Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore

Pangea - Wednesday, July 2, 2025

Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo.

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Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère.

Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine, quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista.

Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e ideologici.

La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi.

Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore.

Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo.

Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La trasmigrazione di Timothy Archer.

Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori.

La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick… strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio 1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi.

I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli Oscar.

In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione ricicla testi già in circolazione.

Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore.

Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce.

Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi, diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la successione apostolica» (pp. 3012-3013).

Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale: dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco.

Andiamo avanti.

Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale, sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed entrambe ne sconsigliano la lettura.

Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di «eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano, cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo, dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa ignoranza.

Non è finita.

La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P.

Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e «gnosticismo».

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Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile.

Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029) invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e fantascientifici».

Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede cattolica».

C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien, e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien, comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo, questi optò altrimenti.

Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi. 

Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica mondiale.

Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro?

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Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso. Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis, meritevole di ben altra considerazione.

Il resultato però è sviante.

Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori: «L’Impero non è mai cessato».

L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo unirci alla voce di Philip Kindred Dick.

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Poscritto

A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana.

All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume, d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile), una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune delle minchiate eternate nel prezioso volume.

Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore, ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver “disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di quell’oscuro molestatore.

L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile tomo.

Andò invece diversamente.

Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole, glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli». Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….». «Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato, «Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre dire altro».

Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento della linea telefonica.

Luca Bistolfi

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