È recentemente apparsa un’antologia che segna uno spartiacque nel mondo della
letteratura e degli studi iranistici italiani. Sino ad ora, dell’Iran si aveva
un’immagine perlopiù fuorviata, o da rappresentazioni che ne enfatizzavano le
antiche memorie di sfarzosi sultani e fiabesche notti arabe o da reportages di
impronta giornalistica, fissatisi negli ultimi anni soltanto sulla drammatica
situazione politica del Paese.
Da un punto di vista letterario, dal Settecento in poi, grande attenzione
traduttiva è stata riservata alla Persia, basti ricordare l’amore goethiano per
Hāfez, le pregevoli versioni europee di Rumi e ‘Attār, Sā‘di e Firdusi, fino
alla secolare fortuna di un classico dei classici della poesia universale quale
Omar Khayyām. Tale lascito ha senz’altro posto la letteratura classica persiana
nell’olimpo delle grandi imprese di traduzione moderna, portando l’iranistica a
esiti raffinatissimi a discapito di qualsivoglia incursione nei suoi più recenti
sviluppi. Mi riferisco alla smisurata quantità di imprescindibili autori
iraniani vissuti tra XIX e XX secolo del tutto ignorati dall’accademia
occidentale, consegnati a impietoso oblio, lo stesso incrementato dalla
narrazione politica e massmediatica internazionale ideologicamente impegnata,
dal 1979 in poi, a far emergere solo alcuni aspetti – soprattutto politici ed
economici – della multisfaccettata e particolarmente feconda cultura dell’Iran.
Con Poeti iraniani (Mondadori, 2024) scopriamo invece un Paese dove la poesia
rappresenta ancor oggi il linguaggio identitario di un popolo desideroso di
raccontarsi in ogni aspetto, esistenziale e filosofico. Il volume è curato da
Faezeh Mardani che della letteratura persiana contemporanea è tra le massime
esperte non solo in Italia, e compendia le dodici più emblematiche voci della
poesia, presentate secondo un criterio diacronico in un’ottica riassuntiva anche
degli enormi mutamenti sociopolitici del Novecento iraniano. Si parte da Nimā
Yushij, padre della Poesia nuova nonché primo autore che nel 1921 aprì al verso
libero e ai temi del modernismo simbolista, per arrivare ad Ahmad Shāmlu,
poeta-profeta la cui opera di magmatico impegno civile galoppa per tutto il
secolo breve innalzando monumentali mausolei di carta, passando per Mehdi
Akhavān Sāles, nostalgico aedo delle attuali rovine persuaso del potere
salvifico delle fonti preislamiche, sino alle voci più conosciute nel mondo
occidentale come Forugh Farrokhzād, la poetessa del peccato che negli anni
Sessanta osò per prima pubblicare versi di spregiudicata femminilità in
opposizione a una cultura maschilista e retrograda, o Sohrāb Sepehri, vero
mistico sufi interessato alla pittura e alle vie esoteriche orientali. Da questa
prima generazione di poeti – non a torto definiti “colonne della Poesia nuova” –
si giunge poi a una seconda ondata, toccata invece da istanze
neoavanguardistiche e antiletterarie. Abbiamo qui Bijan Jalāli, autore di densi
frammenti lirici dal registro colloquiale ma profondo valore
sapienziale, Yadollāh Royāi, maestro della Nouvelle vague letteraria iraniana e
di uno sperimentalismo linguistico mai privo di pathos e autenticità, Mohammad
Reza Shafiei Kadkani, prodigioso conoscitore dell’eredità lirica persiana i cui
lacerti d’oro interseca a versi carichi di disincanto e dissenso per l’oggi,
fino a Seyyed ‘Ali Sālehi, decano della Poesia parlata che nei suoi testi
inaugura un connubio tra linguaggio popolare e mistico. L’antologia si chiude
con le firme ad oggi più amate e lette: Ziyā’ Movahhed, poeta-filosofo
insuperabile nell’intrecciare riflessioni metafisiche a lampi e intuizioni di
gusto impressionista, Abbās Kiārostami, artista abilissimo nel tratteggiare il
proprio visionario orizzonte interiore tramite fulminei fotogrammi-haiku, e
infine Garous Abdolmalekiān, poeta poco più che quarantenne ma già affermato e
celebrato, firma di diverse opere dove un ispirato afflato lirico si interseca a
una dolente e impetuosa denuncia civile.
Insomma, una caleidoscopica rassegna volta a far scoprire ai lettori italiani lo
scrigno dei tesori poetici dell’Iran contemporaneo e altresì il particolare
sentimento che unisce il Paese alla poesia, a tutti i livelli. Nell’introduzione
dei suoi Canti azzurri (2010), Ziyā’ Movahhed spiega così la propria ragione
poetica:
> «Il regno della poesia è totalmente diverso dal territorio della prosa. La
> poesia è dire l’indicibile… Vi siete mai chiesti perché gli uccelli mentre
> volano e saltano da un ramo all’altro cantano? Non potrebbero saltare e volare
> senza cantare? Avete mai sentito il canto degli uccelli sui rami al mattino
> presto? Cos’è che li fa cantare? Quale bisogno è appagato dal canto? Non
> basterebbe solo volare? La poesia è la forma più alta del piacere e di quella
> libertà che allontana ansia e paura. È la voce della protesta che può
> esprimere l’ineffabile. E, infine, è il canto degli uomini, il canto
> dell’anima, il canto cui aspira il nostro spirito».
In tale passaggio di Movahhed si precisano le due direttive su cui scorre tanto
la letteratura persiana contemporanea quanto il sentire profondo che lega il
popolo iraniano alla poesia, considerata all’unisono voce della protesta e canto
dello spirito. Per quanto riguarda la cifra di dissenso e impegno civile, ne è
da sempre il principale canale, essendo la figura del poeta ancora socialmente
centrale in Iran come testimone della storia di un intero popolo cui è stata
privata la libertà ma non il fermento culturale, il senso profondo di
appartenenza a una millenaria tradizione di arte, musica, cultura e, appunto,
scrittura poetica. Non è un caso che quand’anche si tinga di furia e ribellione,
la poesia persiana suole comunque vestirsi di una singolare, epica solennità,
osservando una radicata fiducia e riverenza verso la parola, ritenuta sacra.
Ed ecco arrivati alla ancestrale tensione metafisica che seguita a perdurare e
ardere nella poesia persiana dal Novecento a oggi. Sebbene il più giovane tra
gli antologizzati, Garous Abdolmalekiān, scriva «La poesia non è poesia/ se non
è manciate, manciate, manciate, / se non è sassi, sassi, sassi,/ se non è…», la
ricerca che sembra impregnarne i versi discende dalla stessa tradizione
neoplatonica avente come primario interesse la vita e la cura dell’anima: fuoco,
cardine di una nuova generazione di poeti che, pur essendosi distaccati dalle
forme metriche della maestosa civiltà letteraria del passato, continuano a
diffonderne, con picchi di assoluta creatività sperimentale, l’intenso portato
filosofico e teosofico. Da qui la plenaria attenzione riservata al fragile e
dissacrato universo della parola, intesa sempre quale alata messaggera
dell’ispirazione, bussola che orienta a invisibili mondi.
Sohrāb Sepehri (1928-1980)
«Ci siamo svegliati all’alba/ ci siamo sciacquati la faccia/ abbiamo lavato le
mani/ ma non/ le parole. […] Possa Dio redimerci l’anima / per averle lasciate
così sporche» scrive Ziyā’ Movahhed. E così, di rimbalzo, Shafiei Kadkani: «In
principio era la parola e la parola era sola/ e la parola era bella./ Bacio,
pane e sguardo di colomba era./ Dalle dita di Salomone, il demone/ sfilò la
gemma del sapere e della bellezza./ Fece magie quel perfido vecchio/ e la parola
(il mistero decretato) divenne sterile e inerme.// O tu, principio,/ rovina,
sommità, abisso,/ o tu, cantore dell’esistenza, scintilla d’ogni verso e poema/
ridona alla parola, un’altra volta,/ quell’eterno splendore, gioia e lucore,/
equità e sapienza./ Ridona alla parola quell’arcana magnificenza,/ amen!/ La
purezza del primo giorno ancora,/ amen!». Come si può notare, l’inchiostro in
cui i nostri poeti intingono la loro penna è lo stesso dei mistici del passato,
consci, secondo la prescrizione coranica, dei pericoli conseguenti a un
esercizio bulimico e retorico della parola strappata alla sua primordiale e
ineffabile lucentezza, al suo uso oculato e allegorico. Esemplare, in tal senso,
un passo del sufi Jāmi:
> «Meglio è per il derviscio celare le sciagure
> e per l’innamorato usare l’intelletto:
> poiché le parole sono un velo sul volto dell’Amico
> migliore di qualsiasi discorso è il silenzio.
>
> Tu, preso da continua brama di parlare,
> se sei saggio sappiti misurare.
> Né svelare potrai i segreti dell’Essere,
> perla che nemmeno il diamante della parola trafigge.
> Sopra brutto e bello tira una riga
> tira il velo che occulta il nascosto Splendore:
> i piedi nella veste, la testa sul petto ritrai:
> non fuor di te abita la luce di Quella bellezza».
Se è nell’oscuro oceano dell’umana e cosmica interiorità ad annidarsi la luce
divina, i poeti iraniani cercano ancor oggi di preservarne l’abissale vertigine
verbale eleggendo la poesia a unico linguaggio capace di esprimere la suprema
essenza della vita, attraverso i movimenti e le accensioni di un iridescente,
magico dettato: «O sermone dell’acqua/ vergato su metalliche tavolette marine/
magari in questa greve eloquenza d’indaco/ fosse il mio corpo una dolce
pronuncia d’acqua!» invoca a tal proposito Royāi. Del resto, ricordando
l’appellativo ladri di fuoco assegnato ai poeti occidentali da Rimbaud, già
Giuseppe Conte parlò di loro come eredi dell’acqua, adoratori delle antiche
sorgenti sapienziali dell’umanità, mai così necessari per tutti noi. «Ho parole
da vedere, annusare, toccare/ e non da spiegare/ parole come onde d’acqua/
tortuose e increspate» confessa Movahhed, rispolverando l’antica e immortale
metafora della poesia associata al ventre marino, il cui vero idioma non può che
essere una misteriosa, equorea sinfonia recante in sé l’esperienza dell’abisso,
del celeste fondale da cui riaffiorano «le parole dense del tacere».
Pare infine proprio questo il principale suggerimento che i poeti iraniani
contemporanei, nella loro policroma diversità d’approcci e accenti,
dall’emisfero più infiammato del pianeta intendono consegnarci: rifondare il
senso della scrittura a partire dal suo primato di viaggio interiore, di scavo
metafisico, oltre l’imperio dell’«arido vero», di ogni forma di rivendicazione
ideologico-materialista della letteratura, senza paura d’essere accusati di
rifiuto della realtà. Lo aveva già intuito Hölderlin: «Chi pensa il più
profondo/ ama il più vivo». Tanto più ci si cala in sé stessi, tanto più
dell’Altro si trova e ama. L’unica via di fuga dall’inferno del mondo ce la
abbiamo dentro, l’unica salvezza è smettere di cercare salvezza, imparando a
contemplare l’oasi infuocata di ogni istante. Ce lo ricorda una volta per tutte
Sepehri:
> «Bisogna chiudere il libro.
> Bisogna passeggiare
> nell’orizzonte esteso dell’attimo,
> osservare il fiore,
> percepire l’ambiguità.
> Bisogna correre fino in fondo all’Essere,
> fino al profumo terrestre del Nulla,
> alla congiunzione di albero e Dio».
Francesco Occhetto
*
Il sussurro della parola “vita”
Dietro la pineta, la neve.
La neve, uno stormo di corvi.
Strada vuol dire esilio.
Vento, canto, viaggiatore, un po’ di sonno.
Un ramo d’edera, un arrivo, un cortile.
Io, la nostalgia e il vetro bagnato.
Scrivo in questo spazio.
Due muri e qualche passero.
Qualcuno è triste.
Qualcuno fa la maglia.
Qualcuno conta.
Qualcuno canticchia.
La vita: uno stormo che vola via.
Perché questa angoscia?
Non mancano le speranze: c’è il sole,
il bambino del dopodomani,
la colomba dell’altra settimana.
Ieri notte morì qualcuno
ma ancora è buono il pane di grano.
E ancora gocciola l’acqua, e i cavalli bevono.
Scorrono le gocce,
la neve è sulle spalle del silenzio,
il tempo sulla spina dorsale del gelsomino.
Sohrāb Sepehri
*
Un’altra nascita
a Ebrāhim Golestān
Tutto il mio essere è un canto oscuro
che in un continuo ripetersi ti porterà
verso l’alba di eterne crescite e fioriture.
Ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho unito all’albero, all’acqua, al fuoco.
La vita è forse il lungo viale
che ogni giorno percorre
una donna con la sua cesta.
La vita è forse la corda sul ramo dell’uomo che si impicca.
La vita è forse il bambino che torna da scuola.
La vita è forse accendersi una sigaretta
nella languida pausa tra due amplessi
o lo sguardo assente di un passante
quando si toglie il cappello, banalmente
sorride e all’altro dice: «buongiorno!»
La vita è forse quell’attimo sospeso
quando nelle tue pupille si strugge il mio sguardo,
presentimento che legherò alla percezione della luna,
alla conquista delle tenebre.
In una stanza grande quanto la solitudine
il mio cuore grande come l’amore
scruta le sue semplici pretese di felicità,
la bellezza dell’appassire dei fiori nel vaso,
l’alberello che hai piantato
nel giardino della nostra casa,
il cinguettio dei canarini
che cantano nella cornice della finestra.
Oh…
questa è la mia parte,
questa è la mia parte.
La mia parte è un cielo nascosto da una tenda appesa.
La mia parte è scendere una rampa di logori gradini
per scovare ciarpami e nostalgie.
La mia parte è una passeggiata
melanconica nel giardino dei ricordi,
è morire nella tristezza di una voce
che mi dice: «Amo
le tue mani».
Pianterò le mie mani in giardino,
lo so, lo so, lo so, crescerò
e le rondini deporranno le uova
nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro.
Per orecchini indosserò due rosse ciliegie gemelle
e alle mie unghie incollerò petali di dalia.
C’è una stradina
dove i ragazzi che mi amavano
con i loro capelli spettinati
i colli sottili e le gambe magre
pensano ancora al sorriso innocente di una ragazza
che una notte il vento portò via.
C’è una stradina che il mio cuore
ha rubato ai quartieri dell’infanzia.
Viaggio di una sagoma sulla linea del tempo,
di una sagoma che feconda la sterile linea del tempo,
sagoma cosciente di un’immagine che torna
da una festa nello specchio.
È così che qualcuno muore
e qualcuno resta.
Nessun pescatore raccoglierà mai una perla
dall’esile ruscello che sfocia nel fosso.
Io
conosco una fata piccola e triste
che vive nell’oceano e dolcemente
in un magico flauto suona il suo cuore.
Una fata piccola e triste
che di notte muore con un bacio
e all’alba con un altro bacio rinascerà.
Forugh Farrokhzād
*
E la parola era Dio
Quante volte abbiamo taciuto
per non dire quella sola parola.
Figura
allegoria
metafora
poesia
e le nostre mani restarono in tasca.
Ci siamo svegliati all’alba
ci siamo sciacquati la faccia
abbiamo lavato le mani
ma non
le parole.
Accanto a una candela
tenuta così spenta,
ora sia benedetta la notte,
sia benedetta.
Possa Dio redimerci l’anima
per averle lasciate così sporche.
Ziyā’ Movahhed
*
Mi disseto
a un miraggio,
vogliate crederci o no.
Abbās Kiārostami
*
Dimentica
Dimentica
la mitragliatrice
la morte
e pensa al destino dell’ape
che in mezzo alla piazza minata
cerca il ramo di un fiore.
Garous Abdolmalekiān
Traduzioni di Faezeh Mardani e Francesco Occhetto
*In copertina: Forugh Farrokhzād (1934-1967)
L'articolo “Mi disseto a un miraggio”. Per conoscere davvero l’Iran dobbiamo
leggere i suoi poeti proviene da Pangea.
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C’è chi scrive, e poi ci sono le voci. La prima condizione non presuppone la
seconda. Difficile per il lettore districarsi e distinguere, nonostante la
differenza sia sostanziale. Una voce ogni quanti? Nel mare magnum dato alle
stampe il rapporto potrebbe essere di 1:100, ma non voglio azzardare una stima.
Mi perdo in queste considerazioni durante la lettura di Donnaregina, l’ultima
fatica di Teresa Ciabatti appena uscita per Mondadori con Antonio Franchini in
veste di editor – lo stesso Franchini che, con Il fuoco che ti porti
dentro (Marsilio), mi ha fatto passare l’estate scorsa a chiedermi se in realtà
sua madre non fossi io. Ma torniamo a Teresa Ciabatti. Al di là di cosa
racconti, la sua voce è sempre la stessa, mi sembra di sentirla sin dalle prime
pagine e mi riporta indietro – la voce di Teresa Ciabatti è come una madeleine –
a quella che ero quasi dieci anni fa, quando leggevo La più amata – il suo libro
più conosciuto, quasi vincitore del Premio Strega – e sognavo di diventare una
scrittrice. Le nostre storie si sfiorano senza incontrarsi come quella di Teresa
Ciabatti e Giuseppe Misso – il super boss e personaggio chiave nella storia
della camorra – la cui vita decide di raccontarci. Vado avanti nelle pagine
mossa non tanto dalla curiosità della vicenda ma dalla narrazione dell’autrice
che compare fra le righe, perché è lei che cerco.
Quando comincio a leggerla lei è un’autrice affermata, io non sono nessuno. Ma
sogno di diventare un’autrice affermata anch’io e inseguo la sua voce. O forse
non sono io a inseguirla: è quella voce che mi cattura, la stessa che parla dei
genitori entrambi morti (fortune?), dei traffici del padre massone, della madre
depressa ma, soprattutto, che parla di sé.
Una voce smodata, eccessiva, mitomane. Che non risparmia nulla, in primis a se
stessa.
Come la Madonna vergine e madre, come l’Uomo che è sempre buono e cattivo, anche
Misso ha una natura duplice, e in Donnaregina ci sono due protagonisti, i cui
destini s’intrecciano pur proseguendo su binari paralleli, ciascuno con le sue
cadute, con le sue finte risalite, con le speranze e gli intenti. Mi lascio
trasportare dagli incisi che alludono e dalle digressioni – artifici di Ciabatti
– sono un po’ la sua firma – nonché resi possibili dal suo guardarsi
dall’esterno: un vezzo che si chiama dissociazione ed è un sintomo psichiatrico.
E allora Teresa Ciabatti – Nostra Signora di Orbetello, anzi, Nostra Signora
della Liberatoria, compie il miracolo: non si limita a intervistare il boss,
addirittura ad affezionarvisi, consegnandoci un ritratto fra il folkloristico e
l’umano.
Nel suo racconto non si distingue più cosa è vero da cosa è falso, chi è figlio
di chi, la trans dall’autolesionista, perché tutti i figli so’ piezz’ e
core. Donnaregina è infatti un libro che indaga il confine sottilissimo – tanto
sottile da diventare impercettibile – fra fiction e non fiction, ciò che si
ispira al vero e diventa falso, mentre il falso è come se fosse vero e allora,
mi chiedo, in questo punto esatto in cui Ciabatti ci porta, siamo davvero sicuri
che ci serva il permesso di qualcuno per scrivere? A quanto pare sì. Lo spettro
della liberatoria aleggia infatti in tutto il libro, è come un coro greco che
sul più bello della narrazione torna col suo lamento.
Ormai mi sembra di sentirla anche se smetto di leggere, mi ossessiona tanto da
parlarne al dottore: dobbiamo forse aumentare il litio? Lui mi rassicura:
personalmente non l’ha mai letta ma ha sentito dire che può fare questo effetto.
Andiamo avanti così.
Se nessuno scrittore è capace di deprimermi più di Michel Houellebecq, l’unica
scrittrice italiana da cui sono ossessionata è lei, e a prescindere da cosa
scriva. Forse perché le sue protagoniste, nonostante i numerosi privilegi di cui
godono e che ci mostrano – la piscina a Orbetello, la casa in centro a Roma, la
tomba del padre messa in sicurezza prima di tutte le altre – sono disperate. Una
disperazione che non smettono di ostentare, e che le rende ridicole, a tratti, e
così tragicamente umane. La stessa Ciabatti lascia trasparire la sua
disperazione: è alle prese con la crisi della figlia adolescente alla quale non
impedisce di fare la ricostruzione delle unghie perché è pur sempre uno slancio
vitale – e la sua amica Michela Murgia sta morendo. Quando cerca di rassicurare
se stessa mentre il mondo va in pezzi, illudendosi che andrà tutto bene durante
la cena in giardino, diventa tutte e tutti quando proviamo ad andare avanti,
anche leggendo storie che ci aiutino a vivere.
Ma veniamo alle assonanze che giustificano in parte la mia ossessione. Anche io
sono una donna di mezza età con una figlia adolescente, anche io saluto
l’intrepida ragazza che sono stata e in più il mio culo sta franando come il
cimitero di Orbetello. Lavori in corso. E ancora: anch’io vorrei dare una svolta
alla mia carriera – non sono più un’aspirante scrittrice, ma per scrivere dovrò
senz’altro procurarmi la liberatoria di qualcuno. Bei tempi quando bastava
l’avvertenza “ogni riferimento è puramente casuale”, oggi senza liberatoria non
sei nessuno, non si va da nessuna parte, si è dovuto rassegnare anche Emmanuel
Carrère. Come avverte lei nel disclaimer però il cimitero non è mai crollato,
quindi c’è ancora speranza.
Così, mentre leggo aneddoti ai limiti del trash sono commossa, faccio un post su
instagram, poi mando un messaggio a Ciabatti con le mie impressioni. Su wapp
Ciabatti commenta: Solo tu noti i dettagli marginali, sei la mia lettrice
ideale. E invece no. Io registro le informazioni a margine perché in realtà a me
della storia di Misso – della storia del boss che sto leggendo da duecento
pagine – pur nascendo napoletana, non me ne frega un cazzo. Delle rapine, del
carcere e dei morti ammazzati, del rione Sanità e della sua passione per i
colombi.
Mi chiedo allora cosa mi tenga incollata alle pagine. E adesso finalmente lo so.
In questi duri tempi in cui per scrivere prima ancora della penna serve la
liberatoria, a decretare la grandezza di un libro non saranno la trama,
l’editing o la strategia. Sarà la voce. Una voce che catturi nella prima pagina
e che conduca all’ultima, al di là dell’argomento. Che si parli di crociate,
della caduta del regno delle due Sicilie o di una Fortezza in mezzo al nulla,
non importa, a fare il libro sarà la voce che (e se) vi è contenuta. Una stessa
voce che compaia in libri diversi della stessa autrice, come una chimera, una
promessa mantenuta, un balsamo che invece di lenire ossessiona.
Non so dire allora se Donnaregina sia o no un grande libro, ma quello che so per
certo – da scrittrice e da lettrice – è che quella di Teresa Ciabatti è
inequivocabilmente una grande voce.
Fuani Marino
*Fuani Marino ha pubblicato con Einaudi “Svegliami a mezzanotte” (2019) e
“Vecchiaccia” (2023)
In copertina: John Singer Sargent, Lady with a Blue Veil, 1890
L'articolo Inseguire la voce, ovvero: sulla mia ossessione per Teresa Ciabatti
proviene da Pangea.
Tutto, in Dino Campana, è leggenda, vince la legge dell’ebbrezza, vige una
specie di angusta agiografia, l’artigliata del mito. In sostanza, è tutto, per
lo più, reso al frantoio del frainteso. Così, il personaggio Campana ha finito
per sostituire, malauguratamente, il poeta; l’Orfeo di Marradi ha preso il posto
dei Canti Orfici, il “libro” assoluto del secolo. Campana è stato, di volta in
volta, eroe da romanzo – nel libro di Sebastiano Vassalli, La notte della
cometa, ad esempio – e icona di brutti film – Un viaggio chiamato amore (2002),
con Michele Placido alla regia –, amante selvaggio (l’infoiato di Sibilla
Aleramo) e matto, l’uomo elettrico di Castel Pulci. Il tutto tenendo a premurosa
distanza un’opera unica: prenderla sul serio – e non come un repertorio di
folgoranti ‘mattane’ – avrebbe significato riformulare i canoni della poesia
italiana del Novecento. Se Dino Campana è “uno dei pochi davvero grandi del
nostro Novecento” (così Edoardo Sanguineti in Poesia italiana del Novecento,
Einaudi, 1969), l’iniziatore del canone ‘inverso’ della nostra lirica (rispetto
alle linee consolidate, aperte da Ungaretti-Montale-Saba), oscuro bombarolo del
linguaggio, lettore barbarico che rifugge dagli infingimenti letterari non in
virtù di una presunta ingenuità ma di una geniale presunzione dello sguardo
‘all’infinito’, oltre il metronomo dell’ombelico, del cuore, dell’anima in
ghiaccio, i nostri giudizi letterari vanno scardinati.
Dino Campana – “il solo esempio radicale, nella poesia novecentesca, di un’arte
tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie”, Sanguineti – è il punto di
scaturigine, il Mosè e il profeta, di una genia di ribelli al linguaggio che
tiene insieme, in ordine sparso – per dire –, Onofri, Boine e Rebora, Lorenzo
Calogero e Dario Villa, Ivano Fermini e Alessandro Ceni. Non avanguardisti,
bensì lirici inadempienti ai modi del mondo, immondi alle mode, spesso nutriti
di letture aliene – additare a ‘provinciale’ uno come Dino Campana, lettore di
Whitman e Nietzsche, di Baudelaire, di Edgar Allan Poe e di John Ruskin, fu
avventatezza da provinciali. In questo senso, la critica letteraria ha da
lavorare con la cazzuola e il martello.
Ma tutto è frainteso quando si parla di Dino Campana. Il gadget del ‘poeta
pazzo’, l’etichetta da “Rimbaud italiano” (Sanguineti) per non dire da “Rimbaud
della Romagna” (così Paolo Toschi nel 1926), il poeta “passato come una cometa”
(Cecchi) hanno arricchito le chiacchiere minando l’assunzione critica. Un
significativo istrionismo del caso ha fatto sì che una delle fotografie più
divulgate di Dino Campana non gli appartenga: raffigura un compagno di classe,
Filippo Tramonti, poi cancelliere di tribunale. L’ultimo appello del Centro
studi di Marradi “per rimuovere la foto dal web” è stato diffuso dal “Corriere
Fiorentino” il gennaio scorso. Dino Campana pare sempre sfuggire a chi vuole
circoscriverlo in aggettivi, immagini, giudizi.
Così, fino a ieri Campana era additato a poeta per lo più ottocentesco,
dannunziano (la tesi, in sintesi, di Pier Vincenzo Mengaldo, che chiude le
paginette dedicate a Dino nei Poeti italiani del Novecento con una battutaccia:
“Probabilmente si può dire di lui quello che Debussy disse – a torto – di
Wagner: che era un tramonto che poté sembrare un’alba”). Ci è voluto lo studio
trentennale di Gianni Turchetta per avere un degno ‘Meridiano’ Mondadori a
raccogliere L’opera in versi e in prosa di Dino Campana, strumento decisivo (son
quasi duemila pagine) per leggerlo come si deve, così com’è. Molti poeti con
l’alloro si sono nutriti dell’orfico canto di Campana (Eugenio Montale – “In lui
nulla fu mediocre”, scrisse in un saggio del 1942 – e Mario Luzi tra gli altri).
Giovanni Boine ne riconobbe il timbro immediato, inaudito (leggendo Campana,
scrisse nel 1915 su “La Riviera Ligure”, “entri in un’atmosfera d’ansia, sei a
balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove,
chissà dove per disperazioni d’irrealtà”); Bino Binazzi, nel 1922, sul “Resto
del Carlino”, trasse dal precipizio di Campana un monito:
> “Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un
> tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo
> anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu
> ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti”.
Quell’anno, in altri luoghi, con altri esiti, uscivano La terra desolata di
Eliot e l’Ulisse di Joyce. Libri destinati, come si dice, ‘a fare la storia’.
Campana, inesausto al proprio tempo, inesauribile, deve ancora compiere la
propria storia. Nasce oggi.
Lei apre il ‘Meridiano’ dedicato a Campana con una asserzione che pare
provocatoria: “ancora aspettiamo una sua serena assimilazione al canone della
poesia italiana del Novecento”. A cosa si deve l’ispida solitudine critica
attorno a Campana? Ricordo che Edoardo Sanguineti, tuttavia, nella
folgorante Poesia italiana del Novecento, aveva issato Campana nel cuore del
canone. Non è forse lui, al di là della nota trimurti – Saba-Ungaretti-Montale –
l’eroe di un canone ‘alternativo’ della nostra lirica, il cui ‘effetto’ è più
pervasivo di quanto non appaia?
Non credo che la mia affermazione sia provocatoria. Mi pare abbastanza evidente
che Campana non è stato assimilato in modo sereno e organico alle
interpretazioni più consuete della nostra storia letteraria e conseguentemente
non ha ancora trovato una serena collocazione nei manuali del triennio delle
superiori. Certamente questo è avvenuto per svariate ragioni. La prima è
sicuramente una ragione di tipo culturale: Campana ha una formazione decisamente
atipica rispetto a quella più consueta dei nostri letterati, una formazione
Internazionale, fondata su vastissime letture dei testi originali,
complessivamente non ben decifrata dalla maggior parte degli intellettuali
italiani. Certo ha poi influito in negativo l’interpretazione, solo
apparentemente ovvia, della sua biografia in chiave di maledettismo,
un’interpretazione che ha confuso il territorio, ostacolando una rigorosa
lettura formale dei suoi testi e schiacciando Campana sulla sovrapposizione tra
poesia e follia: stereotipa, e di fatto profondamente fuorviante. Infine, da
questo punto di vista mi pare che la critica abbia fatto troppa fatica a
cogliere nei procedimenti della sua poesia, e soprattutto nella proliferazione
capillare dei procedimenti di ripetizione, non una dissoluzione dei significati
(come ipotizzato più per ragioni biografiche che per un’attenta lettura dei
testi), ma, tutt’al contrario, una tecnica a suo modo rigorosa di costruire
significati molto complessi e sfumati, ad alta densità, dove la dimensione
verbale si fonde organicamente con la costruzione sonora, diciamo pure con la
musicalità.
“Canti Orfici”: un titolo al contempo leopardiano e profetico (penso ai Sonetti
orfici di Rilke). Le chiedo dunque: come dobbiamo intendere l’orfismo di
Campana?; in che senso Campana è leopardiano?
Direi che dobbiamo anzitutto intendere l’orfismo di Campana come aspirazione
a un sapere assoluto, di natura intuitiva e irrazionale, una specie di
misticismo laico, che ha al centro la poesia come strumento di una conoscenza
superiore. In questo senso, l’orfismo campaniano si riallaccia al recupero della
tradizione magica ed esoterica avviato col Romanticismo e proseguito con il
Simbolismo: Novalis, Nerval, lo stesso Rimbaud. Su questa linea l’Orfismo si
incontra con la sperimentazione avanguardistica. Per altri versi, è
vero, Campana è profondamente leopardiano: ma il suo leopardismo ha ben poco
della dimensione “orfica”. La dimensione di verità assoluta e irrazionale,
portante nella poesia campaniana, mette radici nel Romanticismo, ma è molto
lontana dal peculiare Romanticismo di Leopardi, intriso profondamente di
razionalità illuministica. Se può servire una formula: Campana è un nietzschiano
coerente, e come tale non è illuminista. Per molti altri aspetti, tuttavia, la
poesia di Campana è tutta intrisa di Leopardi, che funziona, insieme a Dante,
come il principale raccordo con la tradizione poetica italiana. Per Campana,
Leopardi è inoltre anche un esemplare modello di moralità, una moralità che fa
tutt’uno con la vocazione rigorosa alla poesia. D’altra parte, proprio la
dedizione alla poesia permette di mettere in scena l’indefinito, la lontananza,
se vuole anche l’infinito e la grandiosità del cosmo. In questo penso che
Campana debba molto a Leopardi. Campana ha inoltre assimilato in profondità e
ripreso con rigore e originalità proprio la musica leopardiana, intesa anche in
senso strettamente tecnico, come metrica: l’analisi dei testi evidenzia una
presenza costante, profondissima, del modello della canzone libera leopardiana,
cioè di una libera alternanza di endecasillabi e settenari, con una presenza
assai variabile della rima. In questo senso va dato un peso davvero molto
considerevole alla presenza leopardiana, che compare un po’ dovunque nella
poesia campaniana.
Gioco con le W doppie. Ergo: in Campana agisce, per ammissione, la forza di Walt
Whitman – ma anche quella di Wagner. Come questi due ‘titani’ entrano
nell’immaginario di Campana?
Comincio da Wagner, che certo ha contato molto come suggestione musicale, e
anche con la poetica del Gesamtkunstwerk (Opera d’arte totale), in linea con una
prospettiva di rimescolamento di parole, musica e immagini. Inoltre Campana
condivide con Wagner e Nietzsche l’idea della necessità di un incontro fra
la Kultur tedesca e la Civilisation francese, e più in generale fra la
dimensione della mediterraneità, del Meridione, e quella della germanicità o del
Nord, con cui deve convivere. Sappiamo però che Campana legge molto presto (in
tedesco) gli scritti tardi di Nietzsche, dove Wagner viene attaccato duramente:
certamente li apprezza, ed è probabile che ne derivi qualche tratto di critica
al wagnerismo e alle sue mitologie: si legga per esempio una lettera all’amico
Aldo Orlandi, dove parla di “paradisi asfittici wagneriani”. Il discorso su
Whitman è ancora più complesso, perché il grande Bardo americano è per Campana
un modello capitale, come dichiarato più volte, e come testimoniato in modo
inequivocabile dalla scelta di usare versi di Whitman per l’epigrafe finale
dei Canti Orfici. Ricordiamo anche che Leaves of Grass è l’unico libro che
Campana porta con sé in Argentina. Per il Meridiano ho ristudiato a fondo la
presenza di Whitman nella memoria poetica campaniana, una presenza molto più
capillare di quanto non si sia finora notato, come si può vedere nelle note.
Whitman comunica a Campana la profonda esaltazione di fronte alla inesauribile
varietà e bellezza del mondo. Anche quel tanto di profetico che troviamo
nei Canti Orfici ha molto di whitmaniano, così come l’aspirazione a un
rinnovamento complessivo dell’Uomo: come si legge alla fine di Pampa, in un
contesto non a caso americano: “l’uomo libero tendeva le braccia al cielo
infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”. Ancora, c’è molto di
whitmananiano nella costante messa in scena di un io che cammina per il mondo e
si sforza di renderne la dinamica molteplicità, che lo entusiasma: a suo modo,
anche Campana scrive un Song of Myself. C’è infine una profonda sintonia con
Whitman anche nell’atteggiamento di chi attribuisce grandissima importanza alla
poesia, specialmente alla propria, come diretta espressione della sua vita
stessa, della sua creaturale corporeità; nella sua poesia, come ci dice
parecchie volte, Campana lascia letteralmente il sangue, “the boy’s blood”, che
sono non a caso le ultime parole del Libro della vita.
A tratti, Campana pare il Gauguin della poesia italiana. Il poeta che ritorna al
bosco, tenta il ‘selvaggio’ per innovare le forme liriche? È così?
L’ostentazione della primitività, che fa tutt’uno con la possibilità di cogliere
l’origine, quindi, di nuovo, una dimensione di verità assoluta, è certo una
mitologia fondamentale della cultura del tempo, una mitologia che ha avuto un
peso molto notevole fino ai nostri giorni. D’altro canto, se lasciamo da parte
il folklore e le ostentazioni biografiche (come il fatto che Campana stesso si
definisce e a volte si firma, “uomo dei boschi”), si tratta largamente di un
mito, che rischia di essere a sua volta fuorviante. La poesia di Campana è
incredibilmente intrisa di cultura letteraria, ma anche pittorica e filosofica:
l’evidenza di un fittissimo tessuto di citazioni non può essere in nessun modo
sottovalutata. In questo senso, Campana è tutto tranne che “selvaggio”. D’altro
canto, è vero che Campana rimette in gioco alla radice la materia culturale
iniettandovi la forza di un’esperienza vissuta travolgente e certo molto
particolare, che fa saltare le convenzioni nel profondo. L’effetto di
rivitalizzazione del linguaggio poetico è innegabile. Ma è frutto di una miscela
molto originale di raffinata cultura e esperienza vitale, che piega la cultura
in forme nuove e inattese: non certo di una regressione pre-culturale.
…ma: è davvero andato in America Latina Campana?
Certo che ci è andato! Sono davvero molto cervellotici e un po’ capziosi i dubbi
avanzati sulla verità del viaggio in Argentina, nientedimeno che da Giuseppe
Ungaretti. Ma i documenti a nostra disposizione, pur non offrendoci una certezza
assoluta, ci portano comunque molto vicini alla certezza. Abbiamo infatti un
Registro dei Passaporti da cui risulta che il padre di Campana, Giovanni, ritira
un passaporto per Buenos Aires intestato a suo figlio Dino nel settembre del
1907 (allora i passaporti si rilasciavano per destinazioni specifiche). Ci sono
poi le testimonianze di suo zio Torquato e del fratello Manlio, che lo hanno
accompagnato a Genova fino alla nave e lo hanno visto partire. Gli eredi
possiedono poi delle carte che certificano l’indirizzo della famiglia italiana
di Buenos Aires, amica dei Campana, da cui Dino si è recato (raccomandato e con
una lettera di accompagnamento che chiedeva di farlo lavorare in farmacia per le
sue competenze universitarie in Chimica), salvo poi sparire dopo appena un paio
di giorni. Un notevole dato indiretto sta inoltre nel fatto che dovunque andasse
Campana lasciava evidenti tracce burocratiche del suo passare, documentate dalle
carte a nostra disposizione: fermi di polizia, arresti, fogli di via. Ebbene,
dal settembre 1907 (si noti bene, cioè da pochi giorni dopo il rilascio del
passaporto) fino al marzo 1909 non c’è più nessuna traccia di Campana né in
Italia né nel resto d’Europa: una circostanza a dir poco sorprendente. Siamo
dunque pressoché sicuri che in quel periodo Campana non fosse in Europa. Infine,
non abbiamo neanche cominciato a prendere in considerazione l’evidente
fondatezza delle rappresentazioni campaniane del viaggio e poi della vita in
Argentina: in particolare, quelle relative al viaggio (soprattutto in Viaggio a
Montevideo, ma anche in altri testi, come la più antica poesia
del Quaderno intitolata Buenos Aires) e al suo lavoro come sterratore per la
costruzione della ferrovia nella Pampa, di cui ci parla nel brano omonimo, già
citato. Ci vuole più fantasia a immaginare Campana che si procura una
bibliografia sull’argomento (e dove poi? In Europa difficilmente l’avrebbe
trovata in biblioteca, sono libri argentini…) che ad ammettere, come pare
inevitabile, che sta parlando di un’esperienza vissuta direttamente, che ha
lasciato in lui ricordi intensi e profondi, come del resto mostrano i testi.
L’unica ragione per dubitare del viaggio argentino è il pregiudizio su quanto
racconta un uomo che è morto in manicomio. Ma quello che racconta Campana è
quasi sempre vero.
Nel lungo peregrinare sulle tracce di Campana, nel perpetuo indagare, che cosa
l’ha sorpresa di più? Qual è l’episodio nella vita di Campana che ha avuto per
lei il senso di una rivelazione?
Studio professionalmente Campana dal 1982. In tutti questi anni sono molte le
scoperte fatte, ma faccio fatica a dare a qualche episodio una specie di
primato, appunto come di una “rivelazione”. Molte cose certamente emergono dalle
lettere, dove il poeta si mette a nudo e alle volte ci rivela aspetti
illuminanti, in modo più o meno volontario. Trovo per esempio rivelatore quanto
scrive in una lettera a Prezzolini del gennaio 1914: “io ho bisogno di essere
stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere
stampato.” Qualche anno prima, nel 1910, in una lettera alla rivista «La difesa
dell’arte», aveva scritto: “Io sono un uomo ancora inedito”. Siamo al limite del
lapsus: evidentemente erano inediti i suoi testi, non lui stesso come “uomo”…
Campana sente di essere poeta vero, ma sa anche, lucidamente, che per essere
“poeta” fino in fondo è necessario essere riconosciuto come tale dalla comunità
letteraria, dai cosiddetti “detentori del gusto”. Vive però questa condizione
con drammatica radicalità, come se dalla pubblicazione dipendesse la sua stessa
esistenza: “per provarmi che esisto”. Sono parole che mostrano l’intensità e
profondità sconvolgenti con cui Campana vive la poesia, facendola tutt’uno con
se stesso. Se non capiamo bene questo punto faremo fatica a cogliere in maniera
adeguata quanto siano per lui psicologicamente terribili le vicende riguardanti
i suoi testi, a cominciare dallo smarrimento del manoscritto di Il più lungo
giorno, quanto possano andare a incidere direttamente e dolorosamente sulla sua
vita affettiva. Voglio però aggiungere un altro episodio della vita di Campana
che molto raramente è stato letto nella maniera corretta, cioè come un elemento
sdrammatizzante: la pubblicazione stessa dei Canti Orfici, grazie a una
sottoscrizione di amici a Marradi. Anzitutto, non sono pochi i grandi libri del
Novecento pubblicati a pagamento e in modo avventuroso; in questo senso, il
mitico libro di Campana non è affatto un’eccezione. Non è questo il punto:
dobbiamo invece piuttosto prendere atto che non ci sono stranezze dovute alla
pazzia dell’autore e alla sua condizione precaria, nei primi decenni del secolo
era normale che le cose andassero così. Anche Gli indifferenti di Moravia, tanto
per fare un esempio davvero molto lontano, è stato pubblicato a pagamento…
Sarebbe il caso semmai di rendersi conto che non è affatto così scontato che in
un paese come Marradi ci siano poco meno di cinquanta persone che tirano fuori
dei soldi per far pubblicare un libro di poesia! Possiamo escludere
drasticamente che avessero tutti capito l’importanza del Libro di Campana. Però
forse, nonostante tutto, egli aveva fra i suoi concittadini più amici di quanto
non ci dicano la vulgata e lui stesso, parlando sempre, in modo stereotipo,
della persecuzione e della solitudine del genio incompreso. Ci vorrebbe un po’
più di equilibrio e di attenzione ai dettagli, cioè alla realtà concreta, per
leggere le vicende, evitando di trasformarla in storielle consolatorie…
Vengo a uno dei momenti capitali: Soffici perde il manoscritto del Più lungo
giorno. Eppure, pochi anni prima, aveva scritto una tonante biografia su
Rimbaud. Come si coniuga una quasi pregiudiziale affinità con i ‘maledetti’ alla
spavalda cecità nei confronti del “Rimbaud italiano”?
Temo che non ci sia molto da capire: Soffici era un uomo intelligente, colto,
aperto alla cultura internazionale, che conosceva come pochi, specie per le sue
frequentazioni parigine; ma era anche snob, presuntuoso, tutto centrato su se
stesso, certo del tutto distaccato dai problemi altrui e men che meno a quelli
di uno sconosciuto che gli portava un libro. Chissà quanti altri gliene
capitavano… Di Campana e del Più lungo giorno non gli importava granché,
insomma: questo basta sicuramente a spiegare la sua mostruosa, comunque
stupefacente distrazione. Sono certo che perse il manoscritto non per qualche
complicazione psicologica (come l’invidia per un poeta di fatto più bravo di
lui), ma semplicemente per indifferenza, orribile superficialità, disinteresse.
Non so fino a che punto ci fosse affinità fra di loro, a parte, certo, la comune
partecipazione a un contesto artistico e culturale: in questo Soffici
rappresentava, per Campana e per molti altri, un punto di riferimento, specie
per la tempestività e la competenza con cui scrisse di avanguardie, di Futurismo
e Cubismo, come pittore oltre che come studioso. Ma penso proprio che Soffici…
non si sia mai accorto di affinità fra lui e il povero Campana. Solo quando
i Canti Orfici sono usciti ha recitato la parte di chi era ammirato dalla loro
poesia (forse un po’ lo era davvero) e ha poi messo in piedi il colorito
ritrattino di Campana che leggiamo nei suoi ricordi: ma non ci vuole particolare
sensibilità o finezza interpretativa per cogliere nelle parole di Soffici un
atteggiamento sprezzante, con tratti di malcelato cinismo, l’atteggiamento, è
evidente, di un ricco aristocratico verso un poveretto venuto dalla provincia,
che gli pareva un poco tollerabile cafone e evidentemente gli faceva un po’
schifo. Questa è la questione centrale. Aggiungiamo poi che Campana, anche se
nei suoi testi ci sono non poche citazioni testuali da Rimbaud, non lo amava
affatto, come ha scritto più volte: i suoi poeti francesi di riferimento erano
Baudelaire e Verlaine, assolutamente non Rimbaud. Campana, inoltre, ha poco a
che fare con la poetica del Maledettismo, cui non ha mai aderito. È vero che ha
vagabondato tanto, ma, al di là di questa somiglianza biografica, sul piano
letterario il paragone con Rimbaud è davvero molto vago. Con ogni probabilità
Campana lo avrebbe rifiutato con sdegno.
In tanti subodorano il genio di Campana – penso a Boine, poeta che sarebbe
giusto, per eccessivo talento, far riemergere dall’oblio – ma chi davvero crede
nei Canti Orfici, imbracciandolo come un libro decisivo?
Inizialmente forse solo il suo amico Luigi Bandini, detto Gigino, intellettuale
marradese di notevole spessore, autore di testi filosofici. Gigino fu il
promotore della sottoscrizione per la pubblicazione del Libro di Campana.
Campana aveva profonda fiducia in lui, tanto da spedirgli la versione quasi
definitiva delle sette poesie dei Notturni dei Canti Orfici, che possediamo
appunto nei fogli manoscritti detti Carte Bandini. Certamente credette subito e
pienamente nel valore della poesia di Campana anche Federico Ravagli, che a
Bologna gli fece pubblicare i primi testi. Dopo l’uscita del Libro, certo quelli
che credettero in lui furono un po’ più numerosi, a cominciare da Mario Novaro,
che gli pubblicò vari testi su «La Riviera Ligure». Ma avevano grande
considerazione di Campana altri liguri, come Boine e Sbarbaro, e altri poeti e
artisti, fra i quali Cardarelli e Carlo Carrà. C’erano poi alcuni giovani che
già cominciavano a costruire il mito di Campana: Bino Binazzi, Francesco
Meriano, Lorenzo Montano, Renato Fondi. Sono, certo, figure di spessore minore,
ma già ne avevano una considerazione che sfiorava la venerazione e certo ebbero
un ruolo importante nell’avviarne la fama. Dobbiamo comunque sottolineare come
fu Attilio Vallecchi, con l’edizione del 1928 (Canti Orfici ed altre Liriche.
Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi), a tramandare di fatto la poesia
di Campana alla generazione degli Ermetici, che ne fece un riferimento
imprescindibile: Bargellini, Fallacara, Luzi.
Il mito del ‘poeta pazzo’: ha giovato o ‘maledetto’ la ricezione critica di
Campana?
Gli ha enormemente nuociuto, non c’è dubbio, e non è ancora finita. Molti
critici, a cominciare da Papini, semplicemente non lo hanno preso in
considerazione perché lo hanno identificato con il suo squilibrio e soprattutto
con la tragica vicenda dell’internamento definitivo. Altri hanno continuato a
scrivere interventi magari anche di livello, ma visibilmente sempre influenzati
da resistenti pregiudizi sulla mancanza di controllo, sulla perdita di
significato, sulla scarsa consapevolezza, sulla cultura “vecchia”. L’elenco
sarebbe lungo. Ma è chiaro che sono ancora ricadute della troppo resistente
mitologia del poeta pazzo, pericolosa anche quando viene virata al positivo, con
l’immagine, pure fuorviante, del mistico trascinato all’assoluto dal demone
della poesia, che farebbe tutt’uno con la follia. Sono davvero convinzioni
pervicaci, che ignorano in gran parte l’evidenza dei dati filologici e testuali,
dai quali si può vedere bene come Campana scrivesse seguendo una cosciente
progettualità. Aggiungo inoltre che quando stava male non riusciva a scrivere:
quindi, non Poesia e Follia, ma Poesia o Follia. Quando la Follia si affermava,
la Poesia non esisteva più. Anche questo Campana lo ha segnalato varie volte,
con una lucidità e un equilibrio che sarebbe bello ritrovare anche nei suoi
critici…
Chi rimane vicino a Campana durante i lunghi, lunghissimi anni dell’internamento
a Castel Pulci? Campana si occupa dei Canti Orfici, chiede mai notizie delle sue
poesie?
Non sono moltissime le persone che andavano a trovarlo. Anzitutto, sua madre,
che pure era stata l’oggetto primo delle sue pulsioni aggressive. Suo padre
invece non ebbe mai il coraggio di andarlo a visitare in manicomio.
Comunque, Dino non gradiva molto le visite e certo le scoraggiava. Fra le poche
persone che lo andarono a trovare nei lunghi anni di Castel Pulci ci sono il
fratello Manlio, lo zio Torquato, il cugino Raffaello “Lello”, Leonetta Cecchi
Pieraccini, l’amico pittore Primo Conti, il critico Fernando Agnoletti. Molto
recentemente abbiamo poi scoperto, attraverso la pubblicazione del carteggio fra
Conti e Corrado Pavolini (pubblicato nel 2023, per le cure di Marcello
Verdenelli e Costanza Geddes da Filicaia), che c’era anche chi, come Pavolini,
gli scriveva in manicomio, chiedendogli pareri su vicende culturali: non
sappiamo però se Campana abbia mai risposto. Per molti anni Campana pare avere
un atteggiamento di rifiuto nei confronti della sua poesia, come sappiamo già
dalla fine degli anni Trenta dai resoconti dello psichiatra Carlo Pariani, che
lo guida in una specie di commento a tutta l’edizione Vallecchi del 1928. Sono
dichiarazioni comunque utilissime, anche se Pariani ha lo sguardo un po’ angusto
di un medico positivista. Infine, nelle due lettere inviate nel 1930 a Bino
Binazzi e al fratello Manlio, in un periodo in cui sta meglio, tanto da far
addirittura ipotizzare un suo ritorno alla vita libera.
Ultima. Qual è la poesia di Campana che continua a emozionarla, che vale
innumeri riletture?
Sarà banale, ma io continuo a emozionarmi leggendo La Chimera, con la sua
straordinaria progressione finale. Vorrei però ricordare anche un piccolo
gioiello al di fuori dei Canti Orfici,Donna genovese, che ci fa ben capire come
per Campana le donne fossero anche tramite per la felicità, non solo per la
sofferenza. Lo mostra anche uno dei più incredibili passi di tutto Campana, il
finale del paragrafo 19, e penultimo, di La Notte, la cosiddetta “sinfonia in
viola”. Davanti a passi del genere mi domando come sia possibile non riconoscere
che siamo davanti a un grande, grandissimo poeta.
L'articolo Dino Campana, il poeta totale. Dialogo con Gianni Turchetta proviene
da Pangea.