
Dimenticare Nietzsche. Ovvero: sulla maledizione dei lettori abusivi
Pangea - Friday, June 27, 2025Idola theatri distrutti, metafisica abbattuta, morale «ritrovata» (che non si muta né in stoica, né in cinica), grazie a un’accurata scepsi danzante, antidoto al veleno di un pensare a livello del suolo: «a morte tutto ciò che non è vita», è il suono della lama del boia propagato pagina dopo pagina fra gli scritti di Nietzsche, lettore di Ermerson: righe pensate per essere remote, inavvicinabili come il sole, da guardare a distanza e con filtri potenti. Nulla ha resistito al zoroastriano assassinio del falso teoretico, etico ed estetico («sono un genio della verità»), e dell’insufficiente: neppure il dettato pessimistico dell’amato maestro Schopenhauer, incendiato e ripopolato dalla gaia saggezza, superato dalla più assoluta affermazione tragica. Si deve a Nietzsche persino la liberatoria dichiarazione di guerra «all’arcigno e squallido paganesimo germanico», così lontano da quello ricco e nobile antico.
Persino chi osserva rapidamente sa che esistono perlomeno tre Nietzsche: quello che è, quello che si vorrebbe che fosse, quello che è diventato. L’opera sua è la tipica immagine del banco di prova per intemerati adepti, a favore di troppi giochi e manie di scoperta. Questo fatto rende ogni «pronuncia» su Nietzsche (sommo divagatore e dispersore di tracce che voleva essere «sentito», come il vento, e non capito, eternamente a caccia dei suoi consanguinei) a rischio crollo. Se si prova a dire qualcosa bisogna fare i conti con montagne di ostacoli tutti collegati all’inespugnabilità cui aspirava e al dolore ghiacciato, colmo di generatività, che voleva infliggere al suo lettore.
Quali sono questi tremendi ostacoli? Non solo, per esempio, l’irreperibilità avanguardista del metodo, ma la fatica di braccare la volontà originaria della sua opera, una stanchezza moltiplicata da tutto il bagaglio di scontri, contraddizioni, clamori aneddotici, e ovviamente con le dovute necessità filologiche che nel suo caso vanno osservate con una sensibilità maggiore. Perché Nietzsche è, infatti, soprattutto un «caso», sia per la naturale inclinazione a disgregarsi incessantemente sia per la manipolazione fluviale che ha subìto. La morte di Elisabeth Nietzsche è stata una liberazione per gli studi, fatto epocale che ha consentito di osservare il materiale inedito con occhio meno partigiano, e finalmente si è potuto trattarlo con metodo critico-filologico invece che sindacale o elettorale. In questa attività si è distinto Karl Schlechta, il primo a indicare e dimostrare le manomissioni della sorella di Nietzsche, nel 1956. Schlechta ha chiarito definitivamente che non è mai esistita, neppure in nuce, un’opera sistematica dell’ultimo Nietzsche, e che la Volontà di potenza non è che una ovvia compilazione di frammenti tratti dai quaderni di appunti, approntata con scelte arbitrarie da mani che non erano quelle di Friedrich.
La messa a disposizione dell’intero lascito nietzscheano in versione filologicamente accettabile, depurato da tutti i gravi teppismi successivi, si deve a Montinari e Colli negli anni Sessanta, quindi davvero ‘tardi’: la loro edizione del pensiero di Nietzsche è il riferimento d’elezione per tutti gli studiosi che cercavano quel «Nietzsche dentro Nietzsche» a lungo nascosto. In generale, la letteratura su Nietzsche è sterminata, spesso di poco valore, e rappresenta più che altro una pubblicistica popolare affranta dal generalismo o sovraeccitata da equivoci e fanatismi. Nietzsche era in competizione aperta con la Storia, meritandosi la sua maledizione. E in alcuni momenti la Storia permette che affiori la propria ironia rendendosi manifesta a tutti: Wilde moribondo fra la più brutta carta da parati all’hotel Hôtel d’Alsace, Pascal sepolto in Rue Descartes e Nietzsche, ricoverato in clinica psichiatrica a Basilea, con la scheda anamnestica in cui si scrive che «è completamente pazzo».

Tanti aneddoti e almanacchi su Nietzsche, e alambicchi grotteschi per «capirlo» o estrarne temibili «contenuti». Tutti hanno avuto la sventura di avere lettori abusivi e commentatori della domenica, nessuno si è salvato, ma Nietzsche in particolare ha attirato la mancanza di pudore di tante «mosche del mercato», proprio lui che ha sempre volutamente «abitato le cime». Il paradosso della popolarità è beffa ma non danno: forse è vantaggioso che sia finita così, se mette in risalto «l’hypocrite lecteur». Chi, pur non avendo né arte né parte, si è negato la vanità e l’esaltazione di vanagloriarsi su Genealogia della morale, Zarathustra, Umano troppo umano? Come sempre, questo rimane un argomento di poca importanza, se è vero che la grandezza di un autore è incorrotta dai saccheggi. Ma fino allo stremo, va ribadito che Nietzsche, errante ed errato, è più indisponibile di altri a farsi sgretolare, a farsi «lavorare». Errante entro la sua stessa opera, ricercatore della Ricerca, un confine vivente e permanente fra eremita e viandante, immagine mitica della carta numero nove dei tarocchi marsigliesi. Errato per le confetture, per le rilegature, per farne attracco di tutti, ma specialmente errato par excellence perché non può essere «giusto» fino in fondo per nessuno, perché mai darà il risultato sperato. Non ci deve nulla, eccetto la libertà di dimenticarlo e farne memorandum per il pensiero e la vita, ma senza nostalgia e idolatria.
Che cos’è Nietzsche? Uno che ha lasciato le chiavi per tutti i malanni della medietà troppo umana, per proteggersi dall’assedio nichilista e da ogni intellettualità didattica. Una via per tutte le vie, la via dello spirito libero. Via che non può percorrersi, che deve essere superata già nell’atto di visualizzarla. Ma anche educatore senza pedagogia, maestro senza parole e «perverso polimorfo», per usare un freudismo. Esperto cacciatore della qualità dei sentimenti morali, spregiatore del moralismo quale scheda preordinata per attraversare la vita e i suoi dilemmi. Incluso il dilemma della Storia, che lui dissolve attraverso un antistoricismo elettrificato: si può essere contro la concezione hegeliana della Storia come il divenire di un’Idea, un moto continuo rettilineo uniforme, con una perenne sintesi dialettica degli opposti, cospirante a un fine ultimo.

Per capire Nietzsche, o meglio per vederlo, occorre probabilmente un esercizio maturo e flessibile del «confine», perché ogni suo intento e ogni suo pensiero, ogni sua scrittura – anche quando «a razzi», o furiosamente aforistica – sono una lunga meditazione che ha intrecciato la sua origine a quella di ogni possibile confine. Le linee divisorie sono il suo cruccio e diletto, è lì che può esistere ogni vera intuizione sulla realtà e sulla coscienza. Confine nietzscheano, che distingue esterno ed interno, ma consente uno scambio. Delimita e consente il transito fra identità e differenza. La virtù del confine è la porosità, è tale solo se è poroso: la sua capacità di rendere possibile transizione e scambio. Nietzsche metta in guardia sul pericolo che esso possa «ammalarsi», indurirsi, ingessarsi, diventare luogo di presidio militare, mutare in cancerosa sclerosi: patologia del confine è perdita di porosità, che apre al fantasma schizoide della contaminazione estranea. Ma se «ognuno è a sé stesso il più lontano», dunque il primo estraneo che incontra, questi rischia la vita in tale fraintendimento. Estraneo è in primo luogo il soggetto a sé medesimo se è sordo al vero che lo abita, ipoacusia letale alla sua individuazione. Fare massacro con l’ombra di sé, per conoscerla e superarla, rimanendo però fra gli abissi: per essere finalmente non più arcaici, ma Antichi. Attrito sanguinario, ma inevitabile ai passaggi ulteriori di liberazione, sensuale «maturazione» (Nietzsche parla di «succosità, dolcezza, sapore pieno» di sé»), definizione. Si descriveva così: «sono un vento del Settentrione per fichi maturi…». Un invito ad abbandonare la «nave», inventandosi da zero e a spese proprie un mezzo di navigazione inedito. Spacciato di certo chi non lo farà, «in nome di una nobilitazione dell’obbedienza alla giustificazione dell’intera quotidianità, per avere in cambio una pace del cuore rozza»: ecco gli «uomini del mercato» e il loro ghigno, gonfaloni «dell’intera bassezza, dell’intera semibestiale miseria della loro anima».
Forse inesistente un modo per comprendere Nietzsche se non quello di esserne prescelti tramite divertita, misteriosa, congiuntura oltre lo spazio e il tempo. Un indizio su «come fare», potrebbe averlo regalato quando ha nascosto il suo ritratto nella frase «un sì, un no, una linea retta, una meta…».
Rubina Mendola
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Zarathustra 25 | SULLE ISOLE FELICI
I fichi cadono dall’albero; essi sono buoni e dolci; e mentre cadono la lor buccia rosea si fende. Io sono un vento del nord per i fichi maturi. Così, come fichi, a voi giungano le mie dottrine, amici: ora gustatene il succo e la polpa soave! È autunno d’intorno, e puro il cielo, e pomeriggio. Guardate quanta abbondanza ne circonda! E in mezzo all’abbondanza è bello spingere lo sguardo verso mari lontani. Ma le migliori parabole devono parlare del tempo e del divenire: essere una lode e una giustificazione di tutto ciò che perisce! Creare – ecco la grande redenzione dai dolori e il conforto della vita. Ma perché esista il creatore occorrono molte sofferenze e molte trasformazioni. Sì, molto amaro morire ci deve essere nella vita vostra, o creatori! Sareste così gli assertori e i giustificatori di tutto ciò ch’è caduco […] In verità, feci la mia strada attraverso cento anime e cento culle e cento dolori del parto. Mi son congedato molte volte, e conosco le ultime ore che spezzano il cuore. Ma così impone la mia volontà creatrice, la mia sorte. Oppure, perché più franco vi parli: appunto questo destino vuole la mia volontà. Tutti i miei sentimenti soffrono in me e son prigionieri: ma il mio volere giunge sempre liberatore e messaggero di gioia. Il volere redime: ecco la vera dottrina della volontà e della libertà – è così che Zarathustra v’insegna.
*In copertina: Max Klinger, Il filosofo, 1898-1910
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