“Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione dei Salmi

Pangea - Tuesday, June 24, 2025

Nella tradizione cristiana i testi biblici sono ritenuti «ispirati». A onore del vero non sono tanto i testi, ma i loro autori, i cosiddetti agiografi, ad essere ispirati, cioè assistiti dallo Spirito santo allorché hanno composto quelle pagine che non smettono di generare la fede. Lo Spirito non cancella l’umanità dello scrittore, anzi la lascia intatta: le asperità e le goffaggini del greco di Marco emergono in modo evidente, eppure in quella lingua è scritto un Vangelo fra i più vivaci, capace di farci toccare con mano il mistero di Gesù, Cristo e Figlio di Dio.

Analoga alla tradizione teologica è la tradizione poetica. Anche il poeta è ispirato allorché riesce a trovare le parole giuste per dire quanto alberga nel suo cuore. Indubbiamente il poeta non è assistito dallo Spirito santo, né quanto fissa sulla carta appartiene ai testi generatori della fede, eppure la sua opera ha una stretta parentela con testi biblici, i testi ispirati per eccellenza.

In occasione del XXI Festival Biblico di Vicenza del 2025, Roberta Rocelli e Davide Brullo hanno affidato a trentatré poeti l’arduo compito di rielaborare altrettanti Salmi. È nato così un piccolo volume (Salterio dei Poeti) che propone le riappropriazioni dei testi ispirati e poetici della Bibbia, i Salmi. Non si tratta di nuove traduzioni della grande raccolta dell’Antico Testamento, ma piuttosto di trentatré personalissime riscritture di quei poemi. Brullo propone all’inizio non tanto un’introduzione, ma una serie di aforismi graffianti che dicono bene il senso della raccolta: «Agli “esperti” preferiamo gli untori del linguaggio» (13); «Salmeggiare non da salomonici, ma come i salmoni, a ritroso, verso il ghiacciaio, il celestiale» (14). 

Chi scrive di professione è biblista, sicché da tempo mi dedico allo studio dei testi sacri, prediligendo proprio i Salmi. Chi scrive è pure, per grazia di Dio, un credente che da più di quaranta anni prega ogni giorno con le parole dei Salmi e dal 2000 recita il Salterio come libro, cioè rispettando l’ordine delle composizioni: inizio con il Salmo 1 ai primi vespri della domenica e termino con il Salmo 151 (sì, il Salmo «fuori dal numero», attestato solo in greco ma, guarda caso, ritrovato anche a Qumran) all’ora media del sabato della seconda settimana, per ricominciare da capo, quella stessa sera. Ma chi scrive è anche un prete cattolico che durante l’ordinazione ha promesso al vescovo di essere fedele alla preghiera della liturgia delle ore, interamente costruita sui Salmi; in quei versetti ritrovo quanto nella vita quotidiana sperimento e soprattutto le molte persone che incontro con le loro vicende, le loro gioie e le loro angosce, i loro slanci e le loro frenate; pregando il Salterio porto quelle persone davanti al Signore, il Dio misterioso che non smette di affascinare e di coinvolgere uomini e donne: «La liturgia delle ore si articola intorno al salterio – parola che, letteralmente, salva il mondo – lo innesta al primo giorno, gli dà il sollievo dell’ultimo» (14). 

Per questi complessi intrecci la raccolta Salterio dei Poeti mi ha catturato. Vorrei semplicemente dare parola a tre impressioni sgorgate nel mio cuore durante la lettura di queste poesie.

Ho apprezzato, in primo luogo, il fine lavorio di traduzione. Qualcuno ha inteso offrire una versione personale. E lo ha fatto in maniera magistrale, filologicamente impeccabile, aggiungendo un «di più», il di più della sensibilità poetica, l’«unzione del linguaggio». È il caso di Davide Brullo che ha riscritto il Salmo 151. L’inizio è folgorante: «Minuscolo ero tra i miei fratelli/ il più giovane nella casa di mio padre/ di mio padre le pecore portavo ai pascoli». “Minuscolo” è molto più di “piccolo” e apparenta l’ultimo Salmo della Settanta (la versione greca dell’Antico Testamento) alla scrittura minuscola, cioè quotidiana, meno solenne dell’onciale, ma veicolo prezioso per la diffusione della Parola. Più avanti il poeta rende così l’affermazione del Salmo: «il Dio che tutto ode ed esaudisce». Brullo introduce uno sdoppiamento adeguato; un unico verbo greco è riproposto in uno splendido allargamento che ne esalta l’intensità: non solo “esaudire”, ma “tutto udire” (la totalità dell’ascolto in enfatica posizione iniziale non sfugge) e per questo “esaudire”. E ancora, Brullo sceglie di tradurre sempre “Dio” il termine greco kyrios: un’opzione che radica nella confidenza con il mistero dell’Altissimo, ma insieme ne esprime il timore che nemmeno osa il più familiare “Signore”. 

L’intensità della relazione con Dio osa parole forti e concise, concentra i discorsi in domande dirette, accumula i verbi dentro una tensione nervosa, lascia sempre le frasi aperte, senza punto finale. È la riscrittura del Salmo 22 di Giancarlo Pontiggia: «Io grido,/ e non mi ascolti: grido/ il giorno e la notte,/e non per mia rancura» (v. 2). «Non andartene/ da questo lenguaio di assillo:/ non un cagnazzo che mi aiuti» (v. 11). E poi rivolta a sé: «Vivrai in lui,/ mia anima:/ e tu servilo,/mio legno,/ seme» (v. 30). Anche la relazione con sé è quasi violenta in rapporto a Dio, come dice Tiziana Cera Rosco, riscrivendo il Salmo 51: «Annegami/ Fammi sbranare dal centro di questo petto/ L’iniquità che mi protegge offendendoti/ Flettimi, spezzami, raschiami/ Scorzami da questa pelle». E di nuovo invocando l’Altissimo: «Riconoscimi bianco, spezza ogni osso/ Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me». Anche Valentino Fossati rende la parola rarefatta: un rigo e poi il bianco, un altro rigo con due parole e ancora il bianco; in questo modo ridisegna il Salmo 79: «Entrarono o Dio// genti estranee// come discendenti del tuo Regno». E nella presentazione degli oranti: «E i tuoi servi/ abbandonati// (brandelli)//…/…// dov’è il dio vostro?// perché?». 

Giambattista Tiepolo, Davide con la testa di Golia, 1717 ca.

Nella preghiera non si può fingere, perché ci si pone davanti a Dio in verità, anche con espressioni forti. Con parole decise Giuliano Ladolfi riscrive il Salmo 143: «Comprendimi e rispondi alla mia supplica./ Puoi forse giudicare/ la mia fragilità?». Lo scavo interiore giunge alle profondità dell’angoscia: «Dentro di me si agita un nemico,/ mi tortura, mi sgomenta e mi distrugge;/ io vivo nelle tenebre/ quasi fossi già morto». La radicalità del male non toglie, tuttavia, la fiducia nella potenza del Signore. Così conclude il poeta: «I miei fantasmi si dilegueranno/ a un semplice tuo cenno/ e io riprenderò a servirti/con l’infinita gioia del mio spirito». 

Insomma, ancora una volta l’ispirazione accomuna il testo biblico e il testo poetico e dice la verità dell’uomo: un’apertura all’esterno, verso l’altro da sé, verso il reale e la sua trascendenza a cui si accorda credito e a cui, soprattutto, si concede di fare irruzione presso di sé. 

Un fecondo dialogo, una contaminazione necessaria.

Matteo Crimella

*Matteo Crimella è dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e professore straordinario di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano; insegna anche presso lo Studio Teologico del Pontificio Istituto Missioni Estere di Monza.

**In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, 1630 ca.

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