Idola theatri distrutti, metafisica abbattuta, morale «ritrovata» (che non si
muta né in stoica, né in cinica), grazie a un’accurata scepsi danzante, antidoto
al veleno di un pensare a livello del suolo: «a morte tutto ciò che non è vita»,
è il suono della lama del boia propagato pagina dopo pagina fra gli scritti di
Nietzsche, lettore di Ermerson: righe pensate per essere remote, inavvicinabili
come il sole, da guardare a distanza e con filtri potenti. Nulla ha resistito al
zoroastriano assassinio del falso teoretico, etico ed estetico («sono un genio
della verità»), e dell’insufficiente: neppure il dettato pessimistico dell’amato
maestro Schopenhauer, incendiato e ripopolato dalla gaia saggezza, superato
dalla più assoluta affermazione tragica. Si deve a Nietzsche persino la
liberatoria dichiarazione di guerra «all’arcigno e squallido paganesimo
germanico», così lontano da quello ricco e nobile antico.
Persino chi osserva rapidamente sa che esistono perlomeno tre Nietzsche: quello
che è, quello che si vorrebbe che fosse, quello che è diventato. L’opera sua è
la tipica immagine del banco di prova per intemerati adepti, a favore di troppi
giochi e manie di scoperta. Questo fatto rende ogni «pronuncia» su Nietzsche
(sommo divagatore e dispersore di tracce che voleva essere «sentito», come il
vento, e non capito, eternamente a caccia dei suoi consanguinei) a rischio
crollo. Se si prova a dire qualcosa bisogna fare i conti con montagne di
ostacoli tutti collegati all’inespugnabilità cui aspirava e al dolore
ghiacciato, colmo di generatività, che voleva infliggere al suo lettore.
Quali sono questi tremendi ostacoli? Non solo, per esempio, l’irreperibilità
avanguardista del metodo, ma la fatica di braccare la volontà originaria della
sua opera, una stanchezza moltiplicata da tutto il bagaglio di scontri,
contraddizioni, clamori aneddotici, e ovviamente con le dovute necessità
filologiche che nel suo caso vanno osservate con una sensibilità
maggiore. Perché Nietzsche è, infatti, soprattutto un «caso», sia per la
naturale inclinazione a disgregarsi incessantemente sia per la manipolazione
fluviale che ha subìto. La morte di Elisabeth Nietzsche è stata una liberazione
per gli studi, fatto epocale che ha consentito di osservare il materiale inedito
con occhio meno partigiano, e finalmente si è potuto trattarlo con metodo
critico-filologico invece che sindacale o elettorale. In questa attività si è
distinto Karl Schlechta, il primo a indicare e dimostrare le manomissioni della
sorella di Nietzsche, nel 1956. Schlechta ha chiarito definitivamente che non è
mai esistita, neppure in nuce, un’opera sistematica dell’ultimo Nietzsche, e che
la Volontà di potenza non è che una ovvia compilazione di frammenti tratti dai
quaderni di appunti, approntata con scelte arbitrarie da mani che non erano
quelle di Friedrich.
La messa a disposizione dell’intero lascito nietzscheano in versione
filologicamente accettabile, depurato da tutti i gravi teppismi successivi, si
deve a Montinari e Colli negli anni Sessanta, quindi davvero ‘tardi’: la loro
edizione del pensiero di Nietzsche è il riferimento d’elezione per tutti gli
studiosi che cercavano quel «Nietzsche dentro Nietzsche» a lungo nascosto. In
generale, la letteratura su Nietzsche è sterminata, spesso di poco valore, e
rappresenta più che altro una pubblicistica popolare affranta dal generalismo o
sovraeccitata da equivoci e fanatismi. Nietzsche era in competizione aperta con
la Storia, meritandosi la sua maledizione. E in alcuni momenti la Storia
permette che affiori la propria ironia rendendosi manifesta a tutti: Wilde
moribondo fra la più brutta carta da parati all’hotel Hôtel d’Alsace, Pascal
sepolto in Rue Descartes e Nietzsche, ricoverato in clinica psichiatrica a
Basilea, con la scheda anamnestica in cui si scrive che «è completamente
pazzo».
Tanti aneddoti e almanacchi su Nietzsche, e alambicchi grotteschi per «capirlo»
o estrarne temibili «contenuti». Tutti hanno avuto la sventura di avere lettori
abusivi e commentatori della domenica, nessuno si è salvato, ma Nietzsche in
particolare ha attirato la mancanza di pudore di tante «mosche del mercato»,
proprio lui che ha sempre volutamente «abitato le cime». Il paradosso della
popolarità è beffa ma non danno: forse è vantaggioso che sia finita così, se
mette in risalto «l’hypocrite lecteur». Chi, pur non avendo né arte né parte, si
è negato la vanità e l’esaltazione di vanagloriarsi su Genealogia della
morale, Zarathustra, Umano troppo umano? Come sempre, questo rimane un argomento
di poca importanza, se è vero che la grandezza di un autore è incorrotta dai
saccheggi. Ma fino allo stremo, va ribadito che Nietzsche, errante ed errato, è
più indisponibile di altri a farsi sgretolare, a farsi «lavorare». Errante entro
la sua stessa opera, ricercatore della Ricerca, un confine vivente e permanente
fra eremita e viandante, immagine mitica della carta numero nove dei tarocchi
marsigliesi. Errato per le confetture, per le rilegature, per farne attracco di
tutti, ma specialmente errato par excellence perché non può essere «giusto» fino
in fondo per nessuno, perché mai darà il risultato sperato. Non ci deve nulla,
eccetto la libertà di dimenticarlo e farne memorandum per il pensiero e la vita,
ma senza nostalgia e idolatria.
Che cos’è Nietzsche? Uno che ha lasciato le chiavi per tutti i malanni della
medietà troppo umana, per proteggersi dall’assedio nichilista e da ogni
intellettualità didattica. Una via per tutte le vie, la via dello spirito
libero. Via che non può percorrersi, che deve essere superata già nell’atto di
visualizzarla. Ma anche educatore senza pedagogia, maestro senza parole e
«perverso polimorfo», per usare un freudismo. Esperto cacciatore della qualità
dei sentimenti morali, spregiatore del moralismo quale scheda preordinata per
attraversare la vita e i suoi dilemmi. Incluso il dilemma della Storia, che lui
dissolve attraverso un antistoricismo elettrificato: si può essere contro la
concezione hegeliana della Storia come il divenire di un’Idea, un moto continuo
rettilineo uniforme, con una perenne sintesi dialettica degli opposti,
cospirante a un fine ultimo.
Per capire Nietzsche, o meglio per vederlo, occorre probabilmente un esercizio
maturo e flessibile del «confine», perché ogni suo intento e ogni suo pensiero,
ogni sua scrittura – anche quando «a razzi», o furiosamente aforistica – sono
una lunga meditazione che ha intrecciato la sua origine a quella di ogni
possibile confine. Le linee divisorie sono il suo cruccio e diletto, è lì che
può esistere ogni vera intuizione sulla realtà e sulla coscienza. Confine
nietzscheano, che distingue esterno ed interno, ma consente uno scambio.
Delimita e consente il transito fra identità e differenza. La virtù del confine
è la porosità, è tale solo se è poroso: la sua capacità di rendere possibile
transizione e scambio. Nietzsche metta in guardia sul pericolo che esso possa
«ammalarsi», indurirsi, ingessarsi, diventare luogo di presidio militare, mutare
in cancerosa sclerosi: patologia del confine è perdita di porosità, che apre al
fantasma schizoide della contaminazione estranea. Ma se «ognuno è a sé stesso il
più lontano», dunque il primo estraneo che incontra, questi rischia la vita in
tale fraintendimento. Estraneo è in primo luogo il soggetto a sé medesimo se è
sordo al vero che lo abita, ipoacusia letale alla sua individuazione. Fare
massacro con l’ombra di sé, per conoscerla e superarla, rimanendo però fra gli
abissi: per essere finalmente non più arcaici, ma Antichi. Attrito sanguinario,
ma inevitabile ai passaggi ulteriori di liberazione, sensuale «maturazione»
(Nietzsche parla di «succosità, dolcezza, sapore pieno» di sé»), definizione. Si
descriveva così: «sono un vento del Settentrione per fichi maturi…». Un invito
ad abbandonare la «nave», inventandosi da zero e a spese proprie un mezzo di
navigazione inedito. Spacciato di certo chi non lo farà, «in nome di una
nobilitazione dell’obbedienza alla giustificazione dell’intera quotidianità, per
avere in cambio una pace del cuore rozza»: ecco gli «uomini del mercato» e il
loro ghigno, gonfaloni «dell’intera bassezza, dell’intera semibestiale miseria
della loro anima».
Forse inesistente un modo per comprendere Nietzsche se non quello di esserne
prescelti tramite divertita, misteriosa, congiuntura oltre lo spazio e il tempo.
Un indizio su «come fare», potrebbe averlo regalato quando ha nascosto il suo
ritratto nella frase «un sì, un no, una linea retta, una meta…».
Rubina Mendola
***
Zarathustra 25 | SULLE ISOLE FELICI
I fichi cadono dall’albero; essi sono buoni e dolci; e mentre cadono la lor
buccia rosea si fende. Io sono un vento del nord per i fichi maturi. Così, come
fichi, a voi giungano le mie dottrine, amici: ora gustatene il succo e la polpa
soave! È autunno d’intorno, e puro il cielo, e pomeriggio. Guardate quanta
abbondanza ne circonda! E in mezzo all’abbondanza è bello spingere lo sguardo
verso mari lontani. Ma le migliori parabole devono parlare del tempo e del
divenire: essere una lode e una giustificazione di tutto ciò che perisce! Creare
– ecco la grande redenzione dai dolori e il conforto della vita. Ma perché
esista il creatore occorrono molte sofferenze e molte trasformazioni. Sì, molto
amaro morire ci deve essere nella vita vostra, o creatori! Sareste così gli
assertori e i giustificatori di tutto ciò ch’è caduco […] In verità, feci la mia
strada attraverso cento anime e cento culle e cento dolori del parto. Mi son
congedato molte volte, e conosco le ultime ore che spezzano il cuore. Ma così
impone la mia volontà creatrice, la mia sorte. Oppure, perché più franco vi
parli: appunto questo destino vuole la mia volontà. Tutti i miei sentimenti
soffrono in me e son prigionieri: ma il mio volere giunge sempre liberatore e
messaggero di gioia. Il volere redime: ecco la vera dottrina della volontà e
della libertà – è così che Zarathustra v’insegna.
*In copertina: Max Klinger, Il filosofo, 1898-1910
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La riflessione filosofica sull’esperienza religiosa ha da sempre navigato
attraverso acque turbolente, tra le onde dell’impossibilità di rappresentare il
divino ed il desiderio umano di avvicinarsi ad esso. La tensione tra l’idolo e
la distanza, tra il desiderio di cogliere l’Essere assoluto e l’incapacità di
ridurre il divino ad una figura riconoscibile e domestica, è una delle
problematiche più acute della filosofia teologica e fenomenologica. Questa
distanza, non solo ontologica, ma anche etica ed esistenziale, solleva
interrogativi che attraversano secoli di pensiero.
La filosofia dell’idolo è, per così dire, una filosofia della rappresentazione,
ma non una rappresentazione che possa mai colmare l’abisso che separa il finito
dall’infinito. L’idolo, nel suo significato originario, rappresenta una
proiezione umana del divino, un tentativo di incarnare l’immensurabile in forme
finite. Questa rappresentazione, pur sembrando un accostamento possibile, è,
paradossalmente, la negazione stessa del divino: l’idolo è insieme la verità e
la sua distorsione, la vicinanza e la separazione. La fenomenologia dell’idolo
non può prescindere dalla consapevolezza di un abisso che lo separa dalla
divinità autentica. Da una parte, l’idolo si presenta come il tentativo di
incarnare il trascendente nel finito, dall’altra come il segno di un fallimento
incolmabile, come un simbolo che riduce l’infinito a un’immagine mortale.
La filosofia kantiana, nel suo rigore critico, aveva già messo in luce
l’impossibilità di una rappresentazione adeguata del divino: ciò che è veramente
divino sfugge inesorabilmente alle maglie della comprensione umana. La nozione
di “cosa in sé” esprime una realtà che, pur manifestandosi fenomenicamente,
rimane incognita ed inconoscibile. Non possiamo ridurre Dio ad una
rappresentazione sensibile, né interpretare la sua essenza con le categorie
dell’esperienza. L’idolo, in questo senso, si fa segno di una distanza
irrimediabile, di una separazione ontologica che fa del divino l’oggetto di una
contemplazione che è sempre, al contempo, una perdita di contatto con il divino
stesso. In Kierkegaard, questo abisso tra l’umano ed il divino si esprime
attraverso il concetto di “salto della fede”. La religiosità, per Kierkegaard,
non è una forma di conoscenza oggettiva, ma un atto di fede che sfida ogni forma
di rappresentazione, ponendo l’individuo di fronte ad una divinità che, pur
rivelandosi nella sua alterità, rimane sempre fuori dalla portata della
comprensione. La fede non è un atto di possesso del divino, ma un atto di
abbandono, di apertura ad un mistero che trascende ogni possibilità di idolo,
ogni tentativo di ridurre l’infinito ad una figura conoscibile. Nel momento in
cui il divino viene sottratto alle categorie ontologiche tradizionali, la
domanda su Dio si sposta dal piano dell’essere a quello dell’alterità assoluta.
La filosofia contemporanea, a partire da Heidegger, si è confrontata con la
necessità di pensare Dio non come un essere, ma come un’alterità che sfida ogni
definizione ontologica. Per Heidegger, l’essere stesso non è Dio, ma la sua
“abbandonata” manifestazione; eppure, proprio questa lontananza dell’essere
diventa il terreno di un’interrogazione che resta sempre aperta e
inassoluta. Dio, in questo quadro, non è un essere, ma un oltre, un’apertura che
non può essere colta se non come un’assenza. L’essere stesso è “vuoto” rispetto
alla presenza del divino, e in questa “assenza” risiede la possibilità del
divino di farsi presente, ma sempre sfuggendo alla piena conoscenza.
La fenomenologia dell’eccesso, che pervade la riflessione sul divino, trova una
delle sue espressioni più potenti in Emmanuel Levinas. Per Levinas, Dio è
l’alterità per eccellenza, l’ineffabile che si manifesta nel volto
dell’altro. L’incontro con l’altro, per Levinas, non è mai un semplice incontro
con una realtà finita, ma l’esperienza di un’infinità che sfida ogni pretesa di
riduzione a concetti finiti. Dio, dunque, non è mai un essere tra gli esseri, ma
l’appello che giunge dall’alterità assoluta, dalla distanza che non può mai
essere colmata. In questa prospettiva, la filosofia di Levinas non solo sottrae
Dio alla rappresentazione, ma lo colloca al di là dell’essere, in un ordine che
non può essere messo a sistema, ma che è continuamente esperito come un eccesso
che infrange ogni tentativo di ridurre la realtà ad un oggetto conoscibile. Se
Dio non è riducibile all’essere, se l’idolo ne distorce l’immagine, e se la sua
manifestazione sfugge alle maglie della rappresentazione, allora la
fenomenologia del divino diventa una fenomenologia dell’eccesso. Il divino si dà
non come un concetto, ma come un oltre che irrompe nell’esistenza in una forma
che non può essere afferrata, ma solo vissuta come una tensione, un’aspirazione
che resta sempre inappagata. L’esperienza del divino, in questa luce, non è una
conoscenza, bensì un incontro con l’inconoscibile che ci sfida ad abbandonare
ogni pretesa di dominio. Così come il volto dell’altro ci sollecita a una
responsabilità che non può essere risolta in una semplice rappresentazione, Dio
si fa esperienza di un’infinità che ci solleva e ci sospende.
Anche Nietzsche, nel suo pensiero sulla morte di Dio, non intende un
annientamento del divino, ma un superamento delle metafisiche che hanno ridotto
il divino ad un’entità da comprendere e dominare. La morte di Dio, per
Nietzsche, non è la fine del divino, ma la fine di un concetto di divinità che
poteva essere compreso e ordinato. Dio, nell’ordine della volontà di potenza, è
il segno di un oltre che non può essere trattenuto da alcuna rappresentazione,
un’espressione di una forza che travalica ogni limitazione. La fenomenologia del
divino si presenta come un’esperienza di tensione e distanza, in cui l’idolo,
pur avvicinando l’uomo al divino, ne tradisce l’essenza. L’idolo è la forma che
il divino assume nel tentativo di essere afferrato dal finito, ma è anche il
segno di una separazione che lo rende irriducibile a ogni figura e
rappresentazione. Il divino, nell’alternativa proposta dalla fenomenologia
dell’eccesso, non è un essere, ma un’alterità che si fa presente solo
nell’inaccessibilità, solo nella distanza che resta. Non c’è concetto che possa
contenere Dio, non c’è rappresentazione che possa esaurirlo. Solo l’esperienza
di un incontro con l’infinito ci permette di avvicinarci al mistero, senza mai
riuscire a comprenderlo appieno. Eppure, proprio in questa impossibilità di
possederlo, il divino si rende manifestamente presente come l’oltre che ci
interpella senza risposte definitive, come un’eccedenza che sfida ogni tentativo
di riduzione all’essere.
Jean-Luc Marion, nel suo Dio senza l’essere (Dieu sans l’être, 1982), si propone
di superare la tradizione ontoteologica che ha caratterizzato il pensiero
occidentale, in particolare a partire dalla scolastica e dalla sintesi
heideggeriana della metafisica. La tesi fondamentale dell’opera è che Dio non
possa essere costretto entro le maglie del concetto di essere, poiché
quest’ultimo è un determinante filosofico che riduce la trascendenza alla misura
del pensiero umano. In questo senso, Marion si inserisce in un solco di critica
radicale alla metafisica occidentale, riprendendo e rielaborando le intuizioni
di pensatori quali Heidegger, Derrida e, ancor più, la tradizione teologica
negativa che da Pseudo-Dionigi l’Areopagita arriva fino a Meister Eckhart.
Marion accoglie la diagnosi di Heidegger sull’ontoteologia, secondo cui la
metafisica occidentale ha sempre pensato Dio a partire dall’essere,
trasformandolo in summum ens, cioè in un ente supremo, anziché lasciarlo nella
sua irriducibile alterità. In tal senso, il Deus ens della tradizione tomista e
scolastica è per Marion una forma di idolatria concettuale, poiché costringe Dio
entro categorie umane. Tuttavia, mentre Heidegger suggeriva un Gelassenheit, un
lasciar-essere che aprisse all’evento della verità dell’essere, Marion sposta il
centro dell’attenzione su un altro concetto: il dono. Come scrive:
> «L’essere non ha titolo sufficiente per pensare Dio, e dunque deve essere
> decostruito a favore di un pensiero dell’eccedenza».
Questo lo pone in contrasto con l’ermeneutica heideggeriana, che pur
individuando la problematica dell’ontoteologia, non riesce a liberarsi del
primato dell’essere. Dio non si definisce in base all’essere, bensì in base al
dono assoluto, un’eccedenza che non può essere ricondotta ad una logica
ontologica. Qui, Marion introduce il concetto chiave del fenomeno saturo, cioè
un fenomeno che si manifesta in eccesso rispetto alla capacità del soggetto di
accoglierlo e comprenderlo. L’evento rivelativo divino è esattamente questo:
qualcosa che si dona senza misura, oltrepassando la possibilità di essere
oggettivato. Egli scrive:
> «Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve, e nel donarsi eccede ogni
> concettualizzazione».
Questo concetto richiama la surabondance di Henri de Lubac e il pensiero di
Emmanuel Levinas, il quale afferma che «l’Altro si presenta come ciò che non può
essere ridotto a un concetto» (Levinas, 1961). Tuttavia, mentre per Levinas il
volto dell’Altro è l’accesso etico alla trascendenza, per Marion il dono divino
è un’eccessività che si manifesta senza condizioni.
Uno dei momenti più densi del testo riguarda la distinzione tra idolo e icona,
già centrale in L’idole et la distance (1977). L’idolo è l’immagine che chiude
lo sguardo su di sé, che permette all’uomo di contenere il divino nel proprio
orizzonte. L’icona, al contrario, è ciò che si sottrae allo sguardo, che invita
lo sguardo umano a oltrepassarsi, a non esaurirsi nella rappresentazione. Dio,
nel suo rivelarsi, non è un idolo concettuale, ma un’icona che lascia
intravedere un’eccessività irriducibile:
> «L’icona non è ciò che noi vediamo, ma ciò che ci guarda».
Questa distinzione si rivela decisiva nel contesto della teologia negativa,
poiché sposta l’accento dalla definizione di Dio alla sua fenomenalità come
rivelazione eccedente. Se l’idolo è un riflesso che il soggetto controlla,
l’icona è il punto in cui il soggetto si scopre guardato:
> «Nell’icona, non siamo noi a vedere, ma siamo visti».
Questo si ricollega alla mistica cristiana, dove la contemplazione non è il
raggiungimento di Dio, ma il lasciarsi invadere dalla sua presenza. Non
sorprende che il pensiero marioniano trovi assonanze profonde con la tradizione
mistica cristiana. La sua critica all’essere è, in un certo senso, un recupero
della via negativa che attraversa Pseudo-Dionigi, Maestro Eckhart e persino la
mistica carmelitana di Giovanni della Croce. Dio non è colto nell’essere, ma
nell’esperienza del suo donarsi, un’esperienza che rimane sempre sovrabbondante
rispetto alle nostre categorie. Come scrive Pseudo-Dionigi:
> «Dio è più alto di ogni affermazione e più nascosto di ogni negazione».
>
> (De Mystica Theologia)
Questo si sposa perfettamente con la nozione di fenomeno saturo di Marion, che
indica una rivelazione che eccede ogni presa concettuale.
In Dio senza l’essere, Marion ci offre un pensiero radicale e vertiginoso, che
tenta di liberare la riflessione su Dio da ogni compromissione con la
metafisica. L’uscita dall’ontoteologia non è solo un gesto decostruttivo, ma
l’apertura a una nuova possibilità di pensare la trascendenza: non come essere
supremo, ma come dono infinito. Questa prospettiva lo distingue da altri
pensatori della decostruzione del divino come Derrida, per il quale il concetto
di différance lascia Dio in una sospensione incessante. Marion, invece, va oltre
la sospensione e si inoltra nell’esperienza di una rivelazione che si dona in
sovrabbondanza. In questo, il pensiero di Marion rappresenta una delle sfide più
affascinanti e audaci della filosofia contemporanea, tracciando un percorso che
collega fenomenologia, teologia negativa e mistica in un dialogo fecondo.
Giusy Capone
*In copertina: Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432,
particolare
L'articolo “Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve”. Per una
fenomenologia dell’eccedenza proviene da Pangea.