Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.
C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo
‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto
nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità
artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La
natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di
Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del
poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per
sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per
celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi.
Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di
Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata
sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto
interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è
stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera
“svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui
sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un
redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api
dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime,
che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il
lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che
Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von
Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea,
nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni
cosa viva”.
Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev
Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera
folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra
il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi
‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel
Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature
“vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro
pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto
insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono
insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone
suo carisma.
Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin,
Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro
voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo,
sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo
interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime
poesie (Fussi, 1946):
> “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori,
> va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”.
Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.
Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza
radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime,
rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer
Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere
ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie
di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il
dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì:
dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.
Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di
Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ –
penetra nell’opera?
Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è
poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura
eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha
travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire,
spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui
comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella
creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la
ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro,
carissimo prezzo (e non solo per sé)…
Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in
prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai
sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere
molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore,
nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere
stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche
avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza
di aspettare che ritornino. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue,
sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima
parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e
dall’esperienza reale: rintracciare nelle parole di un grande poeta le tracce
del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che
possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “sangue, sguardo,
gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato
pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue
scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida
intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff,
allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino
al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi
svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo.
Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha
lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è
una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo,
eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in
ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero,
allo stesso filo della fede, potremmo dire.
Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero
inatteso?
Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le
corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi
mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai
segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della
sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna
sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori:
> “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato
> a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli,
> trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con
> discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui
> passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai
> visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva
> ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non
> un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta
> l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia
> mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto
> rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli
> passi – senza più mendicare per quel giorno”.
E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza.
Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci
su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre
portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare
delicatezza nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici
nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke
Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione,
nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime
questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera
partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si
prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità,
che affascina e consola.
Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?
Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo,
mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.
> “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in
> ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava
> interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta
> una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”.
Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della
vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi
occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che
hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più
recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura
mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a
definirlo visionario e medianico.
Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce
sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi
e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della
parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al
regno delle ombre, alla grande unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha
spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima”
e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di
battaglia”, una necessità quantomai attuale…
Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati,
nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso?
Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con
lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze
chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava
attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne
erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia.
Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra
terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose.
Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di
donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte
(attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto: Lou Salomé, la moglie Clara
Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou
Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva,
Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua
anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi
incontri della sua vita.
Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?
Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e
artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica,
amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna
per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente
provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua
madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal
cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca
un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali
filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre
un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con
l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in
Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e
spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino
alle Elegie
Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimonia il
loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa
duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del
13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano
le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò
dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profondo alla vita e
all’opera di Rilke e consente di accedere all’intimità più autentica del suo
destino esistenziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue
difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund
Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie
dell’arte nel percorso della vita.
Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore?
Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con
olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una
nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del
figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per
affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in
cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e
inteso come direzione, come forma di libertà.
Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche
identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma
d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai
trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto
delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per
qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente
ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili
biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa,
Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana
Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema
metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso
la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a
Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e
vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda
creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus
tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del
figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno
nella situazione terribile di essere amato”.
La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani
Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima –
fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa
solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e
il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la
scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è
trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo
ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini,
le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta
definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino
di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla
sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo
costringeva alla solitudine.
Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che
affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse
nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa
donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non
bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere
prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere
infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e
ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il
destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la
vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un
verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue,
sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica,
la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo
alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta
la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo
della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi
fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.
Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla
vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della
“vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede
una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere,
rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella
ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se
non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento
perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e
il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo
esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico.
Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie
duinesi”?
Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di
Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono
un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere,
meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e
alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono
uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello
strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per
restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a
questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”.
Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché?
Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per
ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi
versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa
perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori,
come è successo a me.
Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. […]
Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di sì grandi misteri – quante volte da lutto
sboccia un progresso beato – potremmo mai essere,
noi, senza i morti? […]
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi, che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante,
di quando cosa ch’è felice, cade.
Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i
più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra,
strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere
morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.”
La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive:
“potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro
invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso:
dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del
rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi.
Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno
all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto
una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi
e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione
della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è
dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta,
inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna
trasformazione.
Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza
della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e
biografici, per poterne parlare degnamente.
Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke?
Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach
in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in
possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di
manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione
contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500
lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i
corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la
moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio
letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un
«patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero
cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà
tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni
dalla morte, Rilke continua a parlarci.
L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da
Pangea.
Tag - Rainer Maria Rilke
Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da
Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di
pensare a Marina Cvetaeva:
> E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune
> questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando
> sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]).
La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore.
Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non
esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla
in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto,
attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce
a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in
un’altra lingua, senza tradirne il senso.
Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota
quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto
nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere
intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi.
Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II,
23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben
consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di
senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.
Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli
appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte
della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke.
L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla
vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della
sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a
Orfeo alla sua memoria.
La morte, cuore della vita
Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama
Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la
contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che
lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.
Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una
peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della
morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua
riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un
ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a
fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi
strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di
abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che
lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera
ad una giovane amica, Anita Forrer:
> La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a
> fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a
> casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia.
Verso l’estremo
Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che
entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare
nella sua figura la compresenza di vita e morte?
Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica,
conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la
canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava
con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita:
una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la
celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella
morte.
Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che
aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra
dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva
arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso
l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la
possibilità di salvezza.
Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e
l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere
nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve
“panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia
diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto,
talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più
misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura
perfetta, gioiosa, musicale.
Singolari relazioni tra i sensi
Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei
vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche
sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.
È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce
delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che
aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una
civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione
iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e
i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che
ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i
sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a
quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.
Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto
equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano
dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato
ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così
termina la prima parte dei Sonetti.
La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui
attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua
produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo
Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo”
che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra
cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel
Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina,
presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il
mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle,
alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in
una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà,
che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento,
che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il
pensiero della morte nella vita.
Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di
un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore
di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente
vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile:
la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali,
quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera
di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra
oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo
dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.
L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del
poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in
perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si
scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei
fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la
poesia…
Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà
presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso
uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il
vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.
Marilena Garis
*L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella
«grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle
Edizioni Ares
In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau
L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di
Rilke proviene da Pangea.
Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry.
Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie
comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica,
dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul
livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di
Kassner – restituisce un responso severo:
> “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di
> Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali,
> riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.
Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:
> “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si
> rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se
> avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice
> curiosità per qualcosa di curioso”.
Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:
> “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico.
> […]”.
Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi
contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora,
aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato
cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano
le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare
replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente
grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma
un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata
unità d’intendimento.
*
Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive:
> “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e
> penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova
> scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va,
> si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità,
> che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”.
Arcane consapevolezze rimuginano come
> “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’…
> attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è
> l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo
> continuamente non ha bisogno di impulso”.
Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita
dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna
di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.
Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali
echeggiano nei versi della poesia Gong:
> “Risonanza, non più con l’udito
> misurabile. Come fosse il suono
> che tutt’intorno ci trascende
> una maturità dello spazio”
Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e
silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in
perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento
interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa
vivida rappresentazione.
“Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a
compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa
comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì,
annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una
prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.
*
Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica
è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al
cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il
primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:
> “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i
> suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel
> luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza
> del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo
> compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo
> regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta,
> indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato
> il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto
> perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come
> per miracolo, il profilo della guancia”.
Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori)
silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso
tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della
mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la
comprensione del contesto: la Civetta. Stupisce, ancora, l’assoluto
allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata,
stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose
perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa
di Rilke è dogma incarnato.
L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi –
invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che
l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la
meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle
tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura
e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.
*
Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi
sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci
che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno
nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo
rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa
con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a
dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che
ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il
non essere; la morte e la vita.
Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926
*
La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a
galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925:
> “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più
> profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si
> spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad
> esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi
> esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”.
Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che
> “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le
> figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali,
> ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni
> di cui partecipiamo”.
La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa
intuire ulteriori consapevolezze:
> “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti
> trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed
> eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle
> sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo
> non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo
> non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli,
> nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e
> spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno
> sostituite”.
*
L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica
mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel
luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto
osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.
Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di
osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga
somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico.
È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père
Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa
meccanica:
> “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi;
> Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –
> dov’erano ancora tanto lontani dal farcela
> dove ancora cadevano l’uno dall’altro”.
Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio
dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere
in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le
particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano
rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.
La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può
(solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e
temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo)
ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.
Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e
porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke
ne rappresenta il corrispettivo letterario. A noi, fortunati beneficiari di
insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”,
entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero:
> “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel
> mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso
> gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo
> di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire
> ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che
> tutti siano”.
Riccardo Peratoner
L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria
della relatività proviene da Pangea.
Rilke è l’amato. Il molto amato. L’angelo amato da tutti. Il bambino angelico
costretto all’esercito. La sua personalità ne risentirà. La sua personalità lo
salverà da questo e altri traumi.
Rainer è lo studente interessato e geniale. Colui che sceglie e decide di essere
poeta. Risoluto. Mai fisso nello stesso luogo.
Lui è il poeta giardiniere, colui che ama la rosa. Rilke, il viaggiatore
instancabile.
Era l’uomo dei salotti, il poeta di Parigi. Era l’uomo delle infinite
solitudini.
Un rigore, il suo, che premierà qualsiasi sacrificio.
Rainer Maria Rilke dall’anima delicatissima. Poeta dotato di una sensibilità
dell’altro mondo.
Una vita consacrata alla poesia, consumata dalla poesia. Poesia totemica, poesia
totale la sua.
Fu il vero amante di Lou Andreas Salomè. Lui, che ebbe il coraggio di
abbandonare la figlia.
Oltre a Valéry, tra gli altri, conobbe Rodin, Pasternak, Tolstoj. Viaggiò per
raggiungere la Russia, inspiegabilmente conoscendone la lingua, per poi
dimenticarsela. Tradusse dall’inglese la Browning, amava Hermann Hesse e Georg
Trakl.
Venerato nei salotti e nei castelli più prestigiosi dell’epoca, viaggiò molto,
all’inverosimile; passò spesso per l’Italia e non solo. Per lui ogni castello
era la vita. Per lui ogni donna, una mecenate.
Scrisse lettere a una poetessa orfica: Catherine Pozzi. Ne nacque un epistolario
magnetico e immortale.
Fu fine traduttore appunto, tanto che dal francese fu forgiata l’opera sua.
Tanto che dall’amore tra Paul Valéry e Catherine Pozzi, senza saperlo, lui venne
influenzato, ultimando due opere estreme e meravigliose: le Elegie Duinesi e
i Sonetti a Orfeo.
Ogni castello era la vita: una fine solitudine che doveva attraversarlo
compiutamente.
Rilke, poeta dallo sguardo irresistibile. Rilke che asseconda tutto.
Tutto deve essere affrontato per lui; il bene e il male non hanno differenze.
Occorre assentire nella vertiginosa curva della vita, anche quando la malattia
lo pressa e lo preme.
Egli è il poeta che si sente sempre più attirato ad acconsentire dalla sua
posizione provvisoria a quel Tutto in cui vita e morte si compenetrano e si
fondono costantemente.
Rilke, poeta dal sangue vivo ‒ poeta dal sangue malato.
Una malattia del sangue ce l’ha portato via, dopo una sofferenza affrontata fino
all’ultimo rifiutando la morfina. Il viaggiatore instancabile così svanisce, in
un sanatorio svizzero, a Valmont. Svanisce però dopo aver vissuto intensamente
la sua vita, dopo aver vissuto intensamente il reale; dopo esser stato,
compiutamente e fino in fondo, poeta.
La sua scelta l’ha reso consapevole di ciò che era. La costanza premia l’uomo.
La costanza del sapere che siamo nulla, e che tutto possiamo.
(Giorgio Anelli)
> Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
> Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
> leggere nelle veglie, e lunghi fogli
> scrivere, e incerto sulle vie tornare
> dove nell’aria fluttuano le foglie.
>
> (Da: Giorno d’autunno, traduzione di Giaime Pintor)
L'articolo Rilke, il molto amato, l’uomo delle infinite solitudini proviene da
Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.