene il Premio Georg Trakl. Usciranno “La ciotola del mendicante” (1956), “Un
fuso nella luna” (1959), “Il grido del pavone” (1962). L’amore per il pittore
Werner Berg le dona dionisiaca ispirazione. Christine scrive fino a trenta
poesie al giorno; finché la soglia tra vita e scrittura si deforma, si sfascia,
la donna crolla in collasso nervoso.
Di migliaia di versi si compone il canzoniere di Lavant – dissennato, diseguale,
inabile ad alcuna didattica lirica. Va amato questo sperpero di sé, questo
intenebrarsi nel linguaggio, ogni giorno, come una lotta al quotidiano. Come una
tacca sul bastone, come un intaccare la luce. Ci è stato detto di una poesia
raffinata fino all’alambicco, di poche perfettissime parole: chessò, i testi di
Eliot e di Valéry, l’opera ben ragionata di Montale, di Ungaretti. Invece,
penetrare nell’oceano fino a perdere il giudizio – fino allo scafo capodoglio.
Dunque: la scrittura continua di Lorenzo Calogero, il milione di versi di Gian
Giacomo Menon, la lirica perpetua, almeno una poesia al giorno, di Ghiannis
Ritsos. A questa indecente generosità segue, di solito, la reticenza,
l’incomprensione, il disorientamento. Ma è quello: perdersi in un’opera
immeditata e immensa, darsi alla danza. Altri vadano con il bilancino
dell’orafo, a pesare aggettivi ed endecasillabi – qui si è nel ritmo, nel gorgo
– senza poesia, non sorge il sole, nasce obliquo, mero astro-feto, infecondo.
*
> “Poesia, nemico mortale. È lei che mi ha fatto invecchiare così presto, mia
> prematura morte”.
Dopo la morte del marito, nel 1964, Christine piomba nell’abulia, nel disastro
dei nervi. Nel 1970 riceve il “Großer Österreichischer Staatspreis”, tra le
massime onorificenze conferite all’eccezionalità letteraria dallo stato
austriaco, andata, tra gli altri, a Elias Canetti e a Ingeborg Bachmann.
Christine Lavant muore tre anni dopo, in giugno. Nel 1978 esce, postuma, la
raccolta “Un’arte come la mia è solo vita mutilata”: nel titolo già si è negli
argini di una poetica che risolve, a contrario, l’estasi della “vita come opera
d’arte”. In Christine è il senso animale, l’andare con mani a maggese, a
setacciare particole e rovi.
Piaceva a Thomas Bernhard, la poesia di Christine Lavant. L’aveva conosciuta
negli anni Cinquanta, Bernhard, poco più che ventenne, quando praticava la
lirica, con toni campali, marziali, di campo (una selezione delle poesie di
Bernhard è in Sulla terra e all’inferno e Sotto il ferro della luna, entrambi
editi da Crocetti). Proprio Bernhard, nel 1987, per Suhrkamp, cura una
serratissima antologia di Poesie di Christine Lavant, da cui la traduzione di
Anna Ruchat per FinisTerrae (2022; già Effigie, 2016).
Tra le altre cose – tratte dal carteggio tra Bernhard e Siegfrid Unseld, 2009 –
Bernhard scrive che “La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di
essere conosciuta nel mondo intero”. E più in particolare:
> “La Lavant era un essere assolutamente terreno, molto intelligente e
> raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le
> sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più
> significativo di tutte le menzogne raccontare sulla sua estraneità al mondo,
> sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio”.
L’estranea è nel mondo ben più dei mondani, gli straniti.
Aveva quel volto ligneo, uscito dalla bottega di Bruegel, la nobiltà di una
regina di Saba in stracci – la nobiltà di chi lancia le briciole alle stelle, i
suoi piccioni.
**
Voglio condividere il pane con i pazzi,
ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,
anche la campana nel cuore,
là, dove il colombo fa il nido
e trova un minuscolo asilo
nella selva sulle acque.
A lungo ho vissuto come pietra
sul fondo delle cose.
Ma ho sentito la campana
sussurrare il tuo segreto
nei pesci volanti.
Imparerò a volare e a nuotare
e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra
lascerò la malinconia coricata nella madreperla,
ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.
Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,
le mie ali sono volate oltre il coraggio,
che s’era fatto carico dell’errare.
Voglio condividere il pane con i pazzi
là, nella spaventosa selva del colombo
dove la campana divide in tre parti il grande terrore
trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.
*
Caccia via da me la stella,
che sghignazza così, senza motivo,
tu, cane del vicino!
Dille una parola di cane!
Abbaiale contro qualcosa di cattivo,
inseguila come fosse selvaggina,
non mi serve una costellazione,
il mio Cane Minore ora sei tu!
Pensi forse che non basti
per questo cuore nero?
Colpisce alla cieca il dolore
e lo morde finché non si spezza.
Non hai fame, cane?
Andate e mangiate entrambi!
La stella s’è ritirata lontano
ora io piango senza motivo.
*
Solo un ramo secondario del sonno,
selvaggio e bastardo, allevato dalle droghe
si prende cura a volte della mia anima.
Due esseri abusati a servizio l’uno dell’altro,
consolano quel che ancora va consolato
e benevoli nascondono ciò che sanno
mettono al mondo sogni dimidiati
cerei e senza volto
ignoranti di pazienza e cura
sciolti già al primo canto del gallo.
E tuttavia sono figli piccoli
battezzati di corsa, tutti consacrati
a colui che li ha sacrificati entrambi
come due schiavi o cani randagi
mentre il buon nobile sonno
si corica soltanto con anime illustri.
*
Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!
O sarai creatore
di ciò che è cadavere e lo rimane
e si unisce alla terra
ben più volentieri che al cielo.
Vai, continua ad ammantare i gigli
corrompi pure i passeri con il miele vergine –
io vivo di ruggine e muffa.
Tu dici che questo non mi sazia
e blateri della città di Dio
che molti conquistano con il digiuno.
Non io! Mi piace vivere nell’argilla
per diventare pietra e tuttavia
mai esserti di peso.
*
Decrepita fisso la ruota del tempo.
Come girano lentamente ora i raggi del sole!
Nessun mastro m’insegna a raggiungere lo scopo,
ma spesso sembra che io sia un’iniziata.
Le persone più vicine mi hanno consegnata
a ciò che vi è di comprensibile nelle caverne
dell’abbandono e le mie dita scivolano
lungo la scrittura ideografica che sa ogni cosa.
Come preferirei star seduta tra i papaveri
tra consolazione, speranza e un po’ di malafede
perché qui tutto ha già i lineamenti chiari
della dura verità – si muore assiderati.
*
Hai modificato tu il paesaggio tra noi.
Ogni cosa tra nuvole e radici ha subito gravi danni.
I fratelli non dormono più l’uno accanto all’altro
e il ponte della fiducia è sparito dagli occhi di tutti.
Non so più su cosa cammino, né dove vado,
perché la tua voce non mi porta nessun vento,
nessun richiamo d’uccello né rumore di fogliame.
Quattro volte verso il basso spinge la direzione del cielo
e la mia mano, che cerca la tua manica,
torna vuota e segnata.
Ora lo grido a perdifiato ed è come tempesta, che mi fa nuda,
tutta nuda, fino all’anima e senza vergogna sotto le stelle.
Perché, dimmi, perché mi hai lasciato il gridare?
E il cartiglio degli occhi sotto la fronte apprensiva?
Perché non mi hai strappato il cuore dalle costole,
perché non l’hai calpestato e dato, a pezzetti, in pasto ai cani?
Questo avresti dovuto fare prima di consegnarmi al villaggio!
Perché è questo l’inferno di cui sognavo con terrore da bambina,
e di certo anche prima nel corpo affamato di mia madre.
Tutto viene di lì.
Di lì sono venuta io, smilza e avida di miracoli,
che uno di essi alla fine mi rendesse bella
per le cose dell’amore e più tardi nella trasparenza degli angeli.
Tu avresti potuto farlo!
Lo sento ancora, sotto la cute, dove gemendo la bestia cresce.
Traduzione di Anna Ruchat
Da Christine Lavant, Poesie. Scelte da Thomas Bernhard, tr. it. di Anna Ruchat,
FinisTerrae, Como-Pavia, 2022.
L'articolo “Voglio condividere il pane con i pazzi”. Christine Lavant, la
poetessa amata da Thomas Bernhard proviene da Pangea.
La poesia nasce dal clangore delle armi, sotto le possenti mura di Ilio, dove i
vortici di sabbia si levano falbi e alte risuonano le grida dei feriti.
La poesia nasce dal lucore marino del remo che sospinge Ulisse verso ignoti
approdi.
Non illudiamoci: alle origini del mito, è da scuro e caldo sangue che sgorga la
poesia. Il primo poeta deve essere stato un aruspice – le mani vermiglie tra
fumanti viscere, in cerca del celeste presagio.
Solo dopo verranno il Parnaso, le fonti dell’Elicona, lo sguardo celeste e
radioso di Apollo.
L’ispirazione delle Muse: il lusso di chi ha imparato ad addomesticare il furore
delle Erinni.
*
Come Joyce, Nabokov, Kiš e tanti altri, Sebald è stato prima poeta e poi
narratore. Per tutta la sua vita ha scritto poesie, nonostante dichiarasse che
il suo mezzo espressivo fosse la prosa. Con Calliope ha sempre colloquiato
sommessamente, con la discrezione che si riserva ai vizi più imperdonabili. Ora,
Adelphi pubblica per la prima volta in traduzione italiana un’antologia lirica
del tedesco, Sulla terra e sull’acqua, che raccoglie le poesie scritte tra il
1964 e il 2001, quando uno scontro frontale pose fine alla sua esistenza
terrena.
*
Se poesia vuol dire abbracciare la metamorfosi nel corpo e nel tempo della
storia, allora Sebald è stato valente poeta. Di sguincio, come a spiare i gesti
degli uomini, con un occhio teso verso la terra e l’altro rivolto al cielo,
registra il movimento delle costellazioni, le ampie distanze, il silenzio delle
stelle.
La rivelazione accade soltanto in modo fulmineo. Il testo è il tuono che segue e
rimbomba a lungo. Nelle poesie di Sebald, indovini il momento che precede la
scarica elettrica, la tensione che precede lo scioglimento. Senti l’ultima
raffica di vento prima della pioggia, l’imposta che si chiude su una piazza come
sul mondo intero, l’eco di un suono che si dissolve in lontananza.
“Dove vanno adesso i poeti?” – chiede il protagonista di Sindbad torna a
casa, breve romanzo di un malinconico Sándor Marai. La domanda è destinata a non
trovare risposta. I poeti sono ovunque e in nessun luogo: dimorano sulla
soglia.
> Tu resta sempre
> Sul piede di partenza
Essere poeti significa rivendicare la responsabilità di una scelta radicale.
Scrivere poesie vuol dire accogliere le infinite possibilità che l’orizzonte
dischiude.
Come Bashō, Rimbaud, Bouvier e Chatwin, Sebald viaggia nello spazio per spinta
di nervi e cuore. La letteratura viene dopo: prima bisogna aver guadato fiumi,
lasciato impronte sulla neve, incontrato il lampo negli occhi di una volpe. Di
tanto in tanto, aver osservato il tempo all’opera: muschio ed edera che
avvolgono colonne e capitelli, cenere di antichi incendi negli sguardi dei
vecchi.
*
Vertigini, Emigrazioni, Il passeggiatore solitario, Tessitura di sogno: con
Sebald si cammina sempre sul bordo di una scogliera, a sfioro di un precipizio.
Il poeta tedesco ha il passo del fondista: i valichi e le vette sono per altri,
gli astrali alpinisti del verso.
Sull’orlo di un crinale, a mezzacosta, al confine: tra veglia e sogno, memoria e
oblio, passato e presente. Immagino la poesia di Sebald come un faro: distante e
al tempo stesso intima, solitaria, fiero avamposto tra le tempeste marine.
Nelle sue poesie colpisce la naturale convivenza tra una dimensione fisica,
radicata nella storia e nel tempo, e un’altra che invece sembra trascenderla,
attraversandola come un raggio obliquo. Non si tratta di una vera e propria
metafisica, ma piuttosto della vigile contemplazione di un mistero che si annida
nell’esperienza stessa del vivere. Un mistero che si traduce in una sorta di
“straniamento”, in un radicale ribaltamento di prospettiva, in cui anche le cose
e la natura partecipano della natura umana. Così, nella prima poesia che
apre Latinetto, un treno che sfreccia diventa oggetto di studio da parte del
paesaggio circostante. Un mucchio di foglie e sterpaglie vive nell’attesa
angosciosa del fuoco che un uomo appiccherà. Gli alberi e le case tacciono: la
sera accerchia i colori del villaggio con la sua ombra. I castelli sembrano
abitati da incantesimi senza tempo. Così, nel sontuoso Nymphenburg, pare di
vedere un trovatore provenzale o una principessa poeta affacciarsi da una
finestra del palazzo:
> Siepi sono cresciute
> oltre la corte e il castello.
> Da tempo nell’oblio
> fontane e lumiere
> dietro le facciate,
> serenate e pizzicar di corse,
> le sfumature malvacee.
> Per sale in legno di sandalo,
> le guide bisbigliano
> del Tavolino magico
> nelle biblioteche
> dei defunti principi.
*
La poesia è ciò che resta della fosforescenza del vivere. I versi indugiano
sulla pelle di un ricordo.Sebald accoglie e ricombina strade percorse, volti,
città e luoghi dove il tempo si è fatto curva nella memoria. Passato e presente
si intrecciano senza soluzione di continuità: il poeta non conosce cronologia,
né il dolce balsamo dell’oblio. La tentazione dell’autobiografia: testimoniare
una perenne metamorfosi. Così, un viaggio nelle Fiandre diventa un inesauribile
nodo di ricordi, rivelazioni e immagini folgoranti. Il candore della neve
ammanta i vigneti e il giardino pensile di Ezra Pound, il campo di battaglia di
Waterloo biancheggia sul sangue dei caduti, i palazzi nobiliari diventano
istituti di ricerca e osservatori ornitologici. Personaggi bizzarri si alternano
a episodi di glossolalia, sfilano nomi di città come dal finestrino di un
treno.
Il presagio di un amore, infine, riporta un ordine apparente nel vortice del
caos: la premessa di nuove partenze, il richiamo di un altrove che sembra una
promessa di felicità.
> Parti per l’Egeo
> per Santorini
> terra di basalto
> fosforescenza sul remo
> trattieni l’acqua
> nella tua mano:
> luccica – di notte –
> davanti alla casa delle melanzane
> macchia d’ombra nel buio
> sul muro imbiancato a calce
> verde chiaro di giorno
> fili di rafia violetta
> nel sole.
Si avanza per interiori lampeggiamenti, in un’ipertrofia della memoria. Un
soggiorno a Marienbad diventa una dolente riflessione sulla transitorietà della
vita, sulla perdita del sacro, sul presentimento costante di qualcosa di
ineluttabile, antico quanto il respiro del mondo.
> Ma non rimane il mondo?
> così domandasti, una verde landa
> non si estende lungo il fiume
> in mezzo a cespugli e prati? Il raccolto
> non matura dunque? Sulle pareti
> rocciose l’ombra del sacro
> non aleggia più? E quello che
> di là sotto sta salendo non è forse
> il colore grigio della notte?
*
L’occhio di Sebald vaga nelle remote lontananze, ma osserva con lucida
attenzione le vicende umane. Chi ha letto le sue opere, sia narrative che
saggistiche, ritroverà in Sulla terra e sull’acqua personaggi familiari e,
soprattutto, quel tono inconfondibile del suo stile: un effetto di sospensione
temporale, un’accorata meditazione sulla dissoluzione, uno squarcio improvviso
su una realtà ulteriore, dove le tracce del passato continuano a vivere nei
dettagli del presente.
Nel caleidoscopio poetico di Sebald convivono persone comuni e familiari, grandi
scrittori e musicisti: nessuno è risparmiato dall’incessante trasformazione del
tempo. Di Kafka si evoca il viaggio verso il sanatorio di Matliary, nei monti
Tatra, con pochi effetti personali e qualche cartolina illustrata. Čechov viene
ricordato negli ultimi momenti della sua vita e dopo il trapasso, quando la
salma viene trasportata goffamente a Mosca: ne emerge un ritratto tra il
tragicomico e il grottesco. Elegia a Marienbad evoca invece la passione senile
di Goethe per la giovanissima Ulrike von Levetzow. Sempre a Marienbad si
infrange l’amore disperato di Chopin per la giovane boema Maria.
Gli emigranti, da sempre figure centrali nella produzione di Sebald, ritornano
in alcune poesie, al momento della partenza, e poi una volta giunti a
destinazione: spaesati, sradicati, rovesciati nel mezzo di una realtà che non
riescono linguisticamente e semanticamente a decifrare. Il contesto è quello dei
freddi luoghi del viaggio: piroscafi simili a grandi mostri acquatici, sale
d’attesa, aeroporti e vuote camere d’albergo.
In queste poesie, il respiro di Sebald è potentemente narrativo: sembra quasi
che i versi non possano sostenere il ritmo lento e sottilmente allucinato delle
immagini descritte. Lo scrittore dà il meglio di sé quando si affida a
un’ispirazione più vasta e misteriosa, che si traduce nell’esemplarità del
frammento e fa emergere, come in filigrana, un altrove presagito. Penso alla
semplicità di Poesia Invernale:
> Nella valle echeggia
> Il suono delle stelle e
> La vastità del silenzio
> Sopra la neve e i boschi.
>
> Il bestiame è nella stalla.
> Dio è in Cielo.
> Gesù Bambino nelle Fiandre.
> Chi crede sarà beato.
I tre Re Magi sono
in cammino sulla Terra.
E ai suggestivi versi finali di Trigonometria delle sfere:
> E non ti scordare disse una volta
> Che dalla costellazione dell’Ariete
> il vento del Nord porta la luce
> fin negli alberi di melo.
Ora sappiamo perché il Nord ci attira con la violenza di un ago magnetico, o
perché nella notte declinante siede un santo che ruggisce come un leone.
Abbiamo compreso il segreto del poeta, di ogni poeta: accendere il fuoco e nel
fumo leggere il futuro. Portare fuori la cenere e gettarsela alle spalle. Come
Orfeo, non guardarsi mai indietro nel farlo. Con il cinabro pitturarsi il volto
e tentare l’arte della metamorfosi.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Jan Peter Tripp, L’Oeil oder die weisse Zeit, 2003
L'articolo “Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta proviene da Pangea.
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele
di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i
suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata),
spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva
il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta
ragione aveva.
Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul
«Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da
cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti
osservati de visu da Mathieu stesso.
Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non
potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo
diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica,
ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014,
in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo.
Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da
qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da
tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il
testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe
del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.),
ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso.
Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece
procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche
cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente
ricerche in documenti e biblioteche.
La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia
goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della
lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di
noia o inaccostabile.
Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile
descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni
complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore,
basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso.
Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera
goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio
allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica
s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon,
centrale nei Lehrjahre.
E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a
Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi
appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che
riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le
lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e
frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe.
Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a
intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo
bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe
fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero
dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro.
La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di
Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del
percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità,
il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e
fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche,
rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di
parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che
i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di
Fichte e alla Rivoluzione francese.
Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno
scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante
dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale
tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su
questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano.
Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi
divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la
germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia
letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio.
Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore,
buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia
dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto
che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle
case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni
avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di
Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici
di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia
sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura
assai superficiale.
Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione
d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia
culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà
l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro
subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che
potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a
generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una
figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di
(presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate
viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di
quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso
ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica.
Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per
allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così
annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o
cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica
è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento
sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista.
Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si
fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso,
almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la
definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e
un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria,
egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la
sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone
accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto.
Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di
cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il
suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che
Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che
i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe
dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera
morta.
Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a
dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le
solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come
scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una
Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach.
Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri
della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche
avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per
dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e
rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio,
è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare.
Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura
italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di
germanistica.
Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu
sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine,
lo avrebbero messo della pubblica gogna.
A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti
guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per
giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di
Goethe.
Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi
voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un
cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto,
molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister.
Luca Bistolfi
*In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982
L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio
Mathieu proviene da Pangea.