Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra
del tradurre proviene da Pangea.
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Nell’epoca della post-letteratura, cioè di una scrittura che fa a meno della
lettura, della storia letteraria, della tradizione, dello stile, si può anche
affermare che la Bibbia è un libro «sopravvalutato». È stato fatto, lo ha detto
di recente la scrittrice premio Strega Donatella Di Pietrantonio in
un’intervista al «Corriere della sera». Se avesse detto che l’Iliade è un libro
sopravvalutato sarebbe stato lo stesso?
Nell’epoca della post-letteratura non ha nessuna importanza ricordare che
esiste, naturalmente, una sterminata bibliografia sulle radici bibliche della
cultura occidentale e sul valore letterario inestimabile di quest’opera. Si
potrebbe, anche, affermare che uno scrittore che non legga la Bibbia è, di
fatto, uno scrittore mancato, qualcuno, cioè, che si condanna da solo a
un’amputazione dell’immaginario, ma si condanna, anche, al rinnegamento perpetuo
di quei tre criteri estetici che Harold Bloom, insuperato lettore della Bibbia,
indicava come basilari per ogni libro che meriti di essere preso in
considerazione: lo splendore estetico, il vigore intellettuale e la saggezza. Ma
a che cosa serve sottolinearlo? Servirebbe, piuttosto, sostenere che nell’epoca
della post-letteratura la letteratura stessa deve essere un non-luogo facilmente
abitabile da tutti. Da qui deriva il resto. Anche il fatto che se si intende
reimmettere la Bibbia nel tritacarne del «culturale» odierno – ovvero di ciò che
Richard Millet chiama «l’alleanza dell’intrattenimento con la propaganda» –
bisogna farlo come si fa con i bambini: proponendo una lettura facile facile,
con una semplice parafrasi di alcune sue storie più famose, senza
approfondimento, nessun tentativo di analisi di qualunque genere (letteraria,
stilistica, antropologica, politica, storica).
È quello che troviamo nel libro Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della
Bibbia di Aldo Cazzullo (HarperCollins). Eccola la parola «passe-partout»,
l’esca del mercato editoriale: «romanzo». Come se la Bibbia fosse un testo
scritto da una singola persona, dall’inizio alla fine, e non una raccolta
eterogenea di libri composti in epoche diverse, da autori diversi, in lingue
diverse (ebraico e aramaico il Tanàkh e greco il Nuovo testamento), di generi
differenti, e perfino con finalità differenti. Il romanzo: basta la parola, nel
trionfo del post-letterario. Ma non è solo questo.
Non ho nulla contro Cazzullo, intendiamoci. Il suo libro non ha alcuna pretesa
critica. Se ne parlo qui è perché il suo successo di vendite mi sembra
particolarmente emblematico dei tempi che stiamo vivendo. Si potrebbe obiettare
che un libro divulgativo non può essere emblematico di alcunché, ma io credo, al
contrario, che la divulgazione non sia mai neutra, né innocua, poiché sottende
un assunto ineludibile su ciò che deve essere trasmesso e ciò che invece non
deve. Basti pensare a quanta ideologia è celata dietro la divulgazione di uno
storico come Alessandro Barbero (non mi riferisco solo alle prese di posizione
sulla guerra in Ucraina, ma alla sua dichiarazione, davanti a un uditorio di non
specialisti, che il regno di Israele non sarebbe mai esistito, asserzione basata
sulle posizioni della cosiddetta «scuola di Copenaghen», ma che ignora
volutamente tutto il dibattito storico-archeologico che a quella visione
minimalista si oppone).
Qual è, dunque, l’operazione ideologica sottesa al libro di Cazzullo? Che a un
popolo di non lettori in generale e di non lettori della Bibbia in particolare
basti offrire un grado zero della lettura, per così dire, affinché una raccolta
di testi letterari tra i più alti e complessi della tradizione occidentale (mi
riferisco, in particolare, alla Bibbia ebraica), si trasformi in un
«fattariello», in un «romanzo», in un bestseller capace di scalare le
classifiche. Con quali conseguenze? Quelle di una colossale mistificazione
culturale.
Rembrandt, Davide sfida Golia, 1655
Leggiamo, per capire, la prima pagina del libro, che inizia, giustamente, con i
primi versi di Genesi, ripresi dalla versione CEI della Bibbia:
> «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le
> tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Cazzullo chiosa così: «Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile».
E per dare solidità alla sua affermazione perentoria, aggiunge altri celebri
incipit di romanzi (ci risiamo!) della letteratura universale («Moby Dick»,
«Anna Karenina», ecc.) dimostrandone il minor impatto, al confronto.
Peccato però che quell’incipit in Genesi non esiste, non è corretto. Se Cazzullo
avesse letto Rashi, il rabbino medievale francese tra i più importanti
commentatori della Bibbia ebraica, avrebbe evitato questo topos sbagliato della
traduzione. L’ebraico Bereshit, infatti, è un costrutto che introduce una
subordinata temporale: «All’inizio della creazione del cielo e della terra da
parte di Dio…», oppure, come riporta la nuova traduzione biblica dei Millenni
Einaudi: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…». Non è solo una
questione sintattica. Nella sintassi diversa troviamo una diversa filosofia
della Creazione. La versione canonica impone un ordine cronologico della
Creazione, una gerarchia, una «bontà» razionale (prima di tutto Dio crea il
cielo e la terra, poi questo, poi quest’altro, ecc.), che invece nella versione
originale manca. Non c’è ordine, né gerarchia. E soprattutto, non c’è un
principio. Se si legge la prima frase di Genesi nella giusta traduzione (la
riprendo, come tutte le successive, sempre da Einaudi): «Quando Dio cominciò a
creare il cielo e la terra, mentre la terra era vuota e vacua, la tenebra era al
di sopra dell’abisso e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque, Dio
disse: “Sia luce!” E luce fu», misteriosamente scopriamo che l’acqua preesiste
alla luce, pur se non abbiamo alcun racconto della sua creazione. Non ci
troviamo di fronte a una cosmologia armoniosa e coerente prodotta da Dio, la
Creazione non avviene ex nihilo. Esistono già la «tenebra» e l’«abisso», e le
acque. Chi le ha create? E quando? Genesi, in realtà, nasce da questo mistero, e
negarlo vuol dire eliminare gran parte della sua complessità, per proporci una
versione più consolatoria e più rassicurante. Ma la vita – la sua origine, il
suo senso – non è né consolatoria, né rassicurante, anche se nell’epoca della
post-letteratura piace pensare che sia così.
Sarebbero innumerevoli gli esempi di «pericolosa» semplificazione disseminati
nel libro, a cominciare dalla Aqedah, l’episodio del sacrificio di Isacco, dove
esegesi ebraica, Kierkegaard, Kant, tradizione iconografica, psicoanalisi
vengono liquidati in una singola frase:
> «Ancora Dio ripete che, attraverso Abramo, offre una possibilità, propone un
> patto a tutti gli uomini».
Altro esempio riguarda uno dei momenti biblici fondamentali che troviamo sempre
in Genesi, un episodio che è il nucleo fondativo di ciò che il filosofo ebreo
Eric Weil indica come la peculiarità della nostra cultura greco-giudaica: ovvero
tutto ciò che consegue dalla capacità dimostrata dai profeti ebrei e dai
filosofi greci di domandarsi cosa fosse la giustizia e non cosa dettassero i
costumi del loro tempo. Il Signore è pronto a distruggere Sodoma per punire i
suoi abitanti che hanno peccato, quando Abramo, di fronte alla decisione del Dio
Onnipotente, lui, mortale e fragile, lui che – come si affretta a precisare con
sottile arte retorica – non è che «polvere e cenere», invece di arretrare si
avvicina al suo Dio, in maniera perfino spavalda, ma allo stesso tempo
insinuante, e gli chiede:
> «Davvero travolgerai il giusto col malvagio? Se ci fossero cinquanta giusti
> nella città, davvero travolgeresti quel luogo e non lo perdoneresti a causa di
> quei cinquanta giusti che vi sono? Lungi da te fare questa cosa: far morire il
> giusto col malvagio, così che il giusto sia trattato come il malvagio. Lungi
> da te! Forse che il giudice di tutta la terra non agirà con giustizia?».
Il Signore, di fronte alle domande di Abramo, è costretto a cedere: «Se
nell’ambito della città di Sodoma troverò cinquanta giusti, perdonerò a tutto il
luogo per causa loro». Ma Abramo non si accontenta, inizia a mercanteggiare con
il Signore! Lo induce a scendere da cinquanta a quarantacinque, a quaranta, a
trenta, a venti, a dieci. Cazzullo si limita a commentare:
> «Un dialogo così serrato, tanto da ricordare una trattativa tra mercanti in un
> suk, lo troveremo poche altre volte nella Bibbia. Non è da tutti tenere testa
> così a Dio».
Tutto qua? La trattativa da suk è, in realtà, una scena inaudita. Dio per la
prima volta è spinto a guardare dentro sé stesso, a scoprire la sua intimità, il
suo senso di giustizia. A domandarsi dove sia il Bene, al di là del proprio modo
di operare, e che cosa voglia dire «agire con giustizia». E lo fa grazie
all’uomo, al suo rifiuto di accettare come un dato di fatto ciò che proviene
dall’autorità. Abramo, in fondo, non ha alcun legame con Sodoma. La questione è
squisitamente etica. Che cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È come se qui l’uomo,
la creatura di Dio, diventasse a sua volta il creatore del suo artefice: un
rovesciamento vertiginoso, da cui proviene tutta la nostra tradizione
occidentale. Forse è troppo difficile per i lettori di Cazzullo? Non credo. Ma
nell’epoca della post-letteratura bisogna surfeggiare sulla superficie di un
testo senza osare affondi.
Rembrandt, L’agonia nel giardino, 1652 ca.
Stesso trattamento sbrigativo troviamo anche a proposito di un personaggio come
David, con la sua personalità così carismatica e contraddittoria, uomo
imprevedibile, devoto e ribelle, sensibile e spietato. Nel libro di Cazzullo
l’unico commento su David è questo:
> «Davide è davvero uno dei personaggi più interessanti della Bibbia».
Come negarlo? Ma è come dire, in un libro su Shakespeare, che Amleto è uno dei
personaggi più interessanti creati dal bardo inglese (il paragone non è casuale,
poiché David ha, in effetti, lo stesso fascino e la stessa insondabilità del
principe di Danimarca). Significa, cioè, ribadire l’ovvio. Eppure la danza quasi
orgiastica – danza di gioia – di David davanti all’Arca dell’Alleanza, che è una
delle scene più memorabili di cui è protagonista questo personaggio di
indomabile vitalità, avrebbe meritato qualcosa di più di questo commento:
> «È forse il primo e l’ultimo personaggio dell’Antico Testamento che Dio tratta
> come un figlio, e con cui Dio si comporta come un padre: un padre non
> particolarmente severo – scrive subito dopo Cazzullo –. Al punto che Davide
> talora pensa di potersi permettere tutto».
È vero, la danza di David conquista perfino Dio, spingendolo ad adottare David,
a ritenerlo come suo figlio. Ma che cosa vuol dire danzare con tutte le forze,
in perizoma di lino, davanti a Dio? Perché è questo che fa David in 2Samuele
(libro di una potenza shakespeariana), al punto da destare scandalo nella
moglie, figlia di Saul. «Che onore si è fatto oggi il re di Israele, denudandosi
come un uomo qualunque davanti alle sue serve dei suoi servi» gli dice Mikal,
sdegnata. E David risponde: «Davanti al Signore (…) danzerò e mi abbasserò ancor
di più». E questa festa che cosa produce in Dio? Un cambiamento, una scoperta
inattesa. Dopo la danza, commosso da questo omaggio, da questa gioia, il Signore
si definisce, per la prima volta nella Bibbia, «padre». Prima era il Dio degli
eserciti, spietato, massacratore di popoli, ma adesso, improvvisamente, si
scopre altro. «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» dice. Prima era il Dio
dei padri, ora è, semplicemente, il Dio padre. Senza la danza scandalosa di
David, Dio non avrebbe scoperto la sua umanità. Non ci sarebbe stato il «Padre
nostro», né il «Figlio di Dio». Da questa danza, da questo abbandono selvaggio,
da questo far festa sconsiderato, nasce il primo seme di un nuovo Dio, diverso
da tutti, perfino da sé stesso.
Una tale diversità (questa nuova umanità di Dio), viene confermata nel libro
successivo, il primo libro dei Re, in un episodio che Cazzullo non racconta:
l’incontro tra il Signore e il profeta Elia, quando l’apparizione divina è
descritta come «la voce di un silenzio sottile». È un’immagine bellissima, che
in ebraico, letteralmente, può essere restituita anche con «il suono di un tenue
silenzio». Non nel vento impetuoso si trova Dio, non nel terremoto, non nel
fuoco, ma nel «suono del silenzio», che la King James Version rende ancor più
memorabile, con «una piccola voce tranquilla» («a still small voice»).
Questa deminutio è sorprendente (fa venire in mente il capitolo 48 del Tao: «Chi
cerca il Tao, ogni giorno toglie qualcosa»), considerato che il Signore è stato,
come si è detto, prima dell’incontro con David, un dio terribile, vendicativo,
geloso, un «dio degli eserciti». Quando Elia sente quella «voce di un silenzio
sottile» si copre il volto con il mantello. Perché? Forse perché, come si dice
in Esodo, «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita»? O perché, più
semplicemente, il silenzio di Dio – quel suono del silenzio che bisogna imparare
a indagare – mette paura più di ogni altra cosa?
In effetti, la Bibbia è l’unico testo sacro che prevede anche l’assenza di Dio,
il suo silenzio (è lo stesso silenzio che spinge Saul al suicidio). A volte,
infatti, Dio parla solo attraverso ciò che gli uomini hanno scritto di Lui. È il
caso del libro di Neemia, che pure non viene nominato nel bestseller di
Cazzullo.Neemia, l’alto funzionario del re Artaserse, è un personaggio biblico
di fondamentale importanza. «Davanti all’assemblea degli uomini e delle donne e
di quanti erano in grado d’intendere» egli esegue la lettura integrale della
Torah sulla piazza di Gerusalemme dinanzi alla porta delle Acque, dall’alba fino
a mezzogiorno. È una lettura che esorcizza, appunto, il silenzio di Dio.
Impossibile non pensare a Kafka che sogna di leggere l’intera Educazione
sentimentale senza interruzione per tanti giorni e notti che risultassero
necessari, in una grande sala piena di gente fino a «farne riecheggiare le
pareti»; o al comico americano Andy Kaufman, che legge integralmente Il grande
Gatsby di fronte a un pubblico sbalordito (è solo un caso che siano entrambi
ebrei?). Del resto, se Flaubert è lo scrittore che inaugura la letteratura
moderna (a proposito, ho letto poco tempo fa un’intervista, sempre sul
«Corsera», allo scrittore e editor Carlo Carabba, il quale affermava che
Flaubert è uno scrittore sopravvalutato), il libro di Neemia anticipa un
passaggio cruciale che sarà altrettanto importante per l’arte narrativa, a
partire almeno da Henry James: il passaggio dal narratore onnisciente al
narratore inattendibile. Quando inizia il libro di Neemia leggiamo:
> «Nel mese di Chislèv dell’anno ventesimo, mi trovavo nella cittadella di Susa,
> quando giunse Chananì, uno dei miei fratelli, con altri uomini di Giuda».
È la prima volta nel Tanàkh che ci imbattiamo in un libro interamente scritto in
prima persona (se si eccettuano alcuni tra i libri sapienziali e i profetici,
che appartengono a generi diversi). Ci sono alcuni episodi rintracciabili
altrove, ma si tratta di narrazioni di secondo grado, inserti o profezie
innestate in un contesto narrativo e storico (è il caso di Daniele, ad
esempio). Qui ci troviamo, invece, di fronte a una novità assoluta. E il fatto
che avvenga alla fine della Bibbia ebraica (le Cronache sono solo un riepilogo
di fatti precedenti) non può essere un caso. Il Libro di Neemia è di
indubitabile importanza, sia perché ci restituisce in maniera icastica, e molto
più efficacemente di tanti saggi storici e politici, la psicologia di un popolo,
l’ossessione anche dell’attuale stato ebraico per la «difesa» (ecco la
descrizione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, dopo l’esilio
babilonese: «Da quel giorno, metà dei miei giovani era impegnata nel lavoro,
mentre l’altra metà, armata di lance, scudi, archi e corazze, stava dietro tutta
la casa di Giuda che costruiva il muro. Chi portava pesi svolgeva il suo lavoro,
sollevando il peso con una mano e tenendo la lancia con l’altra. Tutti i
costruttori lavoravano con la spada legata ai fianchi»), sia perché la scelta
della prima persona prefigura un drastico ridimensionamento.
Rembrandt, Cristo presentato al popolo, 1655
Neemia, attraverso la prima persona, può rivelare a noi lettori le sue
intenzioni che tiene nascoste agli interlocutori, ma allo stesso tempo
circoscrive ciò che avviene al suo punto di vista. La sparizione del «narratore
onnisciente» non può accadere senza conseguenze. Genesi, e tutto il Pentateuco,
attraverso la terza persona disponevano uno scenario in cui il protagonista
assoluto era Dio, che interveniva attivamente, parlava, esercitava un dominio
tirannico, aiutava il suo popolo oppure sfogava su di esso la sua collera. Qui,
invece, Dio è assente. O meglio, è presente solo dalla prospettiva di Neemia,
che lo prega, lo invoca, lo nomina al suo popolo. Ma di fatto Dio non risponde,
non compare, non agisce. Se ne sta nascosto. Narrare in prima persona – è questo
che ci rivela il libro di Neemia – vuol dire esporsi al rischio di farsi carico
della storia. Dio è presente solo nei suoi rotoli che divengono legge, nella
lettura che Neemia compie di tutta la Torah davanti al suo popolo. Neemia è un
tramite che si assume le responsabilità di provvedere agli ebrei a suo nome. La
prima persona ha, di fatto, escluso Dio, che ha delegato il suo potere all’io
narrante. Ma l’io narrante non è affidabile. Si tratta, dunque, di un acquisto,
da un lato, e di una perdita dall’altro. Ne è una prova il fatto che il lungo
elenco dei rimpatriati ebrei dall’esilio babilonese censito prima nel libro di
Esdra e poi in Neemia in alcune parti non coincidono. A chi dare credito? Tutta
la storia della narrativa futura si giocherà in questa discrepanza di
censimenti, e nell’ambiguità che essa comporta.
L’assenza di Dio prosegue anche in quello che è uno dei miei libri preferiti del
Tanàkh, il libro di Rut. Non so se sia il più bello della Bibbia ebraica, ma
sicuramente è quello più incantevole, più sobrio – un poemetto in prosa – e
anche il più sottilmente eversivo. Cazzullo ci restituisce, come sempre, una
fedele parafrasi e nient’altro. Eppure la forza dell’amore che emana da questo
testo, un amore inteso non come passione, ma come cura, come «chessed», cioè
come fedeltà all’alleanza, è così rivoluzionaria, anche nella sua coraggiosa
trasgressione della legge divina e morale, che rinunciare al commento equivale a
rinunciare a una delle ricchezze sapienziali più rare che ci siano mai state
donate.
> «Perché dovunque tu andrai, io andrò; dovunque tu pernotterai, io pernotterò;
> il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio. Dove tu morirai, io
> morirò e là sarò sepolta».
Questa meravigliosa dichiarazione d’amore non è pronunciata a un amante, ma a
una suocera, la suocera che Rut, la vedova moabita, sceglie di seguire a
Betlemme, in Israele, lasciando la sua terra e la sua religione. La virtù di Rut
è nel dire sì, nell’accettare la migrazione, il cambiamento, il ripudio,
assecondando solo la sua voce interiore (quella voce evocata da John Keats nella
sua Ode a un usignolo, la voce che «trovò una strada/ nel cuore triste di Ruth
quando, ammalata di nostalgia/ se ne stava in lacrime nel grano straniero»). Con
lei scopriamo che nella vita nulla va giudicato, nemmeno ciò che ci appare
indegno o sbagliato (come la rinuncia a sé stessi o l’amore per qualcuno molto
più in avanti negli anni, come Booz, l’uomo a cui, in un’audace incursione
notturna, Rut scopre non i piedi, come scrive Cazzullo leggendo alla lettera il
testo, ma i suoi genitali, in segno di disponibilità sessuale), perché ogni
gesto di questo personaggio, ogni sua azione, ci inducono a scoprire qualcosa di
inatteso, come la tolleranza, l’accettazione piena dell’altro, la solidarietà
femminile, l’erotismo naturale, la devozione e il rispetto reciproci.
Il libro di Rut è scritto quasi certamente da una donna, dove le donne sono
protagoniste assolute: gli uomini sono poco più che comparse e Dio stesso un
silenzioso spettatore. Quasi come se la luce emanata dalla grazia e dalla forza
femminile oscurasse tutto il resto. Ma nell’epoca della post-letteratura queste
riflessioni sono inutili complicazioni, che allontanerebbero i lettori. La
risonanza della parola letteraria è un ostacolo da eliminare. Per lo stesso
motivo, la tradizione talmudica, che commenta all’infinito il testo sacro,
spingendosi perfino a ipotizzare l’assenza di Dio, o a disputare sul suo senso
di giustizia, è bandita del tutto. Appartiene a un’altra era, quella della
critica, dell’ermeneutica, che non esiste più.
L’ultima domanda che bisogna porsi, allora, è questa: si possono amare la
letteratura e la lettura senza amare e leggere la Bibbia? Rispondo con un
aneddoto che mi pare significativo. Il 10 agosto 1938 si tenne a Parigi il XV
Congresso psicoanalitico internazionale, poco prima dello scoppio della Seconda
guerra. La versione finale e completa dell’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e
la religione monoteistica era in tipografia in Olanda. Freud stesso, vecchio e
malato di cancro, in esilio a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali,
mandò al congresso parigino la figlia Anna perché lo rappresentasse leggendo
pubblicamente un brano della terza parte del libro, il capitolo intitolato «Il
progresso della spiritualità». Anna Freud lesse, dunque, le seguenti righe in
nome del padre:
> «Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il
> popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo
> si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli
> interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro
> nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro
> rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di
> Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di
> aprire a Jabneh la prima scuola della Torah. Da allora in poi furono la Sacra
> Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il
> popolo disperso».
La Bibbia ebraica è, direi, soprattutto questo: la «gemma preziosa» di un
«tesoro nascosto»: una letteratura che ha garantito l’identità e la
sopravvivenza di un popolo, nonostante la diaspora, le persecuzioni e i genocidi
subiti nella sua millenaria storia. Freud lo ricorda poco prima della Shoah,
come avvertimento o premonizione, chissà. La letteratura, la lettura profonda, i
grandi testi della tradizione, sono l’unica difesa che possiamo opporre alla
barbarie. Oggi come ieri. Ma forse è troppo tardi per ricordarlo. Quel tesoro
nascosto lo stiamo già perdendo.
Fabrizio Coscia
*I disegni in copertina e nell’articolo sono di Rembrandt; in copertina: “Cristo
crocefisso tra i ladroni”, 1653
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