Underground Railroad (la ferrovia sotterranea) era una rete clandestina – alla
quale si unì anche la famiglia di Louisa May Alcott, l’autrice di Piccole
donne – che, nel secolo XIX, negli Stati Uniti, aiutava gli afroamericani a
fuggire dagli stati schiavisti del sud in quelli abolizionisti del nord oppure
in Canada.
Il treno occupava un ruolo centrale nell’immaginario dei neri. Era il mezzo con
cui sognavano di scappare per potersi finalmente liberare dalle catene della
schiavitù o della prigionia, e non essere più condannati a sacrificare le
proprie vite nelle piantagioni o nei penitenziari, ai lavori forzati: «Il treno
che passa sbuffando e fischiando, che viene da lontano e che va chissà dove, che
porta con sé gli uomini liberi e che potrebbe un giorno portare il poveraccio
che soffre (un lavoratore dei campi, o un forzato: in quegli anni non faceva
molta differenza) lontano dai luoghi della sua pena, è stato […] per molto tempo
uno dei motivi dominanti della letteratura folklorica negro-americana, nei blues
e anche nel primo jazz. L’“espresso di mezzanotte” passa vicino alla prigione ed
è il simbolo di un mondo migliore, remoto, irraggiungibile». Il brano citato è
tratto da un commento di Arrigo Polillo alla ballata Midnight Special di
Leadbelly (Arrigo Polillo, Jazz, 1975-1997, p. 28).
Nel suo romanzo, La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead immagina che
l’underground railroad non sia soltanto un’organizzazione ma una struttura
realmente esistente nel sottosuolo della federazione americana, e che attraversa
gli stati del sud fino ad arrivare in quelli del nord per portare in salvo i
neri fuggitivi. Il libro è per alcuni un’ucronia (l’esempio più famoso del
genere è il romanzo di Philip K. Dick The Man in the High Castle) in quanto
descrizione di quello che sarebbe accaduto se la ferrovia in parola fosse
letteralmente esistita. In verità, viene facile immaginare che né la storia
degli afroamericani né quella degli Stati Uniti sarebbe cambiata granché se ci
fosse veramente stato qualcosa del genere. Ed in effetti, a differenza di quello
di Dick, il testo di Whitehead non delinea sconvolgimenti storici di rilievo. Se
non fosse per la sua ambientazione nel passato, si potrebbe piuttosto parlare
di discronia, ovvero di una narrazione che si dispiega all’interno di una
cornice “fantastica” con connotazioni sostanzialmente “realistiche”.
Il libro è una summa abbastanza armonica di vari generi: il romanzo realista,
quello postmoderno, il romanzo d’appendice, il romanzo storico,
il Bildungsroman, il romanzo familiare e, infine, la slave narrative (i cui
prototipi sono The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, The
Narrative of Frederick Douglass, an American Slave, Written by
Himself e Incidents in the Life of a Slave Girl, Written by Herself di
Harriet Jacobs, già emulati in passato da svariate opere tra cui la
celeberrima Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe). Ma, come La capanna
dello zio Tom, non è un’opera di slave narrative perché l’argomento trattato non
è la storia autobiografica di un ex schiavo o di una ex schiava. Si può, però,
senza dubbio dire, che affonda, fra l’altro, le proprie radici anche in quel
genere.
Il romanzo, ambientato negli anni ’30 del XIX secolo, narra la storia della
schiava Cora che decide di fuggire, in compagnia di Caesar, dalla piantagione –
ubicata in Georgia – dei loro padroni, i Randall.Nel corso della fuga i due
s’imbattono in un gruppo di cacciatori bianchi e, nello scontro che ne consegue,
la donna uccide uno degli inseguitori, un ragazzo. Prima di lei, l’unica che era
riuscita a sfuggire con successo alle grinfie dei Randall – così almeno sembra,
fino al colpo di scena finale qui prudenzialmente omesso per evitare il tanto
temuto spoiler – era stata sua madre Mabel. Nei confronti della genitrice la
figlia nutre un profondo risentimento per essere stata abbandonata e lasciata da
sola nella piantagione, a patire angherie. E anche perché, essendo rimasta priva
di protezione, ha dovuto subire una violenza di gruppo ad opera di alcuni suoi
compagni di sventura. I due fuggitivi, grazie all’aiuto di un certo signor
Fletcher (che «odiava la schiavitù, la vedeva come un insulto agli occhi di
Dio»), giungono in una stazione della fantomatica ferrovia sotterranea, prendono
il primo treno disponibile e arrivano così nella Carolina del Sud. Nel
frattempo, Terrance, ormai unico sopravvissuto della famiglia Randall, affida a
un cacciatore di schiavi, Arnold Ridgeway, l’incarico di catturare e riportare
indietro i due fuggiaschi.
Per far capire meglio chi è questo macabro personaggio, impregnato di “sano”
spirito americano, che sembra uscito da un film di Quentin Tarantino, è bene
tener presente la sua “radicale” interpretazione della dottrina del “destino
manifesto” (Manifest Destiny) degli Stati Uniti:
> «“Significa prenderti ciò che è tuo, quello che ti appartiene, qualunque cosa
> pensi che sia. E tutti gli altri se ne stanno ai loro posti assegnati per
> permettertelo. Che siano i pellerossa o gli africani, devono arrendersi,
> sacrificarsi, in modo che noi possiamo ottenere ciò che ci spetta di
> diritto”».
Nella città in cui sono arrivati, tutto sembra andare per il meglio a Cora e
Caesar. Entrambi, sotto mentite spoglie, hanno un lavoro retribuito e un tetto
sopra la testa (vivono in dormitori, separati per i maschi e per le femmine,
creati appositamente per la popolazione di colore). Qui Cora scopre l’esistenza
della parola «ottimisti» e decide che significa «ci stiamo provando». Ma la
donna – che nel frattempo sta imparando a leggere e a scrivere – un po’ alla
volta prende coscienza di tutta una serie di cose che non vanno affatto bene: i
dottori e i dipendenti delle strutture sanitarie (ubicate in un grattacielo,
edificio non ancora esistente all’epoca in cui si svolgono i fatti e, dunque,
frutto di un deliberato anacronismo da parte dell’autore) e di accoglienza
cercano di persuadere i neri a sterilizzarsi, alle madri di colore vengono
sottratti i figli, sono in corso strani esperimenti sulle malattie sanguigne
della popolazione afroamericana che ricordano il famigerato Tuskegee Experiment
(uno studio sugli effetti della sifilide sulla popolazione maschile nera della
cittadina dell’Alabama, iniziato nel 1932 e proseguito fino al 1972 nonostante
la scoperta, nel 1940, che la malattia era curabile con la penicillina, con la
conseguente morte ingiustificata di numerosi individui). Si accorge che, così
facendo, i bianchi rubano il futuro ai neri e che, in Carolina del Sud, questi
pur non essendo «pura merce come prima», sono trattati come «bestiame: da
allevare, da sterilizzare. Da chiudere in dormitori» che sembrano «stie per i
polli o conigliere». Ed ecco che, a dissolvere il sogno del loro illusorio
benessere, sul posto giunge all’improvviso Ridgeway che, in base alla legge
federale sugli schiavi fuggiaschi (Fugitive Slave Act), è autorizzato a
catturare Caesar e Cora anche al di fuori dei confini della Georgia. Per Caesar
non c’è scampo: viene squartato dai “civili” abitanti della città in cui era
stato accolto, dopo essere stata sparsa la voce che era ricercato per
«“l’omicidio di un bambino”». Cora riesce a fuggire con un treno della ferrovia
sotterranea. Giunge così nella Carolina del Nord. Qui trova rifugio nella casa
di una coppia di persone mature, Martin ed Ethel Wells, ed è costretta a vivere
nascosta per alcuni mesi nella soffitta della loro casa che il caldo trasforma
«in una tremenda fornace». E qui l’autore si ispira alla vita della già citata
Harriet Jacobs che fu costretta a nascondersi per ben sette anni sotto il tetto
della casa della nonna, una ex schiava diventata libera. In quello stato Cora è
costretta ad assistere all’atroce spettacolo di innumerevoli cadaveri che
penzolano dagli alberi «come decorazioni marce» lungo una strada beffardamente
chiamata – ironia dell’autore! – il Sentiero della Libertà. Proprio come nella
canzone di Lewis Allan (pseudonimo di Abel Meeropol), resa celebre da Billie
Holiday, Strange Fruit:
> «Gli alberi del sud hanno strani frutti
> C’è del sangue sulle loro foglie e sangue nelle loro radici
> Neri corpi penzolano nella brezza del sud
> Strani frutti pendono dagli alberi di pioppo».
Il capitalismo americano dell’epoca ha come motore la produzione e il commercio
del cotone e come carburante i corpi dei neri. Il profitto generato dal cotone
porta con sé un male necessario: la popolazione afroamericana e la sua crescita
incessante. A causa dell’eccesso di quest’ultima rispetto a quella bianca,
nell’“immaginaria” Carolina del Nord è in atto un vero e proprio genocidio. I
bianchi non vogliono abolire la schiavitù, vogliono tout court “abolire i neri”.
Durante la sua permanenza nel sottotetto, Cora continua a imparare a leggere e
scrivere, e si appassiona agli almanacchi.
Tra parentesi, pur non essendo slave narrative, La ferrovia sotterranea possiede
due delle caratteristiche fondamentali del genere: il movimento (la fuga dello
schiavo) e la trasformazione (Sonia Di Loreto, “La slave narrative e
l’abolizionismo atlantico” in La letteratura degli Stati Uniti, a cura di
Cristina Iuli e Paola Loreto, 2017-2024, pp. 73 e 75). Al di fuori della
piantagione, Cora acquista una nuova consapevolezza, acuisce il suo senso
critico. La trasformazione della sua personalità si attua man mano che acquista
esperienza e si istruisce. L’incontro con la parola scritta è momento fondante
del suo rapporto con la cultura dei bianchi. Il processo di costruzione
dell’identità (una caratteristica del Bildungsroman) e quello di acquisizione
della libertà passano anche attraverso il processo di alfabetizzazione. Nel
saggio citato, Sonia Di Loreto – a proposito di The Narrative of Frederick
Douglass – scrive: «Seguendo una traiettoria di autocreazione, il testo di
Douglas stabilisce […] una netta relazione fra libertà e alfabetizzazione, e una
delle costanti del testo è il desiderio da parte di Douglass bambino prima, e
Douglass adulto poi, di imparare a leggere e a scrivere, secondo quello che lo
stesso autore definisce come la strada dalla schiavitù alla libertà. Tutti gli
episodi di apprendimento sono momenti di furti, sotterfugi, menzogne, a voler
rimarcare che il percorso verso l’alfabetizzazione e la liberazione per lo
schiavo non poteva essere mai lineare o privo di ostacoli» (Sonia Di Loreto,
“La slave narrative e l’abolizionismo atlantico”, cit., p. 81). Questo arduo
processo di istruzione e presa di coscienza è brillantemente sintetizzato da
Whitehead nel breve capitolo dedicato a Caesar in cui il protagonista rischia la
vita leggendo, di nascosto, I viaggi di Gulliver (la morte è la punizione che
spetta agli schiavi sorpresi in possesso di libri) perché sa che se non legge
non potrà mai sfuggire alla sua condizione di emarginazione e sottomissione.
Tornando alla trama principale, inutile dire che Ridgeway non tarda a scoprire
dove si è rifugiata Cora, vittima della delazione di Fiona, la donna di servizio
irlandese dei coniugi Wells. Martin ed Ethel vengono barbaramente trucidati dai
loro concittadini mentre il cacciatore di schiavi – in compagnia di un grottesco
personaggio, Homer, un ragazzino di colore di dieci anni che indossa un abito e
un cappello a cilindro – cattura la protagonista e la porta via con sé
attraverso il Tennesee infestato dagli incendi appiccati dai coloni che vogliono
avere a disposizione sempre più terra da coltivare. «Per la prima volta Cora era
passata da uno stato a un altro senza usare la ferrovia sotterranea». Con lei
c’è un altro nero, Jasper, di cui Ridgeway ben presto si sbarazza,
assassinandolo, perché ritiene antieconomica l’impresa di riportare la “merce”
al suo padrone, nel lontano Missouri. La protagonista tenta più volte,
inutilmente, la fuga. Finché – in un accampamento provvisorio del cacciatore di
schiavi e della sua compagnia – non sopraggiungono, come dei ex machina, tre
uomini di colore armati (uno di loro è Royal, di cui poi Cora si innamorerà) che
sottraggono a Ridgeway la preda portandosela con loro in Indiana. E per farlo si
servono della strada ferrata sotterranea. Per la protagonista è il terzo viaggio
nell’underground railroad.
Cora si ritrova in uno scenario idilliaco. La sua nuova vita è nella fattoria
dei Valentine, una coppia di colore che dà alloggio e lavoro sia agli
afroamericani liberi sia ai fuggitivi. Qui la manodopera è retribuita, i diritti
delle persone sono riconosciuti e rispettati, i bambini e gli adulti hanno
accesso all’istruzione. E qui la protagonista ha finalmente a disposizione «una
stanza tutta sua», secondo quanto auspicato da Virginia Woolf. È anche in
procinto di iniziare una relazione sentimentale con Royal ma è trattenuta dai
cattivi ricordi della violenza subita nella piantagione, in Georgia. Nella
fattoria è in atto una disputa tra il proprietario, John Valentine, che vorrebbe
trasferire tutto e tutti verso ovest, lontano dagli stati schiavisti, e il
viscido Mingo che vorrebbe invece lasciare l’attività produttiva in Indiana
mantenendo in servizio solo i neri liberi e lasciando i fuggiaschi in balìa del
loro destino. Royal fa giusto in tempo a mostrare a Cora l’ingresso della
stazione sotterranea esistente nei paraggi della fattoria ed ecco che si rifanno
vivi Ridgeway e Homer, in compagnia di una folla inferocita venuta a sapere
(probabilmente perché Mingo ha fatto la spia) che nella tenuta si nascondono dei
fuggiaschi e che alcuni di loro hanno ucciso dei bianchi. È inevitabile che si
compia una vera e propria carneficina. Royal viene ammazzato. Cora, è nuovamente
catturata dal cacciatore di schiavi che la costringe a condurlo al tunnel
fantasma della ferrovia sotterranea. Nel corso di una colluttazione, mentre
stanno scendendo nella galleria, la donna ferisce e neutralizza Ridgeway.
Approfittando della distrazione di Homer, impegnato a prestare assistenza al suo
padrone, Cora salta a bordo di un carello ferroviario a mano (handcar) con il
quale raggiunge un’altra stazione della struttura sotterranea segreta. Uscita
all’aperto, si imbatte in una carovana. Un nero di mezza età, con «un marchio a
ferro di cavallo sul collo» (lei si chiede da dove è scappato lui), la fa salire
sul suo carro e la porta con sé verso ovest, verso la libertà.
Il romanzo finisce così. Il finale aperto è sempre ben accetto ma in questo caso
lascia la bocca asciutta. Ai lettori sarebbe piaciuto sapere cosa ne sarebbe
stato di Cora una volta stabilitasi in uno stato abolizionista. La sua vita
sarebbe stata veramente tutta rose e fiori? Avrebbe scoperto altre magagne?
Sarebbe andata incontro ad altri orrori? Si teme un sequel.
Come già detto, la Ferrovia sotterranea è un romanzo eclettico riconducibile a
vari generi. Da alcuni è classificato come un romanzo fantastico. È vero, ci
sono l’invenzione della strada ferrata segreta e l’inserto anacronistico del
grattacielo che non hanno alcun riscontro nella realtà storica. Ma non c’è
l’intervento della magia, non ci sono fenomeni inspiegabili e irreali. In linea
generale, la narrazione procede seguendo i criteri del vero e della
verosimiglianza (tecnicamente sarebbe stato possibile costruire una ferrovia
sotterranea) ed è dunque tendenzialmente realistica, contaminata qua e là con
l’introduzione di diversi elementi “spuri”. Nonostante ciò, lo stile è piuttosto
uniforme e asciutto.
Gli argomenti della schiavitù e della persecuzione razziale sono trattati
con ineludibile durezza. L’autore tuttavia non sconfina mai – nelle scene più
truci, sempre necessarie e nient’affatto gratuite – nei parossismi
iperrealistici del Meridiano di sangue di McCarthy. Un esempio in questo senso,
tanto per dare al lettore un’idea del cinismo degli schiavisti e della brutalità
dello schiavismo, è la descrizione della scena seguente:
> «Mentre gli ospiti di Randall sorseggiavano rum speziato, Big Anthony venne
> cosparso di petrolio e arrostito. Ai testimoni vennero risparmiate le sue
> grida, perché il primo giorno gli era stato tagliato il membro virile […]. La
> gogna fumò, comincio a bruciacchiare e prese fuoco, con le figure sul legno
> che si contorcevano tra le fiamme come fossero vive».
Tra tutto il male prodotto dagli uomini e le indicibili sofferenze che ne
derivano, nel racconto c’è comunque spazio per la solidarietà e l’umana
comprensione.
La storia è inframezzata da ricorrenti digressioni e
continui flashback e flashforward che rendono complicata la ricostruzione della
fabula (ossia la sequenza degli eventi secondo l’ordine cronologico) da parte
del lettore. Tra i vari additivi “spuri” inseriti all’interno
del background realistico, fa capolino un elemento tipico della letteratura
postmoderna di ascendenza sterniana (cfr. La vita e le opinioni di Tristram
Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne) e cioè il gusto per la digressione fine a
se stessa, non strettamente funzionale al dipanarsi della trama principale. Ne
sono esempi il tranche de vie dedicato al dottor Stevens (uno dei medici della
struttura sanitaria ubicata nel grattacielo della Carolina del Sud) e la storia
in breve della vita di Ethel Wells (che, insieme al marito, ospita Cora nel
sottotetto della propria casa).
Nel 2017 La ferrovia sotterranea ha vinto due prestigiosi premi: il Pulitzer e
il National Book Award per la narrativa. Nel 2021 il regista Barry Jenkins ha
tratto dall’opera una miniserie televisiva con lo stesso titolo. Per Luca
Briasco il libro è un best seller di qualità «che accetta anche di sconfinare
nel romanzo d’appendice pur di non disperdere e anzi esaltare il messaggio
antirazzista e la riflessione sui mali più antichi della società
americana» (Luca Briasco, “Colson Whitehead, John Henry Festival-La ferrovia
sotterranea” in Americana, 2016-2020, pp. 367 e 370).
Ozioso chiedersi se questo sia un capolavoro oppure no o se sia, quanto meno,
un’opera fondamentale della letteratura americana contemporanea. È sicuramente
un libro “necessario”. E difatti Claudia Durastanti, nel risvolto anteriore
della copertina, lo cataloga come «Il tipo di romanzo che ci ricorda perché
siamo lettori».
Uno dei motivi che ne rendono indispensabile la lettura è il richiamo implicito
alle recenti e reiterate violenze perpetrate dalla polizia americana ai danni
della popolazione di colore e al movimento Black Lives Matter che da quegli
eventi è scaturito. Allo stesso Colson Whitehead – pur proveniente da una
rispettabile famiglia borghese, benestante, e pur essendo scrittore di successo
e insegnante in prestigiose università americane –, come a tutti i neri, sono
riservate le “attenzioni particolari” della polizia americana. Lo riferisce
l’autore nell’intervista rilasciata a John Freeman e riportata in coda al volume
delle Edizioni Sur: «le energie razziste che descrivo nella Ferrovia
sotterranea fanno ancora molto parte della nostra vita. E se prendiamo un brano
su Ridgeway e i suoi pattugliatori… essere fermato e perquisito e dover avere
sempre in tasca i documenti fa ancora molto parte della mia esistenza. Non so
mai quando la mia interazione con un poliziotto potrà prendere una brutta piega,
finire male».
La storia non insegna niente. L’orrore non ha mai fine.
Angelo Guida
*In copertina: Thuso Mbedu, protagonista di “The Underground Railroad” (2016)
L'articolo La Storia non insegna niente. Intorno a “La ferrovia sotterranea” di
Colson Whitehead proviene da Pangea.
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> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
>
> John Cheever
Con il suo ultimo libro – Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio dello
scrivere (Mondadori, 2025) – Alessandro Piperno, romanziere, direttore dei
‘Meridiani’, docente di francesistica e saggista, realizza una immersione nelle
ragioni e nei moventi dell’attività letteraria. Tramite un saggio che indaga con
uno stile chiaro ed elegante quel ‘brivido’ che accompagna il rito e la prassi
della scrittura, alternando spunti autobiografici e l’analisi critica delle
sismografie letterarie grazie al confronto con i grandi del passato. Cinque
lezioni (“Ambizione”, “Odio”, “Responsabilità”, “Piacere” e “Conoscenza”) sui
motivi dello scrivere che danno così vita a un racconto corale che va da Proust
e Kafka a Céline e Primo Levi, passando per Flaubert, Balzac e tanti
altri,capace di delineare una galleria di ritratti e studi d’autore ricca di
dettagli e fascino. Ne emerge, soprattutto, un testo che quando parla
dell’attività letteraria più che prescrivere vuole mostrare, più che spiegare
vuole osservare e capire, senza giudicare. Piperno, infatti, privo di retoriche
militanti o di misticismi autocompiacenti, realizza un’opera capace di rivelare
della scrittura le verità concrete e l’intrinseca magia. Portando il lettore
nelle botteghe, nelle quinte e nei cantieri delle parole, in modo da mostrare i
tanti volti di quel “vizio assurdo” che porta a impugnare una penna o ad armare
una tastiera ogni maledetta mattina.
Prof. Piperno come è nato Ogni maledetta domenica. Cinque lezioni sul vizio
dello scrivere?
La genesi di questo libro è più semplice di quanto non sembri. Da un lato un
contratto da onorare con il mio editore per un’opera saggistica, dall’altro
l’esigenza di decantare e di fare il punto. Una necessità, quest’ultima, che mi
prende ogni volta che finito un romanzo mi preparo a scriverne un altro. Forse
volevo verificare il modo in cui con il passare degli anni è cambiato il mio
approccio alla scrittura. Ciò che da giovane mi sembrava una fatica superiore
alle mie forze oggi è un piacere quotidiano e ineludibile, un vizio. Da qui la
domanda: come lo si contrae? Come lo si gestisce? Ecco, per rispondere a queste
domande ho interrogato gli scrittori che amo e che frequento da sempre. Di me (a
petto di questi giganti, una nullità trascurabile) ho parlato lo stretto
indispensabile.
E che cos’è, secondo lei, il vizio dello scrivere?
Per dirla con Cioran, tutto inizia con un estenuante esercizio di ammirazione.
Sei un adolescente pieno di passioni e di inutili idee in testa. Leggi Stendhal,
Tolstoj, Broch e ti dici: che bello sarebbe potersi esprimere in modo
altrettanto netto, essenziale ed elegante. Sei fregato. Quello è il momento in
cui passi dall’ammirazione all’emulazione. Una battaglia persa in partenza. Per
quanto tu possa provarci, infatti, non riesci a scrivere niente che non ti
sembri scadente, riciclato, di terz’ordine. Le confesso che per me non è stato
facile togliermi dalle spalle il peso di modelli così irraggiungibili. Certe
volte credo che ad avermi reso uno scrittore sia stata una certa dimestichezza
con il fallimento. Il paradosso è che il mio primo romanzo fu un successo,
almeno da un punto di vista commerciale. A me invece non piaceva quasi per
niente. Lo avevo scritto spinto dalla rabbia e dal risentimento. Lo avevo
scritto senza esercitare il dovuto controllo. Poi grazie al cielo le cose sono
cambiate.
Cosa è cambiato?
D’un tratto ho capito che il tormento è come la nevrosi: fa male ma non serve a
niente.Anzi, peggio, ti danneggia limitandoti. Ho capito che la scrittura non è
pura ispirazione, o non solo, ma soprattutto disciplina, indagine, riflessione.
Oggi mi sento molto diverso da allora.
Quale fu il libro della svolta nel suo rapporto con la scrittura?
Fu il mio romanzo più sfortunato: Dove la storia finisce (2016). Più mi ci
immergevo piùpercepivo il cambiamento in atto: il tormento si
faceva spontaneità, l’ansia cedeva il passo all’abbandono, ogni seduta era un
po’ più piacevole. Da allora il lavoro è diventato naturale, proficuo e meno
ansiogeno.
Cosa ha determinato questo cambiamento?
Messe da parte tutte le pompose ambizioni di grandezza e di gloria, ho preso
atto che lo scrittore è un tizio che ogni mattina (almeno per me) affronta una
serie di problemi e cerca di risolverli. Solo così un libro prende forma. In un
attimo sono svanite le ubbie con cui mi ero sempre tormentato.
Dopo la pubblicazione, si rilegge?
Mai. Un libro pubblicato per me è un libro morto. Tanto sono ossessivo nella
stesura infliggendomi mesi e mesi di riletture, tanto sono leggero e infedele
nella fase successiva alla pubblicazione. Per questo mi costa così tanto
promuoverlo. È giusto che un libro faccia la sua strada senza di me. Le rare
volte in cui durante una presentazione qualcuno legge un passo di un mio libro
in pubblico avverto un profondo imbarazzo. Con ciò non intendo dire che non
provi affetto per i libri pubblicati. Ne provo eccome, soprattutto per i più
“sfortunati”. Me lo lasci ripetere: per me Dove la storia finiscerappresenta
una cesura virtuosa.
Parliamo del suo ultimo testo narrativo: Aria di famiglia. Un romanzo che mostra
epoche e contesti senza pretese storiografiche o ideologiche, offrendo uno
sguardo critico sul presente. Specie su quella sorta di maccartismo
(trasversale e bigotto) che stiamo vivendo…
Giudicare un’opera attraverso la vita o le idee dell’autore è un atto critico
capzioso, moralmente disonesto ed esteticamente aberrante. Non c’è esercizio più
esecrabile. Quando nella valutazione di un manufatto artistico il giudizio
morale sostituisce quello formale l’arte muore. Ecco, ho il sospetto che oggi
molti concepiscano la letteratura come un concorso di bellezza morale. Temo che
alcuni vogliano trasformare lo spazio letterario in un tribunale speciale in cui
all’autore spetta il ruolo dell’imputato. Proprio così, certa critica vuole
tramutare la storia della letteratura in una specie di Norimberga permanente.
Del resto, sarebbe sciocco considerare il politically correct o il settarismo
puritano un male dei nostri tempi. Per certi versi è sempre stato così.
Anche Flaubert,anche Baudelaire, anche Stendhal incorsero nella scomunica
dei puritani, degli ipocriti, dei filistei. La cosa davvero preoccupante oggi è
come certe idee aberranti seducano anche chi dovrebbe detestarle: parlo degli
scrittori e degli accademici, soprattutto in ambito anglosassone. Li ha visti
no? Non vedono l’ora di denunciare, marciare, boicottare, firmare appelli e
petizioni. Un po’ imbonitori, un po’ ciarlatani, se ne stanno lì sul loro
scranno a distribuire patenti morali. Non credo che Flaubert lo avrebbe fatto. A
lui la letteratura offriva uno spazio privilegiato di libertà e di osservazione.
Nel libro parla anche di responsabilità e impegno.
Sì, distinguo l’impegno virtuoso da quello frivolo e mondano. Distinguo gli
scrittori che hanno rischiato la pelle da quelli che hanno ottenuto un invito in
talk show. Prenda Primo Levi. Lui per me incarna un modello irraggiungibile. È
come se avesse trovato un equilibrio perfetto tra responsabilità e stile. Un
altro impegno virtuoso è quello prestato da Zola alla causa di Dreyfus. A non
piacermi sono gli epigoni di Sartre, quelli che potremmo chiamare i
“professionisti dell’impegno”. Non c’è causa per cui non si mobilitino o non si
espongano e di solito lo fanno nel modo più conformista lisciando il pelo al
mainstream. Io non ho mai firmato petizioni né partecipato a manifestazioni: il
mio mestiere è un altro. Non ho autorità per esprimermi su niente se non sulle
due o tre cose che conosco. A chi mi chiede del clima, dell’atomica,
dell’Ucraina rispondo come Parise: “Non lo so, non me ne intendo”.
Il confronto con il “male” quanto è centrale per uno scrittore?
Devo confessarglielo. Faccio fatica a prendere sul serio certe categorie
oracolari: il “bene”, il “male”, il “giusto”, l’“Ingiusto”. Ciò non significa
che eluda il problema. So che il male è l’argomento letterario per antonomasia e
ritengo che il solo modo onesto di affrontarlo è provare a comprenderlo. Ricordo
che André Glucksmann nel suo libro L’undicesimo comandamento diceva che al
Decalogo biblico mancava un ulteriore, ma fondamentale, comandamento: “Conosci
il male”.
Conoscere il male, per gli scrittori che amo ha significato farsene carico,
affrontarlo, non sanzionarlo. Penso a scrittori per molti versi
antitetici come Proust e Céline. La moralità di un romanzo, come diceva Milan
Kundera, non risiede, infatti, nel giudizio, ma nella sospensione del giudizio.
È questa la sfida della letteratura: mostrare la complessità dell’umano senza
ridurla a virtù o colpa. Nulla di grande è stato scritto con ipocrite pretese
moraliste. Adolphe, Guerra e pace, L’età dell’innocenza, Madame Bovary,
la “Recherche”. Sono romanzi in cui trionfa l’ambiguità. Per questo immaginare
una letteratura orientata solo dalla virtù è semplicemente folle.
La quinta lezione del suo libro si chiama “Conoscenza”: parlando di questo tema
lei accosta Proust e Kafka. Perché?
Il paragone tra i due non è mio. Il primo ad averlo formulato è stato Elias
Canetti. Naturalmente Proust e Kafka sono scrittori diversissimi, ma
profondamente sintonici e complementari. Entrambi, infatti, hanno trasformato la
vita in scrittura. Entrambi hanno intrattenuto un rapporto simbiotico con la
scrittura. Mi commuove l’idea che siano morti con il grosso della loro opera
ancora inedito. Mi pare un ottimo monito per quel genere di scrittori a cui
scappa sempre di pubblicare.
Lei dedica una lezione anche all’“Odio”. Quanto l’odio è importante in
letteratura?
Nel libro distinguo tra risentimento e odio. Il primo è gretto e inutile, il
secondo è nobile e proficuo. Pensiamo all’odio di Flaubert per la stupidità, o a
quello di Ibsen per le convenzioni borghesi. Osservare il mondo con ironia
critica, provare indiginazione creativa: senza questo sguardo, non si può
davvero scrivere. Io non ci riuscirei.
Cosa odia in maniera “nobile” Alessandro Piperno?
La malafede, l’ipocrisia dei Tartuffi e degli imbonitori dei social, tutto ciò
che è melenso e pletorico. Detesto le dietrologie, chi vede il marcio ovunque,
le cospirazioni, i piagnistei, ma anche le grandi adunate di piazza, le frasi in
libertà, le mozioni degli affetti. E dal disgusto per questa roba
che spesso ho tratto la materia per i miei testi.
Un aspetto centrale nella sua opera è la complessa ambiguità dei personaggi. In
questo senso in Aria di famiglia essi sono spesso contraddittori o mai
completamente virtuosi.
Nei suoi diari Tolstoj (il migliore di tutti) parla spesso di come rendere vivo
un personaggio. Per lui è necessario farne una creatura contraddittoria, in
bilico tra passioni oneste e piccole malvagità. Il caso più emblematico è quello
del Dolochov di Guerra e Pace. Se da un lato è un dissoluto, un libertino, un
attaccabrighe, dall’altro coltiva commoventi sentimenti filiali. Così si
costruisce un personaggio, mescolando la miseria alla grandezza, la malvagità
all’altruismo. In Aria di famiglia ho cercato di seguire questo insegnamento: la
famiglia Sacerdoti è composta da persone contraddittorie, in cui si intrecciano
generosità e durezza, meschinità e candore. La verità dei personaggi si
manifesta attraverso queste tensioni e sfumature: solo così possono apparire
vivi, credibili, umani.
Più che un romanzo “a tesi”, il suo è allora un romanzo “ad antitesi”. È un modo
di contraddire e capire le cose?
Philip Roth affermava di non avere idee quasi su niente. A questo gli serviva
scrivere: per capirci qualcosa. Io sono d’accordo con lui. Credo che in realtà
la scrittura, se trattata con la giusta grazia e la dovuta abnegazione, riesce a
rivelare qualcosa che prima ti era sconosciuto. La scrittura non deve dimostrare
alcunché. Deve limitarsi a scandagliare. Tu non scrivi perché hai capito come
funziona il mondo ma perché non sei ancora riuscito a capirlo.
In questo quadro centrale più che il messaggio nei suoi testi vince il
romanzesco…
È una mia debolezza, lo so, ma sono fatto così: mi piace il romanzesco. E in
effetti inAria di famiglia mi sono divertito a disseminare un mucchio di
robaccia romanzesca: vendette, orfani, eredità contese, tutori
malintenzionati. Insomma ho esibito il classico armamentario dei vittoriani che
amo: Dickens e George Eliot su tutti. La narrativa, come hanno insegnato questi
autori, usa la finzione e l’esagerazione per giungere alla verità.
Il prossimo libro?
Si chiamerà In trappola. Lo sto scrivendo con alacrità da quasi un
anno. È l’ultimo capitolo della trilogia iniziata con Di chi è la colpa e Aria
di famiglia. Però sarà molto diverso dai precedenti, per via di una
caratteristica che preferisco non confessarle.
Francesco Subiaco
L'articolo “Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che
firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con
Alessandro Piperno proviene da Pangea.
Qualche giorno prima che fosse pubblicato uno dei più importanti romanzi
americani del Novecento, Il grande Gatsby, il 10 aprile 1925, il suo autore,
Francis Scott Fitzgerald, già famoso e intento a sperperare la sua vita e i suoi
guadagni in una sfrenatissima e alcolica mondanità, scrive da Capri una curiosa
lettera alla scrittrice Willa Cather: professandosi uno dei suoi più grandi
ammiratori, Fitzgerald si autodenuncia alla collega per un «caso di apparente
plagio» che gli era saltato agli occhi in una frase leggendo «con immensa
delizia» il suo romanzo, uscito due anni prima, Una signora perduta. Benché
abbia a lungo meditato di cancellarla dal proprio romanzo, Fitzgerald comunica
alla Cather che alla fine ha deciso di mantenere la frase incriminata, e per
provarle che si è trattato solo di una coincidenza e non di un «furto», allega
alla lettera due pagine del primo abbozzo del suo libro in uscita, scritte prima
della pubblicazione di Una signora perduta, cerchiando la frase (Cather, da
parte sua, risponderà al più giovane collega, con una rassicurante e amichevole
lettera che è anche un capolavoro di finezza). Ma chi era questa venerata
scrittrice che metteva in soggezione lo spavaldo Fitzgerald, protagonista dei
«roaring twenties»?
Nata in Virginia nel 1873 da una famiglia di origini irlandesi e alsaziane, e
cresciuta nel Nebraska, Cather è autrice di almeno due capolavori: La mia
Ántonia (1918) e, per l’appunto, Una signora perduta (1923).Ma va ricordato
anche, almeno, il trittico pubblicato dal 1925 al ’27: La casa del
professore, Il mio nemico mortale e La morte viene per l’arcivescovo; e quel
gioiello che è la raccolta di saggi Not Under Forty (tradotto da Adelphi con il
titolo La nipote di Flaubert). Fu amata anche da Truman Capote, che le dedicò il
suo ultimo scritto raccolto in Musica per camaleonti (dove racconta il suo
incontro, lui diciannovenne, in una gelida notte d’inverno a New York, con la
«blue-eyed lady», la donna dagli occhi che «erano l’azzurro pallido di una
prateria all’alba in una giornata limpida»), e dal poeta Wallace Stevens, che la
considerava la più grande di tutti, e dal critico Harold Bloom, per il quale
solo William Faulkner tra i suoi contemporanei le è superiore.
Cantora del tramonto dell’epopea del West e della dura vita dei pionieri
emigrati (boemi, francesi, tedeschi), è stata una discepola di Henry James, ma
lontana dalla scena sociale del suo maestro, che trasportò dai salotti europei
alle sterminate praterie del Nebraska. La potremmo definire una scrittrice del
rimpianto (rimpianto dell’amore perduto, soprattutto, ma anche di un’età
perduta, e dei luoghi, delle stagioni, dell’innocenza perdute), ma in questo
rimpianto non c’è nulla di sentimentale, piuttosto vi si trova la consapevolezza
dolorosa che la vita è sempre perdita secca, e che la sua unica fonte di
felicità può essere trovata nell’elegia di un passato irrimediabilmente andato.
In Italia di lei si sa e si legge ancora troppo poco: tradotta da diverse case
editrici (con un lungo intervallo di oblio tra gli anni Cinquanta e Ottanta, e
una ripresa all’inizio del Duemila, grazie alle ristampe di Adelphi, Giano e
Neri Pozza), ma sempre in maniera occasionale e dispersiva, l’opera di Cather
meriterebbe un’attenzione maggiore, perché i suoi libri sono capaci di regalarci
una bellezza di rara intensità e una esemplare essenzialità stilistica (in un
suo celebre saggio, The Novel Démeublé, lei stessa teorizzò un romanzo sgombrato
da ogni inutile orpello e ripetizione, da ogni eccesso descrittivo o
psicologistico). Pochi scrittori, infatti, riescono come lei a farci percepire
l’effimera e struggente e crudele bellezza della vita. Basta leggere, per
capirlo, i due capolavori già citati, e in particolare La mia Ántonia, un
romanzo che può accompagnarci per una vita intera, essere letto e riletto con un
piacere sempre rinnovato. Lo ripropone adesso la casa editrice Feltrinelli
(nella collana Comete), nella nuova traduzione di Monica Pareschi e con
postfazione di Sara Antonelli, ed è decisamente un’occasione da non perdere, sia
per gli appassionati della scrittrice americana, sia per chi non l’ha mai
letta.
La mia Ántonia è una narrazione memoriale, affidata a Jim Burden, ragazzo orfano
della Virginia e amico d’infanzia che diventa il custode elegiaco della figura
di Ántonia Shimerda. La dimensione memoriale inserisce immediatamente il romanzo
nell’aura della perdita: ciò che leggiamo non è mai «la vita stessa», ma una
rievocazione già trasfigurata, un canto del tempo che scorre. Il cuore pulsante
del romanzo è lei, la boema Ántonia, che incarna la terra, la fatica, la
fertilità, ma anche l’irriducibilità della vita di fronte al desiderio
frustrato. Jim la ama e non la possiede; la contempla perdendola. Cather sceglie
di fare di lei una figura tellurica, in contrapposizione al narratore che è
spettatore colto, cittadino, destinato a un’altra vita. Il libro è, da questo
punto di vista, anche una riflessione sulla condizione dell’emigrazione e
sull’epopea americana vista dalla parte degli sradicati, non dei vincitori. La
struttura del romanzo, che dissolve la trama in senso tradizionale, è episodica,
fatta di quadri, di stagioni, di ritorni.
Nella scrittura di Cather, di una straordinaria sensibilità pittorica, il
paesaggio diventa protagonista, e ogni descrizione di un campo innevato, di una
mietitura o di un tramonto sulle praterie diventa immagine del destino umano.
Cather inventa una prosa che è allo stesso tempo precisa ed evocativa, capace di
essere concreta come un documento e sospesa come un ricordo. E in questo senso
la nuova traduzione di Monica Pareschi restituisce precisione e naturalezza alla
scrittura, ma anche l’elasticità delle frasi, il tono colloquiale, concreto e
insieme lirico (a volte nello stesso giro di frase) della voce narrante.
Il romanzo, come molti altri libri di Cather, è anche attraversato da un
erotismo sotterraneo: la forza vitale di Ántonia, la sua corporeità, hanno
un’intensità sensuale che Jim registra e sublima. Per un’autrice che non
dichiarò mai apertamente la propria omosessualità, ma la visse in relazioni
durature e silenziose, questo gioco di allusioni e di traslati diventa cifra
stilistica: il desiderio resta non detto, ma impregna ogni pagina, ed è tanto
più pervasivo. C’è poi il tema del rimpianto, che fa di La mia Ántonia un libro
ancora profondamente moderno. Jim, adulto, rievoca l’adolescenza e sa che nulla
può tornare. L’elegia (che Bloom ha definito «virgiliana») diventa allora una
forma di resistenza etica: dire ciò che è stato per non lasciarlo dissolvere. In
questo senso Cather si mostra lontanissima dal sentimentalismo e vicinissima a
una sorta di stoicismo. Se in Ántonia c’è la forza della vita che resiste alla
perdita, e in Jim la coscienza che tutto è nostalgia, tra i due si apre quello
spazio che è il vero luogo della letteratura: l’impossibile riconciliazione tra
ciò che si vive e ciò che si ricorda.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Willa Cather, il suo triciclo, 1910 ca.
L'articolo Rileggiamo Willa Cather, venerabile scrittrice: ha trascinato Henry
James nel West… proviene da Pangea.
Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente
un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si
stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano
più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui
polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo
sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce
dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che
sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva
del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche,
quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma
soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la
prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio
suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo
siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella
condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia
agisca sul nostro sistema vitale.
Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un
discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund
Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che
due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei
sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di
conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea:
> «Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza
> quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo
> senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto
> strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e
> del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel
> che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione
> esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa
> delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a
> lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra
> angelo e bestia».
Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo
è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un
“privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e
“spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza.
Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento
dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È
l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra
queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e
una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio
indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile
che è l’uomo in quanto tale.
*
La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912,
Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una
sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a
Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo
quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di
Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a
questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla
fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine
della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di
diario del 1919 Mann scrive:
> «Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in
> mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto,
> ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come
> inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma
> anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per
> il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente
> alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo
> consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di
> corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e
> Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della
> guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave
> umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo
> umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto
> Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le
> loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans
> Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare
> all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le
> sue componenti, quella cristiana e quella pagana».
*
Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale,
orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna
che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da
qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre
settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il
suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse
stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per
giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi
sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura
autonoma, l’altra di emozioni.
> «La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi
> la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri
> a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue
> palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le
> palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia
> o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non
> ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza
> scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi
> bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più
> alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo
> veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto
> intensa, ma totalmente autonoma».
«Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con
l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona
per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una
condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp
sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare,
addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno
stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo
vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo
quello che il corpo suggerisce.
Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era
qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la
malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La
questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o
con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente
alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è
l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da
Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è
che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il
primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il
manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un
disagio di cui non si conosce la natura, o la causa.
A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico
e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra
per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere
perfettamente sano.
> «Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato!
> Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […]
> Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né
> psichico?».
Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle
conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei
morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non
solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori
dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella
parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono
tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di
discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del
romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone
Settembrini,
> «lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno
> delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti,
> privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo
> abisso».
Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un
abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la
malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo
ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse
è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta
un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di
laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo
incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale
muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da
una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria,
si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo
malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la
montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di
entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una
condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti
di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la
propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui
tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del
respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa
dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere
di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara
di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo:
> «Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò
> adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è
> stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi
> sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […]
> Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi
> sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la
> vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto
> che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia».
Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore
che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei
modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né
tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di
libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il
funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde
dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la
più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale
di noi che ci abita, sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo
studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia
esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che
la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non
è possibile definire scientificamente.
> «L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da
> respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere,
> quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o
> superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A
> un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non
> ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che
> costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però
> alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si
> spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e
> inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e
> immateriale».
La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è
che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare
vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma.
Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso
di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la
malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale
che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure,
misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia,
il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica
e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega
il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro
quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp
percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.
*
Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa.
Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in
modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse
l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non
più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della
psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da
somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la
“questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello
che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a
pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi,
che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una
malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri,
e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni).
Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del
respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver
significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza
di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in
termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro
in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla
vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito”
dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi
fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica
immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una
molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si
relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si
affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è
la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca?
Thomas Mann (1875-1955)
*
Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo
da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio
particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È
chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine
della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che
molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia:
> «La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con
> la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua
> troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei
> confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato
> tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di
> altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la
> malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi
> concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio,
> un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi,
> allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo,
> questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto,
> diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema
> aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è
> sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la
> malattia se non separazione dalla natura?».
Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la
narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una
dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio,
che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere
esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro
dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una
voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un
rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha
in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di
vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni –
discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente
il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che
mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella
conferenza su Goethe e Tolstoj.
> «Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella
> sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da
> dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale
> di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la
> malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e
> rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua
> dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice
> corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia,
> invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato.
> L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende
> umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a
> ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei
> fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti,
> quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come
> profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a
> disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere
> l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se
> stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello
> spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua
> nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il
> genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor
> Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il
> progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua
> esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro
> non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero
> vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che
> consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla
> follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la
> salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e
> godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla
> malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…».
Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione
dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti
gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come
elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o
come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita
ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che
questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura
personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà,
dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione
condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano,
esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li
rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non
ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un
uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita
ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere
dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire
se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso
discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini
puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli
stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte
–: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia.
*
È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp
un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo
prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È
l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria
follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”,
sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più
speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino
Joachim,
> «Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze
> strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse
> affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo
> in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi
> propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei
> moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…».
Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle
ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la
morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i
vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a
immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori
dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro.
Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio
nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la
vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere
e di spiegare.
La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li
tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla
vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non
muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi
ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo
vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli
spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza
macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con
riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la
Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia.
Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si
entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi
del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un
fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann
stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita;
che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui
siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno
di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di
quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché
del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti
indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma
di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui
che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma
appunto le maschere che ognuno di loro indossa.
È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di
desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia
Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare
alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che
annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta
d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto.
Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento.
Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che
quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi
che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una
conoscenza più profonda.
Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la
cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito
lascia scoperte:
> «La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di
> quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente
> della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva
> reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio
> mio!”».
È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato»
questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo
desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso.
> «Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato
> di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata».
L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale.
Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo
entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera
abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo
prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue.
Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come
tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione
della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala
conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione
pubblica che ha come tema l’amore e la malattia.
> «I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i
> quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano
> per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura
> borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della
> psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni
> devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla
> norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di
> questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria
> della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante
> bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli
> hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e
> all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e
> complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una
> vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare
> né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche
> nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della
> castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale
> forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […]
> Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa
> camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato».
La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo
travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in
una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso
della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più
della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese,
in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a
utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in
maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere,
> «Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un
> sogno particolarmente profondo».
Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un
nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la
specifica funzione di farlo abbandonare:
> «Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata,
> proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose
> che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è
> lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è
> questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un
> lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna;
> dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della
> vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più
> venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare…
> perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro
> che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il
> corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e
> il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e
> vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere
> adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della
> forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una
> inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di
> tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è
> fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e
> corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!».
C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi,
sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo
trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp,
con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile
perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione,
volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la
felicità e la disperazione.
Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da
non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa
chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro,
come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la
sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al
contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp
è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e
dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere
umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato,
proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.
Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore,
somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura
pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono,
era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla
filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe
sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal
e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi
sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie
contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva
interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo
e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla
vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di
quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa
un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento
che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del
destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a
osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo
l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una
molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio –
malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a
volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto
ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui
nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze,
lacerazioni.
L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può
consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una
“crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua
impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione
lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per
violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere
numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine
si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere
disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro
proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di
morte.
Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si
allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina.
Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha
pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una
finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in
virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel
paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un
gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in
montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia
cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue
più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare
si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia
percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto
la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per
l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve
lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita
nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per
provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è
caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come
Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità
di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte
immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella
dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce,
mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre
allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un
estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima,
alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di
luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di
spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un
sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta
compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al
mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando
a tacerlo.
Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la
sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in
contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della
propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che
l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la
terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano
tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo,
pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto
se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio
che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella
forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni
sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che
scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il
libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte
il dominio dei suoi pensieri». Una frase che fa eco alla domanda con cui si
conclude il romanzo,
> «Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e
> maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno
> innalzarsi l’amore?».
Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna
che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di
laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la
grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo
appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide;
si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di
Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante
parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude,
lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio
alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non
sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento
freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla
testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo
sento mormorare:/ là troverai la pace».
Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato
Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia
degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il
sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai
nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde
il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero
divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare.
Andrea Caterini
*L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La
montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata
Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011.
L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di
Thomas Mann proviene da Pangea.
Un Balzac tirato a lucido e caricato a pallettoni, in una forma a dir poco
smagliante. Non è certo una novità dal momento che quando aveva la penna, o per
essere più precisi, la piuma in mano Balzac era sempre in forma smagliante. Come
facesse resta ancora oggi un mistero. Può darsi che fosse un modo per sfuggire
ai ricordi di un’infanzia senza calore o per inseguire le sue mille illusioni
perdute. Scrivere capolavori era certo una rivalsa per un provinciale come lui
che, arrivato a Parigi da Tours, aveva passato molti anni in una squallida
mansarda nel quartiere dell’Arsenale; forse ad aiutarlo erano le dosi
industriali di caffè che ingurgitava.
Stiamo ai fatti. Scritto tra il 1840 e il 1841, uscito prima a puntate
come feuilleton e poi in volume unico, per motivi a me del tutto
incomprensibili Un caso tenebroso è un romanzo tra i meno noti di Balzac, ma è
un libro modernissimo, anticipatore e quelli che se ne intendono lo considerano
a tutti gli effetti il primo noir della storia della letteratura. Uno
straordinario ritratto della società francese di inizio Ottocento colta nei suoi
aspetti essenziali; un’epoca nella quale gli ideali della Rivoluzione ormai
erano degradati a mero scontro di potere e gli opportunisti di ogni sorta e
colore la facevano da padroni. Balzac sapeva guardare dentro la Storia e le sue
complicazioni come nessun altro.
Se volessimo riassumerlo in uno strillo di copertina potremmo dire: Giochi di
potere sullo sfondo dell’Impero napoleonico. Una vicenda nella quale si
intrecciano storia e politica e che trae spunto da due fatti realmente accaduti:
la congiura antinapoleonica che costò la vita al duca Enghien e il rapimento del
senatore Clément de Ris. Anche nel romanzo abbiamo una congiura contro Napoleone
Bonaparte ordita dalla giovane e bellissima contessa Laurence de Cinq-Cygne
insieme ad alcuni suoi parenti e amici. Tra i complottatori i due gemelli cugini
della contessa che entrambi corteggiano la bella Laurence, come d’altra parte fa
Adrien uno dei due fratelli d’Hauteserre, anche loro implicati nella congiura.
Per aggiungere mistero al mistero un gruppo di uomini rapisce Malin, un
importante funzionario dell’Impero, e del fattaccio vengono accusati la contessa
e il suo entourage. In realtà sono assolutamente innocenti, ma finiranno
condannati al termine di un drammatico processo, magistralmente raccontato da
Balzac in un turbinio di testimonianze e colpi di scena dove un ruolo non
secondario è giocato dagli umori del pubblico.
> «Se è vero che, durante i processi, la verità assomiglia spesso a una bugia, è
> anche vero che la bugia assomiglia molto alla verità.»
Il processo arriva a una sentenza che però non chiarisce affatto l’intricato
caso, come d’altra parte molto spesso vediamo accadere anche oggi. Più
anticipatore di così!
Dulcis in fundo, una memorabile scena in cui la bella Laurence va a incontrare
Napoleone alla vigilia di una delle sue tante battaglie per chiedere la grazia
per tutti quanti i condannati. Lei sarà prosciolta, uno verrà sacrificato alla
sete giustizialista popolare e condannato alla pena di morte, gli altri
finiranno ai lavori forzati.
> «Da quando la società civile ha inventato la Giustizia, non ha mai trovato i
> mezzi per dare all’imputato innocente un potere uguale a quello di cui dispone
> il magistrato contro il criminale.»
In definitiva, nonostante il funzionario rapito venga rilasciato dai suoi
sequestratori, la verità su tutta la vicenda non viene acclarata. Solo venti
anni dopo verrà raccontata a Laurence, ormai unica sopravvissuta. Si scoprirà
così che dietro le quinte a tirare le fila del “tenebroso caso” c’erano
dueprotagonisti assoluti della vita pubblica francese a partire dalla
Rivoluzione del 1789: l’ex giacobino e poi bonapartista Fouché, uomo
spregiudicato e ambizioso
> «uno di quei personaggi che hanno tante facce e tanta profondità in ogni
> faccia da essere impenetrabili nel loro gioco e che possono essere compresi
> solo molto tempo dopo che la partita è finita»
e il camaleontico Talleyrand, astuto nobile di vecchia casata, freddo e
calcolatore. Due figure con origini e personalità molto diverse, accomunate però
dalla consapevolezza che i regimi cambiano ma gli uomini restano.
Vanno assolutamente messi in evidenza due aspetti tutt’altro che secondari e che
sono parte essenziale del piacere della lettura del libro: innanzitutto le
affascinanti ambientazioni naturali descritte con grande abilità e dovizia di
particolari, con quella foresta di Simeuse che va considerata a tutti gli
effetti una protagonista del romanzo e costituisce ben più di uno sfondo a tutta
la storia, e poi il personaggio della contessa Laurence, una straordinaria
figura di donna tenace, energica, intrepida, intelligente e coraggiosa,
ammirevole sotto tutti i punti di vista. Come direbbe Karl Kraus: «Per essere
perfetta le mancava solo un difetto».
A prima vista la trama può risultare ingarbugliata, a volte ci si può perdere
nella selva oscura dei tanti nomi citati, nell’intrico delle macchinazioni dei
vari personaggi e nei mille rivoli della vicenda, ma quando sei dentro a un
romanzo di Balzac non puoi scappare; ergo, fatevi prendere per mano e lasciatelo
fare. Ci penserà lui a spiegarvi come la durezza della realtà e l’asprezza della
storia siano in grado di spezzare ogni fiero slancio ideale e come i destini dei
singoli non possano rimanere esenti dalle strumentalizzazioni dalla politica,
per la quale molto spesso gli esseri umani sono solo marionette di cui tirare i
fili: burattini che si credono burattinai. Un finale amaro, senza sconti per
nessuno, ma che a quasi duecento anni di distanza spinge noi lettori di oggi ad
aprire gli occhi sulla realtà e a fare una serie di riflessioni sulla natura
umana. Che cosa volete di più da uno scrittore? Lasciatemelo dire: Balzac è
formidabile!
Silvano Calzini
L'articolo Quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare… Ovvero:
anatomia di un libro modernissimo proviene da Pangea.
Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e
finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce
l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo
perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente,
nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il
sapere incanta, inabissa, devasta.
L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso
nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da
fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange,
moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e
assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi
invece la più irreversibile delle solitudini.
> “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”.
Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die
Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo
come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza.
Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un
culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza
ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca
privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di
rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la
lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema
autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il
matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi
vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa
nell’abisso.
> “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità,
> questa spregevole meta degli analfabeti”.
Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra
Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa
si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il
celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato
un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo
conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo
originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è
la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma
è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa
autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il
titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi
inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere
che brucia se stesso.
A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un
linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità
mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse
da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e
famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il
fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi
orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una
satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola,
ossifica, disumanizza.
> “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di
> quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.”
In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista
nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua
cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere
salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue.
“Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce
lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto.
Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle;
il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per
essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente
perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in
un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e
dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità
inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la
tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di
rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.
> “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.”
Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o
redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea,
colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la
biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo
dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio.
E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25
saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla
comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio
della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce
che arde come brace sotto la cenere della storia.
Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra
individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che
sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile,
cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se
assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate.
E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale
come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e
consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo
l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi.
Tommaso Filippucci
*In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos
L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro
necessario proviene da Pangea.
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque
polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura,
quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle
antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” –
un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori
estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita
attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali:
moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo
dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna
privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si
leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo
l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un
trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo
giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo
ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia
e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in
destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de
notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica
dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la
prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo
e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i
filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle
cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito
che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale
corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
> «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco
> Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere
quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria
inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale
spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il
revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar
brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.
Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con
l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che
già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la
geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere
negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio
ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che
Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi.
La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della
donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si
ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture
importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere
Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia
Minore.
> «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto
> allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso
all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci
attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal
presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un
plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa
traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella
bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di
cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute
accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si
rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano
l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro
sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle
guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a
riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.
I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e
Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A
Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher
Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e
salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando
tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era?
Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di
entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima,
la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé
stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni –
così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito
di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni
costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
> «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello
> che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla
> di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le
> angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e
> della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì
> sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste
> portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è
l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla
mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la
materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre
per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura
una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata
dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale
di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e
l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una
sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a
provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con
l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre
sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il
marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini,
obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un
uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più
grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che
meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore
dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto
creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da
quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un
destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
> «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei
> fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi
> della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata;
> quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il
> servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato
> detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
>
> Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per
un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia.
> Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una
> sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del
> suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti
> tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro
> persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore
> della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.
>
> (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)
La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una
trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico
Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la
mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia
omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo
subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi:
il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie»,
che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza
completamente sfigurata.
In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco
frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e
discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo
di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da
cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a
Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a
Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie
letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando
la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che
guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di
Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina
moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto.
Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di
suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di
Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart,
significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così
politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il
soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e
feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine
senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili
portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel
blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un
susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”:
> “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del
> pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai
> mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer,
> ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.
>
> Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni
> Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come
> Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”.
Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al
corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più
che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì
stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà
definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e
promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per
l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né
mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro
strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a
coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse
a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di
Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo
prezioso pianoforte è perfidamente perverso:
> “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i
> bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento
> per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento,
> sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che
> uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un
> pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il
> mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo
> lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la
> figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso
> strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque
> dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.
Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile,
Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende
semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per
diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano
tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista
s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per
partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra
nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e
pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi
intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose,
pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una
tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è
dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e
disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno
tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le
posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e
trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della
cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da
cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e
attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un
grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente
dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che
Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda,
“naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di
caccia di lui”.
Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce
dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di
studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente”
– ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore,
perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro
vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il
Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine
tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”,
aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo
istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che
ha conosciuto.
> “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente
> grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo
> osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che
> accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo
> increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai
> nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da
> fare, per noi è finita”.
Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo
sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri.
Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella
propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio
beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta
della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard
senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza
frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente
scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non
conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per
andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina
contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza
che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé
impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice
la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato –
che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla
andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico,
che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è
dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più
privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va
da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a
poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo
definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di
campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti
esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di
lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione
esistenziale dell’uomo che non si può eludere.
Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed
elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa
ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti
tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori
giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti
che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e
questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che
odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano
sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata.
Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta
impunita.
Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro
vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della
mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un
musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti,
abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della
sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare
nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non
immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando
Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane
bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo
capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte
a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che
vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di
essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come
intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato
fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato
dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto
finalmente assoluto con Bach.
> “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz,
> quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta
> per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che
> fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio,
> pensai”.
La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del
discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete
complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per
aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso
itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue
correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali
di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che
tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe
innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.
La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne
con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia,
dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato
a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un
fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più
inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo
sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del
1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa,
che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben
rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da
sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro
infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci
fossero persone.
> “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un
> fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn
> Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti,
> pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre
> rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato
> assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di
> aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi
> decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto
> dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece,
> questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto
> per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi
> tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di
> aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli,
> pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da
> dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel
> farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze,
> pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici
> hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.
Paolo Ferrucci
L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di
Glenn Gould) proviene da Pangea.
Se vuoi conoscere uno scrittore – uno scrittore vero – devi andare a Laveno.
Sponda lombarda del Lago Maggiore. Ho sempre frequentato l’altra, quella
piemontese: la preferivano Manzoni e Rebora, forse perché sboccia nella Val
Grande, la più grande area selvaggia d’Italia. Scrivere vuol dire dare del tu ai
lupi.
È vero: ho sempre tenuto in sospetto i lombardi di lago. Gente dai sorrisi
larghi e ingrigiti; di un’eleganza stantia, a un passo dalla città. Riccardo
Ielmini non fa eccezione. Classe 1973, elegante, educato – sorride sempre. A
Luino, poco più in là, sono nati Piero Chiara e Vittorio Sereni. Di mestiere,
Ielmini fa il dirigente scolastico di un Istituto comprensivo a Cuveglio:
tremila e passa abitanti in provincia di Varese. Non ci sono mai stato. Bisogna
sospettare sempre degli uomini di lago: dietro le apparenze da villino con
florilegio di ortensie, si cela un mostro. Anche quel gentile dirigente
scolastico nasconde, nei sotterranei del cuore, un Loch Ness.
Riccardo Ielmini, semplicemente, non ha mai sbagliato un libro. Esordì come
poeta nel nuovo millennio, nel 2000, con un libro rivoluzionario fin nel
titolo, Il privilegio della vita. A dispetto dei poeti inargentati dal dolore,
inclini al lamento, Ielmini canta la gioia, la sofferenza come prova, la
fermezza nell’amare. Alcuni versi, di per sé, segnarono una rivolta: “Arrivare a
dire sono uno fortunato”; “Stare nel privilegio della vita”; “Quanta vita ancora
chiede voce”. Ecco un poeta che ha la primavera tra le falangi, verrebbe da
dire; verrebbe da dire: ecco un poeta nel pieno della lotta, nell’urlo. In una
poesia, Ielmini scrive di Kurt Cobain (attacco memorabile: “I bambini belli la
vita li rovina/ quasi sempre, gli inficca nel cuore una lama”), un’altra
s’intitola Mio padre è uno stanco democristiano. Credo che Ielmini tifi ancora
Inter – fedeltà alla squadra come alla donna –; ha uno stuolo di figli, ho perso
il conto. A me ricorda James Stewart, il grande attore, quello di It’s a
Wonderful Life.
Riccardo Ielmini ha scritto un altro libro in versi memorabile: s’intitola –
appunto – Una stagione memorabile, lo ha pubblicato Il Ponte del Sale nel 2021,
ma non è questo il punto. Ielmini non ha sbagliato neppure un libro. Nel 2011 ha
pubblicato una folgorante raccolta di racconti, Belle speranze (stampa
Macchione), nel 2019, per le edizioni Unicopli, è uscito con Storia della mia
circoncisione. Leggetelo. Si parla di un venticinquenne, Giovanni De Ambrosis,
di un kibbutz in Lombardia, della Svizzera e di Dio.
Lui è Riccardo Ielmini
Forse Riccardo Ielmini è l’unico scrittore autenticamente “cattolico” d’Italia –
nel senso che gli scrittori cattolici, in Italia, di solito rifuggono dallo
scrivere di Dio; lui invece no, Ielmini non ha paura di lordare le sacre verità,
di dissacrare il tempio e di pronunciare invano il Nome. Quando si legge
Riccardo Ielmini accade uno strano fenomeno. Ielmini scrive in un italiano
sgargiante, ‘manzoniano’, si direbbe (di certo, marziano all’oggi); il suo è un
tono da ironia epica, eppure, pare, leggendolo, di sentire i modi di Philip
Roth, i toni di Saul Bellow e di Henry Roth, lo straordinario scrittore
di Chiamalo sonno. Ecco: Riccardo Ielmini, l’ultimo scrittore autenticamente
“cattolico” d’Italia, scrive come un ebreo-americano.
L’ultimo libro di Riccardo Ielmini – uno scrittore-cecchino, uno scrittore che
non sbaglia neanche un libro – s’intitola Spettri Diavoli Cristi Noi (Neo,
2025), ed è il libro più bello di questo autore così anomalo. Il romanzo si
svolge in un paese in riva al lago dal nome fittizio, Contea; i protagonisti
sono un gruppo di ragazzi, la Confraternita; il contesto mostra messe nere,
assassini in serie, orrori a tracannare. L’incipit è apocalittico, una specie di
John Milton all’imbarcadero:
> “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica
> incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo
> bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn,
> l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo
> ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla,
> e quindi sta’ lontano dal Diavolo…”
…e avanti così, in sabba, per un paio di pagine. Il romanzo è fitto di
personaggi sfacciati e fiabeschi – “Indiano Joe”, “L’Uomo Dei Boschi”, “Artù il
Muto”, “La Frida” –, alcuni dei quali – Von Arcimboldi e Frau Ingeborg Bauer –
sono tratti dai libri di Roberto Bolaño. Il romanzo inscena, soprattutto,
l’eterna lotta tra il Bene e il Male – “l’Altissimo dava retta alle giaculatorie
delle nostre vecchie e disseminava nelle boscaglie intorno alla Contea i suoi
spettri custodi” – perché il Male, quello al di là del raziocinio, esiste – “la
Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo
altra carne, carne debole, innocua” –, ma pure il Bene, quello incredibile,
quello indicibile. Non mancano le viltà, i tradimenti e i giornalini porno:
l’orrore non è negato, ma narrato con la certezza che l’Onnipotente, prima o
poi, farà quadrare il caos. Più che a Flannery O’Connor, Ielmini guarda, in
questo romanzo, al ghigno da chassid di Isaac B. Singer. Su tutto, aleggia
un’atmosfera che mescola Twin Peaks ai Goonies; sgommano a go-go falangi di
vecchie, indimenticate bmx.
In un articolo pubblicato ricordando Simone Cattaneo – su “Atelier” n. 67, del
settembre 2012, lo trovate in rete –, Ielmini accenna a Dejan Stanković:
furoreggiava nell’Inter di allora. “Una volta mi aveva tenuto un monologo sugli
slavi: razza calcistica superiore, perfetta: bastardi con piedi buoni da
sudamericani e testa dura e cattiva, aveva detto”. Le stesse caratteristiche
tecniche di Ielmini: estro e ferocia, genio e pervicacia.
Non ha mai sbagliato un libro.
Mai trovarselo davanti. Sembra gentile, sorride sempre – è implacabile.
L'articolo Riccardo Ielmini: lo scrittore che non ha mai sbagliato un libro, con
un Loch Ness nel cuore proviene da Pangea.