La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque
polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura,
quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle
antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” –
un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori
estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita
attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali:
moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo
dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna
privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si
leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo
l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un
trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo
giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo
ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia
e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in
destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de
notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica
dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la
prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo
e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i
filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle
cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito
che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale
corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
> «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco
> Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere
quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria
inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale
spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il
revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar
brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.
Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con
l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che
già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la
geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere
negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio
ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che
Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi.
La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della
donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si
ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture
importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere
Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia
Minore.
> «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto
> allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso
all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci
attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal
presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un
plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa
traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella
bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di
cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute
accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si
rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano
l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro
sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle
guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a
riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.
I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e
Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A
Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher
Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e
salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando
tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era?
Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di
entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima,
la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé
stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni –
così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito
di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni
costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
> «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello
> che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla
> di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le
> angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e
> della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì
> sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste
> portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è
l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla
mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la
materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre
per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura
una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata
dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale
di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e
l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una
sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a
provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con
l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre
sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il
marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini,
obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un
uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più
grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che
meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore
dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto
creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da
quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un
destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
> «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei
> fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi
> della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata;
> quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il
> servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato
> detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
>
> Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per
un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
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Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia.
> Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una
> sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del
> suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti
> tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro
> persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore
> della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.
>
> (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)
La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una
trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico
Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la
mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia
omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo
subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi:
il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie»,
che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza
completamente sfigurata.
In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco
frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e
discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo
di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da
cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a
Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a
Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie
letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando
la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che
guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di
Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina
moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto.
Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di
suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di
Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart,
significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così
politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il
soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e
feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine
senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili
portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel
blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un
susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”:
> “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del
> pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai
> mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer,
> ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.
>
> Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni
> Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come
> Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”.
Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al
corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più
che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì
stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà
definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e
promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per
l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né
mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro
strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a
coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse
a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di
Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo
prezioso pianoforte è perfidamente perverso:
> “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i
> bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento
> per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento,
> sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che
> uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un
> pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il
> mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo
> lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la
> figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso
> strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque
> dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.
Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile,
Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende
semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per
diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano
tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista
s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per
partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra
nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e
pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi
intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose,
pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una
tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è
dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e
disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno
tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le
posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e
trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della
cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da
cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e
attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un
grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente
dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che
Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda,
“naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di
caccia di lui”.
Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce
dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di
studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente”
– ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore,
perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro
vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il
Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine
tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”,
aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo
istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che
ha conosciuto.
> “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente
> grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo
> osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che
> accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo
> increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai
> nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da
> fare, per noi è finita”.
Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo
sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri.
Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella
propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio
beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta
della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard
senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza
frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente
scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non
conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per
andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina
contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza
che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé
impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice
la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato –
che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla
andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico,
che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è
dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più
privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va
da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a
poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo
definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di
campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti
esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di
lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione
esistenziale dell’uomo che non si può eludere.
Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed
elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa
ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti
tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori
giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti
che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e
questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che
odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano
sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata.
Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta
impunita.
Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro
vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della
mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un
musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti,
abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della
sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare
nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non
immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando
Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane
bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo
capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte
a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che
vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di
essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come
intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato
fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato
dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto
finalmente assoluto con Bach.
> “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz,
> quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta
> per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che
> fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio,
> pensai”.
La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del
discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete
complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per
aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso
itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue
correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali
di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che
tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe
innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.
La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne
con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia,
dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato
a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un
fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più
inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo
sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del
1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa,
che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben
rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da
sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro
infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci
fossero persone.
> “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un
> fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn
> Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti,
> pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre
> rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato
> assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di
> aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi
> decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto
> dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece,
> questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto
> per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi
> tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di
> aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli,
> pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da
> dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel
> farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze,
> pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici
> hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.
Paolo Ferrucci
L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di
Glenn Gould) proviene da Pangea.
Se vuoi conoscere uno scrittore – uno scrittore vero – devi andare a Laveno.
Sponda lombarda del Lago Maggiore. Ho sempre frequentato l’altra, quella
piemontese: la preferivano Manzoni e Rebora, forse perché sboccia nella Val
Grande, la più grande area selvaggia d’Italia. Scrivere vuol dire dare del tu ai
lupi.
È vero: ho sempre tenuto in sospetto i lombardi di lago. Gente dai sorrisi
larghi e ingrigiti; di un’eleganza stantia, a un passo dalla città. Riccardo
Ielmini non fa eccezione. Classe 1973, elegante, educato – sorride sempre. A
Luino, poco più in là, sono nati Piero Chiara e Vittorio Sereni. Di mestiere,
Ielmini fa il dirigente scolastico di un Istituto comprensivo a Cuveglio:
tremila e passa abitanti in provincia di Varese. Non ci sono mai stato. Bisogna
sospettare sempre degli uomini di lago: dietro le apparenze da villino con
florilegio di ortensie, si cela un mostro. Anche quel gentile dirigente
scolastico nasconde, nei sotterranei del cuore, un Loch Ness.
Riccardo Ielmini, semplicemente, non ha mai sbagliato un libro. Esordì come
poeta nel nuovo millennio, nel 2000, con un libro rivoluzionario fin nel
titolo, Il privilegio della vita. A dispetto dei poeti inargentati dal dolore,
inclini al lamento, Ielmini canta la gioia, la sofferenza come prova, la
fermezza nell’amare. Alcuni versi, di per sé, segnarono una rivolta: “Arrivare a
dire sono uno fortunato”; “Stare nel privilegio della vita”; “Quanta vita ancora
chiede voce”. Ecco un poeta che ha la primavera tra le falangi, verrebbe da
dire; verrebbe da dire: ecco un poeta nel pieno della lotta, nell’urlo. In una
poesia, Ielmini scrive di Kurt Cobain (attacco memorabile: “I bambini belli la
vita li rovina/ quasi sempre, gli inficca nel cuore una lama”), un’altra
s’intitola Mio padre è uno stanco democristiano. Credo che Ielmini tifi ancora
Inter – fedeltà alla squadra come alla donna –; ha uno stuolo di figli, ho perso
il conto. A me ricorda James Stewart, il grande attore, quello di It’s a
Wonderful Life.
Riccardo Ielmini ha scritto un altro libro in versi memorabile: s’intitola –
appunto – Una stagione memorabile, lo ha pubblicato Il Ponte del Sale nel 2021,
ma non è questo il punto. Ielmini non ha sbagliato neppure un libro. Nel 2011 ha
pubblicato una folgorante raccolta di racconti, Belle speranze (stampa
Macchione), nel 2019, per le edizioni Unicopli, è uscito con Storia della mia
circoncisione. Leggetelo. Si parla di un venticinquenne, Giovanni De Ambrosis,
di un kibbutz in Lombardia, della Svizzera e di Dio.
Lui è Riccardo Ielmini
Forse Riccardo Ielmini è l’unico scrittore autenticamente “cattolico” d’Italia –
nel senso che gli scrittori cattolici, in Italia, di solito rifuggono dallo
scrivere di Dio; lui invece no, Ielmini non ha paura di lordare le sacre verità,
di dissacrare il tempio e di pronunciare invano il Nome. Quando si legge
Riccardo Ielmini accade uno strano fenomeno. Ielmini scrive in un italiano
sgargiante, ‘manzoniano’, si direbbe (di certo, marziano all’oggi); il suo è un
tono da ironia epica, eppure, pare, leggendolo, di sentire i modi di Philip
Roth, i toni di Saul Bellow e di Henry Roth, lo straordinario scrittore
di Chiamalo sonno. Ecco: Riccardo Ielmini, l’ultimo scrittore autenticamente
“cattolico” d’Italia, scrive come un ebreo-americano.
L’ultimo libro di Riccardo Ielmini – uno scrittore-cecchino, uno scrittore che
non sbaglia neanche un libro – s’intitola Spettri Diavoli Cristi Noi (Neo,
2025), ed è il libro più bello di questo autore così anomalo. Il romanzo si
svolge in un paese in riva al lago dal nome fittizio, Contea; i protagonisti
sono un gruppo di ragazzi, la Confraternita; il contesto mostra messe nere,
assassini in serie, orrori a tracannare. L’incipit è apocalittico, una specie di
John Milton all’imbarcadero:
> “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica
> incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo
> bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn,
> l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo
> ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla,
> e quindi sta’ lontano dal Diavolo…”
…e avanti così, in sabba, per un paio di pagine. Il romanzo è fitto di
personaggi sfacciati e fiabeschi – “Indiano Joe”, “L’Uomo Dei Boschi”, “Artù il
Muto”, “La Frida” –, alcuni dei quali – Von Arcimboldi e Frau Ingeborg Bauer –
sono tratti dai libri di Roberto Bolaño. Il romanzo inscena, soprattutto,
l’eterna lotta tra il Bene e il Male – “l’Altissimo dava retta alle giaculatorie
delle nostre vecchie e disseminava nelle boscaglie intorno alla Contea i suoi
spettri custodi” – perché il Male, quello al di là del raziocinio, esiste – “la
Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo
altra carne, carne debole, innocua” –, ma pure il Bene, quello incredibile,
quello indicibile. Non mancano le viltà, i tradimenti e i giornalini porno:
l’orrore non è negato, ma narrato con la certezza che l’Onnipotente, prima o
poi, farà quadrare il caos. Più che a Flannery O’Connor, Ielmini guarda, in
questo romanzo, al ghigno da chassid di Isaac B. Singer. Su tutto, aleggia
un’atmosfera che mescola Twin Peaks ai Goonies; sgommano a go-go falangi di
vecchie, indimenticate bmx.
In un articolo pubblicato ricordando Simone Cattaneo – su “Atelier” n. 67, del
settembre 2012, lo trovate in rete –, Ielmini accenna a Dejan Stanković:
furoreggiava nell’Inter di allora. “Una volta mi aveva tenuto un monologo sugli
slavi: razza calcistica superiore, perfetta: bastardi con piedi buoni da
sudamericani e testa dura e cattiva, aveva detto”. Le stesse caratteristiche
tecniche di Ielmini: estro e ferocia, genio e pervicacia.
Non ha mai sbagliato un libro.
Mai trovarselo davanti. Sembra gentile, sorride sempre – è implacabile.
L'articolo Riccardo Ielmini: lo scrittore che non ha mai sbagliato un libro, con
un Loch Ness nel cuore proviene da Pangea.
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle
della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un
sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli
astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di
angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria –
Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il
pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di
memorie passeriformi.
E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di
leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea
che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina,
l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli
inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono
torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo;
Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì,
nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli
estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.
Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella
sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che
vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda
l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del
Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la
nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei
pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa,
il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino
del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo,
falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose
malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.
Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è
lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi.
Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città
fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma
ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a
tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani.
Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di
immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a
dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della
pena. La prima:
> “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido
> fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti,
> si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato.
> Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare
> ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.
L’altra riguarda l’animale:
> “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento
> chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da
> così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore
> acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo
> della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi
> guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie
> hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo
> letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo
> sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a
> graffiarmi con potenza”.
Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei
dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano
un’invocazione:
> “Modera la tua ira!
> Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta,
> come una crepa nel legno,
> diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”.
Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a
maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i
più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro,
forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento
dell’uomo.
Ad ogni modo, ho interpellato Linda.
Preliminare: perché l’ossessione del Nord?
Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi
hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i
ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio
rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione
scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a
Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle
Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno
1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto.
Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce
abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di
conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende
il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le
storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da
una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne
sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano
in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce.
Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica
di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere?
Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel
cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in
Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu
venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra
norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che
non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo,
l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne
piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa
pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in
cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una
istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il
passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo
cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la
luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare.
In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un
sottofondo lirico che anima il romanzo?
Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è
la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi
un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che
rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno
della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto
come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul
fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve
ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai
che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non
significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male
che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad
occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono
piuttosto aggrovigliate.
Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata?
Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in
grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver
visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di
vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata
tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi
pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore
tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel
cuore dell’inverno.
Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del
tuo romanzo?
Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero
spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi
sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani
avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello
che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del
passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il
grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la
protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata,
controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre
sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di
corrispondente alla verità.
Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.
Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male.
> “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi
> contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua
> integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti
> come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente
> freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e,
> nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il
> fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti,
> sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire
> dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore
> improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”.
Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo
dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle
conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale.
> “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con
> un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha
> capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha
> sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva,
> ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”.
Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato
che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di
Pyramiden:
> “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di
> polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono
> migliaia di occhi che ci scrutano”.
E ora? Cosa scrivi, cosa studi?
Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo
editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore
dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al
parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto
alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo
momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro
voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé,
più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile.
Ma talvolta è necessariamente più potente e audace.
*In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden
L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città
fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in
quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi.
Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della
maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per
descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che
non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello
spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si
scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo
corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di
fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla
necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e
del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per
trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in
superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità
umana dell’abbandono.
Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore
incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il
Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola
diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme
alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire
che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del
testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e
l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare
un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda,
incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di
racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice,
può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E
pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!
Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una
pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra
Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate
sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso.
Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in
quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo
neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento,
di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della
creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo
la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo
delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in
atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede?
A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa,
inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare
mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci
sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche
se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro
divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e
Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei
pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo
lo spessore dei maestri.
Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un
libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il
sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione.
Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta
magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto,
niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in
mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico
sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si
salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per
raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il
quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre.
Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura
che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto,
insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca
dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della
propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora
quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire
l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo,
si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero
assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo,
come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche
il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un
infinito.
Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad
avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda,
gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare
come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a
fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito.
Oggi è più grave?
La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque
cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in
una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed
esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della
parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede
forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità
della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma
senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la
pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa
riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta,
un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La
parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al
chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è
personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci
sorprende.
Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore
insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra
gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani,
risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la
sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei
si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman
non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la
vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è
persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è
capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso.
Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso.
Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo.
Ricominciamo, leggiamo l’inizio:
> “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona
> gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al
> viaggio”.
L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole,
realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a
cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe,
si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di
seguito si legge:
> “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare
> il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una
> mappa”.
Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:
> “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e
> tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”.
Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e
così pure il lettore:
> “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed
> ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì,
> rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini
> dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a
> svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e
> capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che
> dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e
> desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro
> corpi avvinti”.
Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole
sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto
inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue,
allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua
immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che
gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo
nell’Ora denominata occidentale orientale:
> “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e
> arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre
> ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati
> nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e
> slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni
> si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.
Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo
sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai
contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e
di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo
nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine
di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al
piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale
sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri
all’incontrario”).
Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che
siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non
a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:
> “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a
> un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di
> fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su
> materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione
> delle ore ti dà misura di te”.
Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò
anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola
che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella
che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte.
L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che
uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva,
attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.
> “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su
> quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi
> dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo
> quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si
> avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia
> gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al
> tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per
> dare chiarore alla notte”.
Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne.
“La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:
> “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume
> senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e
> capoversi”.
Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un
indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza
saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo.
Vincenzo Gambardella
*In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916)
L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di
Silvio Perrella proviene da Pangea.
Chin P’ing Mei (in cinese 金瓶梅, pinyin Jīn Píng Méi, che si può tradurre come “Il
fiore di prugno nel vaso d’oro”) è un celebre romanzo cinese scritto in lingua
vernacolare (baihua) verso la fine della dinastia Ming, nel XVI secolo. L’autore
– o forse autrice – rimane anonimo, conosciuto solo con lo pseudonimo di Lanling
Xiaoxiao Sheng: forse il poeta Wang Shih-chen. Le prime copie del romanzo
circolavano manoscritte, mentre la prima edizione a stampa risale al 1610.
L’opera completa oggi comprende circa cento capitoli.
La narrazione si incentra sulla figura di Ximen Qing (西门庆), tradotto anche come
Hsi-Mên, un ricco mercante di medicinali, e sulle intricate vicende delle sue
numerose mogli (Loto D’Oro, Madama Luna, Loto Fragrante, Madama P’Ing, Stelo di
Giada, Girasole) e concubine. La famiglia, inizialmente immersa in ricchezze,
piaceri e relazioni spesso moralmente ambigue, finisce per essere travolta da un
lento ma inesorabile declino, che culmina con la morte dello stesso
protagonista. Il romanzo offre uno spaccato vivace e dettagliato della società
cinese durante la dinastia Song Settentrionale, nel XII secolo, fino agli eventi
legati all’invasione tartara.
Considerato da molti il “quinto” tra i Quattro Grandi Romanzi Classici della
letteratura cinese, Chin P’ing Mei è noto per essere la prima grande opera della
narrativa cinese a trattare in maniera esplicita il tema della sessualità.
La storia prende avvio quando il giovane e benestante Hsi-Mên incontra
casualmente Pan Jinlian (P’an Chin-lien, poi Loto D’Oro), moglie del modesto Wu
Dalang. I due iniziano una relazione adulterina, e Pan Jinlian, stregata dalla
passione e dall’opulenza del suo amante, arriva ad avvelenare il marito per
poter entrare nell’harem di Ximen Qing come concubina. Mentre il fratello della
vittima, Wu Sung, deciso a vendicare la morte del fratello, finisce per uccidere
per errore un innocente e viene esiliato. Con la minaccia di vendetta sventata,
Ximen Qing si abbandona completamente ai vizi e agli eccessi.
Tra le nuove donne che accoglie nel suo harem vi sono Madama P’Ing, vedova di un
suo amico, e Chunmei, una giovane schiava. Tuttavia, la fortuna della famiglia
inizia a svanire: Madama P’Ing e il figlio muoiono, Loto D’Oro viene uccisa da
Wu Sung al suo ritorno, che così può vendicarsi del fratello ucciso, per poi
darsi alla macchia; Chunmei viene venduta, tutto questo dopo che lo stesso
protagonista era deceduto, a causa di Loto D’Oro, che gli somministra una dose
troppo elevata di pillole afrodisiache.
Con il Paese invaso dai tartari, Madama Luna, la prima moglie di Hsi-Mên, cerca
rifugio in un tempio buddhista insieme all’unico figlio rimasto in vita, Xiao
Ke. Qui, in sogno, scopre che il bambino è la reincarnazione del defunto marito.
Per evitare che il figlio segua lo stesso cammino dissoluto, decide di farlo
diventare un monaco, in virtù di una promessa che era stata fatta anni prima a
un’eremita.
Questo romanzo, pubblicato agli albori del Seicento, dimostra quanto la
narrativa cinese fosse già pienamente matura e strutturata. In Occidente, opere
di simile complessità e respiro arriveranno solo molto più tardi, nel corso
dell’Ottocento. Lo stile è fortemente imparentato col linguaggio teatrale:
l’azione domina, le descrizioni sono al tempo stesso puntuali e cariche di
poesia, il linguaggio ricco e stratificato.
Nell’edizione da noi letta (Feltrinelli, 1970, nella traduzione di Piero Jahier
e Maj-Lis Rissler Stoneman, basata sulla versione inglese di Arthur Waley), il
romanzo si estende per 919 pagine suddivise in quarantanove capitoli di
altissima intensità. Dal punto di vista stilistico, si potrebbe paragonare
all’unione di tre grandi nomi della letteratura occidentale: il naturalismo
minuzioso di Zola, la delicatezza poetica di Flaubert e il senso del ritmo
scenico di Maupassant.
Quasi mille pagine raccontano un arco temporale piuttosto breve, pochi anni
appena, eppure con tale dovizia di dettagli che sembra davvero di vivere accanto
ai personaggi. Di loro apprendiamo ogni gesto, ogni pensiero quotidiano, dalle
conversazioni ai banchetti, fino alle scene erotiche, anch’esse descritte con
cura e senza veli.
Proprio per questo, l’opera è stata spesso fraintesa, ridotta – anche per motivi
pubblicitari – a romanzo erotico, e in passato soggetta a censure che
eliminavano le parti più esplicite. Ma l’eros, in realtà, è trattato come una
dimensione naturale e paritaria dell’esistenza, non viene enfatizzato né
nascosto, bensì integrato nella narrazione complessiva della vita dei
protagonisti. L’intento dell’autore è chiaro: restituirci l’eccesso, lo sfarzo,
la smania di potere del protagonista. Questi, pur essendo già un amante esperto
e insaziabile, ricorre a pillole afrodisiache per superare i limiti umani — ed è
proprio questo abuso a condurlo infine alla morte.
Così come accade al protagonista, anche gli altri personaggi del romanzo sono
vittime delle proprie ossessioni, travolti da eccessi che li consumano. L’opera
potrebbe idealmente essere divisa in due grandi momenti: una prima parte di
ascesa e costruzione, e una seconda di decadenza e rovina. Tutte le colpe, le
ambizioni e le esagerazioni che si manifestano nella prima metà trovano nella
seconda il loro inevitabile contrappasso.
> “Madama Luna finalmente si arrese alle sue sollecitazioni. Dette all’ancella
> Gioietta le chiavi dei cancelli del parco, e tutte e tre – perché si unì a
> loro la cognata Wu – vi si recarono insieme. Ma come era mutato il suo aspetto
> nell’intervallo! Sui muri e sugli edifici, i variopinti stucchi eran svaniti,
> ed in alcuni punti scrostati, cosicché rimaneva scoperta la nuda pietra, e qua
> e là ci cresceva sopra il muschio. Le lastre di marmo e i blocchi dei gradini
> e dei terrazzi si eran spostati, o erano sprofondati in modo disuguale entro
> terra, cosicché so eran formati crepacci beanti, nei quali fiorivan le
> erbacce. Sui tetti, le tegole si erano spezzate o spostate, aprendo il cammino
> a una vigorosa vegetazione verde. Le pietre dure di valore e i minerali sui
> margini del lago eran coperti di crosta di sporcizia e avevano perduto la
> lucentezza. Il graticcio intrecciato dei mobili di vimini del padiglione era
> strappato e cadeva a pezzi. L’ingresso della grotta era parato di spesse
> ragnatele grige. Gli stagni dei pesci eran diventati dimora di rane. Il
> Padiglione delle Nubi in Riposo era ora un covo di volpi. La Grotta della
> Sorgente Celata brulicava di fecondissimi Topi“.
>
> (Dal capitolo 46, “Prugna Primaverile ritorna alla sua vecchia casa. Un amico
> infedele svela il proprio volto di lupo”)
Da questo brano si evince proprio la struttura di Chin P’ing Mei, dove in un
primo momento viene mostrato il quadro di una famiglia felice e serena, immersa
in un’atmosfera gioiosa; successivamente, però, quello stesso scenario si
trasforma in un luogo desolato e abbandonato, in cui il locus amoenus si tramuta
in locus horridus.
La forma duale riflette uno dei principi fondamentali del Taoismo, più volte
evocato nel testo: l’universo si regge su un equilibrio dinamico tra Yin e Yang,
e ogni forza, giunta al suo apice, genera automaticamente il proprio opposto per
ristabilire l’armonia. È una visione profondamente catartica dell’esistenza: la
tragedia non è fine a sé stessa, ma necessaria al riequilibrio del cosmo e
dell’animo umano.
In questo senso, anche gli eventi più dolorosi — come il suicidio della moglie
Loto Fragrante, la morte del giovane figlio maschio di Hsi-Mên, la scomparsa
della moglie Madama P’Ing e infine quella del protagonista — assumono un
significato più ampio e concettualmente conchiuso. Non sono semplici colpi di
scena, ma tasselli di un disegno più grande, in cui ogni eccesso viene punito e
ogni squilibrio viene sanato. Il romanzo, dunque, non si limita a raccontare
un’epoca o una famiglia, ma si propone anche come monito morale: l’eccesso di
lusso, potere e desiderio conduce inevitabilmente alla rovina. Solo agendo in
nome dell’armonia e della misura si può sperare di mantenere un vero equilibrio.
Impossibile, in un singolo articolo, rendere giustizia all’intero ventaglio di
personaggi che popolano questo vasto romanzo. Tuttavia, tre figure spiccano per
centralità e forza narrativa: il ricco e ambizioso Hsi-Mên, la sua quinta
moglie, la seducente e inquieta Loto d’Oro, e la prima, Madama Luna.
Hsi-Mên, come detto, è un imprenditore di successo nel campo dei medicinali, ma
la sua sete di potere e piacere sembra inesauribile. Desidera tutto: ricchezze,
donne, prestigio politico. Per ottenere ciò che vuole, non esita a ricorrere a
mezzi disonesti, mostrandoci, attraverso le sue azioni, un sistema sociale
corrotto, basato su tangenti e favori — dinamiche, peraltro, tristemente
riconoscibili anche nella nostra contemporaneità.
Eppure, accanto a questo lato calcolatore e spregiudicato, affiora talvolta un
aspetto più umano e sentimentale. Hsi-Mên appare, a tratti, sinceramente
innamorato della vita e delle sue donne, prigioniero di un conflitto interiore
tra razionalità e impulso, tra controllo e desiderio.
Diverso il caso di Loto d’Oro, donna di straordinaria bellezza e carica erotica,
interamente guidata dall’istinto. La sua presenza in scena è destabilizzante:
semina discordia, alimenta gelosie e manipola chi le sta attorno con feroce
lucidità. Per legarsi a Hsi-Mên, partecipa all’assassinio del suo primo marito,
e in seguito, accecata dalla gelosia verso Madama P’Ing, arriva persino a
causare la morte del figlioletto che quest’ultima ha avuto con Hsi-Mên.
Il suo comportamento oscillante tra idealizzazione e denigrazione degli altri
delinea un profilo che oggi potremmo definire narcisistico, un personaggio
moderno, nel suo essere tragicamente autodistruttivo. E infatti, come gli altri,
pagherà il prezzo delle sue azioni. Dopo la morte di Hsi-Mên, verrà uccisa in
modo crudo e spietato da Wu Sung, che la prende in moglie solo per vendicarsi.
In uno dei capitoli più potenti e drammatici del romanzo — insieme a quelli
dedicati alla morte del piccolo figlio di Madama P’Ing — Wu Sung, in un gesto
tanto simbolico quanto brutale, le strappa il cuore con un coltello.
Un epilogo che suggella, con forza tragica, il destino di chi vive nel segno
della dismisura di brama e ambizione e infine della manipolazione.
Infine, Madama Luna, è l’unico personaggio che spicca per fedeltà e virtù. Solo
lei infatti, nonostante tutte le avversità e i contrasti con i quali deve
vedersela, rimane moralmente intatta e sempre fedele a suo marito, nonostante
questo sia profondamente lussurioso. Le sue scelte non sono di carattere
istintivo e ingenuo, come sono quelle di altri soggetti – come il Giovane Ch’ên,
uno degli amanti di Loto d’Oro. Le sue scelte si basano su razionalità e fermi
principi. Grazie a lei proprio nel finale del romanzo, spicca un altro
personaggio, al quale non si dà grande peso per tutto lo scritto, si tratta del
servo Tai-An, che in effetti si è dimostrato sempre virtuoso e fedele. È proprio
lui nel finale a diventare erede di tutto il patrimonio della famiglia, dopo che
il figlio di Madama Luna viene preso in custodia dal monaco buddista. Per questa
ragione Tai-An prenderà il nome di Il Piccolo Hsi-Mên. E anche questo è
emblematico e rivela una verità fondamentale, che spesso chi opera nel nome del
bene lo fa nell’ombra, senza apparire, senza azioni evidenti, semplicemente nel
nome dell’equilibrio e della giustizia, e per questa ragione prima o dopo verrà
ripagato.
In definitiva, Chin P’ing Mei è giustamente considerato uno dei capolavori
assoluti della letteratura cinese: dovrebbe essere riconosciuto come un classico
della letteratura mondiale. Lo merita non solo per la ricchezza dei suoi
contenuti, ma anche per lo stile raffinato, che alterna prosa e la poesia, e per
l’eccezionale profondità psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi.
Pur nell’ampiezza del cast narrativo, ogni figura è caratterizzata con
precisione, vive di un’identità propria, autentica, che contribuisce a rendere
l’universo del romanzo straordinariamente realistico e vitale. In queste pagine
si respira la storia, la cultura, il pensiero cinese in tutta la loro
complessità. Ma, al di là delle specificità culturali, emerge con forza un
messaggio universale: Oriente e Occidente, pur nei rispettivi linguaggi e
sensibilità, si sono sempre confrontati con le stesse grandi questioni umane –
la lotta contro la corruzione, l’illusione del superfluo, il desiderio di
potere.
Laddove l’Occidente ha cercato soluzioni nella scienza e nella razionalità,
l’Oriente ha affiancato a queste anche la spiritualità, non come elemento
decorativo o astratto, ma come forza viva e trasformativa, capace di agire nella
realtà. Una spiritualità che, nel romanzo, affiora spesso come voce interiore,
come principio regolatore, come invito all’armonia.
In fondo, ogni cultura – in modi diversi ma convergenti – tende verso un
medesimo fine: la ricerca dell’equilibrio. Un equilibrio che non può essere
raggiunto se si dà più valore all’esteriorità che alla sostanza, se si insegue
il superfluo dimenticando ciò che davvero è cruciale.
Stefano Duranti Poccetti
*In copertina: il ‘Chin P’ing Mei’ nella versione scenica del Beijing Dance
Theater
L'articolo Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il
fiore di prugno nel vaso d’oro proviene da Pangea.
Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli
Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La
mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse
scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella
materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi
scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava
intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina.
L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di
scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del
racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale.
È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte,
Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo
incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono
fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla
totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di
vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a
combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte,
fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui
dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire
persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel
popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere
nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.
La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che
coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.
> “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti
> sconosciuti”.
L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è
nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi,
2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che
è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo
poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è
carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono
segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che
si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato
nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a
vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile
della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la
capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende
ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico
della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare
alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità.
Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova
maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare
oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e
rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare
quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo
scrittore del mondo, che non ha pari.
È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un
dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale,
cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per
mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi,
riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al
momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si
legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non
puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione
interna, il suo moto lineare.
Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui
pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come
negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro,
ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri,
quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione
nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria,
raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine
che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare,
non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso,
quello che si opera in noi, di cui siamo opera.
Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel
cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché
è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù
mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare
in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?,
per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua
risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua
a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria,
Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera,
perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo
provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.
Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i
cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui
bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore,
la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni
cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio
che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta
assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice
sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il
nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice,
adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci
chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore
della rivelazione, ancora in atto.
Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme.
Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa
dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù
che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del
senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un
amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una
terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione.
Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non
vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del
destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo,
verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di
talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito,
tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in
un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo
dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra
duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in
conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È
un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo.
Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti
dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:
> “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno
> incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.
Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro
articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata,
affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di
umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce,
tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995).
> “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che
> l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due
> sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi
> piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né
> speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio
> intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola
> tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è
> fuggito”.
Lo scrittore è assorto, nella pietà!
Vincenzo Gambardella
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