Underground Railroad (la ferrovia sotterranea) era una rete clandestina – alla
quale si unì anche la famiglia di Louisa May Alcott, l’autrice di Piccole
donne – che, nel secolo XIX, negli Stati Uniti, aiutava gli afroamericani a
fuggire dagli stati schiavisti del sud in quelli abolizionisti del nord oppure
in Canada.
Il treno occupava un ruolo centrale nell’immaginario dei neri. Era il mezzo con
cui sognavano di scappare per potersi finalmente liberare dalle catene della
schiavitù o della prigionia, e non essere più condannati a sacrificare le
proprie vite nelle piantagioni o nei penitenziari, ai lavori forzati: «Il treno
che passa sbuffando e fischiando, che viene da lontano e che va chissà dove, che
porta con sé gli uomini liberi e che potrebbe un giorno portare il poveraccio
che soffre (un lavoratore dei campi, o un forzato: in quegli anni non faceva
molta differenza) lontano dai luoghi della sua pena, è stato […] per molto tempo
uno dei motivi dominanti della letteratura folklorica negro-americana, nei blues
e anche nel primo jazz. L’“espresso di mezzanotte” passa vicino alla prigione ed
è il simbolo di un mondo migliore, remoto, irraggiungibile». Il brano citato è
tratto da un commento di Arrigo Polillo alla ballata Midnight Special di
Leadbelly (Arrigo Polillo, Jazz, 1975-1997, p. 28).
Nel suo romanzo, La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead immagina che
l’underground railroad non sia soltanto un’organizzazione ma una struttura
realmente esistente nel sottosuolo della federazione americana, e che attraversa
gli stati del sud fino ad arrivare in quelli del nord per portare in salvo i
neri fuggitivi. Il libro è per alcuni un’ucronia (l’esempio più famoso del
genere è il romanzo di Philip K. Dick The Man in the High Castle) in quanto
descrizione di quello che sarebbe accaduto se la ferrovia in parola fosse
letteralmente esistita. In verità, viene facile immaginare che né la storia
degli afroamericani né quella degli Stati Uniti sarebbe cambiata granché se ci
fosse veramente stato qualcosa del genere. Ed in effetti, a differenza di quello
di Dick, il testo di Whitehead non delinea sconvolgimenti storici di rilievo. Se
non fosse per la sua ambientazione nel passato, si potrebbe piuttosto parlare
di discronia, ovvero di una narrazione che si dispiega all’interno di una
cornice “fantastica” con connotazioni sostanzialmente “realistiche”.
Il libro è una summa abbastanza armonica di vari generi: il romanzo realista,
quello postmoderno, il romanzo d’appendice, il romanzo storico,
il Bildungsroman, il romanzo familiare e, infine, la slave narrative (i cui
prototipi sono The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, The
Narrative of Frederick Douglass, an American Slave, Written by
Himself e Incidents in the Life of a Slave Girl, Written by Herself di
Harriet Jacobs, già emulati in passato da svariate opere tra cui la
celeberrima Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe). Ma, come La capanna
dello zio Tom, non è un’opera di slave narrative perché l’argomento trattato non
è la storia autobiografica di un ex schiavo o di una ex schiava. Si può, però,
senza dubbio dire, che affonda, fra l’altro, le proprie radici anche in quel
genere.
Il romanzo, ambientato negli anni ’30 del XIX secolo, narra la storia della
schiava Cora che decide di fuggire, in compagnia di Caesar, dalla piantagione –
ubicata in Georgia – dei loro padroni, i Randall.Nel corso della fuga i due
s’imbattono in un gruppo di cacciatori bianchi e, nello scontro che ne consegue,
la donna uccide uno degli inseguitori, un ragazzo. Prima di lei, l’unica che era
riuscita a sfuggire con successo alle grinfie dei Randall – così almeno sembra,
fino al colpo di scena finale qui prudenzialmente omesso per evitare il tanto
temuto spoiler – era stata sua madre Mabel. Nei confronti della genitrice la
figlia nutre un profondo risentimento per essere stata abbandonata e lasciata da
sola nella piantagione, a patire angherie. E anche perché, essendo rimasta priva
di protezione, ha dovuto subire una violenza di gruppo ad opera di alcuni suoi
compagni di sventura. I due fuggitivi, grazie all’aiuto di un certo signor
Fletcher (che «odiava la schiavitù, la vedeva come un insulto agli occhi di
Dio»), giungono in una stazione della fantomatica ferrovia sotterranea, prendono
il primo treno disponibile e arrivano così nella Carolina del Sud. Nel
frattempo, Terrance, ormai unico sopravvissuto della famiglia Randall, affida a
un cacciatore di schiavi, Arnold Ridgeway, l’incarico di catturare e riportare
indietro i due fuggiaschi.
Per far capire meglio chi è questo macabro personaggio, impregnato di “sano”
spirito americano, che sembra uscito da un film di Quentin Tarantino, è bene
tener presente la sua “radicale” interpretazione della dottrina del “destino
manifesto” (Manifest Destiny) degli Stati Uniti:
> «“Significa prenderti ciò che è tuo, quello che ti appartiene, qualunque cosa
> pensi che sia. E tutti gli altri se ne stanno ai loro posti assegnati per
> permettertelo. Che siano i pellerossa o gli africani, devono arrendersi,
> sacrificarsi, in modo che noi possiamo ottenere ciò che ci spetta di
> diritto”».
Nella città in cui sono arrivati, tutto sembra andare per il meglio a Cora e
Caesar. Entrambi, sotto mentite spoglie, hanno un lavoro retribuito e un tetto
sopra la testa (vivono in dormitori, separati per i maschi e per le femmine,
creati appositamente per la popolazione di colore). Qui Cora scopre l’esistenza
della parola «ottimisti» e decide che significa «ci stiamo provando». Ma la
donna – che nel frattempo sta imparando a leggere e a scrivere – un po’ alla
volta prende coscienza di tutta una serie di cose che non vanno affatto bene: i
dottori e i dipendenti delle strutture sanitarie (ubicate in un grattacielo,
edificio non ancora esistente all’epoca in cui si svolgono i fatti e, dunque,
frutto di un deliberato anacronismo da parte dell’autore) e di accoglienza
cercano di persuadere i neri a sterilizzarsi, alle madri di colore vengono
sottratti i figli, sono in corso strani esperimenti sulle malattie sanguigne
della popolazione afroamericana che ricordano il famigerato Tuskegee Experiment
(uno studio sugli effetti della sifilide sulla popolazione maschile nera della
cittadina dell’Alabama, iniziato nel 1932 e proseguito fino al 1972 nonostante
la scoperta, nel 1940, che la malattia era curabile con la penicillina, con la
conseguente morte ingiustificata di numerosi individui). Si accorge che, così
facendo, i bianchi rubano il futuro ai neri e che, in Carolina del Sud, questi
pur non essendo «pura merce come prima», sono trattati come «bestiame: da
allevare, da sterilizzare. Da chiudere in dormitori» che sembrano «stie per i
polli o conigliere». Ed ecco che, a dissolvere il sogno del loro illusorio
benessere, sul posto giunge all’improvviso Ridgeway che, in base alla legge
federale sugli schiavi fuggiaschi (Fugitive Slave Act), è autorizzato a
catturare Caesar e Cora anche al di fuori dei confini della Georgia. Per Caesar
non c’è scampo: viene squartato dai “civili” abitanti della città in cui era
stato accolto, dopo essere stata sparsa la voce che era ricercato per
«“l’omicidio di un bambino”». Cora riesce a fuggire con un treno della ferrovia
sotterranea. Giunge così nella Carolina del Nord. Qui trova rifugio nella casa
di una coppia di persone mature, Martin ed Ethel Wells, ed è costretta a vivere
nascosta per alcuni mesi nella soffitta della loro casa che il caldo trasforma
«in una tremenda fornace». E qui l’autore si ispira alla vita della già citata
Harriet Jacobs che fu costretta a nascondersi per ben sette anni sotto il tetto
della casa della nonna, una ex schiava diventata libera. In quello stato Cora è
costretta ad assistere all’atroce spettacolo di innumerevoli cadaveri che
penzolano dagli alberi «come decorazioni marce» lungo una strada beffardamente
chiamata – ironia dell’autore! – il Sentiero della Libertà. Proprio come nella
canzone di Lewis Allan (pseudonimo di Abel Meeropol), resa celebre da Billie
Holiday, Strange Fruit:
> «Gli alberi del sud hanno strani frutti
> C’è del sangue sulle loro foglie e sangue nelle loro radici
> Neri corpi penzolano nella brezza del sud
> Strani frutti pendono dagli alberi di pioppo».
Il capitalismo americano dell’epoca ha come motore la produzione e il commercio
del cotone e come carburante i corpi dei neri. Il profitto generato dal cotone
porta con sé un male necessario: la popolazione afroamericana e la sua crescita
incessante. A causa dell’eccesso di quest’ultima rispetto a quella bianca,
nell’“immaginaria” Carolina del Nord è in atto un vero e proprio genocidio. I
bianchi non vogliono abolire la schiavitù, vogliono tout court “abolire i neri”.
Durante la sua permanenza nel sottotetto, Cora continua a imparare a leggere e
scrivere, e si appassiona agli almanacchi.
Tra parentesi, pur non essendo slave narrative, La ferrovia sotterranea possiede
due delle caratteristiche fondamentali del genere: il movimento (la fuga dello
schiavo) e la trasformazione (Sonia Di Loreto, “La slave narrative e
l’abolizionismo atlantico” in La letteratura degli Stati Uniti, a cura di
Cristina Iuli e Paola Loreto, 2017-2024, pp. 73 e 75). Al di fuori della
piantagione, Cora acquista una nuova consapevolezza, acuisce il suo senso
critico. La trasformazione della sua personalità si attua man mano che acquista
esperienza e si istruisce. L’incontro con la parola scritta è momento fondante
del suo rapporto con la cultura dei bianchi. Il processo di costruzione
dell’identità (una caratteristica del Bildungsroman) e quello di acquisizione
della libertà passano anche attraverso il processo di alfabetizzazione. Nel
saggio citato, Sonia Di Loreto – a proposito di The Narrative of Frederick
Douglass – scrive: «Seguendo una traiettoria di autocreazione, il testo di
Douglas stabilisce […] una netta relazione fra libertà e alfabetizzazione, e una
delle costanti del testo è il desiderio da parte di Douglass bambino prima, e
Douglass adulto poi, di imparare a leggere e a scrivere, secondo quello che lo
stesso autore definisce come la strada dalla schiavitù alla libertà. Tutti gli
episodi di apprendimento sono momenti di furti, sotterfugi, menzogne, a voler
rimarcare che il percorso verso l’alfabetizzazione e la liberazione per lo
schiavo non poteva essere mai lineare o privo di ostacoli» (Sonia Di Loreto,
“La slave narrative e l’abolizionismo atlantico”, cit., p. 81). Questo arduo
processo di istruzione e presa di coscienza è brillantemente sintetizzato da
Whitehead nel breve capitolo dedicato a Caesar in cui il protagonista rischia la
vita leggendo, di nascosto, I viaggi di Gulliver (la morte è la punizione che
spetta agli schiavi sorpresi in possesso di libri) perché sa che se non legge
non potrà mai sfuggire alla sua condizione di emarginazione e sottomissione.
Tornando alla trama principale, inutile dire che Ridgeway non tarda a scoprire
dove si è rifugiata Cora, vittima della delazione di Fiona, la donna di servizio
irlandese dei coniugi Wells. Martin ed Ethel vengono barbaramente trucidati dai
loro concittadini mentre il cacciatore di schiavi – in compagnia di un grottesco
personaggio, Homer, un ragazzino di colore di dieci anni che indossa un abito e
un cappello a cilindro – cattura la protagonista e la porta via con sé
attraverso il Tennesee infestato dagli incendi appiccati dai coloni che vogliono
avere a disposizione sempre più terra da coltivare. «Per la prima volta Cora era
passata da uno stato a un altro senza usare la ferrovia sotterranea». Con lei
c’è un altro nero, Jasper, di cui Ridgeway ben presto si sbarazza,
assassinandolo, perché ritiene antieconomica l’impresa di riportare la “merce”
al suo padrone, nel lontano Missouri. La protagonista tenta più volte,
inutilmente, la fuga. Finché – in un accampamento provvisorio del cacciatore di
schiavi e della sua compagnia – non sopraggiungono, come dei ex machina, tre
uomini di colore armati (uno di loro è Royal, di cui poi Cora si innamorerà) che
sottraggono a Ridgeway la preda portandosela con loro in Indiana. E per farlo si
servono della strada ferrata sotterranea. Per la protagonista è il terzo viaggio
nell’underground railroad.
Cora si ritrova in uno scenario idilliaco. La sua nuova vita è nella fattoria
dei Valentine, una coppia di colore che dà alloggio e lavoro sia agli
afroamericani liberi sia ai fuggitivi. Qui la manodopera è retribuita, i diritti
delle persone sono riconosciuti e rispettati, i bambini e gli adulti hanno
accesso all’istruzione. E qui la protagonista ha finalmente a disposizione «una
stanza tutta sua», secondo quanto auspicato da Virginia Woolf. È anche in
procinto di iniziare una relazione sentimentale con Royal ma è trattenuta dai
cattivi ricordi della violenza subita nella piantagione, in Georgia. Nella
fattoria è in atto una disputa tra il proprietario, John Valentine, che vorrebbe
trasferire tutto e tutti verso ovest, lontano dagli stati schiavisti, e il
viscido Mingo che vorrebbe invece lasciare l’attività produttiva in Indiana
mantenendo in servizio solo i neri liberi e lasciando i fuggiaschi in balìa del
loro destino. Royal fa giusto in tempo a mostrare a Cora l’ingresso della
stazione sotterranea esistente nei paraggi della fattoria ed ecco che si rifanno
vivi Ridgeway e Homer, in compagnia di una folla inferocita venuta a sapere
(probabilmente perché Mingo ha fatto la spia) che nella tenuta si nascondono dei
fuggiaschi e che alcuni di loro hanno ucciso dei bianchi. È inevitabile che si
compia una vera e propria carneficina. Royal viene ammazzato. Cora, è nuovamente
catturata dal cacciatore di schiavi che la costringe a condurlo al tunnel
fantasma della ferrovia sotterranea. Nel corso di una colluttazione, mentre
stanno scendendo nella galleria, la donna ferisce e neutralizza Ridgeway.
Approfittando della distrazione di Homer, impegnato a prestare assistenza al suo
padrone, Cora salta a bordo di un carello ferroviario a mano (handcar) con il
quale raggiunge un’altra stazione della struttura sotterranea segreta. Uscita
all’aperto, si imbatte in una carovana. Un nero di mezza età, con «un marchio a
ferro di cavallo sul collo» (lei si chiede da dove è scappato lui), la fa salire
sul suo carro e la porta con sé verso ovest, verso la libertà.
Il romanzo finisce così. Il finale aperto è sempre ben accetto ma in questo caso
lascia la bocca asciutta. Ai lettori sarebbe piaciuto sapere cosa ne sarebbe
stato di Cora una volta stabilitasi in uno stato abolizionista. La sua vita
sarebbe stata veramente tutta rose e fiori? Avrebbe scoperto altre magagne?
Sarebbe andata incontro ad altri orrori? Si teme un sequel.
Come già detto, la Ferrovia sotterranea è un romanzo eclettico riconducibile a
vari generi. Da alcuni è classificato come un romanzo fantastico. È vero, ci
sono l’invenzione della strada ferrata segreta e l’inserto anacronistico del
grattacielo che non hanno alcun riscontro nella realtà storica. Ma non c’è
l’intervento della magia, non ci sono fenomeni inspiegabili e irreali. In linea
generale, la narrazione procede seguendo i criteri del vero e della
verosimiglianza (tecnicamente sarebbe stato possibile costruire una ferrovia
sotterranea) ed è dunque tendenzialmente realistica, contaminata qua e là con
l’introduzione di diversi elementi “spuri”. Nonostante ciò, lo stile è piuttosto
uniforme e asciutto.
Gli argomenti della schiavitù e della persecuzione razziale sono trattati
con ineludibile durezza. L’autore tuttavia non sconfina mai – nelle scene più
truci, sempre necessarie e nient’affatto gratuite – nei parossismi
iperrealistici del Meridiano di sangue di McCarthy. Un esempio in questo senso,
tanto per dare al lettore un’idea del cinismo degli schiavisti e della brutalità
dello schiavismo, è la descrizione della scena seguente:
> «Mentre gli ospiti di Randall sorseggiavano rum speziato, Big Anthony venne
> cosparso di petrolio e arrostito. Ai testimoni vennero risparmiate le sue
> grida, perché il primo giorno gli era stato tagliato il membro virile […]. La
> gogna fumò, comincio a bruciacchiare e prese fuoco, con le figure sul legno
> che si contorcevano tra le fiamme come fossero vive».
Tra tutto il male prodotto dagli uomini e le indicibili sofferenze che ne
derivano, nel racconto c’è comunque spazio per la solidarietà e l’umana
comprensione.
La storia è inframezzata da ricorrenti digressioni e
continui flashback e flashforward che rendono complicata la ricostruzione della
fabula (ossia la sequenza degli eventi secondo l’ordine cronologico) da parte
del lettore. Tra i vari additivi “spuri” inseriti all’interno
del background realistico, fa capolino un elemento tipico della letteratura
postmoderna di ascendenza sterniana (cfr. La vita e le opinioni di Tristram
Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne) e cioè il gusto per la digressione fine a
se stessa, non strettamente funzionale al dipanarsi della trama principale. Ne
sono esempi il tranche de vie dedicato al dottor Stevens (uno dei medici della
struttura sanitaria ubicata nel grattacielo della Carolina del Sud) e la storia
in breve della vita di Ethel Wells (che, insieme al marito, ospita Cora nel
sottotetto della propria casa).
Nel 2017 La ferrovia sotterranea ha vinto due prestigiosi premi: il Pulitzer e
il National Book Award per la narrativa. Nel 2021 il regista Barry Jenkins ha
tratto dall’opera una miniserie televisiva con lo stesso titolo. Per Luca
Briasco il libro è un best seller di qualità «che accetta anche di sconfinare
nel romanzo d’appendice pur di non disperdere e anzi esaltare il messaggio
antirazzista e la riflessione sui mali più antichi della società
americana» (Luca Briasco, “Colson Whitehead, John Henry Festival-La ferrovia
sotterranea” in Americana, 2016-2020, pp. 367 e 370).
Ozioso chiedersi se questo sia un capolavoro oppure no o se sia, quanto meno,
un’opera fondamentale della letteratura americana contemporanea. È sicuramente
un libro “necessario”. E difatti Claudia Durastanti, nel risvolto anteriore
della copertina, lo cataloga come «Il tipo di romanzo che ci ricorda perché
siamo lettori».
Uno dei motivi che ne rendono indispensabile la lettura è il richiamo implicito
alle recenti e reiterate violenze perpetrate dalla polizia americana ai danni
della popolazione di colore e al movimento Black Lives Matter che da quegli
eventi è scaturito. Allo stesso Colson Whitehead – pur proveniente da una
rispettabile famiglia borghese, benestante, e pur essendo scrittore di successo
e insegnante in prestigiose università americane –, come a tutti i neri, sono
riservate le “attenzioni particolari” della polizia americana. Lo riferisce
l’autore nell’intervista rilasciata a John Freeman e riportata in coda al volume
delle Edizioni Sur: «le energie razziste che descrivo nella Ferrovia
sotterranea fanno ancora molto parte della nostra vita. E se prendiamo un brano
su Ridgeway e i suoi pattugliatori… essere fermato e perquisito e dover avere
sempre in tasca i documenti fa ancora molto parte della mia esistenza. Non so
mai quando la mia interazione con un poliziotto potrà prendere una brutta piega,
finire male».
La storia non insegna niente. L’orrore non ha mai fine.
Angelo Guida
*In copertina: Thuso Mbedu, protagonista di “The Underground Railroad” (2016)
L'articolo La Storia non insegna niente. Intorno a “La ferrovia sotterranea” di
Colson Whitehead proviene da Pangea.