Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria della relatività

Pangea - Friday, August 1, 2025

Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry. Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica, dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di Kassner – restituisce un responso severo:

“non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali, riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”. 

Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri: 

“Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice curiosità per qualcosa di curioso”.

Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un: 

solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico. […]”.

Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora, aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata unità d’intendimento.

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Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive:

“c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va, si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità, che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”.

Arcane consapevolezze rimuginano come 

“‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’… attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo continuamente non ha bisogno di impulso”.

Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale. 

Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali echeggiano nei versi della poesia Gong:  

“Risonanza, non più con l’udito
misurabile. Come fosse il suono
che tutt’intorno ci trascende
una maturità dello spazio”

Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa vivida rappresentazione. 

“Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì, annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle. 

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Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg: 

“…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta, indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come per miracolo, il profilo della guancia”.

Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori) silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la comprensione del contesto: la Civetta.  Stupisce, ancora, l’assoluto allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata, stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa di Rilke è dogma incarnato.

L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi – invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi. 

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Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il non essere; la morte e la vita. 

Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926

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La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925:

 “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”.

Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che 

“La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali, ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni di cui partecipiamo”.

La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa intuire ulteriori consapevolezze: 

Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli, nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno sostituite”.

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L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”. 

Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico.

È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa meccanica: 

“Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi;
Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore – 
dov’erano ancora tanto lontani dal farcela
dove ancora cadevano l’uno dall’altro”.

Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme. 

La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può (solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo) ad un occhio dotato di “desertica lucidità”. 

Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke ne rappresenta il corrispettivo letterario.  A noi, fortunati beneficiari di insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”, entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero:

“Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che tutti siano”.

Riccardo Peratoner

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