La Storia non insegna niente. Intorno a “La ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead

Pangea - Saturday, October 4, 2025

Underground Railroad (la ferrovia sotterranea) era una rete clandestina – alla quale si unì anche la famiglia di Louisa May Alcott, l’autrice di Piccole donne – che, nel secolo XIX, negli Stati Uniti, aiutava gli afroamericani a fuggire dagli stati schiavisti del sud in quelli abolizionisti del nord oppure in Canada. 

Il treno occupava un ruolo centrale nell’immaginario dei neri. Era il mezzo con cui sognavano di scappare per potersi finalmente liberare dalle catene della schiavitù o della prigionia, e non essere più condannati a sacrificare le proprie vite nelle piantagioni o nei penitenziari, ai lavori forzati: «Il treno che passa sbuffando e fischiando, che viene da lontano e che va chissà dove, che porta con sé gli uomini liberi e che potrebbe un giorno portare il poveraccio che soffre (un lavoratore dei campi, o un forzato: in quegli anni non faceva molta differenza) lontano dai luoghi della sua pena, è stato […] per molto tempo uno dei motivi dominanti della letteratura folklorica negro-americana, nei blues e anche nel primo jazz. L’“espresso di mezzanotte” passa vicino alla prigione ed è il simbolo di un mondo migliore, remoto, irraggiungibile». Il brano citato è tratto da un commento di Arrigo Polillo alla ballata Midnight Special di Leadbelly (Arrigo Polillo, Jazz, 1975-1997, p. 28). 

Nel suo romanzo, La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead immagina che l’underground railroad non sia soltanto un’organizzazione ma una struttura realmente esistente nel sottosuolo della federazione americana, e che attraversa gli stati del sud fino ad arrivare in quelli del nord per portare in salvo i neri fuggitivi. Il libro è per alcuni un’ucronia (l’esempio più famoso del genere è il romanzo di Philip K. Dick The Man in the High Castle) in quanto descrizione di quello che sarebbe accaduto se la ferrovia in parola fosse letteralmente esistita. In verità, viene facile immaginare che né la storia degli afroamericani né quella degli Stati Uniti sarebbe cambiata granché se ci fosse veramente stato qualcosa del genere. Ed in effetti, a differenza di quello di Dick, il testo di Whitehead non delinea sconvolgimenti storici di rilievo. Se non fosse per la sua ambientazione nel passato, si potrebbe piuttosto parlare di discronia, ovvero di una narrazione che si dispiega all’interno di una cornice “fantastica” con connotazioni sostanzialmente “realistiche”.

Il libro è una summa abbastanza armonica di vari generi: il romanzo realista, quello postmoderno, il romanzo d’appendice, il romanzo storico, il Bildungsroman, il romanzo familiare e, infine, la slave narrative (i cui prototipi sono The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, The Narrative of Frederick Douglass, an American Slave, Written by Himself e Incidents in the Life of a Slave Girl, Written by Herself di Harriet Jacobs, già emulati in passato da svariate opere tra cui la celeberrima Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe). Ma, come La capanna dello zio Tom, non è un’opera di slave narrative perché l’argomento trattato non è la storia autobiografica di un ex schiavo o di una ex schiava. Si può, però, senza dubbio dire, che affonda, fra l’altro, le proprie radici anche in quel genere.

Il romanzo, ambientato negli anni ’30 del XIX secolo, narra la storia della schiava Cora che decide di fuggire, in compagnia di Caesar, dalla piantagione – ubicata in Georgia – dei loro padroni, i Randall.Nel corso della fuga i due s’imbattono in un gruppo di cacciatori bianchi e, nello scontro che ne consegue, la donna uccide uno degli inseguitori, un ragazzo. Prima di lei, l’unica che era riuscita a sfuggire con successo alle grinfie dei Randall – così almeno sembra, fino al colpo di scena finale qui prudenzialmente omesso per evitare il tanto temuto spoiler – era stata sua madre Mabel. Nei confronti della genitrice la figlia nutre un profondo risentimento per essere stata abbandonata e lasciata da sola nella piantagione, a patire angherie. E anche perché, essendo rimasta priva di protezione, ha dovuto subire una violenza di gruppo ad opera di alcuni suoi compagni di sventura. I due fuggitivi, grazie all’aiuto di un certo signor Fletcher (che «odiava la schiavitù, la vedeva come un insulto agli occhi di Dio»), giungono in una stazione della fantomatica ferrovia sotterranea, prendono il primo treno disponibile e arrivano così nella Carolina del Sud. Nel frattempo, Terrance, ormai unico sopravvissuto della famiglia Randall, affida a un cacciatore di schiavi, Arnold Ridgeway, l’incarico di catturare e riportare indietro i due fuggiaschi. 

Per far capire meglio chi è questo macabro personaggio, impregnato di “sano” spirito americano, che sembra uscito da un film di Quentin Tarantino, è bene tener presente la sua “radicale” interpretazione della dottrina del “destino manifesto” (Manifest Destiny) degli Stati Uniti: 

«“Significa prenderti ciò che è tuo, quello che ti appartiene, qualunque cosa pensi che sia. E tutti gli altri se ne stanno ai loro posti assegnati per permettertelo. Che siano i pellerossa o gli africani, devono arrendersi, sacrificarsi, in modo che noi possiamo ottenere ciò che ci spetta di diritto”». 

Nella città in cui sono arrivati, tutto sembra andare per il meglio a Cora e Caesar. Entrambi, sotto mentite spoglie, hanno un lavoro retribuito e un tetto sopra la testa (vivono in dormitori, separati per i maschi e per le femmine, creati appositamente per la popolazione di colore). Qui Cora scopre l’esistenza della parola «ottimisti» e decide che significa «ci stiamo provando». Ma la donna – che nel frattempo sta imparando a leggere e a scrivere – un po’ alla volta prende coscienza di tutta una serie di cose che non vanno affatto bene: i dottori e i dipendenti delle strutture sanitarie (ubicate in un grattacielo, edificio non ancora esistente all’epoca in cui si svolgono i fatti e, dunque, frutto di un deliberato anacronismo da parte dell’autore) e di accoglienza cercano di persuadere i neri a sterilizzarsi, alle madri di colore vengono sottratti i figli, sono in corso strani esperimenti sulle malattie sanguigne della popolazione afroamericana che ricordano il famigerato Tuskegee Experiment (uno studio sugli effetti della sifilide sulla popolazione maschile nera della cittadina dell’Alabama, iniziato nel 1932 e proseguito fino al 1972 nonostante la scoperta, nel 1940, che la malattia era curabile con la penicillina, con la conseguente morte ingiustificata di numerosi individui). Si accorge che, così facendo, i bianchi rubano il futuro ai neri e che, in Carolina del Sud, questi pur non essendo «pura merce come prima», sono trattati come «bestiame: da allevare, da sterilizzare. Da chiudere in dormitori» che sembrano «stie per i polli o conigliere». Ed ecco che, a dissolvere il sogno del loro illusorio benessere, sul posto giunge all’improvviso Ridgeway che, in base alla legge federale sugli schiavi fuggiaschi (Fugitive Slave Act), è autorizzato a catturare Caesar e Cora anche al di fuori dei confini della Georgia. Per Caesar non c’è scampo: viene squartato dai “civili” abitanti della città in cui era stato accolto, dopo essere stata sparsa la voce che era ricercato per «“l’omicidio di un bambino”». Cora riesce a fuggire con un treno della ferrovia sotterranea. Giunge così nella Carolina del Nord. Qui trova rifugio nella casa di una coppia di persone mature, Martin ed Ethel Wells, ed è costretta a vivere nascosta per alcuni mesi nella soffitta della loro casa che il caldo trasforma «in una tremenda fornace». E qui l’autore si ispira alla vita della già citata Harriet Jacobs che fu costretta a nascondersi per ben sette anni sotto il tetto della casa della nonna, una ex schiava diventata libera. In quello stato Cora è costretta ad assistere all’atroce spettacolo di innumerevoli cadaveri che penzolano dagli alberi «come decorazioni marce» lungo una strada beffardamente chiamata – ironia dell’autore! – il Sentiero della Libertà. Proprio come nella canzone di Lewis Allan (pseudonimo di Abel Meeropol), resa celebre da Billie Holiday, Strange Fruit: 

«Gli alberi del sud hanno strani frutti 
C’è del sangue sulle loro foglie e sangue nelle loro radici 
Neri corpi penzolano nella brezza del sud 
Strani frutti pendono dagli alberi di pioppo». 

Il capitalismo americano dell’epoca ha come motore la produzione e il commercio del cotone e come carburante i corpi dei neri. Il profitto generato dal cotone porta con sé un male necessario: la popolazione afroamericana e la sua crescita incessante. A causa dell’eccesso di quest’ultima rispetto a quella bianca, nell’“immaginaria” Carolina del Nord è in atto un vero e proprio genocidio. I bianchi non vogliono abolire la schiavitù, vogliono tout court “abolire i neri”. Durante la sua permanenza nel sottotetto, Cora continua a imparare a leggere e scrivere, e si appassiona agli almanacchi. 

Tra parentesi, pur non essendo slave narrative, La ferrovia sotterranea possiede due delle caratteristiche fondamentali del genere: il movimento (la fuga dello schiavo) e la trasformazione (Sonia Di Loreto, “La slave narrative e l’abolizionismo atlantico” in La letteratura degli Stati Uniti, a cura di Cristina Iuli e Paola Loreto, 2017-2024, pp. 73 e 75). Al di fuori della piantagione, Cora acquista una nuova consapevolezza, acuisce il suo senso critico. La trasformazione della sua personalità si attua man mano che acquista esperienza e si istruisce. L’incontro con la parola scritta è momento fondante del suo rapporto con la cultura dei bianchi. Il processo di costruzione dell’identità (una caratteristica del Bildungsroman) e quello di acquisizione della libertà passano anche attraverso il processo di alfabetizzazione. Nel saggio citato, Sonia Di Loreto – a proposito di The Narrative of Frederick Douglass – scrive: «Seguendo una traiettoria di autocreazione, il testo di Douglas stabilisce […] una netta relazione fra libertà e alfabetizzazione, e una delle costanti del testo è il desiderio da parte di Douglass bambino prima, e Douglass adulto poi, di imparare a leggere e a scrivere, secondo quello che lo stesso autore definisce come la strada dalla schiavitù alla libertà. Tutti gli episodi di apprendimento sono momenti di furti, sotterfugi, menzogne, a voler rimarcare che il percorso verso l’alfabetizzazione e la liberazione per lo schiavo non poteva essere mai lineare o privo di ostacoli» (Sonia Di Loreto, “La slave narrative e l’abolizionismo atlantico”, cit., p. 81). Questo arduo processo di istruzione e presa di coscienza è brillantemente sintetizzato da Whitehead nel breve capitolo dedicato a Caesar in cui il protagonista rischia la vita leggendo, di nascosto, I viaggi di Gulliver (la morte è la punizione che spetta agli schiavi sorpresi in possesso di libri) perché sa che se non legge non potrà mai sfuggire alla sua condizione di emarginazione e sottomissione. 

Tornando alla trama principale, inutile dire che Ridgeway non tarda a scoprire dove si è rifugiata Cora, vittima della delazione di Fiona, la donna di servizio irlandese dei coniugi Wells. Martin ed Ethel vengono barbaramente trucidati dai loro concittadini mentre il cacciatore di schiavi – in compagnia di un grottesco personaggio, Homer, un ragazzino di colore di dieci anni che indossa un abito e un cappello a cilindro – cattura la protagonista e la porta via con sé attraverso il Tennesee infestato dagli incendi appiccati dai coloni che vogliono avere a disposizione sempre più terra da coltivare. «Per la prima volta Cora era passata da uno stato a un altro senza usare la ferrovia sotterranea». Con lei c’è un altro nero, Jasper, di cui Ridgeway ben presto si sbarazza, assassinandolo, perché ritiene antieconomica l’impresa di riportare la “merce” al suo padrone, nel lontano Missouri. La protagonista tenta più volte, inutilmente, la fuga. Finché – in un accampamento provvisorio del cacciatore di schiavi e della sua compagnia – non sopraggiungono, come dei ex machina, tre uomini di colore armati (uno di loro è Royal, di cui poi Cora si innamorerà) che sottraggono a Ridgeway la preda portandosela con loro in Indiana. E per farlo si servono della strada ferrata sotterranea. Per la protagonista è il terzo viaggio nell’underground railroad. 

Cora si ritrova in uno scenario idilliaco. La sua nuova vita è nella fattoria dei Valentine, una coppia di colore che dà alloggio e lavoro sia agli afroamericani liberi sia ai fuggitivi. Qui la manodopera è retribuita, i diritti delle persone sono riconosciuti e rispettati, i bambini e gli adulti hanno accesso all’istruzione. E qui la protagonista ha finalmente a disposizione «una stanza tutta sua», secondo quanto auspicato da Virginia Woolf. È anche in procinto di iniziare una relazione sentimentale con Royal ma è trattenuta dai cattivi ricordi della violenza subita nella piantagione, in Georgia. Nella fattoria è in atto una disputa tra il proprietario, John Valentine, che vorrebbe trasferire tutto e tutti verso ovest, lontano dagli stati schiavisti, e il viscido Mingo che vorrebbe invece lasciare l’attività produttiva in Indiana mantenendo in servizio solo i neri liberi e lasciando i fuggiaschi in balìa del loro destino. Royal fa giusto in tempo a mostrare a Cora l’ingresso della stazione sotterranea esistente nei paraggi della fattoria ed ecco che si rifanno vivi Ridgeway e Homer, in compagnia di una folla inferocita venuta a sapere (probabilmente perché Mingo ha fatto la spia) che nella tenuta si nascondono dei fuggiaschi e che alcuni di loro hanno ucciso dei bianchi. È inevitabile che si compia una vera e propria carneficina. Royal viene ammazzato. Cora, è nuovamente catturata dal cacciatore di schiavi che la costringe a condurlo al tunnel fantasma della ferrovia sotterranea. Nel corso di una colluttazione, mentre stanno scendendo nella galleria, la donna ferisce e neutralizza Ridgeway. Approfittando della distrazione di Homer, impegnato a prestare assistenza al suo padrone, Cora salta a bordo di un carello ferroviario a mano (handcar) con il quale raggiunge un’altra stazione della struttura sotterranea segreta. Uscita all’aperto, si imbatte in una carovana. Un nero di mezza età, con «un marchio a ferro di cavallo sul collo» (lei si chiede da dove è scappato lui), la fa salire sul suo carro e la porta con sé verso ovest, verso la libertà. 

Il romanzo finisce così. Il finale aperto è sempre ben accetto ma in questo caso lascia la bocca asciutta. Ai lettori sarebbe piaciuto sapere cosa ne sarebbe stato di Cora una volta stabilitasi in uno stato abolizionista. La sua vita sarebbe stata veramente tutta rose e fiori? Avrebbe scoperto altre magagne? Sarebbe andata incontro ad altri orrori? Si teme un sequel.

Come già detto, la Ferrovia sotterranea è un romanzo eclettico riconducibile a vari generi. Da alcuni è classificato come un romanzo fantastico. È vero, ci sono l’invenzione della strada ferrata segreta e l’inserto anacronistico del grattacielo che non hanno alcun riscontro nella realtà storica. Ma non c’è l’intervento della magia, non ci sono fenomeni inspiegabili e irreali. In linea generale, la narrazione procede seguendo i criteri del vero e della verosimiglianza (tecnicamente sarebbe stato possibile costruire una ferrovia sotterranea) ed è dunque tendenzialmente realistica, contaminata qua e là con l’introduzione di diversi elementi “spuri”. Nonostante ciò, lo stile è piuttosto uniforme e asciutto.  

Gli argomenti della schiavitù e della persecuzione razziale sono trattati con ineludibile durezza. L’autore tuttavia non sconfina mai – nelle scene più truci, sempre necessarie e nient’affatto gratuite – nei parossismi iperrealistici del Meridiano di sangue di McCarthy.  Un esempio in questo senso, tanto per dare al lettore un’idea del cinismo degli schiavisti e della brutalità dello schiavismo, è la descrizione della scena seguente: 

«Mentre gli ospiti di Randall sorseggiavano rum speziato, Big Anthony venne cosparso di petrolio e arrostito. Ai testimoni vennero risparmiate le sue grida, perché il primo giorno gli era stato tagliato il membro virile […]. La gogna fumò, comincio a bruciacchiare e prese fuoco, con le figure sul legno che si contorcevano tra le fiamme come fossero vive». 

Tra tutto il male prodotto dagli uomini e le indicibili sofferenze che ne derivano, nel racconto c’è comunque spazio per la solidarietà e l’umana comprensione. 

La storia è inframezzata da ricorrenti digressioni e continui flashback e flashforward che rendono complicata la ricostruzione della fabula (ossia la sequenza degli eventi secondo l’ordine cronologico) da parte del lettore. Tra i vari additivi “spuri” inseriti all’interno del background realistico, fa capolino un elemento tipico della letteratura postmoderna di ascendenza sterniana (cfr. La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne) e cioè il gusto per la digressione fine a se stessa, non strettamente funzionale al dipanarsi della trama principale. Ne sono esempi il tranche de vie dedicato al dottor Stevens (uno dei medici della struttura sanitaria ubicata nel grattacielo della Carolina del Sud) e la storia in breve della vita di Ethel Wells (che, insieme al marito, ospita Cora nel sottotetto della propria casa).

Nel 2017 La ferrovia sotterranea ha vinto due prestigiosi premi: il Pulitzer e il National Book Award per la narrativa. Nel 2021 il regista Barry Jenkins ha tratto dall’opera una miniserie televisiva con lo stesso titolo. Per Luca Briasco il libro è un best seller di qualità «che accetta anche di sconfinare nel romanzo d’appendice pur di non disperdere e anzi esaltare il messaggio antirazzista e la riflessione sui mali più antichi della società americana» (Luca Briasco, “Colson Whitehead, John Henry Festival-La ferrovia sotterranea” in Americana, 2016-2020, pp. 367 e 370).

Ozioso chiedersi se questo sia un capolavoro oppure no o se sia, quanto meno, un’opera fondamentale della letteratura americana contemporanea. È sicuramente un libro “necessario”. E difatti Claudia Durastanti, nel risvolto anteriore della copertina, lo cataloga come «Il tipo di romanzo che ci ricorda perché siamo lettori».

Uno dei motivi che ne rendono indispensabile la lettura è il richiamo implicito alle recenti e reiterate violenze perpetrate dalla polizia americana ai danni della popolazione di colore e al movimento Black Lives Matter che da quegli eventi è scaturito. Allo stesso Colson Whitehead – pur proveniente da una rispettabile famiglia borghese, benestante, e pur essendo scrittore di successo e insegnante in prestigiose università americane –, come a tutti i neri, sono riservate le “attenzioni particolari” della polizia americana. Lo riferisce l’autore nell’intervista rilasciata a John Freeman e riportata in coda al volume delle Edizioni Sur: «le energie razziste che descrivo nella Ferrovia sotterranea fanno ancora molto parte della nostra vita. E se prendiamo un brano su Ridgeway e i suoi pattugliatori… essere fermato e perquisito e dover avere sempre in tasca i documenti fa ancora molto parte della mia esistenza. Non so mai quando la mia interazione con un poliziotto potrà prendere una brutta piega, finire male».  

La storia non insegna niente. L’orrore non ha mai fine.

Angelo Guida

*In copertina: Thuso Mbedu, protagonista di “The Underground Railroad” (2016)

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