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Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero, sul senso della lettera ß
In questo momento storico esagitato, ora che il mondo che credevamo di conoscere si sta rivelando non essere affatto come credevamo che fosse, svincolatosi dalle leggi che credevamo lo governasse, in questo momento storico forsennato in cui si svela che il mondo ha smesso da così tanto tempo di essere regolato dalle leggi che credevamo lo governassero da rivelarsi praticamente a tutti così com’è diventato, come sta diventando, per tutti intendo anche me che sono uno tra i tutti, tutti tranne quei relativamente pochi che lo sanno da chissà quanto tempo che le regole del mondo sono cambiate, che il mondo ha infranto le regole precedenti e ne sta rodando delle nuove, che io non so affatto quali siano ma che spero ci siano, senza regole quali che siano il gioco del mondo semplicemente si fermerebbe invece il mondo gioca eccome, in questo momento storico prepotente e angosciante, apocalittico, omicida a livelli più che novecenteschi, ma progresso ormai non significa altro che aumento dell’intensità, del profitto e del danno, in questo momento storico che sarà storico anche lui come lo sono stati tutti quelli primi e che a me, personalmente, non piace lungo i suoi sommi capi, io leggo Ludwig Hohl, Note, Marcos y Marcos, e grazie a Ludwig Hohl – che nel 1980 curò una nuova edizione delle note “scritte nei tre anni che vanno dal 1934 al 1936, durante i quali vissi in Olanda in uno stato di assoluto isolamento spirituale”  – ora so che la lettera tedesca ß, cioè la doppia S tedesca, si chiama Eszett  o scharfes S (fonte: Wiki), lo so perché Hohl nella Nota 3 della Parte VI – Scrivere scrive: “Quanti leggono oggi Lichtenberg o Kaßner?”.  Io non ho mai letto né l’uno né l’altro ma se cercare Lichtenberg su Google è stato semplice non lo è stato per Kaßner: intanto dovevo capire come si inserisse il carattere ß, non ho mai usato il carattere ß, e anche una volta copiato online il carattere, una volta inserito sul motore di ricerca Kaßner, niente, nessun responso, perché l’occorrenza vale per Kassner, Rudolf Kassner: che piacque molto a Rilke oltre che a Hohl, si scopre navigando navigando, e Hohl su Rilke? Da una nota alla Nota 4 sempre della Parte VI – Scrivere: “Mi riferisco qui al tardo Rilke. E anche costui, allorché scrissi questo testo, venne da me sopravvalutato.”  In questo momento storico allarmato, valicato, sbeffeggiato, trucidato e molto molto molto commentato posso ancora addormentarmi la notte contento di aver imparato la lettera nuova di una lingua che non parlo, la ß che si pronuncia come una doppia esse in italiano e che allora potremmo ereditare, in questi tempi di scrittura stringata, raccorciata, stritolata, politicamente pudibonda, reticente, vieppiù omertosa, potremmo scrivere taßo e rifleßo e aßaßinio o, per bypaßare la censura delle piattaforme così perbenino a modo loro, per non temere di eßere derankizzati potremmo scrivere seßo quando avremo voglia di parlare di seßo – siccome parlare è già un po’ un fare e siccome è indubbio che qualcosa aßolutamente dobbiamo fare in questo momento storico demenziale, oßeßionato, impanicato, frustrato, esploso.  Che fare? Leggere Hohl, per esempio. antonio coda L'articolo Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero, sul senso della lettera ß proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea
“Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di Thomas Mann
Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche, quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia agisca sul nostro sistema vitale. Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea:  > «Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza > quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo > senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto > strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e > del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel > che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione > esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa > delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a > lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra > angelo e bestia». Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un “privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e “spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza. Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile che è l’uomo in quanto tale. * La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912, Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di diario del 1919 Mann scrive:  > «Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in > mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto, > ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come > inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma > anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per > il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente > alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo > consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di > corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e > Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della > guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave > umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo > umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto > Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le > loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans > Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare > all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le > sue componenti, quella cristiana e quella pagana». * Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale, orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura autonoma, l’altra di emozioni.  > «La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi > la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri > a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue > palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le > palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia > o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non > ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza > scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi > bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più > alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo > veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto > intensa, ma totalmente autonoma».   «Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare, addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo quello che il corpo suggerisce.  Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un disagio di cui non si conosce la natura, o la causa.  A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere perfettamente sano.  > «Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato! > Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […] > Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né > psichico?». Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone Settembrini,  > «lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno > delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti, > privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo > abisso».  Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria, si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo:  > «Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò > adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è > stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi > sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […] > Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi > sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la > vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto > che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia». Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale di noi che ci abita,  sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non è possibile definire scientificamente.  > «L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da > respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere, > quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o > superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A > un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non > ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che > costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però > alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si > spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e > inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e > immateriale». La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma. Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure, misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia, il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.   * Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa. Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la “questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi, che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri, e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni). Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito” dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca?  Thomas Mann (1875-1955) *  Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia:  > «La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con > la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua > troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei > confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato > tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di > altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la > malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi > concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio, > un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi, > allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo, > questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto, > diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema > aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è > sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la > malattia se non separazione dalla natura?». Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio, che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni – discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella conferenza su Goethe e Tolstoj. > «Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella > sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da > dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale > di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la > malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e > rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua > dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice > corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia, > invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato. > L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende > umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a > ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei > fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti, > quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come > profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a > disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere > l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se > stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello > spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua > nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il > genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor > Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il > progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua > esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro > non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero > vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che > consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla > follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la > salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e > godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla > malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…». Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà, dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano, esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte –: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia. * È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”, sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino Joachim,  > «Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze > strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse > affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo > in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi > propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei > moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…».  Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro. Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere e di spiegare.  La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia.  Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita; che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma appunto le maschere che ognuno di loro indossa.  È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto. Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento. Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una conoscenza più profonda.  Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito lascia scoperte:  > «La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di > quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente > della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva > reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio > mio!”».  È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato» questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso.  > «Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato > di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata». L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale. Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue. Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione pubblica che ha come tema l’amore e la malattia.  > «I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i > quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano > per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura > borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della > psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni > devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla > norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di > questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria > della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante > bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli > hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e > all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e > complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una > vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare > né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche > nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della > castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale > forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […] > Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa > camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato».  La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese, in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere,  > «Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un > sogno particolarmente profondo».  Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la specifica funzione di farlo abbandonare:  > «Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata, > proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose > che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è > lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è > questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un > lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna; > dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della > vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più > venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare… > perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro > che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il > corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e > il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e > vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere > adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della > forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una > inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di > tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è > fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e > corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!». C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi, sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp, con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione, volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la felicità e la disperazione.  Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro, come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato, proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.   Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore, somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono, era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio – malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze, lacerazioni.  L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una “crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di morte. Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina. Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce, mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima, alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando a tacerlo.  Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo, pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte il dominio dei suoi pensieri».  Una frase che fa eco alla domanda con cui si conclude il romanzo,  > «Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e > maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno > innalzarsi l’amore?».  Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide; si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude, lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo sento mormorare:/ là troverai la pace».  Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare. Andrea Caterini *L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011. L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di Thomas Mann proviene da Pangea.
August 23, 2025 / Pangea
Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero: imparare a obbedire
Un esile monolite austero, essenziale, incandescente. Breve come una sentenza capace di incidere nella carne viva della Storia, la domanda che nessun fiammifero riesce a pronunciare senza bruciare: da dove nasce un assassino? Il male non ha un principio teatrale, non comincia con un grido o un’esplosione. Il male indossa i panni del giorno feriale, siede in cattedra, detta compiti, chiede declinazioni. Il male, spesso, si impara. E in un breve romanzo – un pugno e una preghiera – Alfred Andersch ci porta dentro l’aula dove il suo alter ego, Franz Kien, adolescente inquieto, è protagonista di un’inquietudine più grande: la sua espulsione dalla ginnasio per mano del preside Himmler; sì, il padre di quel Himmler, quell’Heinrich al tempo ancora ragazzino, ancora impacciato, ancora figlio, colui che diverrà generale, poliziotto e criminale di guerra tedesco; il diretto organizzatore della soluzione finale all’origine dell’Olocausto. Il padre di un assassino (Der Vater eines Mörders) è l’ultimo testo che Alfred Andersch pubblica, un ago di luce infilato nel passato, rivolto al silenzio. È un’invocazione contro l’oblio travestita da racconto scolastico. Scrivere questo libro – nel 1980, un mese prima della sua morte – fu per Andersch una forma di testamento civile. Trasmettere una ferita. > “Il giovane Himmler è un tipo molto a posto – gli aveva detto suo padre – un > giovanotto in gamba, un seguace di Hitler, ma non fazioso.” È il 1928. Siamo in un Gymnasium bavarese. Andersch è protagonista di una scena apparentemente banale: un’interrogazione, un errore, uno sguardo che si fa giudizio. Ma tra quei banchi, tra quelle frasi arcaiche e le pause imposte dal silenzio, si gioca qualcosa di più profondo: il rito della sottomissione. Il preside Himmler è il custode di un mondo morente, quello della Germania imperiale, della pedagogia rigida come il passo dell’oca, del latino come lingua sacra dell’obbedienza. Il preside. L’autorità. Il vetro. L’arma. Kien, invece, è l’erede di un tempo nuovo, ancora oscuro, ancora informe, ma già indotto a sfidare la violenza. L’atto educativo diventa allora un processo al bambino stesso: il preside non insegna, giudica. E il giudizio, lo sappiamo, è la prima forma di condanna. > “Le pagelle scolastiche sono l’unico documento personale della mia infanzia e > della mia adolescenza che sia sopravvissuto alla guerra. Sono firmate dal > preside del ginnasio Wittelsbach: Himmler.” Nato nel 1914 a Monaco, Alfred Andersch cresce nel cuore di una Germania ancora traumatizzata dalla sconfitta nella Prima guerra e dalle turbolenze della Repubblica di Weimar. Abbandona presto la scuola, rifiutando la disciplina soffocante dell’istruzione tradizionale. Si iscrive giovanissimo al partito comunista e subisce l’internamento a Dachau. Durante la seconda guerra mondiale viene arruolato nella Wehrmacht e, nel 1944, diserta in Italia per farsi catturare dagli Alleati. Passa il resto della guerra come prigioniero in un campo americano. Al ritorno, fonda con Hans Werner Richter il celebre Gruppo 47, fucina della nuova letteratura tedesca del dopoguerra.  > “Non serve davvero a niente, pensò Franz, che io continui a fingere che le > risposte alle sue domande mi vengano a mancare proprio quando me le pone. > Perchiò butto fuori un ‘no’ a bassa voce, ma senza esitazione.” Andersch è un autore schivo e complesso, fin troppo antiaccademico per l’élite letteraria, troppo borghese per la sinistra rivoluzionaria. È tuttavia sempre lucido, sempre inquieto. Mai compromesso nonostante le censure. Reduce dal dissenso, esule per scelta, narratore del margine, egli affida al ricordo l’onere della resistenza. Scrive con la sobrietà di chi ha molto visto e poco dimenticato. Non c’è pianto, non c’è retorica. Il suo stile è secco come una sentenza scolastica ma ci fa sentire come se sotto la superficie asciutta del testo si agitasse un magma di colpa e domande senza risposta. Lui stesso spiega il motivo dell’uso di un alter ego:  > “Il raccontare in terza persona permette a uno scrittore di essere il più > sincero possibile. Lo aiuta a superare le inibizioni di cui difficilmente puo’ > liberarsi quando dice – Io –”. Perché, però, raccontare questo spaccato d’infanzia congelata? Perché lì, in quella mattina di maggio, Andersch ha visto l’origine del nazismo: non nei proclami, non nella folla, ma nell’educazione come strumento di controllo, nella famiglia come prima caserma, nella scuola come anticamera del Reich. Il ventre in cui si forma la disciplina cieca, il seme del fanatismo, la grammatica dell’obbedienza. Una frase come una misura. Una bilancia. Un confine. È tutto qui, nel gesto minimo del giudicare, Andersch cerca la radice, osserva, ricorda la forma mentis che rende possibile l’assassinio; egli scrive per non tacere.. > “La definizione di assassino per Heinrich Himmler è molto mite; non è stato un > assassino qualsiasi ma, fin dove arrivano le mie nozioni storiche, il più > grande sterminatore di vite umane che sia mai esistito.” Il vero tema del libro, dunque, non è Himmler o lo stesso Andersch: è il modo in cui si costruisce un individuo incapace di scegliere. Andersch lascia che la scena parli da sé. L’assassino non nasce per vocazione. Ma per esposizione quotidiana a una cultura che educa all’obbedienza come virtù. Il vero Nazismo è un’enorme pedagogia del conformismo. Quando nel 1961 Hannah Arendt assiste al processo Eichmann a Gerusalemme, formula la celebre teoria della Banalità del male. Eichmann non è un mostro, non è un sadico: è un uomo mediocre, che si è rifiutato di pensare. Un funzionario della morte che ha applicato regole. Un alunno modello del sistema. Il padre di un assassino mostra qualcosa di simile: il male come effetto collaterale dell’obbedienza, come frutto dell’incapacità di mettere in discussione l’autorità, di dire “no”. Il preside Himmler, con la sua educazione cinica, non guida; misura. E nella misura c’è già la distanza, e nella distanza, l’abbandono. > “Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà > e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli > istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo.” > > Hannah Arendt Il padre di un assassino (uscito, in Italia, per Guanda e per Marcos y Marcos) è anche un trattato implicito su come l’istruzione possa deformare l’essere umano. Il giovane Himmler, sconosciuto all’Andersch ragazzino, non è all’epoca l’uomo dei campi di sterminio, ma è guidato verso la metamorfosi in mostro. Foucault affermava che la scuola, così come la caserma e la prigione, è un’istituzione che plasma i corpi e le menti attraverso la microfisica del potere. L’autorità si interiorizza nei gesti quotidiani, nei voti, negli sguardi. Chi obbedisce non lo fa più per pa1ura, ma perché ha imparato che obbedire è giusto. In questo senso, il padre di Himmler — preside, figura autorevole, rappresentante della vecchia Germania imperiale — è un’emanazione viva del potere disciplinare. Ma non è un carnefice. Non è nemmeno un ideologo. È un funzionario. Un nodo nella rete. Anche Nietzsche, in Al di là del bene e del male, smaschera l’educazione, la intende come meccanismo di addomesticamento. La cultura borghese tedesca, quella in cui è nato Himmler, ha prodotto individui obbedienti, ben nutriti e incapaci di pensiero critico. L’uomo addestrato non è l’uomo libero. La massa, infatti, come spiega EliasCanetti, desidera il comando, e l’autorità diventa figura sacra proprio perché intoccabile, distante, paterna. La scena del preside che espelle il giovane Andersch è perfetta per incarnare una distanza sacralizzata: il potere che si legittima non parlando mai abbastanza. > “Io mi sono tratto d’impaccio, poichè ho tentato di scrivere la storia di un > ragazzo che non ha voglia di studiare. E neppure in questo senso la cos aè > priva di ambiguità: ci saranno lettori che, di fronte allo scontro fra il Rex > e Franz Kien, prenderanno le parti del preside.” La tragedia non è che Himmler diventerà un assassino. È che nessuno glielo impedirà in tempo, perché tutti avranno fatto della disciplina la regola della sopravvivenza. Andersch ci da quindi un avvertimento. Un libro breve come un ricordo, ma duro come un monito inciso nella carne. Ogni società educa i propri figli. Ogni educazione trasmette una visione del mondo. Quale mondo stiamo insegnando? In un tempo in cui vige la reificazione dell’uomo; in un’epoca che ama la performance, il ranking, la produttività, e che premia il silenzio mascherandolo da competenza, questo libro resta un contrappunto filosofico radicale. Forse non è l’odio a generare l’assassino. Forse è l’obbedienza cieca, il rispetto con la benda sugli occhi, il sistema che premia chi non mette in dubbio nulla. Forse, siamo tutti fanatici prigioneri. Tommaso Filippucci L'articolo Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero: imparare a obbedire proviene da Pangea.
August 8, 2025 / Pangea
“Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin
Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare del suo precipitare.  “L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”, scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio, degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica; la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora, un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme alle cosiddette “Poesie della torre”.  “Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”, scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.  Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore, che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni nel 1949).  Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”), da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin – insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro, poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:  > “Ma a noi non è dato > riposare in un luogo, > dileguano precipitano > i mortali dolenti, da una > all’altra delle ore, ciecamente, > come acqua di scoglio > in scoglio negli anni > già nell’Ignoto” > > da Canto di Iperione e del destino In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga “Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe “presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”, scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.   Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste stelle? Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché, detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione. Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea lui.  Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più pericoloso dei beni?” Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè, di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine dolorosissima.  …ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura: quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove di pone Hölderlin? Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico (Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara, per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.   …e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori, cosa ci resta in mano? In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità: o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita solitudine. Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché. Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima, “celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità. Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”, potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra prima e dopo la “pazzia”.  Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.  Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore, l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.  Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’? Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos, in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se nulla di immortale si vede”? Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola? Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri. Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.  *In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta, 1837/39 L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
July 31, 2025 / Pangea
“Mio padre lo sparviero”. Le poesie leggendarie di Johannes Bobrowski
Nel 1994 la New Directions, la mitica casa editrice fondata da James Laughlin su ispirazione di Ezra Pound, pubblica come Shadow Lands un’antologia di versi di Johannes Bobrowski, “il più importante poeta tedesco di questo secolo”. Il poeta era morto trent’anni prima, a Berlino Est, a causa dell’aggravarsi di un’appendice; non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Di Bobrowski – al di là della poesia, vertiginosa – attiravano due cose, a giustificare il ‘successo’ nel mercato editoriale inglese. La prima è nascosta nel titolo: Shadow Lands consuona con The Shadow Line, il più noto – non il più bello – tra i romanzi di Joseph Conrad. Bobrowski, nato a Tilsit, il borgo eretto dall’Ordine Teutonico nel XIV secolo, già Prussia Orientale, Russia dalla Seconda guerra, era il trisnipote di Conrad. In particolare, il suo avo, Tadeusz Bobrowski, è stato zio e mentore di Conrad: nel 1991 Sellerio ha tradotto le sue Lettere al grande scrittore inglese. Se Conrad è stato il cantore dei mari, degli uomini soli a conflitto con la furia degli elementi, Johannes Bobrowski, diciamo così, è stato un costruttore di miti, ha navigato – su zattera – nei meandri dell’oceano interiore. Ma a questo arriveremo dopo.  Un’altra cosa affascinava gli anglofoni. Nato nel 1917 da un ufficiale delle ferrovie, cresciuto a Königsberg (ora Kliningrad), sempre sui confini, Bobrowski viene arruolato nel ’39, partecipa alla guerra su tutti i fronti – francese, polacco, sovietico – fino a essere arrestato dai russi, nel ’45, per quattro anni, costretto ai lavori forzati in una cava di carbone. Bobrowski nasce poeta in guerra (“Ho cominciato a scrivere nel 1941, lungo le rive del lago Ilmen sul paesaggio russo, ma da straniero, da tedesco. Di qui ne è scaturito un tema che potrebbe suonare così: i tedeschi e l’oriente europeo”); sorprende il contrasto tra l’orrore e la necessità di dissotterrare i miti di una terra martoriata, dove tedeschi e lituani, polacchi ed ebrei vivano consuonando. Nel dire di Bobrowski si vaga tra leggende lucidate nel sangue e nel latte, in un sovrappiù di innocenza: si va con l’arco a tracolla, con la canoa, nel senzatempo dell’infanzia dell’uomo. Si va con postura d’agguato – con la foga di chi ha perso tutti gli alfabeti, gli restano le briciole, e con quelle tenta di adescare, ancora e ancora, la poiana e la nottola, la volpe e l’ermellino, e ricomporre un canto che dica la fanciullezza delle betulle, il cielo appena tosato, il suo urlo. Nell’azione lirica di Bobrowski i paesaggi abbacinanti di Isaak Levitan levitano nel nero incanto di Georg Trakl, il Kalevala, finnico innario, epico canto, si fonde con la lingua di Novalis.  Quanto al resto, Bobrowski lavorò come redattore in diverse case editrici. Esordì nel 1961 con la raccolta Sarmatische Zeit: nei Sarmati del Baltico, il poeta intravede l’orda di una poetica, di una drittura morale – nell’era orizzontale, monca di miti, il poeta volta la nostalgia in lotta, segue il poema nel greto, diventa uccello e parente dei sonnambuli, si dice erede dell’astore e del lupo. Nell’aprile del 1943, durante una licenza, aveva sposato Johanna Buddrus: il matrimonio avvenne nella fattoria dei genitori di lei. Il poeta, figlio di battisti, aveva conosciuto Johanna ventenne: avranno quattro figli. Per un po’, frequentò il Gruppo 47 – in cui transitarono, tra i tanti, Uwe Johnson, Paul Celan, Hans Magnus Enzensberger –; pare abbia avuto una relazione con lo scrittore Hubert Fichte.  La vita lirica di Bobrowski si compie con altre due raccolte, Schattenland Ströme (1962) e Wetterzeichen(1966), che lo rendono uno dei poeti tedeschi più autorevoli del secondo Novecent. Herta Müller ha detto delle sue “inaudite immagini linguistiche”, di “una lingua che ferisce durante la lettura”. In Italia, Bobrowski è stato pubblicato da Mondadori (una raccolta di Poesie è uscita nel 1969 a cura di Roberto Fertotani); nel 2013 l’editore Di Felice ha pubblicato un’antologia di Poesie a cura di Davide Racca. Nel 1968 Garzanti ha pubblicato Il mulino di Levin, curioso romanzo del poeta.  C’è qualcosa di aurorale nelle poesie di Bobrowski, c’è il volto del pioniere, il coraggio di andare oltre la ‘linea d’ombra’ della letteratura. Sempre si arranca verso il futuro arretrando. Come il cacciatore, saturo d’erba, che in cuor suo ha dimenticato la patria e la via del ritorno, che a forza di sognare il giaguaro è diventato preda, l’essere più fragile, a cui non resta che il canto, l’estremo sparo che unisce questa ferita terra alla gorgiera dell’ultimo cielo.  *** Strade di uccelli I Nella pioggia dormivo, nel canneto di pioggia mi svegliai. Prima che sfogli, vedo la luna vicina, sento il grido degli uccelli di passo, lo scuotitore dell’aria, il bianco grido, che frantuma l’aria. Rapida e acuta come fiutano i lupi, sorella, ascolta: Väinämöinen canta in mezzo al vento, getta l’ala di neve sulla tua spalla, noi siamo spinti a volo nel vento dei canti –  II ma sotto grandi cieli solitari, abbandonate strade delle pennute schiere, che trascorsero –  dormendo sui venti passarono, un nuovo sole si accese, la vampa si levò nell’alto, loro bruciarono nell’albero di cenere. Là hanno preso il volo anche i nostri canti.  Sorella, le tue mani si sbiancano, tu nel buio mi svanisci nel sonno – quando io devo cantare l’angoscia degli uccelli? (Traduzione di Roberto Fertotani) * Canti di Lettonia Mio padre lo sparviero. Un lupo mio nonno. E l’antenato il pesce predone nel mare. Io, imberbe, un folle, barcollando agli steccati, con mani nere soffoco un agnello alla prima luce dell’alba. Io,  che braccai le bestie invece del bianco signore seguo i carri che sfrecciano lungo i greti dragati dall’acqua, mi volgo verso gli sguardi delle zingare. Poi  sulla riva baltica incontro Uexküll, il signore. Cammina sotto la luna. Le tenebre mormorano dietro di lui.  * Pianura  Lago.  Il lago.  Sprofondate le rive. Sotto la nube la gru. Bianchi, lucenti i millenari popoli dei pastori. Con il vento ho risalito il monte. Qui voglio vivere. Io ero un cacciatore, ma l’erba mi ha catturato.  Insegnami a parlare, erba, insegnami a essere morto, ad ascoltare a lungo e a parlare, pietra, insegnami a restare, acqua, e tu, vento, di me non chiedere.  * Sera estiva Guarda, guarda oltre il rossore oltre la foresta e la nera muraglia. L’acqua brilla ancora ed è bianca.  Il silenzio è vivo, lì, è segreto e buono. E tu, dove vivi? La Terra non è abbastanza per te, l’inesplicata? Spazio in abbondanza offre, spazio senza contegno, per gioire e morire.  Guarda, sopra ogni cosa fluttuano le nubi e si stagliano le stelle… Come posso ripeterlo? Oh Terra, Terra, mai angusta, troppo ricca per noi, troppo generosa.  * Figure invernali  Nient’altro che neve. Vasta pianura.  Il blu è appena levigato e viene in massa oltre le colline. Finalmente, oscurità – silenzio. Queste sono le foreste. Umili strati  sotto l’imperiale costruzione del cielo. All’orizzonte, il rebus delle nubi è già grigio, a frantumi.  Nessun sentiero sfida i colli Un rapace dissotterra il nero  dal bianco. Recinti di filo spinato tracciano linee nell’inesplorato.  * E nominare, sempre: l’albero e l’uccello in volo la rossa rupe su cui scorre il fiume e il pesce nel bianco fumo, mentre il buio sovrasta i boschi.  Segni, colori, è un gioco –  ne dubito – potrebbe  non finire bene.  E chi mi insegna ciò che ho dimenticato: il sonno delle pietre, il sonno degli uccelli in volo e quello degli alberi – forse  il loro parlare continua al buio? Se esistesse un dio se esistesse nel corpo e potesse chiamarmi gli andrei incontro per aspettarlo.  * Era fiacco il vento e noi vivevamo nelle capanne in riva al fiume. Mentre le rive si oscuravano, fischiavano le canne.  Eravamo bambini e ci allettava il canto. Venne il gelo e la pioggia venne il tuono e la nube –  così sulla terra passa il tempo.  Quel tempo che è passato di mano in mano come frutti rossi. L’inverno scorreva nella luce.  Quel tempo è passato: abbiamo abbandonato i villaggi alla sabbia e non ci ha sedotti la nostalgia della zattera.  Che dolore fare il fuoco per lo straniero – qualcuno  cantava la canzone:  un tempo fioriva il melo. Dove volete  vivere? Tutto è sempre terra ma noi ci sdraiamo perché i bambini non hanno più un villaggio. Ma i boschi e le canne la costa e i covoni e la gente che veniva dalla foresta  tornano in noi – il falco che plana su un’eco blu.  Scoloriscono gli sguardi quando varchiamo l’arco  dei nostri anni, quando contiamo le gioie della terra.  Il sangue romba nel cuore e appella ai figli, li prende per i capelli: quando cala la sera, dici Resta ancora così come quando non sapevi chi eri.  Johannes Bobrowski L'articolo “Mio padre lo sparviero”. Le poesie leggendarie di Johannes Bobrowski proviene da Pangea.
July 12, 2025 / Pangea
“Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born
Ci fu un tempo – non troppo lontano, eppure, pleistocenico all’oggi – in cui il poeta era la creatura critica. Si poneva come punto di contraddizione, come scandalo – era l’immorale e l’immolato. Tale era il significato, ai suoi occhi, della parola politica: imporsi dal lato dell’assoluta debolezza. Irrompere a difesa. Irritare con la corona di spine delle cause perse.  Di Nicolas Born, in Italia, non c’è quasi nulla. Grazie a Giovanni Nadiani e alle edizioni Mobydick di Faenza, uscì, nel 2012, una selezione di testi, Nessuno per sé, tutti per nessuno; Gio Batta Bucciol, nel 2019, ha dedicato al poeta tedesco un servizio su “Poesia” (n. 347, “Tra bagliori e abbagli”). Eppure, a dire di chi sa, Nicolas Born è stato tra i più importanti poeti di Germania negli anni Sessanta e Settanta. Tra l’altro, uno dei più venduti e dei più presenti nel cosiddetto ‘dibattito pubblico’. Das Auge des Entdeckers, la raccolta edita nel 1972, fu un cambio di passo nella poesia del tempo: Nicolas Born – che in verità si chiamava Klaus, era nato a Duisburg l’ultimo giorno del 1937, il padre, poliziotto, aveva combattuto sul fronte russo, a Stalingrado – si ribellava ai messia delle folle che annientano la singolarità dell’individuo; odiava gli ideologi del progresso, “il mondo della macchina”; quando lo invitavano in tivù si scagliava contro “il folle sistema della nostra realtà”. In prima battuta, il libro vendette ottomila copie; quell’anno, Born conobbe Peter Handke. “Qui fa freddo ed è meraviglioso perché nulla può nascondersi. I fiammiferi ardono sul ghiaccio: vorrei comprarmi dei pattini e noi dovremmo parlare, parlare, lontano dal chiasso letterario”, gli scrisse, tra l’altro, a ridosso del suo compleanno. A Martin Grzimek – scrittore ancora oggi sugli scudi – il poeta dettagliò in qualche modo la sua ferrea poetica: > “Non dirla rassegnazione, scetticismo, piuttosto – se non è anche questo un > inganno. La letteratura in cui credo è quella dell’insicurezza universale, la > veglia sulla catastrofe. La letteratura deve scuotere questo clima di false > certezze, la fiducia in se stessi di chi governa sulla crisi di milioni. Alla > scrittura questo è legittimo, allo scrittore non si può chiedere di più: > anch’egli va ascritto tra i patetici, tra i miserabili”.  Era il marzo del 1978 – sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1979, Nicolas Born, di un tumore ai polmoni, fulminante. Aveva da poco pubblicato l’ultimo libro, un romanzo, Die Fälschung: il protagonista è un giornalista inviato in Libano a raccontare una ‘realtà’ di cui non riconosce più i contorni. È una sorta di epica dell’atrofia della scrittura, genia di fraintesi. Il libro fu tradotto in un film, L’inganno (1981), con Bruno Ganz nel ruolo centrale.  La stessa violenta lotta contro il reale, contro l’insensatezza, a stordire l’assurdo, permea i versi di Born. Autodidatta, cominciò a lavorare in una tipografia, scriveva nei ritagli di tempo. Fu Ernst Meister, il poeta dalla scrittura enigmatica, a riconoscere per primo in Nicolas Born le stimmate del talento. Così, Born, nel 1963, riuscì a partecipare agli importanti “Literarisches Colloquium” a Berlino: diventò amico di Günter Grass e di Uwe Johnson, lo scrittore de I giorni e gli anni. Si diede, con un certo successo, al romanzo: Die erdabgewandte Seite der Geschichte fu tradotto in diverse lingue. Una borsa di studio, nel 1970, gli consentì di perfezionare le proprie ricerche all’Università dell’Iowa: conobbe, tra i tanti, Charles Bukowski e Allen Ginsberg. Preferiva un linguaggio ‘oggettivo’, finché l’oggetto, tuttavia, finisce per liquefarsi tra le sue mani: in quel liquame di immagini, di tumide asserzioni, il lettore si aggira a piedi nudi, il lettore deve bagnarsi.  Riuscì a comprarsi una casa nel Wendland, in Bassa Sassonia, tra i boschi: scrisse per bambini, scrisse per la radio, diventò un autore imprescindibile, così si diceva un tempo. Un segno lo marchiò come il forcipe dell’angelo: il 3 settembre del 1976 la casa nel bosco va a fuoco, inceneriti la biblioteca e i manoscritti di Born. Al poeta Jürgen Theobaldy, poco dopo, scrisse “Vorrei prendere le distanze da così tante cose – è ingiusto che si debbano ‘conoscere’ – che tutto allora divenga linguaggio”.  Venticinque anni dopo la sua morte, Katharina Born, la figlia più piccola, ha ripubblicato i suoi versi, con diversi inediti. È stata una sorta di rinascita, culminata con un paio di premi postumi e il riconoscimento dell’alto, grigio magistero di Born. Katharina era nata nel 1973, dalla seconda moglie di Born: il poeta aveva tre figlie.  In una poesia epigrafica, Michael Krüger – la cui opera, in Italia, giace tra Einaudi, La Nave di Teseo, Mondadori e Donzelli – ricorda la sua amicizia con Nicolas Born: > “Parlavamo di  > ciò che non era > di ciò che non sarà. > Ah, la triste ricchezza > dei suoi canti, grida così acute.  > C’erano ragni anche allora: > ora tessono una tela > in cui sto soffocando”.  Che immagine ambigua e robusta. A volte, l’amicizia è una ragnatela: si scopre di essere sotto veleno dopo tanto tempo, quando il ragno è ormai assente. A volte, è il poeta a tessere una tela per intrappolarsi, ragno a se stesso.  ***  Dentro il poema Non puoi vivere                   sfidando la realtà della realtà non si vive ma puoi sopravvivere all’assedio                   e riprenderti tutto                   e attraversare la vita                   tramite rapida virtù di immagini tu eri questo                   tu eri vita che pullula popolo che ansima sotto le lapidi                                     con sospiro continentale                   da te agli antenati                   mutilata intromissione terra e acqua restano il cielo resta                   tu resisti tu, l’impreparato a tutto piccoli soli imperlano la tua democrazia e l’eletto alla vita e alla morte tu e le tue molte belle voci tu la moltitudine tu la pelle la pelle e in fondo                   nient’altro che la pelle tu il pioniere della vita                   l’impresario delle bianche apparizioni tu sei un essere spaziale che fluttua                   tu l’autore dei flussi della storia puoi stampare il tempo come un libro tu pesi setacci ami mentre macerie di dittafoni                   rombano nel vento l’irragionevolezza è alla sua gemma tu sei il fiore dell’irragionevolezza tu sei giorno e notte ogni giorno e notte tu sei l’omicida                   apolide nel suo stesso sangue sei il padre e il figlio                   sei l’indiano a processo sei i colori e le razze sei la vedova e l’orfano sei la rivolta dei prigionieri sei l’ululato increscioso                   coltelli spiritati e colpi sparati sei il magnifico corridore della maratona del sogno                   acquazzone di segni nella capitale democratica sei il devastatore di tutte le catene sei la formula magica delle segrete delle luce                   l’insegna                   l’avanguardia dei refettori sei l’umano e                   l’animale che odora di morte sei solo e sei tutto sei la tua morte e il grande desiderio sei il progetto che infuria e sei la tua morte * Per Pasolini In sogno, Pasolini mi si avvicina                   nel ruolo del protagonista. Splende, lampeggia blu come una macchina                         un attore in tutto –  Pasolini salta tra vaste pozzanghere, può essere basso, laido, oscuro, asociale           ma è Pasolini ed è sempre altro a se stesso. Poi si ferma sulla soglia delle palazzine                                   saluta dalle impalcature. Indica una piramide di vecchie auto: L’intero borgo                        è il suo amante e con la macchina da presa scopre paesi che non può più vedere attraverso gli occhiali scuri. Le mia immagini mugolano dice                         dovrei fare film muti;                         non sento una parola da anni. Si strofina su di me e questo                    mi piace. Poi cade in una buca del cantiere. Un auto arde. Pioggia rimbalza sul mare. Nel cinema, l’acquazzone è bianco – ancora.  olas * L’apparizione di un uomo nella folla Benedetto essere soli nel gulag dei pensieri, senza testimoni senza l’occhio del pioniere che scorge il primato senza l’orecchio disciplinato della folla.  Che valore ha un fatto che non si può spartire? Che cos’è l’universo senza il tuo tremare il tuo tremore sul palco davanti a file di sedie vuote? La folla marcia sulla terra e nessuno muore nella folla sul dorso di ragnatele ronzanti finché non accade la grande contraddizione: l’apparizione di un uomo nella folla * Martedì, orrore I dormienti binari del tram, pavimentati di asfalto, aspettano i vecchi tempi come il ritorno della scrittura a mano Inattesa pioggia, è pomeriggio un po’ di luce fa nido sui volti vergati in grigio, nei campi tenebrosi canali, alberi pigmei Colletti bagnati, bagnate le labbra un vecchio guidato da una bimba con le trecce bagnate Silos di cemento sopra binari morti stormi di uccelli come stendardi una commessa saluta dal vetro I sobborghi si infiammano verso le sei e io penso alla scoperta dell’“isola della mente” Una gru, promontori di crudo cemento guardo un mondo che ascende che sa cosa significhi sopravvivere  * La ballerina Piuttosto piccola sullo schermo signore e signori –  la ballerina balla meravigliosamente anche per noi profani favolose fiabe di morte e di mutamento a teatro So che qualcuno dice chi è quella? dovrebbe ballare dovrebbe muovere le gambe con coerenza in modo da non essere soltanto bella ma disciplinata con la sapienza sulla spalle una danzatrice e un’artista ben recinta nel suo ruolo I miei amici hanno ragione quanto conforta esprimere il proprio talento con totale dedizione guardate la ballerina osservate quei meditabondi gesti la risonanza malinconica in minore la posa divina guardate la ballerina sullo schermo che interpreta il mondo meglio del notiziario * Desideri I fatti non sono che torbide torture. Non sarebbe bello avere tre desideri soltanto, ma che si avverino tutti? Vorrei una vita senza pause mentre i muri vengono presi a fucilati rispetto a una vita percorsa in rapina           dai tesorieri.  Vorrei scrivere lettere in cui            esisto in parte. Vorrei un libro in cui tutti abbiano accesso e da cui possa uscire senza troppi drammi. Non vorrei mai dimenticarmi che è più bello amarti che essere amato.  Nicolas Born   L'articolo “Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born proviene da Pangea.
June 24, 2025 / Pangea
“Verso l’ultima sillaba”. Sulla poesia di Ernst Meister
Ci vuole lavorio d’ago per estrarre qualche filo, qualche bava d’alga dalla vita altrimenti sigillata di Ernst Meister. Allo stesso modo, i versi di Ernst Meister resistono cristallini, come sfingi di diamante, ignifughi al ‘significato’ – poiché “le parole sono sfinite” occorre andare per altre promiscuità, occorre sgelare le ultime fonti e farsi spiga dei mercenari. Così, le poesie di Meister sono ciò che resta dopo aver dragato un lago: frammenti di selce, l’elmo di un popolo sconosciuto, il femore di un bue a tre teste; resoconti geologici, cronache cristiche da un millenarismo sradicato, di cui resta l’amen e il sibilo, la mera fibula.  Nato nel 1911 a Hagen, Meister studia a Marburgo e a Berlino: tra i suoi insegnanti figurano Karl Löwith e Gadamer. Predilige la filosofia, la teologia, la storia dell’arte; aurorale è la raccolta Ausstellung, uscita nel 1932. Seguirà un lungo lazo di silenzio, un silente strazio, in devozione ai disastri. L’era di Hitler tacita il poeta, estraneo al clima del tempo: arruolato durante la Seconda guerra, ferito, arrestato dagli Americani in Italia, ritorna in patria falciato nel cuore e nel corpo. Ritorna, lentamente, a scrivere: nel 1953 esce Unterm schwarzen Schafspelz; nel frattempo, il poeta, per un po’, lavora come giardiniere nella fabbrica del padre. Scriverà tanto – sedici raccolte, una manciata di racconti e di drammi –, spesso per piccole edizioni, votando tutto se stesso alla scrittura. Ottiene qualche premio – il “Petrarca-Preis”, ad esempio, nel ’76 –, ma il riconoscimento più importante, il “Büchner” – andato, tra gli altri, a Gottfried e a Paul Celan, a Thomas Bernhard e a Elias Canetti –, è postumo, assegnato nel 1979; il poeta muore quell’anno, a metà giugno. Scherzo del fato, si dirà, connaturato a un poeta che ha fatto di tutto per nascondersi.  Negli anni, l’opera di Meister si è rivelata tra le più vertiginose e gravide di gloria della poesia tedesca contemporanea. Così scrive, tra gli altri, Gerd Müller: “La produzione lirica di Meister è sorretta dalla tensione paradossale fra ciò che si sa a proposito del ‘fondamento’ intimo di tutte le cose e, contemporaneamente, la consapevolezza di non poter ‘comunicare’ sul piano linguistico questo sapere” (in: Storia della letteratura tedesca dal Settecento a oggi, Einaudi, 1991, III/2, pp.64-65, dove – ravvisiamo segni, gli imprevisti di una sparizione incipiente – il poeta è dato per morto nel 1971…). Da qui, il linguaggio franto, l’apparente inettitudine del verbo, un procedere più che per enigmi per agnizioni.  Di norma, le poesie di Meister sono accalcate a quelle di Paul Celan e di Nelly Sachs; di solito dicono di “poesia ermetica” (didascalia che, ermeticamente, serra il becco a ogni altra intrusione); nel mondo inglese – dove Meister è assai tradotto: in catalogo Wave Books – sono affascinati dalla relazione, apparente, con l’opera di Heidegger. In realtà, Ernst Meister non riepiloga un dire filosofico, non in quello si ripiega. In lui, è il premio di una allucinata concretezza. Se Celan, per così dire, tiene l’Iddio alla gola, fa speleologia nell’indicibile, Meister reca erbario dei piccoli elementi di Eden: foglia inerte, nodo di vespe, sabbia; adamica muratura. Se Celan pretende il primo verbo, Meister si sporge presso l’ultima sillaba.  Così il poeta annuncia, nel 1962, la propria poetica: > “Beato lo scrittore che ignora che cosa sia il poetare, per così dire il nero > su bianco… ma in compenso scrive poesie che sono inventate, qui e ora”.  Al ‘nero su bianco’ – ideologia di una ‘chiarezza’ che ottunde, che oscura – va sostituito il ‘qui e ora’, l’eloquio dell’istante, grave di venti e di falchi: al poeta il compito di ammutinare il linguaggio, nel gergo della predazione.  In Italia, Ernst Meister è stato tradotto da Andrea Mecacci per l’editore Donzelli, nel 2000: il libro s’intitola Il respiro delle pietre. In calce, si riproducono alcune poesie da Ora, nella traduzione di Stefanie Golisch, finora inedite. “Per via della sua discrezione, il suo essere sfuggente, mi ricorda i quadri di Giorgio Morandi: la stessa aura di intoccabilità”, scrive la Golisch nelle sue riflessioni. Ne consegue il consiglio, aureo:  > “Poesia da leggere in un lungo pomeriggio d’estate, all’ombra di un vecchio > albero. Senza interpretare, fare, tirare le somme, cercare di capire cosa > vogliono dire. Leggere per leggere, diventare al contempo più pesante e più > leggero e alla fine, forse, cadere nel sonno come un bambino, stanco di > giocare”. In Germania, il volume che raccoglie die Gedichte di Meister edito da Suhrkamp (2011) è curato da Peter Handke, tra gli ammiratori del poeta. “Se esiste un criterio di scelta, è questo: includere i versi e i ritmi in cui è costante la selvaggia consapevolezza della morte, la necessità del morire, perché è questo che determina il ‘detto pietrificato’ di Ernst Meister, quella energumena ed eterea sospensione tra il lamento per l’atteso niente, il pegno di essere vivi, e l’amore. È la morte, in effetti – lo insegna anche Goethe –, a conferire entusiasmo alla vita, a infondere ritmo alla poesia”. Poesia di greti, questa, di ingrata grazia – poesia di speroni rocciosi – che è poi: rivoltare un cespuglio scoprendo l’angelo agnellino, capire che il bimbo che ti fissa, nella fotografia, sul frigorifero, eri tu, tra qualche millennio ed è quello e doverlo chiamare fuoco.  *** LE PAROLE SONO SFINITE cinta dai tuoi capelli ciascuna. Nessun ladro può nulla quando entrambi perdono i sensi. Non si può annientare la visione. * NEL SONNO E nelle gole del sonno quando incontri Quella che si svela dopo il piacere come la morta con il cuore pulsante, come quella al centro della stanza lattea colma di risa delle ginocchia e delle cosce, e che subito ti scaglia nel labirinto del sogno comprensibile. * IL LAMPO nasce da sé e accende i tuoi capelli. Che venga un incendio dove scoppia il tetto, la terra si squarcia. Vieni, un gelo viene il più ardente. * CIÒ CHE DI QUESTA TERRA amiamo, che tu ami, fu davvero potente. Dunque ci hai reso forestieri d’amore. Ciò resta nella morte la ferita. * ECO LONTANO dell’amore. Sapevo l’inizio e la fine coniugi nel nulla, nell’oro. Ma ora è fine sola. Come un cane mangio dal trogolo che l’angelo senza palpebre posò nel basso crepuscolo. * UN BAMBINO guarda la ciotola colmo di tempo, vede sorseggiare l’imponente farfalla grigia, un bambino e va a pascolare nere pecore al buio. * E IN SOGNO… Nei condotti delle mie orecchie la vita selvaggia aveva perso il filo. Dormivo, e in sogno le spighe del grande campo di grano battevano il tempo. Una talpa, vecchissima, tornata bambina, cantava nel suo labirinto dolci melodie. Così gli animali della notte, quelli dalle ferite sanguinanti, avevano trovato il loro cantore. * QUANTO SIAMO promiscui! Lo vedi nei mercati, nella faccia morta dell’animale. Tu sei nessuno tranne te eppure sei tutti. * EPPURE SIAMO figli della terra – non lo sappiamo? Parti dell’origine, le cui sorti non dovrebbero esserci tanto estranee. Ma terribilmente diviso sembra lo stesso principio dei principi. * SENZA FIATO saltare così lontano nella vicina vicinanza, la più vicina, verso l’ultima sillaba pronunciata. Traduzione di Stefanie Golisch *In copertina: Joseph Beuys, 1972. Foto: © Erich Puls (Klaus Lamberty) L'articolo “Verso l’ultima sillaba”. Sulla poesia di Ernst Meister proviene da Pangea.
June 9, 2025 / Pangea
“Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin
Il fuoco e la paglia, il crampo tra la noce moscata e il chiodo di garofano, il nubìvago dimenticato; Salomo Friedlaender – alias Mynona – è il filosofo giambico che fece della carezza prima dello schiaffo la chiave della sua rivolta. Nel deserto dei cadaveri dell’identità sociale, l’assurdo balla, il delirio squarta, la cicciona sconfigge l’orco; Mynona è la maschera che non chiede scusa – ma che ride, e ride, e ride… Nato nel 1871 a Gollantsch, allora terra tedesca, oggi Polonia, Salomo Friedlaender sboccia nella prigione della serietà; figlio di un medico ebreo e di una madre musicista, crebbe al crocevia tra rigore e dissonanza, scienza e poesia. La sua vita fu un ponte levatoio tra l’interno e l’esterno, tra la filosofia e il grottesco, tra la maschera e la verità assoluta. Studente di medicina a Monaco, poi filosofo per vocazione a Berlino e Jena, Friedlaender non cercava risposte, bensì domande più grandi. Ben presto trovò nella speculazione il suo teatro interiore. A Berlino si immerse nei circoli bohémien, accanto agli espressionisti, ai dadaisti, ai visionari. Qui nacque Mynona: “Anonym” (anonimo) scritto al contrario – la firma di una scrittura che ride sotto i baffi, di un giocoliere grottesco. Dal 1909 iniziò a firmare racconti, satire e poesie che sembravano sfuggire a ogni logica – o meglio, che reinventavano la logica come un carnevale perpetuo e provocatore.  > “Affermo con coraggio di essere attualmente l’unico a rappresentare una certa > sintesi tra Kant e il clown Chaplin”. Il suo mondo era popolato da personaggi eccentrici, situazioni impossibili, frasi che si rincorrevano come equilibristi sul filo dell’assurdo. “Fasching als Logik” – il carnevale come logica – divenne la sua poetica. Mynona è sempre attratto dall’aspetto pietoso o derisorio della condizione umana; una situazione è spinta all’estremo fino a sfociare nell’assurdo o nel surreale. > “Tutto questo è, Dio ce ne scampi, solo una zuffa da topi, una piccola rissa > teologica da gattini.” Tra il 1910 e il 1920, Berlino fu il suo laboratorio: una metropoli in fermento, tra avanguardie artistiche e tempeste politiche. Dietro la maschera dell’umorismo, infatti, Friedlaender celava un pensiero radicale. Dopo un’iniziale passione per Schopenhauer, fu Kant a segnare per lui una “rivoluzione spirituale”. Visse un’esistenza laboriosa da insegnante e al contempo una vita bohémien con i suoi amici, in particolare Paul Scheerbart e Carl Einstein. Fu parte dei gruppi d’avanguardia, dei circoli espressionisti, dadaisti e attivisti, e nel cenacolo della rivista Der Sturm. Fin dall’inizio del secolo, apparse spesso sulla scena del “Neopathetisches Cabaret”, dove, insieme a Kurt Hiller, Jakob van Hoddis, Georg Heym, René Schickele, e Frank Wedekind, portò al successo la satira, la polemica e l’umorismo nero, leggendo i suoi testi grotteschi. > “Posso solo darvi un buon consiglio: non urlate mai dentro un uovo! provoca un > tale trambusto rotolante, che vi farà stare malissimo”. Dal 1911 al 1914, collaborò con Die Aktion e, già dal 1910, il suo nome apparve nei sommari di una serie di periodici d’avanguardia, spesso molto effimeri, di cui adotta volentieri il tono aggressivo e polemico. La libertà del pensiero, l’indipendenza dello spirito, la religione della ragione: la sua teorizzazione di “Indifferenzza Attiva” è un invito a non lasciarsi ingabbiare: né dai dogmi, né dalle ideologie, né dalle identità imposte. Nei suoi scritti, filosofia e letteratura si confondono: ogni aforisma è un’esperienza, ogni racconto una domanda. Divenne un maestro del grottesco, una figura inclassificabile che destabilizza e incanta. “Nessun autore di lingua tedesca, prima o dopo di lui, ha sviluppato la forma del grottesco a un tale livello di maestria,” scrive Hartmut Geerken.  La sua associazione al movimento dadaista potrebbe facilmente specchiarsi nell’affermazione di Hugo Ball: > “Il dadaista combatte contro l’agonia e il delirio di morte del suo tempo… > Quello che celebriamo è al tempo stesso una buffonata e una messa funebre”. Ma Friedlaender resta, nonostante tutto, un metafisico e un moralista, e di certo non mancano le critiche dei suoi colleghi, così Thomas Mann rispose a una lettera di René Schickele nel 1939, che gli chiedeva di sostenere Mynona: > “Non mi piace Mynona e non voglio vederlo in giro. Ha sempre avuto una bocca > sfacciata alla Tersite”. Anche il mondo accademico faticò a seguirlo. Mentre l’Europa si avviava verso l’orrore, Mynona si mise in guardia dai “pigrotti della svastica”, anticipando con ironia disperata la propria emarginazione. Con l’ascesa del nazismo, la sua voce si fece più affilata e più tragica. Nel 1933 fuggì in esilio a Parigi, dove visse anni difficili, dimenticato dai più, ma fedele al proprio stile, scriveva ancora, anche se il mondo attorno sembrava non ascoltare. > “Da un secolo ormai mi sforzo enormemente di solleticare il mio popolo con > ogni sorta di pagliuzze nel naso, senza che esso abbia finora davvero voluto > starnutire”.  Morì a Parigi nel 1946, nella povertà assoluta, lasciando dietro di sé un’opera frammentaria, scomoda, impossibile da incasellare. Fu grazie a Ellen Otten e ad altri studiosi che la sua opera cominciò a riemergere, come un enigma letterario da decifrare; fu tradotto solamente in lingua inglese e spagnola ed è inedito in Italia. > “Chi porta alla luce, in modo stridente e urlante, il grottesco della nostra > esistenza, apre uno scorcio indiretto su una vita autentica, tanto oscura > quanto certa”. Come un caleidoscopio in cui apparenza e verità, comicità e profondità, si rincorrono all’infinito, Mynona è un invito a guardare il mondo da un’angolazione obliqua, dove solo chi ride può intuire davvero l’assoluto. La raccolta Rosa, die schöne Schutzemannsfrau. Grotesken (1913), segnò il suo debutto e uno dei suoi maggiori successi. Nel breve racconto da cui prende il nome (tradotto a fine articolo), Mynona trasforma il desiderio e il potere in un grottesco paradosso. L’eroismo della divisa si trasforma in un feticismo erotico. Rosa, la bella donna del poliziotto, non è attratta dall’uomo che indossa il simbolo del potere, ma dal potere stesso che l’uniforme incarna. Rosa è la protagonista di una “Verkehrung”, un’inversione in cui ciò che è sacro – l’autorità – diventa oggetto di desiderio erotico. Il potere, anziché essere la forza dell’individuo, diventa simbolo di un vuoto identitario. Mynona gioca con il linguaggio, distorcendolo per smascherare le contraddizioni della modernità. La risata che nasce da questa inversione non è solo comica, ma una critica feroce ai valori stabiliti, dove il sacro e il profano si mescolano. In questa parodia del potere, l’isteria diventa la chiave per vedere il mondo con occhi nuovi, finalmente liberi dalle maschere dell’autorità. Egli non solo deride le convenzioni, ma le riplasma, le distorce, le trasforma in una lingua che è tanto poetica quanto inquietante. In ogni battuta, in ogni paradosso, invita a riflettere: se l’ordine è il caos vestito da divisa, cosa rimane della nostra identità? Se l’erotico è ridotto a ideologia, quanto siamo davvero liberi di scegliere ciò che amiamo? > “Il creatore del grottesco è profondamente convinto che bisogna quasi > ‘disinfettare con lo zolfo’ questo mondo che ci circonda, per purificarlo da > ogni parassita; egli diventa un disinfestatore dell’anima”. Mynona – duplice firma bastarda – è il simbolo di una scrittura che non si inginocchia, di un pensiero che osa schernire l’assoluto. Friedlaender fu pensatore clandestino, artista dell’inversione, solitario in dialogo con l’infinito. Leggerlo è un sogno lucido; da evitare se si cercano certezze, da seguire se si ama l’estremo. Salomo Friedlaender è il vento metafisico scandito da folate di parodia; il riflesso di uno specchio infranto, la maschera derisoria che trasfigura, che rovescia. Dietro smorfie e lazzi, caricature da cabaret sono i lapilli di un pensiero che scoppietta sotto la lingua. Mynona è un vulcano travestito da giullare, un alchimista utopico, un’ombra deforme che mantiene la sua promessa. L’identità moderna non può tirare i freni dell’uomo, le vertigini non possono fermare la rivoluzione, la resa non può essere un’alternativa; con il viso nella lava, nell’Atanor, nel buio del mondo, Mynona assapora la possibilità di rimanere umani. Tommaso Filippucci *** Rosa, la bella donna del poliziotto Avete presente le ore uggiose in cui il poliziotto rimane sotto la pioggia per ore e ore, e la sua donna nel mentre…? Ma Rosa, la bella donna del poliziotto, era completamente diversa. Perché? Perché era così diversa? Non erano certo le circostanze, ma lei stessa. E non era certo a causa del marito, un tipo all’antica, diciamo, che Rosa amava. Ma un miglior conoscitore di donne (con la fortuna negli occhi) una volta mi disse: la donna è un bel segreto. E quando non fui d’accordo con lui, aggiunse: svelala solo esteriormente, mai emotivamente! Poi disse qualcosa di Schiller, una citazione che ho dimenticato, ma che non dimenticherò mai! Nel frattempo, Rosa uscì e – credetemi! – camminava così bene che la bocca di un antico invalido si aprì di scatto e la sua pipa divenne anch’essa invalida. Rosa camminava sull’asfalto bagnato; attraversava uno splendido passaggio, superava il terrapieno con la gonna alta. All’angolo si trovava l’uomo che l’amava, non suo marito, ma anche lui un uomo.  Così a quest’uomo scese una lacrima alla vista della profumata Rosa che passeggiava (non camminava come le signore d’accordo con se stesse, né problematicamente come le donne di mezzo mondo, e certamente non come la troppo nota ragazza del popolo, sapete, formosa e allegrotta; camminava, non posso dirlo in altro modo: come se camminasse nella sua persona). Un monocolo sarebbe stato generalmente più seducente, ma questo insegna l’autocontrollo, e l’uomo non lo aveva per lei. Rosa non si accorse dell’uomo fino a che non gli si avvicinò di corsa e gli parlò con foga: “Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa! Non dire niente, ti capisco. Ma lei non mi capisce, non si rende conto di quanto sto soffrendo e di quanto sono felice nonostante tutto. Non dire niente! Mio marito è in servizio, piove, sta in piedi sul bagnato, è un poliziotto. Non è questo! Ma non riesco a superarlo. Oh! Gli sono ancora più fedele quando non è con me. So che mi ami.  Non è un pericolo – oh mio Dio! Potremmo possederci a vicenda. . . Certo! Ed è interiormente impossibile per me: non come moglie, ma come donna del poliziotto. Vi amo – se questo vi consola! Niente mi può consolare, sono peggio di una suora, perché lei può rinunciare ai suoi voti, io sono legata a me stessa”. Ricordo che l’uomo aveva due gambe, che iniziarono ad agitarsi in modo particolare durante le parole di Rosa. A volte stava a destra, a volte a sinistra, si toglieva anche il cappello e si passava la mano tra i ricchi e folti capelli bruni. Stava in piedi sulla testa, sospirando come un uccello della foresta sognante, schiaffeggiando i polpacci con il bastone da passeggio, roteando gli occhi come Nerone al rogo di Roma. Rosa concluse così: “Comprendimi! Già da piccola, quando vedevo una guardia, avevo le convulsioni. Non so se è così per tutti. La mia coscienza non mi lascia riposare, questa divisa è ciò che mi rende donna, qualcosa di morbido, pallido, tremante, sopraffatto”. Nella testa dell’uomo si accese una luce, percepì qualcosa come la nascita dell’uniforme dallo spirito dell’erotismo. Poi all’improvviso chiese gelidamente: “E se osassi indossare un’uniforme come quella? E dicessi: che cosa ha tuo marito in più degli altri?”. Rosa arricciò il naso da Venere: “Prima, assolutamente niente, ma ora tutto, tutto! Quando ne ho preso uno, per gli altri era finita – sì, anche se ci ha fatto il favore di rendermi vedova – non potevo dimenticarlo! Non è amore, l’amore è stupido al confronto, sono questa donna del poliziotto con tutto il corpo e l’anima. Lo sono e lo resterò”. L’uomo barcollò come Golia quando fu colpito dalla fionda di Davide… beh, già lo sapete. Ma non cadde; urlò così forte che un poliziotto si avvicinò. Urlò come un pazzo: “Ma questa è follia! Bisogna lasciarla andare via con l’ipnosi! È una cosa facilissima da determinare psicoanaliticamente. Oh, devo andare subito a Vienna da Freud in persona…” Non andò oltre; una di quelle mani pesanti, familiari a quasi tutti i nativi tedeschi, si posò sulla sua spalla contratta: “Non lo farai!” affermò il poliziotto di Rosa – era lui. “Per favore, andatevene in modo discreto e decoroso. Non mi preoccupo per mia moglie. Tutti la amano e lei ama tutti. Nell’amore non c’è resistenza. È giovane, bella e focosa: basta guardarla! Ma ha la stoffa per farlo! Hai sentito. E adesso basta! Spesso non sono a casa, non posso fermarti – ma sono più protetto dalle corna. Avrebbe rotto il matrimonio senza esitazione, ma non questo; È così garantito da ciò che hai appena chiamato follia che io stesso – a volte si hanno pensieri del genere – non potrei cambiarlo. Nanu Adieu!”. Se ne andò con Rosa. L’uomo, stordito, nella direzione opposta. Non vide mai più Rosa. Non riuscì mai a strappare dal suo cuore l’amore per lei. Fu molto più tardi (davanti alla cattedrale di Strasburgo) che mormorò cupamente tra sé e sé: “Rosa, adorabile segreto! Sfinge di tutta la gendarmeria!” “Accidenti”, disse qualcuno quando glielo dissi, “Reprimi meglio le tue idee!”. Oh sì! Tutti dovrebbero tenere la bocca chiusa sulla Sfinge, più Sfinge della Sfinge. “E non chiamate la mia bocca bocca!”, mi interruppe la sfinge nel suo silenzio lungo un miglio. L'articolo “Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin proviene da Pangea.
May 23, 2025 / Pangea
Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica
A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015, accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza. Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra, rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri di un’infanzia mai più riconquistata. Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro, spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann, Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli anni. Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo), del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970, sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità, non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti. La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953 contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e, malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente repressa.  Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’ d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):  > “Una portaerei americana  > e una cattedrale gotica  > reciprocamente  > s’affondarono  > nel Pacifico.  > Suonò l’organo fino alla fine  > il giovane vicario. –  > Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei  > e non possono atterrare.” Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante, e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia. Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva – con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la “coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana. A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca, Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori, allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità, asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia – un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito, ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito, era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.  Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel 1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di annullare l’evento previsto.  Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era – aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per garantirsi una relativa immortalità. Raoul Precht L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica proviene da Pangea.
April 15, 2025 / Pangea
“Voglio condividere il pane con i pazzi”. Christine Lavant, la poetessa amata da Thomas Bernhard
Qualche giorno fa, alla radio, davano Il mattino di Grieg. Alle elementari, il maestro di musica ci faceva suonare Il mattino: gli Aulos fischiavano nell’aula, pervasa da un improvviso odore di larici. Nulla, nella periferia torinese dove si esercitavano quei bambini, ricordava la Norvegia o le gesta di Peer Gynt, l’eroe scapestrato di Ibsen. Le Alpi, lontane, inaccessibili, sembravano bianche sfingi. Secondo i pitagorici, il flauto è “troppo sfrenato” (così Giamblico) per indurre alla contemplazione: le loro danze si sviluppano lungo le elitre della lira. Eppure, Il mattino è una musica vitrea, traslucida, si frantuma ovunque, come crisalidi di zucchero.  Non ricordavo che Edvard Grieg si fosse fatto seppellire in una parete rocciosa, poco lontano dalla sua casa, Trodhaugen, presso Bergen. Il sepolcro guarda l’oceano, assediato da felci, muschi, piante – nessuno, tranne gli uccelli marini, può onorare il grande compositore. Grieg non voleva fiori, non voleva pianti. Grieg è raffigurato sempre con lunghi baffi che rassegnano il suo viso a quello di uno sparviero.  * Il sepolcro di Grieg – e la sua poetica, da autodidatta e naïf – rimanda in me alla poesia di Christine Lavant. Inaccessibile, vertiginosa per eccesso di semplicità, rivolta agli elementi primi del creato – il sole e la luna, la pioggia e la pietra – più che all’uomo. Tesa, intendo, verso l’umano, verso quella candida ferocia, che non all’umanità: verbo che mette conifere e artigli, che spaura l’inno in uno scoccare di frecce.  * Nata Thonhauser nel luglio del 1915, in Carinzia, Christine Lavant – il nome ricalca quello della valle in cui è cresciuta – è tra i poeti più eccentrici e insondati del secolo. Figlia di un minatore e di una sarta, afflitta dalla scrofola, da continui mali, diseguale l’educazione, presto interrotta, la Lavant scrive come in una camera d’attesa del creato, nell’antiporta dell’Eden, di uomini ancora indecisi tra la forma dell’angelo e quella del leone, della serpe e del toro. Il sentire della Lavant, il suo dire scampanio, non ha mediazione retorica, giunge dal fondaco biblico, da quel residuo d’uomo che chiamiamo candore.  * Sulla strada della Lavant, Rilke, il lupo orfico, che la marchia a fuoco. Lo legge durante uno dei ricoveri, a Klagenfurt, negli anni Trenta. Christine impara a cucire per darsi in pasto al quotidiano; scrive come una forma dell’andare mendicando. Tentare un gemellaggio tra ago e penna, tra cucitura e scrittura – punto intermedio: la cicatrice.  Seguono i primi rifiuti, le violente reazioni: brucia i taccuini, albeggianti nel fuoco, tenta il suicidio, affossa nella depressione. Di lì, l’ingresso nella casa di cura – i valligiani le danno della pazza, e lei è lì, reclina nell’aura di santità dei marginali e dei dementi. Dopo la morte dei genitori, nel 1938 – che è poi uno sbandarsi, un vivere senza più bende – Christine si sposa con Josef Habernig, pittore, colto, già proprietario di terre, di trentacinque anni più grande di lei. Usava indossare un velo, a celare il cranio. > “Dopo la morte dei miei genitori, mi sono trasferita in una soffitta. Così, > interruppi l’incanto. Pensai che l’ira con cui scrivevo fosse una malattia, > volevo sedarla, non si addiceva alla povera persona che ero. Finché non ebbi > trent’anni. Lavoravo a maglia tutto il giorno per i contadini, leggevo, mi > auguravo – secondo i modi di nostra madre – di avere un tetto sopra il cranio > e un posto buono per dormire. Finché un giorno, contro mia volontà, mi è stato > imposto un volume di versi di Rilke. Lo presi per non offendere la > bibliotecaria che me l’aveva offerto. Nulla sapevo di Rilke, non intendevo > leggere poesie – ostacolavano il mio lavoro. Poi l’ho letto. Galoppata di > nuvole sopra di me. Non ho fatto che scrivere versi. Giorno e notte”.  * Miracolata da Rilke, che giunge come un dio tra le nubi – ma di Rilke, Christine tiene l’esubero, la carcassa. Nessun vello retorico, nessun veicolo filosofico: soltanto denti, ossa, le scattanti figure della predazione. Di Rilke, il profilo centauro.  * Lento, lentissimo approvvigionarsi di onori. La prima raccolta nel 1949; nel ’54 ottiene il Premio Georg Trakl. Usciranno “La ciotola del mendicante” (1956), “Un fuso nella luna” (1959), “Il grido del pavone” (1962). L’amore per il pittore Werner Berg le dona dionisiaca ispirazione. Christine scrive fino a trenta poesie al giorno; finché la soglia tra vita e scrittura si deforma, si sfascia, la donna crolla in collasso nervoso.  Di migliaia di versi si compone il canzoniere di Lavant – dissennato, diseguale, inabile ad alcuna didattica lirica. Va amato questo sperpero di sé, questo intenebrarsi nel linguaggio, ogni giorno, come una lotta al quotidiano. Come una tacca sul bastone, come un intaccare la luce. Ci è stato detto di una poesia raffinata fino all’alambicco, di poche perfettissime parole: chessò, i testi di Eliot e di Valéry, l’opera ben ragionata di Montale, di Ungaretti. Invece, penetrare nell’oceano fino a perdere il giudizio – fino allo scafo capodoglio. Dunque: la scrittura continua di Lorenzo Calogero, il milione di versi di Gian Giacomo Menon, la lirica perpetua, almeno una poesia al giorno, di Ghiannis Ritsos. A questa indecente generosità segue, di solito, la reticenza, l’incomprensione, il disorientamento. Ma è quello: perdersi in un’opera immeditata e immensa, darsi alla danza. Altri vadano con il bilancino dell’orafo, a pesare aggettivi ed endecasillabi – qui si è nel ritmo, nel gorgo – senza poesia, non sorge il sole, nasce obliquo, mero astro-feto, infecondo.  * > “Poesia, nemico mortale. È lei che mi ha fatto invecchiare così presto, mia > prematura morte”.  Dopo la morte del marito, nel 1964, Christine piomba nell’abulia, nel disastro dei nervi. Nel 1970 riceve il “Großer Österreichischer Staatspreis”, tra le massime onorificenze conferite all’eccezionalità letteraria dallo stato austriaco, andata, tra gli altri, a Elias Canetti e a Ingeborg Bachmann. Christine Lavant muore tre anni dopo, in giugno. Nel 1978 esce, postuma, la raccolta “Un’arte come la mia è solo vita mutilata”: nel titolo già si è negli argini di una poetica che risolve, a contrario, l’estasi della “vita come opera d’arte”. In Christine è il senso animale, l’andare con mani a maggese, a setacciare particole e rovi. Piaceva a Thomas Bernhard, la poesia di Christine Lavant. L’aveva conosciuta negli anni Cinquanta, Bernhard, poco più che ventenne, quando praticava la lirica, con toni campali, marziali, di campo (una selezione delle poesie di Bernhard è in Sulla terra e all’inferno e Sotto il ferro della luna, entrambi editi da Crocetti). Proprio Bernhard, nel 1987, per Suhrkamp, cura una serratissima antologia di Poesie di Christine Lavant, da cui la traduzione di Anna Ruchat per FinisTerrae (2022; già Effigie, 2016).  Tra le altre cose – tratte dal carteggio tra Bernhard e Siegfrid Unseld, 2009 – Bernhard scrive che “La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di essere conosciuta nel mondo intero”. E più in particolare: > “La Lavant era un essere assolutamente terreno, molto intelligente e > raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le > sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più > significativo di tutte le menzogne raccontare sulla sua estraneità al mondo, > sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio”.  L’estranea è nel mondo ben più dei mondani, gli straniti.  Aveva quel volto ligneo, uscito dalla bottega di Bruegel, la nobiltà di una regina di Saba in stracci – la nobiltà di chi lancia le briciole alle stelle, i suoi piccioni.  ** Voglio condividere il pane con i pazzi, ogni giorno un pezzo di questo grande orrore, anche la campana nel cuore, là, dove il colombo fa il nido e trova un minuscolo asilo nella selva sulle acque. A lungo ho vissuto come pietra sul fondo delle cose. Ma ho sentito la campana sussurrare il tuo segreto nei pesci volanti. Imparerò a volare e a nuotare e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra lascerò la malinconia coricata nella madreperla, ma solleverò in alto la rabbia e la miseria. Le mie ali sono più antiche della tua pazienza, le mie ali sono volate oltre il coraggio, che s’era fatto carico dell’errare. Voglio condividere il pane con i pazzi là, nella spaventosa selva del colombo dove la campana divide in tre parti il grande terrore trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.  * Caccia via da me la stella, che sghignazza così, senza motivo, tu, cane del vicino! Dille una parola di cane! Abbaiale contro qualcosa di cattivo, inseguila come fosse selvaggina, non mi serve una costellazione, il mio Cane Minore ora sei tu! Pensi forse che non basti  per questo cuore nero? Colpisce alla cieca il dolore e lo morde finché non si spezza. Non hai fame, cane? Andate e mangiate entrambi! La stella s’è ritirata lontano ora io piango senza motivo. * Solo un ramo secondario del sonno, selvaggio e bastardo, allevato dalle droghe si prende cura a volte della mia anima. Due esseri abusati a servizio l’uno dell’altro, consolano quel che ancora va consolato e benevoli nascondono ciò che sanno mettono al mondo sogni dimidiati cerei e senza volto ignoranti di pazienza e cura sciolti già al primo canto del gallo. E tuttavia sono figli piccoli battezzati di corsa, tutti consacrati a colui che li ha sacrificati entrambi come due schiavi o cani randagi mentre il buon nobile sonno si corica soltanto con anime illustri.  * Dimentica il tuo ciarpame, Creatore! O sarai creatore di ciò che è cadavere e lo rimane e si unisce alla terra ben più volentieri che al cielo. Vai, continua ad ammantare i gigli corrompi pure i passeri con il miele vergine – io vivo di ruggine e muffa. Tu dici che questo non mi sazia e blateri della città di Dio che molti conquistano con il digiuno. Non io! Mi piace vivere nell’argilla per diventare pietra e tuttavia mai esserti di peso. * Decrepita fisso la ruota del tempo. Come girano lentamente ora i raggi del sole! Nessun mastro m’insegna a raggiungere lo scopo, ma spesso sembra che io sia un’iniziata. Le persone più vicine mi hanno consegnata a ciò che vi è di comprensibile nelle caverne dell’abbandono e le mie dita scivolano lungo la scrittura ideografica che sa ogni cosa. Come preferirei star seduta tra i papaveri tra consolazione, speranza e un po’ di malafede perché qui tutto ha già i lineamenti chiari della dura verità – si muore assiderati. * Hai modificato tu il paesaggio tra noi. Ogni cosa tra nuvole e radici ha subito gravi danni. I fratelli non dormono più l’uno accanto all’altro e il ponte della fiducia è sparito dagli occhi di tutti. Non so più su cosa cammino, né dove vado, perché la tua voce non mi porta nessun vento, nessun richiamo d’uccello né rumore di fogliame. Quattro volte verso il basso spinge la direzione del cielo e la mia mano, che cerca la tua manica, torna vuota e segnata. Ora lo grido a perdifiato ed è come tempesta, che mi fa nuda, tutta nuda, fino all’anima e senza vergogna sotto le stelle. Perché, dimmi, perché mi hai lasciato il gridare? E il cartiglio degli occhi sotto la fronte apprensiva? Perché non mi hai strappato il cuore dalle costole, perché non l’hai calpestato e dato, a pezzetti, in pasto ai cani? Questo avresti dovuto fare prima di consegnarmi al villaggio! Perché è questo l’inferno di cui sognavo con terrore da bambina, e di certo anche prima nel corpo affamato di mia madre. Tutto viene di lì. Di lì sono venuta io, smilza e avida di miracoli, che uno di essi alla fine mi rendesse bella per le cose dell’amore e più tardi nella trasparenza degli angeli. Tu avresti potuto farlo! Lo sento ancora, sotto la cute, dove gemendo la bestia cresce. Traduzione di Anna Ruchat Da Christine Lavant, Poesie. Scelte da Thomas Bernhard, tr. it. di Anna Ruchat, FinisTerrae, Como-Pavia, 2022.  L'articolo “Voglio condividere il pane con i pazzi”. Christine Lavant, la poetessa amata da Thomas Bernhard proviene da Pangea.
April 10, 2025 / Pangea