Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry.
Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie
comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica,
dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul
livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di
Kassner – restituisce un responso severo:
> “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di
> Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali,
> riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.
Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:
> “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si
> rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se
> avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice
> curiosità per qualcosa di curioso”.
Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:
> “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico.
> […]”.
Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi
contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora,
aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato
cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano
le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare
replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente
grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma
un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata
unità d’intendimento.
*
Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive:
> “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e
> penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova
> scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va,
> si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità,
> che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”.
Arcane consapevolezze rimuginano come
> “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’…
> attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è
> l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo
> continuamente non ha bisogno di impulso”.
Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita
dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna
di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.
Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali
echeggiano nei versi della poesia Gong:
> “Risonanza, non più con l’udito
> misurabile. Come fosse il suono
> che tutt’intorno ci trascende
> una maturità dello spazio”
Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e
silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in
perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento
interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa
vivida rappresentazione.
“Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a
compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa
comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì,
annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una
prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.
*
Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica
è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al
cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il
primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:
> “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i
> suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel
> luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza
> del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo
> compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo
> regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta,
> indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato
> il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto
> perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come
> per miracolo, il profilo della guancia”.
Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori)
silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso
tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della
mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la
comprensione del contesto: la Civetta. Stupisce, ancora, l’assoluto
allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata,
stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose
perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa
di Rilke è dogma incarnato.
L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi –
invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che
l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la
meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle
tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura
e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.
*
Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi
sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci
che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno
nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo
rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa
con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a
dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che
ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il
non essere; la morte e la vita.
Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926
*
La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a
galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925:
> “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più
> profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si
> spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad
> esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi
> esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”.
Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che
> “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le
> figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali,
> ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni
> di cui partecipiamo”.
La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa
intuire ulteriori consapevolezze:
> “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti
> trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed
> eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle
> sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo
> non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo
> non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli,
> nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e
> spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno
> sostituite”.
*
L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica
mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel
luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto
osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.
Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di
osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga
somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico.
È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père
Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa
meccanica:
> “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi;
> Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –
> dov’erano ancora tanto lontani dal farcela
> dove ancora cadevano l’uno dall’altro”.
Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio
dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere
in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le
particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano
rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.
La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può
(solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e
temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo)
ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.
Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e
porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke
ne rappresenta il corrispettivo letterario. A noi, fortunati beneficiari di
insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”,
entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero:
> “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel
> mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso
> gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo
> di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire
> ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che
> tutti siano”.
Riccardo Peratoner
L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria
della relatività proviene da Pangea.
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Rilke è l’amato. Il molto amato. L’angelo amato da tutti. Il bambino angelico
costretto all’esercito. La sua personalità ne risentirà. La sua personalità lo
salverà da questo e altri traumi.
Rainer è lo studente interessato e geniale. Colui che sceglie e decide di essere
poeta. Risoluto. Mai fisso nello stesso luogo.
Lui è il poeta giardiniere, colui che ama la rosa. Rilke, il viaggiatore
instancabile.
Era l’uomo dei salotti, il poeta di Parigi. Era l’uomo delle infinite
solitudini.
Un rigore, il suo, che premierà qualsiasi sacrificio.
Rainer Maria Rilke dall’anima delicatissima. Poeta dotato di una sensibilità
dell’altro mondo.
Una vita consacrata alla poesia, consumata dalla poesia. Poesia totemica, poesia
totale la sua.
Fu il vero amante di Lou Andreas Salomè. Lui, che ebbe il coraggio di
abbandonare la figlia.
Oltre a Valéry, tra gli altri, conobbe Rodin, Pasternak, Tolstoj. Viaggiò per
raggiungere la Russia, inspiegabilmente conoscendone la lingua, per poi
dimenticarsela. Tradusse dall’inglese la Browning, amava Hermann Hesse e Georg
Trakl.
Venerato nei salotti e nei castelli più prestigiosi dell’epoca, viaggiò molto,
all’inverosimile; passò spesso per l’Italia e non solo. Per lui ogni castello
era la vita. Per lui ogni donna, una mecenate.
Scrisse lettere a una poetessa orfica: Catherine Pozzi. Ne nacque un epistolario
magnetico e immortale.
Fu fine traduttore appunto, tanto che dal francese fu forgiata l’opera sua.
Tanto che dall’amore tra Paul Valéry e Catherine Pozzi, senza saperlo, lui venne
influenzato, ultimando due opere estreme e meravigliose: le Elegie Duinesi e
i Sonetti a Orfeo.
Ogni castello era la vita: una fine solitudine che doveva attraversarlo
compiutamente.
Rilke, poeta dallo sguardo irresistibile. Rilke che asseconda tutto.
Tutto deve essere affrontato per lui; il bene e il male non hanno differenze.
Occorre assentire nella vertiginosa curva della vita, anche quando la malattia
lo pressa e lo preme.
Egli è il poeta che si sente sempre più attirato ad acconsentire dalla sua
posizione provvisoria a quel Tutto in cui vita e morte si compenetrano e si
fondono costantemente.
Rilke, poeta dal sangue vivo ‒ poeta dal sangue malato.
Una malattia del sangue ce l’ha portato via, dopo una sofferenza affrontata fino
all’ultimo rifiutando la morfina. Il viaggiatore instancabile così svanisce, in
un sanatorio svizzero, a Valmont. Svanisce però dopo aver vissuto intensamente
la sua vita, dopo aver vissuto intensamente il reale; dopo esser stato,
compiutamente e fino in fondo, poeta.
La sua scelta l’ha reso consapevole di ciò che era. La costanza premia l’uomo.
La costanza del sapere che siamo nulla, e che tutto possiamo.
(Giorgio Anelli)
> Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
> Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
> leggere nelle veglie, e lunghi fogli
> scrivere, e incerto sulle vie tornare
> dove nell’aria fluttuano le foglie.
>
> (Da: Giorno d’autunno, traduzione di Giaime Pintor)
L'articolo Rilke, il molto amato, l’uomo delle infinite solitudini proviene da
Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.