> Qui muore un altro giorno
> Durante il quale ho avuto occhi, orecchie, mani
> E il grande mondo tutto intorno; e domani
> Ne inizia uno nuovo.
> Possibile ne possa avere due?
>
> G. K. Chesterton, “Sera”, da The Notebook
Scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle sue lezioni di Letteratura inglese,
in “Accenni ad alcuni contemporanei” (come ha spiegato Gioacchino Lanza Tomasi,
suo figlio adottivo, lezioni meno “collettive” di quanto si pensi – per lo più
scritte e “adoperate soltanto per [Francesco] Orlando, e lette clandestinamente
da me in blocchi che mi venivano forniti da Giuseppe sotto la consegna del
silenzio”):
> “Gli inglesi passano, a giusta ragione, per essere un popolo silenzioso. Però
> essi hanno prodotto, nel nostro secolo [ventesimo, ndr], quattro dei più
> grandi e inesauribili conversatori che siano esistiti: Chesterton, Wells,
> Huxley e Shaw, massimo fra tutti. E intendo dire conversatori non solamente
> verbali ma gente cui le chiacchiere chilometriche scambiate fra amici non
> bastano: gente che è stata costretta a scaricare in migliaia di pagine le
> chiacchiere ancora inevase. A questa favolosa possibilità di chiacchierare, in
> salotti e in libri, essi dovettero la immensa popolarità che li circondò
> perché essa dovette apparire come una dote magica a quel popolo taciturno,
> tanto più che erano chiacchiere di valore, nutrite di cognizioni vastissime e
> condite dell’humour più genuino. […] ‘Vi è un tempo per parlare e un tempo per
> tacere.’ Questo enunziato di saggezza salomonica restò loro incomprensibile
> sulla terra; speriamo che nei Campi Elisi abbiano trovato il tempo del
> silenzio; speriamolo, voglio dire, per gli altri ché per loro il dover tacere
> equivarrà all’inferno.”
Il principe di Lampedusa si soffermava sorprendentemente su uno di questi
“super-campioni della polemica”, Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936), il
“poeta che danza con cento gambe”:
> “Fra lo scrittore cattolico italiano e quello inglese (o per dire vero di
> qualsiasi altro paese) corre una grande differenza. Lo scrittore italiano che
> si professi chiaramente cattolico è sempre uno scrittore ‘moscio’. Lo
> scrittore inglese (o francese, o tedesco, o americano) che si batte per la
> Chiesa cattolica è sempre uno scrittore ‘duro’. Ciò dipende dal fatto che in
> Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti il cattolicesimo è una religione
> di minoranza di fronte ad altre confessioni e gli occorre decisione,
> aggressività e coraggio per affermarsi e mantenersi. In Francia il
> cattolicesimo è anch’esso in minoranza non già di fronte ad altre forme di
> religione ma di fronte alle varie sfumature della miscredenza.”
In Italia, invece, “il cattolicesimo, oltre ad essere la confessione del
novantasette per cento della popolazione, esce da un periodo di predominio che,
evidentemente, non era producente. Quindi il cattolico italiano è pieno di
rimorsi inconsci ed ha sempre l’aria di scusarsi di esserlo. In Inghilterra i
cattolici sono il cinque per cento ed escono da un lungo periodo di
persecuzione, sanguinosa in principio, patrimoniale e politica dopo, vessatoria
sempre, che li pone nella redditizia posizione di accusatori.”
Concludendo con l’usuale nota ironica: “E così si perpetua quella temperatura di
brodo tiepido che favorisce la germinazione dei microbi ma non dei polemisti”.
*
Se già allora (indicativamente tra il 1953 e il 1955 – Lampedusa sarebbe morto a
breve), la memoria di questi grandi autori tendeva “ad affievolirsi”, oggi GKC
non è ancora presente nel nostro panorama editoriale – Lindau ne traduce l’opera
narrativa e saggistica da una decina di anni (fra gli ultimi: L’uomo comune, La
mia fede, Il Napoleone di Notting Hill…), diverse opere sono state tradotte da
Leardini (con la Società Chestertoniana Italiana) e da Jouvence, nonché da
Adelphi, con il saggio L’età vittoriana nella letteratura(memorabile la quarta
di copertina: “Chesterton era incapace di introdurre anche solo una traccia di
moderazione in ciò che faceva…”). Presso le Edizioni Ares, a cura di Andrea
Monda, è uscita “un’appassionante miscellanea di saggi” scritti negli anni
Venti, Giovani idee. La felicità di pensare (della stessa casa editrice, si
segnala la biografia di Paolo Gulisano e Daniele De Rosa, Chesterton. La
sostanza della fede).
Come suggerisce quest’ultimo titolo, tra le caratteristiche più apprezzate di
questo “spirito paradossale” fu forse proprio l’ironia: le sue poesie, scriveva
ancora Lampedusa, sono “fra le più divertenti che esistano” – così come il suo
modo di presentare “le verità più trite con la testa in giù in modo che esse ci
appaiono inedite”. “Voi, naturalmente,” ammoniva “da buoni italiani che
desiderate la letteratura ‘seria’ per poter più serenamente condurre una vita
non seria, arriccerete il naso. Ma avete torto. Una buona serie di letture
chestertoniane vi farà gran bene.”
Mi viene in mente a proposito un aneddoto raccontato da un suo appassionato
lettore, Simon Leys:
> “Vidi una copia del Napoleone di Notting Hill di Chesterton; conoscevo il
> libro solamente dal titolo, e, per curiosità, l’ho preso e aperto alla prima
> pagina, leggendo l’inizio della prima frase nel Capitolo Uno: ‘La razza umana,
> della quale fanno parte tanti miei lettori…’ Ho comprato il libro seduta
> stante e lasciato di fretta la libreria. La vista di un anziano che ride
> chiassosamente fra sé in un luogo pubblico potrebbe essere piuttosto
> imbarazzante, e non avrei voluto disturbare gli altri avventori.”
Eppure, bisogna al contempo rilevare come già fece Borges – “qualcosa nella
creta del suo io inclinava all’incubo, qualcosa di segreto, e cieco e centrale”
– la sotterranea vena di nero pessimismo attraversante l’umorismo di Chesterton;
sempre Borges: “Poteva essere Kafka o Poe, ma coraggiosamente optò per la
felicità e sostenne di averla trovata.” Lo stesso Leys, citato poco sopra,
nel saggio che gli dedicò (si veda Le Studio de l’inutilité, Flammarion
2012; The Hall of Uselesness, The NYRB 2013), rifletteva a proposito:
> “Uno dei molti equivoci in cui spesso incappiamo intorno alla figura di
> Chesterton è di immaginarlo come un tizio grande, benigno e allegro, sempre
> preso da una inesauribile e innocente risata… Un uomo forse di un’altra epoca,
> il quale difficilmente avrebbe avuto un’idea dei terrori e degli orrori che
> hanno caratterizzato la nostra. Alla fine di questo orribile ventesimo secolo
> – indubbiamente il più selvaggio e disumano periodo della storia – potremmo a
> buona ragione chiederci: con il suo permanente e imperturbabile buonumore, non
> è forse, Chesterton, una sorta di monumento appartenente ad un’altra era – se
> non ad un’altra civiltà? Non dovrebbe forse apparire al lettore moderno come
> un toccante, ma in fondo irrilevante anacronismo? Dacché, dopo tutto, noi
> siamo figli di Kafka: come potrebbe allora Chesterton avere a che fare con le
> nostre ansie?”
Tuttavia – continuava Leys – “il fatto è che Kafka stesso trovò in Chesterton
uno specchio per le proprie ansie. Sappiamo dalla testimonianza di un suo
giovane amico e ammiratore, Gustav Janouch, che Kafka ammirava in modo
particolare L’uomo che fu Giovedì (che è per l’appunto, l’opera narrativa più
riuscita e affascinante di Chesterton). A proposito di questo libro, si dovrebbe
notare tra l’altro che Chesterton stesso si lamentò, una volta, che la maggior
parte dei suoi lettori sembravano non essersi resi mai pienamente conto della
seconda parte del titolo: L’uomo che fu Giovedì: UN INCUBO. Ma quest’ultima
parola, certamente non dovette scappare a Kafka.”
*
Anche Lampedusa aveva indicato tra i migliori libri di Chesterton, insieme
ad Ortodossia e ai racconti di Padre Brown, proprio L’uomo che fu
Giovedì (1908):
> “è un conte philosophique di Voltaire in ambiente mondano e soprattutto, col
> bersaglio mutato. In esso s’intende deridere la scienza moderna e la filosofia
> sulla quale essa si appoggia, che finisce con l’identificare il Male al Bene.
> […] Ma a parte l’estrema maliziosità comune ad entrambi, essi [Chesterton e
> Voltaire] hanno il segreto del movimento rapidissimo che non lascia riflettere
> e la facoltà di saper incarnare in personaggi viventi le più astratte opinioni
> filosofiche. Il buon umore continuo, l’attitudine caricaturale, le subitanee
> frasi rivelatrici d’inaspettate profondità teologiche fanno di questo
> romanzetto un capolavoro.”
Tra l’altro, già nel 1999, all’alba del nuovo millennio, Leys ne consigliava la
lettura accostando questo romanzo soltanto a L’agente segreto di Conrad (scritto
negli stessi anni, a cui anche dedicò un articolo intitolato “‘Je ne suis pas
d’ici’: Joseph Conrad e L’Agent secret”) includendolo nei “tesori dimenticati”
della letteratura del novecento, con la motivazione: “È l’unico romanzo
nell’intera storia della narrativa, nel quale si è potuto introdurre Dio come
plausibile personaggio!”
Sullo sfondo di questa cosmica detective story, con poliziotti e agenti segreti
che rincorrono anarchici e pessimisti (“L’investigatore comune va nelle bettole
ad arrestare i ladri, noi andiamo nei salotti culturali a scovare i
pessimisti”) occupato dall’ambigua figura del presidente del Consiglio anarchico
Europeo, soprannominato Domenica, si svolge un adrenalinico combattimento
metafisico – che, prestandosi a diversi livelli di interpretazione, lascia al
lettore anche dopo diverso tempo alcuni interrogativi esistenziali: come avere
la certezza che quel facciamo è giusto o sbagliato? Siamo davvero sicuri di
sapere contro chi stiamo combattendo? E sappiamo per davvero, nei nostri sforzi,
quando siamo nella direzione giusta?
Difficile rispondere, ad ogni nuova situazione concreta, ed è proprio questo
l’incubo che Chesterton qui inscena, mettendo i suoi personaggi sulla strada di
prove sempre più estreme (“si ricordava di come la paura per il Professore
assomigliasse a quella che generano gli eventi incontrollabili di un incubo e di
come la paura per il Dottore assomigliasse a quella del vuoto soffocante della
scienza”…) con un esito sempre inaspettato, senza che tuttavia si tirino mai
indietro di fronte ad esse. E cogliendo un aspetto profondo della sua – e della
nostra società.
Andrea Corsi
*
Da L’uomo che fu Giovedì
“In fondo, non era forse vero che tutto, come in quel bosco incantato,
consisteva in una danza tra il buio e la luce? Ogni cosa è solo un bagliore, un
bagliore che giunge sempre inaspettato e che sempre viene subito dimenticato.
Ecco che Gabriel Syme aveva trovato nel fitto di quel bosco punteggiato di luce
ciò che vi trovarono molti pittori moderni: era ciò che la gente moderna
definisce Impressionismo, un altro nome per identificare quello scetticismo
estremo, incapace di trovare le fondamenta dell’universo.”
“Syme balzò in piedi, fremendo dalla testa ai piedi: «Ora capisco, – gridò –
capisco tutto. Perché ogni singola cosa sulla Terra fa guerra a tutte le altre?
Perché ogni piccola cosa esistente al mondo deve combattere contro il mondo
intero? Perché una mosca deve combattere contro l’intero universo? Perché un
dente di leone deve combattere contro l’intero universo? Per lo stesso motivo
per cui io dovevo sentirmi da solo in mezzo al tremendo Consiglio dei Giorni: e
cioè, affinché ogni cosa che obbedisce alla legge possa avere la gloria e la
solitudine dell’anarchico, affinché ogni uomo che combatte in nome dell’ordine
possa essere tanto impavido e devoto quanto un terrorista. Solo così la bugia di
Satana può essere ritorta contro quella sua faccia da bugiardo, solo così noi
possiamo guadagnarci il diritto, attraverso le lacrime e il sangue versato, di
dirgli in faccia: ‘Tu menti!’. Nessuna sofferenza è troppo grande, se ci fa
guadagnare il diritto di dire in faccia a quest’accusatore: ‘Anche noi abbiamo
sofferto’.”
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