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“Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura, quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” – un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali: moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna privata. Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un trentennio. Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.  Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:  > «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco > Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».  La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere quest’uomo. È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.  Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi. La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia Minore. > «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto > allontanarsi da me quanto il II secolo».  Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci attende l’opera compiuta?  Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza. I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e salvato dalle fiamme. È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era? Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima, la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni – così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta. > «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello > che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla > di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le > angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e > della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì > sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste > portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore». Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini, obbedendo alla loro vocazione di amore e candore. Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile. Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.  > «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei > fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi > della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata; > quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il > servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato > detto; quello che potevo apprendere è stato appreso. > > Occupiamoci ora di altri lavori». Lorenzo Giacinto L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
June 20, 2025 / Pangea
James Salter o della scrittura come cocktail Martini
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado, finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati, tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.  Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno 2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo, anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel 2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”. Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori (fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel 1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e, dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum. Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a chiunque vada in pensione o smetta un’attività:  > “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi > eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente, > quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere > erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e > volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in > fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché > tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e > la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di > eventi avvenuti tanto tempo prima.” Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente appunto degli appassionati di quello sport. Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo, persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque altro”). Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:  > “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume, > del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza > divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione > d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a > soffermarsi.”  Un paragrafo praticamente perfetto. Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica, acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.  La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen, Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso, senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo frettolosamente abbandonata pratica della mimesi. Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età, non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo. Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta, dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018). In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita, alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del libro. James Salter (1925-2015) Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti, anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una tesi di laurea. Raoul Precht *In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da Pangea.
June 16, 2025 / Pangea
Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di Glenn Gould)
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia. > Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una > sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del > suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti > tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro > persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore > della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”. > > (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15) La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi: il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie», che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza completamente sfigurata.  In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto. Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart, significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”: > “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del > pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai > mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, > ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.  > > Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni > Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come > Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”. Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo prezioso pianoforte è perfidamente perverso: > “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i > bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento > per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento, > sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che > uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un > pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il > mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo > lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la > figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso > strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque > dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”. Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile, Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose, pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda, “naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di caccia di lui”. Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente” – ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore, perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”, aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che ha conosciuto.  > “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente > grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo > osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che > accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo > increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai > nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da > fare, per noi è finita”. Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri. Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato – che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico, che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione esistenziale dell’uomo che non si può eludere.  Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata. Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta impunita. Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti, abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto finalmente assoluto con Bach.  > “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz, > quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta > per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che > fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio, > pensai”. La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.  La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia, dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del 1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa, che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci fossero persone.  > “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un > fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn > Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti, > pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre > rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato > assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di > aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi > decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto > dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece, > questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto > per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi > tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di > aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli, > pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da > dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel > farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze, > pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici > hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”. Paolo Ferrucci L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di Glenn Gould) proviene da Pangea.
June 12, 2025 / Pangea
Riccardo Ielmini: lo scrittore che non ha mai sbagliato un libro, con un Loch Ness nel cuore
Se vuoi conoscere uno scrittore – uno scrittore vero – devi andare a Laveno. Sponda lombarda del Lago Maggiore. Ho sempre frequentato l’altra, quella piemontese: la preferivano Manzoni e Rebora, forse perché sboccia nella Val Grande, la più grande area selvaggia d’Italia. Scrivere vuol dire dare del tu ai lupi.  È vero: ho sempre tenuto in sospetto i lombardi di lago. Gente dai sorrisi larghi e ingrigiti; di un’eleganza stantia, a un passo dalla città. Riccardo Ielmini non fa eccezione. Classe 1973, elegante, educato – sorride sempre. A Luino, poco più in là, sono nati Piero Chiara e Vittorio Sereni. Di mestiere, Ielmini fa il dirigente scolastico di un Istituto comprensivo a Cuveglio: tremila e passa abitanti in provincia di Varese. Non ci sono mai stato. Bisogna sospettare sempre degli uomini di lago: dietro le apparenze da villino con florilegio di ortensie, si cela un mostro. Anche quel gentile dirigente scolastico nasconde, nei sotterranei del cuore, un Loch Ness.  Riccardo Ielmini, semplicemente, non ha mai sbagliato un libro. Esordì come poeta nel nuovo millennio, nel 2000, con un libro rivoluzionario fin nel titolo, Il privilegio della vita. A dispetto dei poeti inargentati dal dolore, inclini al lamento, Ielmini canta la gioia, la sofferenza come prova, la fermezza nell’amare. Alcuni versi, di per sé, segnarono una rivolta: “Arrivare a dire sono uno fortunato”; “Stare nel privilegio della vita”; “Quanta vita ancora chiede voce”. Ecco un poeta che ha la primavera tra le falangi, verrebbe da dire; verrebbe da dire: ecco un poeta nel pieno della lotta, nell’urlo. In una poesia, Ielmini scrive di Kurt Cobain (attacco memorabile: “I bambini belli la vita li rovina/ quasi sempre, gli inficca nel cuore una lama”), un’altra s’intitola Mio padre è uno stanco democristiano. Credo che Ielmini tifi ancora Inter – fedeltà alla squadra come alla donna –; ha uno stuolo di figli, ho perso il conto. A me ricorda James Stewart, il grande attore, quello di It’s a Wonderful Life. Riccardo Ielmini ha scritto un altro libro in versi memorabile: s’intitola – appunto – Una stagione memorabile, lo ha pubblicato Il Ponte del Sale nel 2021, ma non è questo il punto. Ielmini non ha sbagliato neppure un libro. Nel 2011 ha pubblicato una folgorante raccolta di racconti, Belle speranze (stampa Macchione), nel 2019, per le edizioni Unicopli, è uscito con Storia della mia circoncisione. Leggetelo. Si parla di un venticinquenne, Giovanni De Ambrosis, di un kibbutz in Lombardia, della Svizzera e di Dio.  Lui è Riccardo Ielmini Forse Riccardo Ielmini è l’unico scrittore autenticamente “cattolico” d’Italia – nel senso che gli scrittori cattolici, in Italia, di solito rifuggono dallo scrivere di Dio; lui invece no, Ielmini non ha paura di lordare le sacre verità, di dissacrare il tempio e di pronunciare invano il Nome. Quando si legge Riccardo Ielmini accade uno strano fenomeno. Ielmini scrive in un italiano sgargiante, ‘manzoniano’, si direbbe (di certo, marziano all’oggi); il suo è un tono da ironia epica, eppure, pare, leggendolo, di sentire i modi di Philip Roth, i toni di Saul Bellow e di Henry Roth, lo straordinario scrittore di Chiamalo sonno. Ecco: Riccardo Ielmini, l’ultimo scrittore autenticamente “cattolico” d’Italia, scrive come un ebreo-americano.  L’ultimo libro di Riccardo Ielmini – uno scrittore-cecchino, uno scrittore che non sbaglia neanche un libro – s’intitola Spettri Diavoli Cristi Noi (Neo, 2025), ed è il libro più bello di questo autore così anomalo. Il romanzo si svolge in un paese in riva al lago dal nome fittizio, Contea; i protagonisti sono un gruppo di ragazzi, la Confraternita; il contesto mostra messe nere, assassini in serie, orrori a tracannare. L’incipit è apocalittico, una specie di John Milton all’imbarcadero:  > “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica > incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo > bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn, > l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo > ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla, > e quindi sta’ lontano dal Diavolo…”  …e avanti così, in sabba, per un paio di pagine. Il romanzo è fitto di personaggi sfacciati e fiabeschi – “Indiano Joe”, “L’Uomo Dei Boschi”, “Artù il Muto”, “La Frida” –, alcuni dei quali – Von Arcimboldi e Frau Ingeborg Bauer – sono tratti dai libri di Roberto Bolaño. Il romanzo inscena, soprattutto, l’eterna lotta tra il Bene e il Male – “l’Altissimo dava retta alle giaculatorie delle nostre vecchie e disseminava nelle boscaglie intorno alla Contea i suoi spettri custodi” – perché il Male, quello al di là del raziocinio, esiste – “la Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo altra carne, carne debole, innocua” –, ma pure il Bene, quello incredibile, quello indicibile. Non mancano le viltà, i tradimenti e i giornalini porno: l’orrore non è negato, ma narrato con la certezza che l’Onnipotente, prima o poi, farà quadrare il caos. Più che a Flannery O’Connor, Ielmini guarda, in questo romanzo, al ghigno da chassid di Isaac B. Singer. Su tutto, aleggia un’atmosfera che mescola Twin Peaks ai Goonies; sgommano a go-go falangi di vecchie, indimenticate bmx.  In un articolo pubblicato ricordando Simone Cattaneo – su “Atelier” n. 67, del settembre 2012, lo trovate in rete –, Ielmini accenna a Dejan Stanković: furoreggiava nell’Inter di allora. “Una volta mi aveva tenuto un monologo sugli slavi: razza calcistica superiore, perfetta: bastardi con piedi buoni da sudamericani e testa dura e cattiva, aveva detto”. Le stesse caratteristiche tecniche di Ielmini: estro e ferocia, genio e pervicacia.  Non ha mai sbagliato un libro.  Mai trovarselo davanti. Sembra gentile, sorride sempre – è implacabile.  L'articolo Riccardo Ielmini: lo scrittore che non ha mai sbagliato un libro, con un Loch Ness nel cuore proviene da Pangea.
June 3, 2025 / Pangea
“Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città fantasma. Dialogo con Linda Terziroli
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria – Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di memorie passeriformi.  E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina, l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo; Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì, nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.  Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa, il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo, falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.  Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi. Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani. Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della pena. La prima: > “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido > fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti, > si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato. > Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare > ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.   L’altra riguarda l’animale: > “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento > chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da > così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore > acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo > della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi > guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie > hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo > letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo > sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a > graffiarmi con potenza”.  Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano un’invocazione: > “Modera la tua ira! > Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta, > come una crepa nel legno, > diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”. Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro, forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento dell’uomo. Ad ogni modo, ho interpellato Linda.  Preliminare: perché l’ossessione del Nord? Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno 1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto. Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce. Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere? Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo, l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare. In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un sottofondo lirico che anima il romanzo? Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono piuttosto aggrovigliate. Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata? Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel cuore dell’inverno.  Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del tuo romanzo? Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata, controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di corrispondente alla verità. Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.  Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male. > “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi > contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua > integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti > come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente > freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e, > nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il > fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti, > sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire > dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore > improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”. Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale. > “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con > un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha > capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha > sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva, > ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”. Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di Pyramiden: > “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di > polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono > migliaia di occhi che ci scrutano”. E ora? Cosa scrivi, cosa studi? Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé, più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile. Ma talvolta è necessariamente più potente e audace. *In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
May 26, 2025 / Pangea
“Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi. Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità umana dell’abbandono. Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda, incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice, può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!  Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso. Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento, di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede? A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa, inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo lo spessore dei maestri.  Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione. Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto, niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre. Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto, insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo, si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo, come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un infinito. Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda, gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito. Oggi è più grave? La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta, un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci sorprende.  Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani, risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso. Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso. Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo. Ricominciamo, leggiamo l’inizio: > “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona > gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al > viaggio”.  L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole, realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe, si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di seguito si legge:  > “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare > il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una > mappa”.  Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:  > “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e > tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”. Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e così pure il lettore:  > “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed > ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì, > rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini > dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a > svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e > capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che > dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e > desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro > corpi avvinti”. Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue, allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo nell’Ora denominata occidentale orientale:  > “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e > arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre > ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati > nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e > slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni > si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.  Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri all’incontrario”). Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:  > “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a > un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di > fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su > materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione > delle ore ti dà misura di te”. Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte. L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva, attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.  > “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su > quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi > dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo > quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si > avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia > gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al > tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per > dare chiarore alla notte”.  Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne. “La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:  > “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume > senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e > capoversi”.  Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo. Vincenzo Gambardella *In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916) L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella proviene da Pangea.
May 26, 2025 / Pangea
Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro
Chin P’ing Mei (in cinese 金瓶梅, pinyin Jīn Píng Méi, che si può tradurre come “Il fiore di prugno nel vaso d’oro”) è un celebre romanzo cinese scritto in lingua vernacolare (baihua) verso la fine della dinastia Ming, nel XVI secolo. L’autore – o forse autrice – rimane anonimo, conosciuto solo con lo pseudonimo di Lanling Xiaoxiao Sheng: forse il poeta Wang Shih-chen. Le prime copie del romanzo circolavano manoscritte, mentre la prima edizione a stampa risale al 1610. L’opera completa oggi comprende circa cento capitoli. La narrazione si incentra sulla figura di Ximen Qing (西门庆), tradotto anche come Hsi-Mên, un ricco mercante di medicinali, e sulle intricate vicende delle sue numerose mogli (Loto D’Oro, Madama Luna, Loto Fragrante, Madama P’Ing, Stelo di Giada, Girasole) e concubine. La famiglia, inizialmente immersa in ricchezze, piaceri e relazioni spesso moralmente ambigue, finisce per essere travolta da un lento ma inesorabile declino, che culmina con la morte dello stesso protagonista. Il romanzo offre uno spaccato vivace e dettagliato della società cinese durante la dinastia Song Settentrionale, nel XII secolo, fino agli eventi legati all’invasione tartara. Considerato da molti il “quinto” tra i Quattro Grandi Romanzi Classici della letteratura cinese, Chin P’ing Mei è noto per essere la prima grande opera della narrativa cinese a trattare in maniera esplicita il tema della sessualità. La storia prende avvio quando il giovane e benestante Hsi-Mên incontra casualmente Pan Jinlian (P’an Chin-lien, poi Loto D’Oro), moglie del modesto Wu Dalang. I due iniziano una relazione adulterina, e Pan Jinlian, stregata dalla passione e dall’opulenza del suo amante, arriva ad avvelenare il marito per poter entrare nell’harem di Ximen Qing come concubina. Mentre il fratello della vittima, Wu Sung, deciso a vendicare la morte del fratello, finisce per uccidere per errore un innocente e viene esiliato. Con la minaccia di vendetta sventata, Ximen Qing si abbandona completamente ai vizi e agli eccessi. Tra le nuove donne che accoglie nel suo harem vi sono Madama P’Ing, vedova di un suo amico, e Chunmei, una giovane schiava. Tuttavia, la fortuna della famiglia inizia a svanire: Madama P’Ing e il figlio muoiono, Loto D’Oro viene uccisa da Wu Sung al suo ritorno, che così può vendicarsi del fratello ucciso, per poi darsi alla macchia; Chunmei viene venduta, tutto questo dopo che lo stesso protagonista era deceduto, a causa di Loto D’Oro, che gli somministra una dose troppo elevata di pillole afrodisiache. Con il Paese invaso dai tartari, Madama Luna, la prima moglie di Hsi-Mên, cerca rifugio in un tempio buddhista insieme all’unico figlio rimasto in vita, Xiao Ke. Qui, in sogno, scopre che il bambino è la reincarnazione del defunto marito. Per evitare che il figlio segua lo stesso cammino dissoluto, decide di farlo diventare un monaco, in virtù di una promessa che era stata fatta anni prima a un’eremita. Questo romanzo, pubblicato agli albori del Seicento, dimostra quanto la narrativa cinese fosse già pienamente matura e strutturata. In Occidente, opere di simile complessità e respiro arriveranno solo molto più tardi, nel corso dell’Ottocento. Lo stile è fortemente imparentato col linguaggio teatrale: l’azione domina, le descrizioni sono al tempo stesso puntuali e cariche di poesia, il linguaggio ricco e stratificato. Nell’edizione da noi letta (Feltrinelli, 1970, nella traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, basata sulla versione inglese di Arthur Waley), il romanzo si estende per 919 pagine suddivise in quarantanove capitoli di altissima intensità. Dal punto di vista stilistico, si potrebbe paragonare all’unione di tre grandi nomi della letteratura occidentale: il naturalismo minuzioso di Zola, la delicatezza poetica di Flaubert e il senso del ritmo scenico di Maupassant. Quasi mille pagine raccontano un arco temporale piuttosto breve, pochi anni appena, eppure con tale dovizia di dettagli che sembra davvero di vivere accanto ai personaggi. Di loro apprendiamo ogni gesto, ogni pensiero quotidiano, dalle conversazioni ai banchetti, fino alle scene erotiche, anch’esse descritte con cura e senza veli. Proprio per questo, l’opera è stata spesso fraintesa, ridotta – anche per motivi pubblicitari – a romanzo erotico, e in passato soggetta a censure che eliminavano le parti più esplicite. Ma l’eros, in realtà, è trattato come una dimensione naturale e paritaria dell’esistenza, non viene enfatizzato né nascosto, bensì integrato nella narrazione complessiva della vita dei protagonisti. L’intento dell’autore è chiaro: restituirci l’eccesso, lo sfarzo, la smania di potere del protagonista. Questi, pur essendo già un amante esperto e insaziabile, ricorre a pillole afrodisiache per superare i limiti umani — ed è proprio questo abuso a condurlo infine alla morte. Così come accade al protagonista, anche gli altri personaggi del romanzo sono vittime delle proprie ossessioni, travolti da eccessi che li consumano. L’opera potrebbe idealmente essere divisa in due grandi momenti: una prima parte di ascesa e costruzione, e una seconda di decadenza e rovina. Tutte le colpe, le ambizioni e le esagerazioni che si manifestano nella prima metà trovano nella seconda il loro inevitabile contrappasso. > “Madama Luna finalmente si arrese alle sue sollecitazioni. Dette all’ancella > Gioietta le chiavi dei cancelli del parco, e tutte e tre – perché si unì a > loro la cognata Wu – vi si recarono insieme. Ma come era mutato il suo aspetto > nell’intervallo! Sui muri e sugli edifici, i variopinti stucchi eran svaniti, > ed in alcuni punti scrostati, cosicché rimaneva scoperta la nuda pietra, e qua > e là ci cresceva sopra il muschio. Le lastre di marmo e i blocchi dei gradini > e dei terrazzi si eran spostati, o erano sprofondati in modo disuguale entro > terra, cosicché so eran formati crepacci beanti, nei quali fiorivan le > erbacce. Sui tetti, le tegole si erano spezzate o spostate, aprendo il cammino > a una vigorosa vegetazione verde. Le pietre dure di valore e i minerali sui > margini del lago eran coperti di crosta di sporcizia e avevano perduto la > lucentezza. Il graticcio intrecciato dei mobili di vimini del padiglione era > strappato e cadeva a pezzi. L’ingresso della grotta era parato di spesse > ragnatele grige. Gli stagni dei pesci eran diventati dimora di rane. Il > Padiglione delle Nubi in Riposo era ora un covo di volpi. La Grotta della > Sorgente Celata brulicava di fecondissimi Topi“. > > (Dal capitolo 46, “Prugna Primaverile ritorna alla sua vecchia casa. Un amico > infedele svela il proprio volto di lupo”) Da questo brano si evince proprio la struttura di Chin P’ing Mei, dove in un primo momento viene mostrato il quadro di una famiglia felice e serena, immersa in un’atmosfera gioiosa; successivamente, però, quello stesso scenario si trasforma in un luogo desolato e abbandonato, in cui il locus amoenus si tramuta in locus horridus. La forma duale riflette uno dei principi fondamentali del Taoismo, più volte evocato nel testo: l’universo si regge su un equilibrio dinamico tra Yin e Yang, e ogni forza, giunta al suo apice, genera automaticamente il proprio opposto per ristabilire l’armonia. È una visione profondamente catartica dell’esistenza: la tragedia non è fine a sé stessa, ma necessaria al riequilibrio del cosmo e dell’animo umano. In questo senso, anche gli eventi più dolorosi — come il suicidio della moglie Loto Fragrante, la morte del giovane figlio maschio di Hsi-Mên, la scomparsa della moglie Madama P’Ing e infine quella del protagonista — assumono un significato più ampio e concettualmente conchiuso. Non sono semplici colpi di scena, ma tasselli di un disegno più grande, in cui ogni eccesso viene punito e ogni squilibrio viene sanato. Il romanzo, dunque, non si limita a raccontare un’epoca o una famiglia, ma si propone anche come monito morale: l’eccesso di lusso, potere e desiderio conduce inevitabilmente alla rovina. Solo agendo in nome dell’armonia e della misura si può sperare di mantenere un vero equilibrio. Impossibile, in un singolo articolo, rendere giustizia all’intero ventaglio di personaggi che popolano questo vasto romanzo. Tuttavia, tre figure spiccano per centralità e forza narrativa: il ricco e ambizioso Hsi-Mên, la sua quinta moglie, la seducente e inquieta Loto d’Oro, e la prima, Madama Luna. Hsi-Mên, come detto, è un imprenditore di successo nel campo dei medicinali, ma la sua sete di potere e piacere sembra inesauribile. Desidera tutto: ricchezze, donne, prestigio politico. Per ottenere ciò che vuole, non esita a ricorrere a mezzi disonesti, mostrandoci, attraverso le sue azioni, un sistema sociale corrotto, basato su tangenti e favori — dinamiche, peraltro, tristemente riconoscibili anche nella nostra contemporaneità. Eppure, accanto a questo lato calcolatore e spregiudicato, affiora talvolta un aspetto più umano e sentimentale. Hsi-Mên appare, a tratti, sinceramente innamorato della vita e delle sue donne, prigioniero di un conflitto interiore tra razionalità e impulso, tra controllo e desiderio. Diverso il caso di Loto d’Oro, donna di straordinaria bellezza e carica erotica, interamente guidata dall’istinto. La sua presenza in scena è destabilizzante: semina discordia, alimenta gelosie e manipola chi le sta attorno con feroce lucidità. Per legarsi a Hsi-Mên, partecipa all’assassinio del suo primo marito, e in seguito, accecata dalla gelosia verso Madama P’Ing, arriva persino a causare la morte del figlioletto che quest’ultima ha avuto con Hsi-Mên. Il suo comportamento oscillante tra idealizzazione e denigrazione degli altri delinea un profilo che oggi potremmo definire narcisistico, un personaggio moderno, nel suo essere tragicamente autodistruttivo. E infatti, come gli altri, pagherà il prezzo delle sue azioni. Dopo la morte di Hsi-Mên, verrà uccisa in modo crudo e spietato da Wu Sung, che la prende in moglie solo per vendicarsi. In uno dei capitoli più potenti e drammatici del romanzo — insieme a quelli dedicati alla morte del piccolo figlio di Madama P’Ing — Wu Sung, in un gesto tanto simbolico quanto brutale, le strappa il cuore con un coltello. Un epilogo che suggella, con forza tragica, il destino di chi vive nel segno della dismisura di brama e ambizione e infine della manipolazione. Infine, Madama Luna, è l’unico personaggio che spicca per fedeltà e virtù. Solo lei infatti, nonostante tutte le avversità e i contrasti con i quali deve vedersela, rimane moralmente intatta e sempre fedele a suo marito, nonostante questo sia profondamente lussurioso. Le sue scelte non sono di carattere istintivo e ingenuo, come sono quelle di altri soggetti – come il Giovane Ch’ên, uno degli amanti di Loto d’Oro. Le sue scelte si basano su razionalità e fermi principi. Grazie a lei proprio nel finale del romanzo, spicca un altro personaggio, al quale non si dà grande peso per tutto lo scritto, si tratta del servo Tai-An, che in effetti si è dimostrato sempre virtuoso e fedele. È proprio lui nel finale a diventare erede di tutto il patrimonio della famiglia, dopo che il figlio di Madama Luna viene preso in custodia dal monaco buddista. Per questa ragione Tai-An prenderà il nome di Il Piccolo Hsi-Mên. E anche questo è emblematico e rivela una verità fondamentale, che spesso chi opera nel nome del bene lo fa nell’ombra, senza apparire, senza azioni evidenti, semplicemente nel nome dell’equilibrio e della giustizia, e per questa ragione prima o dopo verrà ripagato. In definitiva, Chin P’ing Mei è giustamente considerato uno dei capolavori assoluti della letteratura cinese: dovrebbe essere riconosciuto come un classico della letteratura mondiale. Lo merita non solo per la ricchezza dei suoi contenuti, ma anche per lo stile raffinato, che alterna prosa e la poesia, e per l’eccezionale profondità psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi. Pur nell’ampiezza del cast narrativo, ogni figura è caratterizzata con precisione, vive di un’identità propria, autentica, che contribuisce a rendere l’universo del romanzo straordinariamente realistico e vitale. In queste pagine si respira la storia, la cultura, il pensiero cinese in tutta la loro complessità. Ma, al di là delle specificità culturali, emerge con forza un messaggio universale: Oriente e Occidente, pur nei rispettivi linguaggi e sensibilità, si sono sempre confrontati con le stesse grandi questioni umane – la lotta contro la corruzione, l’illusione del superfluo, il desiderio di potere. Laddove l’Occidente ha cercato soluzioni nella scienza e nella razionalità, l’Oriente ha affiancato a queste anche la spiritualità, non come elemento decorativo o astratto, ma come forza viva e trasformativa, capace di agire nella realtà. Una spiritualità che, nel romanzo, affiora spesso come voce interiore, come principio regolatore, come invito all’armonia. In fondo, ogni cultura – in modi diversi ma convergenti – tende verso un medesimo fine: la ricerca dell’equilibrio. Un equilibrio che non può essere raggiunto se si dà più valore all’esteriorità che alla sostanza, se si insegue il superfluo dimenticando ciò che davvero è cruciale. Stefano Duranti Poccetti *In copertina: il ‘Chin P’ing Mei’ nella versione scenica del Beijing Dance Theater L'articolo Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro proviene da Pangea.
May 12, 2025 / Pangea
Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta
Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina. L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale. È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte, Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte, fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.  La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.  > “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti > sconosciuti”.  L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi, 2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità. Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo scrittore del mondo, che non ha pari. È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale, cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi, riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione interna, il suo moto lineare. Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro, ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri, quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria, raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare, non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso, quello che si opera in noi, di cui siamo opera.  Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?, per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria, Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera, perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.  Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore, la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice, adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore della rivelazione, ancora in atto.  Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme. Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione. Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo, verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito, tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo. Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:  > “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno > incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.  Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata, affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce, tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995). > “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che > l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due > sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi > piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né > speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio > intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola > tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è > fuggito”. Lo scrittore è assorto, nella pietà!  Vincenzo Gambardella L'articolo Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta proviene da Pangea.
April 21, 2025 / Pangea