Underground Railroad (la ferrovia sotterranea) era una rete clandestina – alla
quale si unì anche la famiglia di Louisa May Alcott, l’autrice di Piccole
donne – che, nel secolo XIX, negli Stati Uniti, aiutava gli afroamericani a
fuggire dagli stati schiavisti del sud in quelli abolizionisti del nord oppure
in Canada.
Il treno occupava un ruolo centrale nell’immaginario dei neri. Era il mezzo con
cui sognavano di scappare per potersi finalmente liberare dalle catene della
schiavitù o della prigionia, e non essere più condannati a sacrificare le
proprie vite nelle piantagioni o nei penitenziari, ai lavori forzati: «Il treno
che passa sbuffando e fischiando, che viene da lontano e che va chissà dove, che
porta con sé gli uomini liberi e che potrebbe un giorno portare il poveraccio
che soffre (un lavoratore dei campi, o un forzato: in quegli anni non faceva
molta differenza) lontano dai luoghi della sua pena, è stato […] per molto tempo
uno dei motivi dominanti della letteratura folklorica negro-americana, nei blues
e anche nel primo jazz. L’“espresso di mezzanotte” passa vicino alla prigione ed
è il simbolo di un mondo migliore, remoto, irraggiungibile». Il brano citato è
tratto da un commento di Arrigo Polillo alla ballata Midnight Special di
Leadbelly (Arrigo Polillo, Jazz, 1975-1997, p. 28).
Nel suo romanzo, La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead immagina che
l’underground railroad non sia soltanto un’organizzazione ma una struttura
realmente esistente nel sottosuolo della federazione americana, e che attraversa
gli stati del sud fino ad arrivare in quelli del nord per portare in salvo i
neri fuggitivi. Il libro è per alcuni un’ucronia (l’esempio più famoso del
genere è il romanzo di Philip K. Dick The Man in the High Castle) in quanto
descrizione di quello che sarebbe accaduto se la ferrovia in parola fosse
letteralmente esistita. In verità, viene facile immaginare che né la storia
degli afroamericani né quella degli Stati Uniti sarebbe cambiata granché se ci
fosse veramente stato qualcosa del genere. Ed in effetti, a differenza di quello
di Dick, il testo di Whitehead non delinea sconvolgimenti storici di rilievo. Se
non fosse per la sua ambientazione nel passato, si potrebbe piuttosto parlare
di discronia, ovvero di una narrazione che si dispiega all’interno di una
cornice “fantastica” con connotazioni sostanzialmente “realistiche”.
Il libro è una summa abbastanza armonica di vari generi: il romanzo realista,
quello postmoderno, il romanzo d’appendice, il romanzo storico,
il Bildungsroman, il romanzo familiare e, infine, la slave narrative (i cui
prototipi sono The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, The
Narrative of Frederick Douglass, an American Slave, Written by
Himself e Incidents in the Life of a Slave Girl, Written by Herself di
Harriet Jacobs, già emulati in passato da svariate opere tra cui la
celeberrima Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe). Ma, come La capanna
dello zio Tom, non è un’opera di slave narrative perché l’argomento trattato non
è la storia autobiografica di un ex schiavo o di una ex schiava. Si può, però,
senza dubbio dire, che affonda, fra l’altro, le proprie radici anche in quel
genere.
Il romanzo, ambientato negli anni ’30 del XIX secolo, narra la storia della
schiava Cora che decide di fuggire, in compagnia di Caesar, dalla piantagione –
ubicata in Georgia – dei loro padroni, i Randall.Nel corso della fuga i due
s’imbattono in un gruppo di cacciatori bianchi e, nello scontro che ne consegue,
la donna uccide uno degli inseguitori, un ragazzo. Prima di lei, l’unica che era
riuscita a sfuggire con successo alle grinfie dei Randall – così almeno sembra,
fino al colpo di scena finale qui prudenzialmente omesso per evitare il tanto
temuto spoiler – era stata sua madre Mabel. Nei confronti della genitrice la
figlia nutre un profondo risentimento per essere stata abbandonata e lasciata da
sola nella piantagione, a patire angherie. E anche perché, essendo rimasta priva
di protezione, ha dovuto subire una violenza di gruppo ad opera di alcuni suoi
compagni di sventura. I due fuggitivi, grazie all’aiuto di un certo signor
Fletcher (che «odiava la schiavitù, la vedeva come un insulto agli occhi di
Dio»), giungono in una stazione della fantomatica ferrovia sotterranea, prendono
il primo treno disponibile e arrivano così nella Carolina del Sud. Nel
frattempo, Terrance, ormai unico sopravvissuto della famiglia Randall, affida a
un cacciatore di schiavi, Arnold Ridgeway, l’incarico di catturare e riportare
indietro i due fuggiaschi.
Per far capire meglio chi è questo macabro personaggio, impregnato di “sano”
spirito americano, che sembra uscito da un film di Quentin Tarantino, è bene
tener presente la sua “radicale” interpretazione della dottrina del “destino
manifesto” (Manifest Destiny) degli Stati Uniti:
> «“Significa prenderti ciò che è tuo, quello che ti appartiene, qualunque cosa
> pensi che sia. E tutti gli altri se ne stanno ai loro posti assegnati per
> permettertelo. Che siano i pellerossa o gli africani, devono arrendersi,
> sacrificarsi, in modo che noi possiamo ottenere ciò che ci spetta di
> diritto”».
Nella città in cui sono arrivati, tutto sembra andare per il meglio a Cora e
Caesar. Entrambi, sotto mentite spoglie, hanno un lavoro retribuito e un tetto
sopra la testa (vivono in dormitori, separati per i maschi e per le femmine,
creati appositamente per la popolazione di colore). Qui Cora scopre l’esistenza
della parola «ottimisti» e decide che significa «ci stiamo provando». Ma la
donna – che nel frattempo sta imparando a leggere e a scrivere – un po’ alla
volta prende coscienza di tutta una serie di cose che non vanno affatto bene: i
dottori e i dipendenti delle strutture sanitarie (ubicate in un grattacielo,
edificio non ancora esistente all’epoca in cui si svolgono i fatti e, dunque,
frutto di un deliberato anacronismo da parte dell’autore) e di accoglienza
cercano di persuadere i neri a sterilizzarsi, alle madri di colore vengono
sottratti i figli, sono in corso strani esperimenti sulle malattie sanguigne
della popolazione afroamericana che ricordano il famigerato Tuskegee Experiment
(uno studio sugli effetti della sifilide sulla popolazione maschile nera della
cittadina dell’Alabama, iniziato nel 1932 e proseguito fino al 1972 nonostante
la scoperta, nel 1940, che la malattia era curabile con la penicillina, con la
conseguente morte ingiustificata di numerosi individui). Si accorge che, così
facendo, i bianchi rubano il futuro ai neri e che, in Carolina del Sud, questi
pur non essendo «pura merce come prima», sono trattati come «bestiame: da
allevare, da sterilizzare. Da chiudere in dormitori» che sembrano «stie per i
polli o conigliere». Ed ecco che, a dissolvere il sogno del loro illusorio
benessere, sul posto giunge all’improvviso Ridgeway che, in base alla legge
federale sugli schiavi fuggiaschi (Fugitive Slave Act), è autorizzato a
catturare Caesar e Cora anche al di fuori dei confini della Georgia. Per Caesar
non c’è scampo: viene squartato dai “civili” abitanti della città in cui era
stato accolto, dopo essere stata sparsa la voce che era ricercato per
«“l’omicidio di un bambino”». Cora riesce a fuggire con un treno della ferrovia
sotterranea. Giunge così nella Carolina del Nord. Qui trova rifugio nella casa
di una coppia di persone mature, Martin ed Ethel Wells, ed è costretta a vivere
nascosta per alcuni mesi nella soffitta della loro casa che il caldo trasforma
«in una tremenda fornace». E qui l’autore si ispira alla vita della già citata
Harriet Jacobs che fu costretta a nascondersi per ben sette anni sotto il tetto
della casa della nonna, una ex schiava diventata libera. In quello stato Cora è
costretta ad assistere all’atroce spettacolo di innumerevoli cadaveri che
penzolano dagli alberi «come decorazioni marce» lungo una strada beffardamente
chiamata – ironia dell’autore! – il Sentiero della Libertà. Proprio come nella
canzone di Lewis Allan (pseudonimo di Abel Meeropol), resa celebre da Billie
Holiday, Strange Fruit:
> «Gli alberi del sud hanno strani frutti
> C’è del sangue sulle loro foglie e sangue nelle loro radici
> Neri corpi penzolano nella brezza del sud
> Strani frutti pendono dagli alberi di pioppo».
Il capitalismo americano dell’epoca ha come motore la produzione e il commercio
del cotone e come carburante i corpi dei neri. Il profitto generato dal cotone
porta con sé un male necessario: la popolazione afroamericana e la sua crescita
incessante. A causa dell’eccesso di quest’ultima rispetto a quella bianca,
nell’“immaginaria” Carolina del Nord è in atto un vero e proprio genocidio. I
bianchi non vogliono abolire la schiavitù, vogliono tout court “abolire i neri”.
Durante la sua permanenza nel sottotetto, Cora continua a imparare a leggere e
scrivere, e si appassiona agli almanacchi.
Tra parentesi, pur non essendo slave narrative, La ferrovia sotterranea possiede
due delle caratteristiche fondamentali del genere: il movimento (la fuga dello
schiavo) e la trasformazione (Sonia Di Loreto, “La slave narrative e
l’abolizionismo atlantico” in La letteratura degli Stati Uniti, a cura di
Cristina Iuli e Paola Loreto, 2017-2024, pp. 73 e 75). Al di fuori della
piantagione, Cora acquista una nuova consapevolezza, acuisce il suo senso
critico. La trasformazione della sua personalità si attua man mano che acquista
esperienza e si istruisce. L’incontro con la parola scritta è momento fondante
del suo rapporto con la cultura dei bianchi. Il processo di costruzione
dell’identità (una caratteristica del Bildungsroman) e quello di acquisizione
della libertà passano anche attraverso il processo di alfabetizzazione. Nel
saggio citato, Sonia Di Loreto – a proposito di The Narrative of Frederick
Douglass – scrive: «Seguendo una traiettoria di autocreazione, il testo di
Douglas stabilisce […] una netta relazione fra libertà e alfabetizzazione, e una
delle costanti del testo è il desiderio da parte di Douglass bambino prima, e
Douglass adulto poi, di imparare a leggere e a scrivere, secondo quello che lo
stesso autore definisce come la strada dalla schiavitù alla libertà. Tutti gli
episodi di apprendimento sono momenti di furti, sotterfugi, menzogne, a voler
rimarcare che il percorso verso l’alfabetizzazione e la liberazione per lo
schiavo non poteva essere mai lineare o privo di ostacoli» (Sonia Di Loreto,
“La slave narrative e l’abolizionismo atlantico”, cit., p. 81). Questo arduo
processo di istruzione e presa di coscienza è brillantemente sintetizzato da
Whitehead nel breve capitolo dedicato a Caesar in cui il protagonista rischia la
vita leggendo, di nascosto, I viaggi di Gulliver (la morte è la punizione che
spetta agli schiavi sorpresi in possesso di libri) perché sa che se non legge
non potrà mai sfuggire alla sua condizione di emarginazione e sottomissione.
Tornando alla trama principale, inutile dire che Ridgeway non tarda a scoprire
dove si è rifugiata Cora, vittima della delazione di Fiona, la donna di servizio
irlandese dei coniugi Wells. Martin ed Ethel vengono barbaramente trucidati dai
loro concittadini mentre il cacciatore di schiavi – in compagnia di un grottesco
personaggio, Homer, un ragazzino di colore di dieci anni che indossa un abito e
un cappello a cilindro – cattura la protagonista e la porta via con sé
attraverso il Tennesee infestato dagli incendi appiccati dai coloni che vogliono
avere a disposizione sempre più terra da coltivare. «Per la prima volta Cora era
passata da uno stato a un altro senza usare la ferrovia sotterranea». Con lei
c’è un altro nero, Jasper, di cui Ridgeway ben presto si sbarazza,
assassinandolo, perché ritiene antieconomica l’impresa di riportare la “merce”
al suo padrone, nel lontano Missouri. La protagonista tenta più volte,
inutilmente, la fuga. Finché – in un accampamento provvisorio del cacciatore di
schiavi e della sua compagnia – non sopraggiungono, come dei ex machina, tre
uomini di colore armati (uno di loro è Royal, di cui poi Cora si innamorerà) che
sottraggono a Ridgeway la preda portandosela con loro in Indiana. E per farlo si
servono della strada ferrata sotterranea. Per la protagonista è il terzo viaggio
nell’underground railroad.
Cora si ritrova in uno scenario idilliaco. La sua nuova vita è nella fattoria
dei Valentine, una coppia di colore che dà alloggio e lavoro sia agli
afroamericani liberi sia ai fuggitivi. Qui la manodopera è retribuita, i diritti
delle persone sono riconosciuti e rispettati, i bambini e gli adulti hanno
accesso all’istruzione. E qui la protagonista ha finalmente a disposizione «una
stanza tutta sua», secondo quanto auspicato da Virginia Woolf. È anche in
procinto di iniziare una relazione sentimentale con Royal ma è trattenuta dai
cattivi ricordi della violenza subita nella piantagione, in Georgia. Nella
fattoria è in atto una disputa tra il proprietario, John Valentine, che vorrebbe
trasferire tutto e tutti verso ovest, lontano dagli stati schiavisti, e il
viscido Mingo che vorrebbe invece lasciare l’attività produttiva in Indiana
mantenendo in servizio solo i neri liberi e lasciando i fuggiaschi in balìa del
loro destino. Royal fa giusto in tempo a mostrare a Cora l’ingresso della
stazione sotterranea esistente nei paraggi della fattoria ed ecco che si rifanno
vivi Ridgeway e Homer, in compagnia di una folla inferocita venuta a sapere
(probabilmente perché Mingo ha fatto la spia) che nella tenuta si nascondono dei
fuggiaschi e che alcuni di loro hanno ucciso dei bianchi. È inevitabile che si
compia una vera e propria carneficina. Royal viene ammazzato. Cora, è nuovamente
catturata dal cacciatore di schiavi che la costringe a condurlo al tunnel
fantasma della ferrovia sotterranea. Nel corso di una colluttazione, mentre
stanno scendendo nella galleria, la donna ferisce e neutralizza Ridgeway.
Approfittando della distrazione di Homer, impegnato a prestare assistenza al suo
padrone, Cora salta a bordo di un carello ferroviario a mano (handcar) con il
quale raggiunge un’altra stazione della struttura sotterranea segreta. Uscita
all’aperto, si imbatte in una carovana. Un nero di mezza età, con «un marchio a
ferro di cavallo sul collo» (lei si chiede da dove è scappato lui), la fa salire
sul suo carro e la porta con sé verso ovest, verso la libertà.
Il romanzo finisce così. Il finale aperto è sempre ben accetto ma in questo caso
lascia la bocca asciutta. Ai lettori sarebbe piaciuto sapere cosa ne sarebbe
stato di Cora una volta stabilitasi in uno stato abolizionista. La sua vita
sarebbe stata veramente tutta rose e fiori? Avrebbe scoperto altre magagne?
Sarebbe andata incontro ad altri orrori? Si teme un sequel.
Come già detto, la Ferrovia sotterranea è un romanzo eclettico riconducibile a
vari generi. Da alcuni è classificato come un romanzo fantastico. È vero, ci
sono l’invenzione della strada ferrata segreta e l’inserto anacronistico del
grattacielo che non hanno alcun riscontro nella realtà storica. Ma non c’è
l’intervento della magia, non ci sono fenomeni inspiegabili e irreali. In linea
generale, la narrazione procede seguendo i criteri del vero e della
verosimiglianza (tecnicamente sarebbe stato possibile costruire una ferrovia
sotterranea) ed è dunque tendenzialmente realistica, contaminata qua e là con
l’introduzione di diversi elementi “spuri”. Nonostante ciò, lo stile è piuttosto
uniforme e asciutto.
Gli argomenti della schiavitù e della persecuzione razziale sono trattati
con ineludibile durezza. L’autore tuttavia non sconfina mai – nelle scene più
truci, sempre necessarie e nient’affatto gratuite – nei parossismi
iperrealistici del Meridiano di sangue di McCarthy. Un esempio in questo senso,
tanto per dare al lettore un’idea del cinismo degli schiavisti e della brutalità
dello schiavismo, è la descrizione della scena seguente:
> «Mentre gli ospiti di Randall sorseggiavano rum speziato, Big Anthony venne
> cosparso di petrolio e arrostito. Ai testimoni vennero risparmiate le sue
> grida, perché il primo giorno gli era stato tagliato il membro virile […]. La
> gogna fumò, comincio a bruciacchiare e prese fuoco, con le figure sul legno
> che si contorcevano tra le fiamme come fossero vive».
Tra tutto il male prodotto dagli uomini e le indicibili sofferenze che ne
derivano, nel racconto c’è comunque spazio per la solidarietà e l’umana
comprensione.
La storia è inframezzata da ricorrenti digressioni e
continui flashback e flashforward che rendono complicata la ricostruzione della
fabula (ossia la sequenza degli eventi secondo l’ordine cronologico) da parte
del lettore. Tra i vari additivi “spuri” inseriti all’interno
del background realistico, fa capolino un elemento tipico della letteratura
postmoderna di ascendenza sterniana (cfr. La vita e le opinioni di Tristram
Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne) e cioè il gusto per la digressione fine a
se stessa, non strettamente funzionale al dipanarsi della trama principale. Ne
sono esempi il tranche de vie dedicato al dottor Stevens (uno dei medici della
struttura sanitaria ubicata nel grattacielo della Carolina del Sud) e la storia
in breve della vita di Ethel Wells (che, insieme al marito, ospita Cora nel
sottotetto della propria casa).
Nel 2017 La ferrovia sotterranea ha vinto due prestigiosi premi: il Pulitzer e
il National Book Award per la narrativa. Nel 2021 il regista Barry Jenkins ha
tratto dall’opera una miniserie televisiva con lo stesso titolo. Per Luca
Briasco il libro è un best seller di qualità «che accetta anche di sconfinare
nel romanzo d’appendice pur di non disperdere e anzi esaltare il messaggio
antirazzista e la riflessione sui mali più antichi della società
americana» (Luca Briasco, “Colson Whitehead, John Henry Festival-La ferrovia
sotterranea” in Americana, 2016-2020, pp. 367 e 370).
Ozioso chiedersi se questo sia un capolavoro oppure no o se sia, quanto meno,
un’opera fondamentale della letteratura americana contemporanea. È sicuramente
un libro “necessario”. E difatti Claudia Durastanti, nel risvolto anteriore
della copertina, lo cataloga come «Il tipo di romanzo che ci ricorda perché
siamo lettori».
Uno dei motivi che ne rendono indispensabile la lettura è il richiamo implicito
alle recenti e reiterate violenze perpetrate dalla polizia americana ai danni
della popolazione di colore e al movimento Black Lives Matter che da quegli
eventi è scaturito. Allo stesso Colson Whitehead – pur proveniente da una
rispettabile famiglia borghese, benestante, e pur essendo scrittore di successo
e insegnante in prestigiose università americane –, come a tutti i neri, sono
riservate le “attenzioni particolari” della polizia americana. Lo riferisce
l’autore nell’intervista rilasciata a John Freeman e riportata in coda al volume
delle Edizioni Sur: «le energie razziste che descrivo nella Ferrovia
sotterranea fanno ancora molto parte della nostra vita. E se prendiamo un brano
su Ridgeway e i suoi pattugliatori… essere fermato e perquisito e dover avere
sempre in tasca i documenti fa ancora molto parte della mia esistenza. Non so
mai quando la mia interazione con un poliziotto potrà prendere una brutta piega,
finire male».
La storia non insegna niente. L’orrore non ha mai fine.
Angelo Guida
*In copertina: Thuso Mbedu, protagonista di “The Underground Railroad” (2016)
L'articolo La Storia non insegna niente. Intorno a “La ferrovia sotterranea” di
Colson Whitehead proviene da Pangea.
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> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest,
> tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e
> nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua
> sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano
> con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i
> farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del
> quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo
> decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono
> incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.
>
> (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30)
Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle
venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente
con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il
personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina
ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una
missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di
espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura
oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la
sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il
selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme
di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine,
coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845
nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una
rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per
l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande
esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per
la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean
that new revelation of right which has been designated as the right of our
manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our
manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or
rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a
manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except
the universal Yankee nation!».
Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John
Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di
cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al
cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John
Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il
confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario
statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che
gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron
Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea
ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra
Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino
a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai
cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali
della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione
verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della
ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia
del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile.
Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta
nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa
dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati
del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti,
di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862
il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union
Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la
Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea
in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà,
trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine,
il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano
essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle
provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e
veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a
lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili
attacchi degli indiani.
In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più
indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più
significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare
proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione
dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che
porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di
realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono
assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da
selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso.
Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo
David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union
Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è
fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente
Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua
un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare
nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora
impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane
suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col
padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di
eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che
sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque
a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi
aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere
definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera
cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani
(un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.
Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la
pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e
insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti –
anche sorprendenti – di questo film.
Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli
operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei
Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa
“at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che
“imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente
trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei
Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici
eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della
corsa: tutti elementi carichi di significato.
Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e
implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo
arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto,
ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella
scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di
richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della
Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima.
I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non
ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della
marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”)
confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di
campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio
(antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al
progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere.
C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al
meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la
sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati
esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono
inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e
ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime,
mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel
paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una
riflessione interessantissima sul cinema di Ford.
Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema
hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di
Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris
ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato
statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo;
Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso
per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi.
Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla
ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano?
Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati
Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco,
anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto
tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai
sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si
trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due
pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da
Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come
terribile, ma necessario.
Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al
simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo
notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo
dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità,
come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno
ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche.
Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è
trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di
un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito
della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione
sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici
amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come
ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un
fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità
del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una
potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo
altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più
nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con
attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso
come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa
speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena
tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della
metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che
comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un
guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come
punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici
la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e
quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare
sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di
tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase
di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went
dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il
selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo.
Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina
ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina
colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con
il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una
distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come
terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e
dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton,
primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso
il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo
duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche
nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump
con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche
– ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia,
definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la
felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il
Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”?
Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita,
tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura
dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e
conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto
l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton,
vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera
americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere
europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera
americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto
arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito
uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di
riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di
Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non
era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal
recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la
razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano
un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per
giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai
danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più
evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al
riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt,
già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale,
chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in
pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta
generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata
dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i
capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste
narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei
miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato,
razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione
dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre
all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che
prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro…
Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica
del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine
con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per
riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità
culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle
didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano
allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.
Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società
statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici.
Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza
di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di
un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li
compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è
ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava
l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi,
irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio
concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di
Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che
impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi
statunitensi.
Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del
Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua
esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche
righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di
dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla
propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi
incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura
appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora
l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto
funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è
concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo
schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a
se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a
conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione,
legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha
girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi
cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche
modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir,
Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso,
il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura
occidentale.
John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness,
in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West
quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e
della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli
ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come
strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello
sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione
della sua parabola artistica?
John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa
affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare
la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della
frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico
lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia
collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per
rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered,
disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford.
Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente
osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da
presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità
verso un territorio sconosciuto e inquieto.
La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura,
era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno
dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende
rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel
suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della
filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che
impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere,
significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema
erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La
prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il
regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla
cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine
hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di
nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché
rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste
rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere
assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli
Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini
e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza
con l’identico.
L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte
la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema
moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che
è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una
serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore
precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un
contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva
diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce
una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento
cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito
Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo
abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia
ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione
di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante
angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una
verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare
la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero,
direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si
deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare.
C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al
pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che
non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà,
fuori dalla finestra.
Paolo Ferrucci
*In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica
del “Destino manifesto” degli Stati Uniti
L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli
Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.
Nel marzo del 1963, con il cuore di vetro, “quando bastano tre note di musica
per scoppiare a piangere”, Cristina Campo scrive a “Mita” – cioè Margherita
Pieracci Harwell – che “è morto, giorni fa, William Carlos Williams. Ora non c’è
più nessuno da amare, nella poesia”.
Per la precisione, William Carlos Williams era morto il 4 marzo, a Rutherford,
New Jersey, dove era nato, 79 anni prima. Si sbaglierebbe, tuttavia, a crederlo
un poeta sedentario, seduto. Nei tratti del viso, aperti, solari, primaverili –
“la primavera, il caldo tempo che torna malgrado tutto”, è, secondo la Campo, il
carisma della poesia di Williams – s’intravede la geologia familiare: papà di
origini inglesi cresciuto nella Repubblica Dominicana, madre di Porto Rico con
ascendenze francesi, basche, e finiture ebraiche. In Ritratto dell’autore, il
poeta parla di sé parlando della betulla – “Le betulle sono una follia di
puntolini verdi/ il limitare del bosco brucia del loro verde” –, che per gli
sciamani siberiani è l’albero cosmico, “un albero di luce… simbolo di saggezza”
(così Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori, 1996).
Il poeta aveva studiato a Ginevra, a Parigi, a Filadelfia. Si era perfezionato
in Germania. Tornato a Rutherford, Williams esercitò come medico pediatra: “nel
corso di mezzo secolo aiutò a venire al mondo più di duemila bambini nella sua
piccola città” (Luigi Sampietro). Il dettaglio, al di là dei rilievi
superficiali – il poeta s’installa nella schiera dei medici-scrittori, Čechov,
Bulgakov, Céline, Benn… –, è sostanziale: Williams, pur tra i maestri del
“modernismo”, è poeta della vita, della luce, di una poesia coerente e concreta,
di cui si fa pasto; è un poeta della primavera. Per questo, non gradì La terra
desolata di Thomas S. Eliot, quei versi ingegnosi, disarticolati, meccanici: una
“bomba atomica”, la diceva, una catastrofe. In fondo, pensava che Ezra Pound lo
avesse tradito. Si conoscevano dagli anni dell’università, in Pennsylvania, “è
un bravo ragazzo, icona dell’ottimismo, dai modi eccentrici”: così l’aveva
descritto alla madre. Pound, come sempre, si era dato da fare per aiutare
quell’amico di genio: a Londra lo aveva presentato a Yeats; lo aveva introdotto
nell’alcova di “Poetry”, l’autorevole rivista guidata da Harriet Monroe; ne
aveva fatto uno dei suoi scudieri, inserendolo nell’antologia “Des Imagistes”
(1914). Nell’Autobiography (1951), William Carlos Williams ricorda una recita
universitaria, Pound interpreta una donna, “aveva una parrucca stravagante,
gesticolava selvaggiamente, brandiva i seni enormi in un’estasi di estrema
emozione”.
Per farla breve, William Carlos Williams ha scritto alcune delle poesie in
lingua inglese più belle del secolo scorso. “Vivono/ secondo la Sacra luce
dell’amore/ che governa,/ osteggiando la disperazione,/ questo giardino”, scrive
il poeta in The Mental Hospital Garden. C’è sempre una gioia barbara e imberbe,
antimoderna, inebriata e infantile nelle poesie di William Carlos Williams,
degno figlio di Walt Whitman: ci vuole il coraggio della gioia a scrivere di un
cacciatore che ride mentre conficca “un pugnale da caccia… nelle parti intime
dell’animale”, e comprendere, nonostante tutto, che “tu sei un poeta che crede/
nel potere della bellezza/ capace di sanare ogni malattia” (To a Dog Injured in
the Street).
Più passa il tempo, più sembra che la diarchia che ha dominato la poesia del
secolo debba essere sostituita. Non sono più Thomas S. Eliot e Ezra Pound i
reggenti della poesia in lingua inglese, ma William Carlos Williams e Wallace
Stevens. Entrambi poeti nottambuli, di traverso, impiegati in professioni aliene
alla letteratura (Stevens lavorava per una grande compagnia di assicurazioni).
Ma questo è poco importante, ora, chiederebbe troppe spiegazioni.
Piuttosto, William Carlos Williams è tra i rari poeti che migliorano
invecchiando. Nel 1953 fu premiato con il Bollingen Prize – quattro anni prima
era andato all’amico Pound –, dieci anni dopo ottenne il Pulitzer per Pictures
from Brueghel and Other Poems. Nel 1952 era stato eletto “Consultants in
Poetry”, massima onorificenza lirica per il mondo americano: gli fu sottratta
perché aveva osato scrivere una poesia, Russia, che gli attirò un’accusa di
comunismo. Allen Ginsberg lo implorò di introdurre il suo poema
psichedelico, Howl. Secondo Cristina Campo, i beat, “quel patetico gruppo
inarticolato, che urla a pieni polmoni un’estasi troppo simile al pianto”, non
avevano capito nulla di Williams, che pareva, per sapienza rarefatta, un poeta
dell’antica Cina, un sapiente alla stregua di Chuang-tzu, “il più solitario
della poesia americana contemporanea”. Fu proprio la Campo a tradurre Williams
in Italia, insieme a Vittorio Sereni, in due libri di pregio (Il fiore è il
nostro segno, nel 1958, per Scheiwiller, e Poesie, Einaudi, 1961).Eppure, la
poesia di Williams non ha attecchito nel nostro paese, editorialmente prono a
mode più fittizie: per questo, l’antologia curata da Luigi Sampietro e tradotta
da Damiano Abeni per Bompiani nel 2023, A un discepolo solitario,colma a tratti
un vuoto imbarazzante. Stupisce, piuttosto, che non si faccia cenno al lavoro
miliare della Campo: le sue versioni spesso prevalgono, per bellezza di
linguaggio, su quelle di Abeni.
Gli ultimi anni della sua vita – dal 1946 al 1958 – Williams li passò
scrivendo Paterson, poema epico in cinque libri, una Iliade urbana. Si proponeva
di raccontare la città con un linguaggio nuovo, capace di riprodurre “il rumore
delle Cascate”. Di questo poema, “opera tra le più importanti della letteratura
americana” e che “più di ogni altra ha reso William Carlos Williams una figura
fondamentale della nuova poesia americana” (così la quarta dell’edizione
Mondadori, a cura di Alfredo Rizzardi, 1997, ormai fuori catalogo) non c’è
traccia in questa antologia. Pazienza. Ci restano testi meravigliosi, tra cui
spicca Asfodelo, fiore che allude al verde, da imparare a memoria, immane,
immedicabile poesia d’amore, dell’“amore che ingoia tutto il resto”.
L’amore ricorre spesso in queste poesie. 64 volte. Ho contato. E sempre nel modo
giusto: frontale, olimpico, primaverile.
L'articolo William Carlos Williams, il poeta della primavera, della “Sacra luce
dell’amore” proviene da Pangea.