
Monumento a Chesterton, lo scrittore che poteva essere Kafka ma optò per la felicità
Pangea - Thursday, August 21, 2025Qui muore un altro giorno
G. K. Chesterton, “Sera”, da The Notebook
Durante il quale ho avuto occhi, orecchie, mani
E il grande mondo tutto intorno; e domani
Ne inizia uno nuovo.
Possibile ne possa avere due?
Scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle sue lezioni di Letteratura inglese, in “Accenni ad alcuni contemporanei” (come ha spiegato Gioacchino Lanza Tomasi, suo figlio adottivo, lezioni meno “collettive” di quanto si pensi – per lo più scritte e “adoperate soltanto per [Francesco] Orlando, e lette clandestinamente da me in blocchi che mi venivano forniti da Giuseppe sotto la consegna del silenzio”):
“Gli inglesi passano, a giusta ragione, per essere un popolo silenzioso. Però essi hanno prodotto, nel nostro secolo [ventesimo, ndr], quattro dei più grandi e inesauribili conversatori che siano esistiti: Chesterton, Wells, Huxley e Shaw, massimo fra tutti. E intendo dire conversatori non solamente verbali ma gente cui le chiacchiere chilometriche scambiate fra amici non bastano: gente che è stata costretta a scaricare in migliaia di pagine le chiacchiere ancora inevase. A questa favolosa possibilità di chiacchierare, in salotti e in libri, essi dovettero la immensa popolarità che li circondò perché essa dovette apparire come una dote magica a quel popolo taciturno, tanto più che erano chiacchiere di valore, nutrite di cognizioni vastissime e condite dell’humour più genuino. […] ‘Vi è un tempo per parlare e un tempo per tacere.’ Questo enunziato di saggezza salomonica restò loro incomprensibile sulla terra; speriamo che nei Campi Elisi abbiano trovato il tempo del silenzio; speriamolo, voglio dire, per gli altri ché per loro il dover tacere equivarrà all’inferno.”
Il principe di Lampedusa si soffermava sorprendentemente su uno di questi “super-campioni della polemica”, Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936), il “poeta che danza con cento gambe”:
“Fra lo scrittore cattolico italiano e quello inglese (o per dire vero di qualsiasi altro paese) corre una grande differenza. Lo scrittore italiano che si professi chiaramente cattolico è sempre uno scrittore ‘moscio’. Lo scrittore inglese (o francese, o tedesco, o americano) che si batte per la Chiesa cattolica è sempre uno scrittore ‘duro’. Ciò dipende dal fatto che in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti il cattolicesimo è una religione di minoranza di fronte ad altre confessioni e gli occorre decisione, aggressività e coraggio per affermarsi e mantenersi. In Francia il cattolicesimo è anch’esso in minoranza non già di fronte ad altre forme di religione ma di fronte alle varie sfumature della miscredenza.”
In Italia, invece, “il cattolicesimo, oltre ad essere la confessione del novantasette per cento della popolazione, esce da un periodo di predominio che, evidentemente, non era producente. Quindi il cattolico italiano è pieno di rimorsi inconsci ed ha sempre l’aria di scusarsi di esserlo. In Inghilterra i cattolici sono il cinque per cento ed escono da un lungo periodo di persecuzione, sanguinosa in principio, patrimoniale e politica dopo, vessatoria sempre, che li pone nella redditizia posizione di accusatori.”
Concludendo con l’usuale nota ironica: “E così si perpetua quella temperatura di brodo tiepido che favorisce la germinazione dei microbi ma non dei polemisti”.
*
Se già allora (indicativamente tra il 1953 e il 1955 – Lampedusa sarebbe morto a breve), la memoria di questi grandi autori tendeva “ad affievolirsi”, oggi GKC non è ancora presente nel nostro panorama editoriale – Lindau ne traduce l’opera narrativa e saggistica da una decina di anni (fra gli ultimi: L’uomo comune, La mia fede, Il Napoleone di Notting Hill…), diverse opere sono state tradotte da Leardini (con la Società Chestertoniana Italiana) e da Jouvence, nonché da Adelphi, con il saggio L’età vittoriana nella letteratura(memorabile la quarta di copertina: “Chesterton era incapace di introdurre anche solo una traccia di moderazione in ciò che faceva…”). Presso le Edizioni Ares, a cura di Andrea Monda, è uscita “un’appassionante miscellanea di saggi” scritti negli anni Venti, Giovani idee. La felicità di pensare (della stessa casa editrice, si segnala la biografia di Paolo Gulisano e Daniele De Rosa, Chesterton. La sostanza della fede).
Come suggerisce quest’ultimo titolo, tra le caratteristiche più apprezzate di questo “spirito paradossale” fu forse proprio l’ironia: le sue poesie, scriveva ancora Lampedusa, sono “fra le più divertenti che esistano” – così come il suo modo di presentare “le verità più trite con la testa in giù in modo che esse ci appaiono inedite”. “Voi, naturalmente,” ammoniva “da buoni italiani che desiderate la letteratura ‘seria’ per poter più serenamente condurre una vita non seria, arriccerete il naso. Ma avete torto. Una buona serie di letture chestertoniane vi farà gran bene.”

Mi viene in mente a proposito un aneddoto raccontato da un suo appassionato lettore, Simon Leys:
“Vidi una copia del Napoleone di Notting Hill di Chesterton; conoscevo il libro solamente dal titolo, e, per curiosità, l’ho preso e aperto alla prima pagina, leggendo l’inizio della prima frase nel Capitolo Uno: ‘La razza umana, della quale fanno parte tanti miei lettori…’ Ho comprato il libro seduta stante e lasciato di fretta la libreria. La vista di un anziano che ride chiassosamente fra sé in un luogo pubblico potrebbe essere piuttosto imbarazzante, e non avrei voluto disturbare gli altri avventori.”
Eppure, bisogna al contempo rilevare come già fece Borges – “qualcosa nella creta del suo io inclinava all’incubo, qualcosa di segreto, e cieco e centrale” – la sotterranea vena di nero pessimismo attraversante l’umorismo di Chesterton; sempre Borges: “Poteva essere Kafka o Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità e sostenne di averla trovata.” Lo stesso Leys, citato poco sopra, nel saggio che gli dedicò (si veda Le Studio de l’inutilité, Flammarion 2012; The Hall of Uselesness, The NYRB 2013), rifletteva a proposito:
“Uno dei molti equivoci in cui spesso incappiamo intorno alla figura di Chesterton è di immaginarlo come un tizio grande, benigno e allegro, sempre preso da una inesauribile e innocente risata… Un uomo forse di un’altra epoca, il quale difficilmente avrebbe avuto un’idea dei terrori e degli orrori che hanno caratterizzato la nostra. Alla fine di questo orribile ventesimo secolo – indubbiamente il più selvaggio e disumano periodo della storia – potremmo a buona ragione chiederci: con il suo permanente e imperturbabile buonumore, non è forse, Chesterton, una sorta di monumento appartenente ad un’altra era – se non ad un’altra civiltà? Non dovrebbe forse apparire al lettore moderno come un toccante, ma in fondo irrilevante anacronismo? Dacché, dopo tutto, noi siamo figli di Kafka: come potrebbe allora Chesterton avere a che fare con le nostre ansie?”
Tuttavia – continuava Leys – “il fatto è che Kafka stesso trovò in Chesterton uno specchio per le proprie ansie. Sappiamo dalla testimonianza di un suo giovane amico e ammiratore, Gustav Janouch, che Kafka ammirava in modo particolare L’uomo che fu Giovedì (che è per l’appunto, l’opera narrativa più riuscita e affascinante di Chesterton). A proposito di questo libro, si dovrebbe notare tra l’altro che Chesterton stesso si lamentò, una volta, che la maggior parte dei suoi lettori sembravano non essersi resi mai pienamente conto della seconda parte del titolo: L’uomo che fu Giovedì: UN INCUBO. Ma quest’ultima parola, certamente non dovette scappare a Kafka.”
*
Anche Lampedusa aveva indicato tra i migliori libri di Chesterton, insieme ad Ortodossia e ai racconti di Padre Brown, proprio L’uomo che fu Giovedì (1908):
“è un conte philosophique di Voltaire in ambiente mondano e soprattutto, col bersaglio mutato. In esso s’intende deridere la scienza moderna e la filosofia sulla quale essa si appoggia, che finisce con l’identificare il Male al Bene. […] Ma a parte l’estrema maliziosità comune ad entrambi, essi [Chesterton e Voltaire] hanno il segreto del movimento rapidissimo che non lascia riflettere e la facoltà di saper incarnare in personaggi viventi le più astratte opinioni filosofiche. Il buon umore continuo, l’attitudine caricaturale, le subitanee frasi rivelatrici d’inaspettate profondità teologiche fanno di questo romanzetto un capolavoro.”
Tra l’altro, già nel 1999, all’alba del nuovo millennio, Leys ne consigliava la lettura accostando questo romanzo soltanto a L’agente segreto di Conrad (scritto negli stessi anni, a cui anche dedicò un articolo intitolato “‘Je ne suis pas d’ici’: Joseph Conrad e L’Agent secret”) includendolo nei “tesori dimenticati” della letteratura del novecento, con la motivazione: “È l’unico romanzo nell’intera storia della narrativa, nel quale si è potuto introdurre Dio come plausibile personaggio!”

Sullo sfondo di questa cosmica detective story, con poliziotti e agenti segreti che rincorrono anarchici e pessimisti (“L’investigatore comune va nelle bettole ad arrestare i ladri, noi andiamo nei salotti culturali a scovare i pessimisti”) occupato dall’ambigua figura del presidente del Consiglio anarchico Europeo, soprannominato Domenica, si svolge un adrenalinico combattimento metafisico – che, prestandosi a diversi livelli di interpretazione, lascia al lettore anche dopo diverso tempo alcuni interrogativi esistenziali: come avere la certezza che quel facciamo è giusto o sbagliato? Siamo davvero sicuri di sapere contro chi stiamo combattendo? E sappiamo per davvero, nei nostri sforzi, quando siamo nella direzione giusta?
Difficile rispondere, ad ogni nuova situazione concreta, ed è proprio questo l’incubo che Chesterton qui inscena, mettendo i suoi personaggi sulla strada di prove sempre più estreme (“si ricordava di come la paura per il Professore assomigliasse a quella che generano gli eventi incontrollabili di un incubo e di come la paura per il Dottore assomigliasse a quella del vuoto soffocante della scienza”…) con un esito sempre inaspettato, senza che tuttavia si tirino mai indietro di fronte ad esse. E cogliendo un aspetto profondo della sua – e della nostra società.
Andrea Corsi
*
Da L’uomo che fu Giovedì
“In fondo, non era forse vero che tutto, come in quel bosco incantato, consisteva in una danza tra il buio e la luce? Ogni cosa è solo un bagliore, un bagliore che giunge sempre inaspettato e che sempre viene subito dimenticato. Ecco che Gabriel Syme aveva trovato nel fitto di quel bosco punteggiato di luce ciò che vi trovarono molti pittori moderni: era ciò che la gente moderna definisce Impressionismo, un altro nome per identificare quello scetticismo estremo, incapace di trovare le fondamenta dell’universo.”
“Syme balzò in piedi, fremendo dalla testa ai piedi: «Ora capisco, – gridò – capisco tutto. Perché ogni singola cosa sulla Terra fa guerra a tutte le altre? Perché ogni piccola cosa esistente al mondo deve combattere contro il mondo intero? Perché una mosca deve combattere contro l’intero universo? Perché un dente di leone deve combattere contro l’intero universo? Per lo stesso motivo per cui io dovevo sentirmi da solo in mezzo al tremendo Consiglio dei Giorni: e cioè, affinché ogni cosa che obbedisce alla legge possa avere la gloria e la solitudine dell’anarchico, affinché ogni uomo che combatte in nome dell’ordine possa essere tanto impavido e devoto quanto un terrorista. Solo così la bugia di Satana può essere ritorta contro quella sua faccia da bugiardo, solo così noi possiamo guadagnarci il diritto, attraverso le lacrime e il sangue versato, di dirgli in faccia: ‘Tu menti!’. Nessuna sofferenza è troppo grande, se ci fa guadagnare il diritto di dire in faccia a quest’accusatore: ‘Anche noi abbiamo sofferto’.”
L'articolo Monumento a Chesterton, lo scrittore che poteva essere Kafka ma optò per la felicità proviene da Pangea.