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Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria della relatività
Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry. Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica, dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di Kassner – restituisce un responso severo: > “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di > Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali, > riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.  Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:  > “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si > rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se > avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice > curiosità per qualcosa di curioso”. Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:  > “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico. > […]”. Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora, aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata unità d’intendimento. * Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive: > “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e > penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova > scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va, > si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità, > che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”. Arcane consapevolezze rimuginano come  > “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’… > attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è > l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo > continuamente non ha bisogno di impulso”. Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.  Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali echeggiano nei versi della poesia Gong:   > “Risonanza, non più con l’udito > misurabile. Come fosse il suono > che tutt’intorno ci trascende > una maturità dello spazio” Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa vivida rappresentazione.  “Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì, annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.  * Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:  > “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i > suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel > luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza > del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo > compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo > regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta, > indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato > il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto > perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come > per miracolo, il profilo della guancia”. Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori) silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la comprensione del contesto: la Civetta.  Stupisce, ancora, l’assoluto allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata, stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa di Rilke è dogma incarnato. L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi – invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.  * Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il non essere; la morte e la vita.  Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926 * La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925: >  “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più > profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si > spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad > esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi > esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”. Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che  > “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le > figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali, > ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni > di cui partecipiamo”. La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa intuire ulteriori consapevolezze:  > “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti > trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed > eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle > sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo > non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo > non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli, > nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e > spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno > sostituite”. * L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.  Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico. È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa meccanica:  > “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi; > Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –  > dov’erano ancora tanto lontani dal farcela > dove ancora cadevano l’uno dall’altro”. Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.  La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può (solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo) ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.  Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke ne rappresenta il corrispettivo letterario.  A noi, fortunati beneficiari di insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”, entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero: > “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel > mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso > gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo > di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire > ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che > tutti siano”. Riccardo Peratoner L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria della relatività proviene da Pangea.
August 1, 2025 / Pangea
Rilke, il molto amato, l’uomo delle infinite solitudini
Rilke è l’amato. Il molto amato. L’angelo amato da tutti. Il bambino angelico costretto all’esercito. La sua personalità ne risentirà. La sua personalità lo salverà da questo e altri traumi.  Rainer è lo studente interessato e geniale. Colui che sceglie e decide di essere poeta. Risoluto. Mai fisso nello stesso luogo. Lui è il poeta giardiniere, colui che ama la rosa. Rilke, il viaggiatore instancabile.  Era l’uomo dei salotti, il poeta di Parigi. Era l’uomo delle infinite solitudini.  Un rigore, il suo, che premierà qualsiasi sacrificio. Rainer Maria Rilke dall’anima delicatissima. Poeta dotato di una sensibilità dell’altro mondo. Una vita consacrata alla poesia, consumata dalla poesia. Poesia totemica, poesia totale la sua. Fu il vero amante di Lou Andreas Salomè. Lui, che ebbe il coraggio di abbandonare la figlia. Oltre a Valéry, tra gli altri, conobbe Rodin, Pasternak, Tolstoj. Viaggiò per raggiungere la Russia, inspiegabilmente conoscendone la lingua, per poi dimenticarsela. Tradusse dall’inglese la Browning, amava Hermann Hesse e Georg Trakl.  Venerato nei salotti e nei castelli più prestigiosi dell’epoca, viaggiò molto, all’inverosimile; passò spesso per l’Italia e non solo. Per lui ogni castello era la vita. Per lui ogni donna, una mecenate. Scrisse lettere a una poetessa orfica: Catherine Pozzi. Ne nacque un epistolario magnetico e immortale.  Fu fine traduttore appunto, tanto che dal francese fu forgiata l’opera sua. Tanto che dall’amore tra Paul Valéry e Catherine Pozzi, senza saperlo, lui venne influenzato, ultimando due opere estreme e meravigliose: le Elegie Duinesi e i Sonetti a Orfeo. Ogni castello era la vita: una fine solitudine che doveva attraversarlo compiutamente. Rilke, poeta dallo sguardo irresistibile. Rilke che asseconda tutto.  Tutto deve essere affrontato per lui; il bene e il male non hanno differenze. Occorre assentire nella vertiginosa curva della vita, anche quando la malattia lo pressa e lo preme.  Egli è il poeta che si sente sempre più attirato ad acconsentire dalla sua posizione provvisoria a quel Tutto in cui vita e morte si compenetrano e si fondono costantemente. Rilke, poeta dal sangue vivo ‒ poeta dal sangue malato.  Una malattia del sangue ce l’ha portato via, dopo una sofferenza affrontata fino all’ultimo rifiutando la morfina. Il viaggiatore instancabile così svanisce, in un sanatorio svizzero, a Valmont. Svanisce però dopo aver vissuto intensamente la sua vita, dopo aver vissuto intensamente il reale; dopo esser stato, compiutamente e fino in fondo, poeta.  La sua scelta l’ha reso consapevole di ciò che era. La costanza premia l’uomo. La costanza del sapere che siamo nulla, e che tutto possiamo.  (Giorgio Anelli) > Chi non ha casa adesso, non l’avrà. > Chi è solo a lungo solo dovrà stare, > leggere nelle veglie, e lunghi fogli > scrivere, e incerto sulle vie tornare > dove nell’aria fluttuano le foglie. > > (Da: Giorno d’autunno, traduzione di Giaime Pintor) L'articolo Rilke, il molto amato, l’uomo delle infinite solitudini proviene da Pangea.
July 23, 2025 / Pangea
Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke. Dialogo con Marie Darrieussecq
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare istitutrice; voleva fare l’artista.  I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901. Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi, soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà “degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre – riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.  A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq, l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque, tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani: è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice. Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.  Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale, con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è fatta di Rilke? Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio libro. Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906 Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.  Libera, energica, interrotta.  Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una scrittrice che vive nel 2025? Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e di amare, liberamente.  Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il titolo del libro? Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di Joseph-François Angelloz. Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante? Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg. Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale quello che ha scelto di tenere in ombra? Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra, oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera… Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula. Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la maternità è ambiguo, affascinante.   Marie Darrieussecq; photo Charles Freger Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?  Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia, sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli. Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza imposti da uno sguardo patriarcale.  Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale, che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto con il ‘sacro’, con l’invisibile? Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte. L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di sacralizzarlo. La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker: un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico, palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’ come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni… Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho ancora finito… Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale, come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca, gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere, accettavano di posare nude per pochi spiccioli. Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale. Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere all’IA? Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico, non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.   Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906 Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare un gesto ‘politico’?  Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista” possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della Vergine Maria! *In copertina: Paula Becker (1876-1907) L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke. Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
June 7, 2025 / Pangea