
Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
Pangea - Thursday, September 18, 2025Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci riguarda o appartiene a un Altrove?
Esiste il silenzio?
A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.
Dove abita il silenzio?
Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?
Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.
Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa voglia di farlo.
Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace. Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo; cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire al sicuro:
“Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore. Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.
Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé ideale.
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Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha da dire il mare.
Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia Candiani ne Il silenzio è cosa viva:
“La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.
Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.
Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto.
Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.

Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.
Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni, di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio, oltre il tempo e lo spazio:
“Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale deve disattivarsi volontariamente”.
Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius, dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.
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È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero, quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:
“cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.
Cosa vuol dire senza-pensiero?
“Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo è ‘estirpare i pensieri’”.
Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi, parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando sono stanco, vado a dormire”.
Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in una poesia scriveva:
“In primavera i fiori
in estate il cuculo e
in autunno la luna.
Nel freddo inverno
la neve chiara e pura”.
Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare, concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”.
Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori, poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.
Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.

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Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio. Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle orecchie, magari anche un acufene.
Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto, in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.
Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti, immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire nel cuore, sperimentare in prima persona.
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E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo, incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della meraviglia del vuoto.
Dejanira Bada
*In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del 1989 ritratto da Annie Leibovitz
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