La poesia è “il giorno del giudizio” quotidiano. Intorno a Michel Deguy

Pangea - Tuesday, October 7, 2025

Émigré que scalpe un âge è il poeta che opera con l’arma dell’assenza e con questa produce senso-apertura. Un senso scalare e quindi non progressivo che intuisce rovina perché canta, intona una nuova musica e travalica l’immagine, affondando nella materia ne trascende la pura superficie.

“Le favole parlano come animali” perché le parole ribaltano l’acquisito e dicono il loro verso selvaggio – “verso”, suono significante della bestia, la “girata” che sospende nel vuoto la parola – l’ombra che diventa voce.

“Transumanza”, ampia metafora di uno spostamento forzato e necessario, questo ci dice Deguy della poesia, la sua, che è frusta di lottatore che annuncia, è avvento tra le profondità della terra e le altezze del cielo. “Cammino e reame”: incanto “che ha bisogno di una parabola come dimora” perché “il reame assomiglia a questo luogo” per cui la parola ha ancora forza immaginifica e capacità di oltranza come “una stella ingrandita” in un verso che respira, ampliandosi e restringendosi, accordandosi all’unica realtà che è vita non polarizzata, presenza sospesa che non pretende di conoscere ma s’insinua tra noi, nella soglia che non definisce. L’unica possibilità di dire “noi” è “tra”, nella relazione sempre aperta: “rien avec rien” e “bella apparizione” che abbandona l’uomo e ne riscopre la natura: animale vivente, albero e preghiera, nuovo rischio d’amore e consacrazione.

Ma come è possibile parlare di sacro ora che il linguaggio è parte integrante del dissesto comunicativo? Deguy gioca (ma quanto seriamente) con le capacità di disturbo della poesia, e lo fa non dimenticando il ritmo, la necessità di sospensione dell’andare a capo. Freneticamente a volte o osando percorsi iterativi, autoecolalici, rischiando anche l’autoreferenza perché la vera lotta è il tentativo di approfondire il limite identitario, scavarlo e aprirlo, senza arrendersi alla pura constatazione:

 la vita come un campo sconnesso
                                                      nnesso
                                                                  e il campo
come un infermo che si porta al sole
                                                         ole
                                                               e il sole
come un confine dove la terra si rigira
                                                            ra
                                                                e la terra
come lo scritto che un miope aggiusta ai suoi occhi
                                                                                cchi
                                                                                       e
come la vita

Ma è quando l’individuo rischia tutto e va incontro alla débâcle relazionale che appare l’annuncio, la scala di Giacobbe e la sua lotta con l’angelo, la burella-poesia che è caduta e strettoia per la risalita:

Si attenda di essere portato da un angelo
Nel luogo dove la vista si offre senza magia
Terra fragile sotto l’edificio delle mani
Tutto è gradino dove s’innalza non Babele
Né la colombaia vista da Giacobbe
Ma dove sale la terra sull’altare del suolo
Fino a questo punto di se stessa se sappiamo
Dove l’analogia delle sue vie ci guida verso
I suoi monti le faglie i margini le acque
Incrinate nelle ore dove simile al mulo
Mi divide il suo cammino fra tutto e tutto 

Questa espansione estatica del linguaggio contrasta in maniera decisa la faciloneria comunicativa che incombe sempre sulle possibilità espressive. La sospensione, invece, conduce il verso a ricomporre “passi di tigre sulla pietra” per denunciare il comfort linguistico dello spettatore borghese che al massimo prende atto di ciò che accade senza proporre e rischiare alcuna risposta. Ma la poesia non è voyerismo bensì immersione per Deguy (e anche per chi scrive), abitazione provvisoria e necessaria proprio nella sua precarietà rivelatrice. La poesia è veramente “il giorno del giudizio” ricorrente, quotidiano. La poesia è osmosi, Deguy lo conferma in ogni testo, unendo l’alto e il basso, approfondendo e ripetendo un tragitto che annienta ogni polarizzazione: 

Le rocce i fiori i fiumi stregati di forme eroiche
Dèi idrificati pirificati ossificati cose
Come mai vi furono cornacchia alloro
Cosa sono questa maschera
Questa modellatura d’uomo
Del quale il poema sospetta la genesi nel suo silenzio
Apparire fu morire e l’immortale si ritirava

È “la questione della superficie” quella di coincidere con un fondo, è l’immersione della parola in un ambiente, è l’essere dentro il paesaggio, non soltanto “cingendosene” come dice il primissimo Zanzotto, ma assorbendolo.

D’altronde, il problema sollevato da Deguy in tutta la sua opera è quello della verità. Poesia di pensiero e desiderio, perché la verità è assenza e tensione che non possiede, non può. La parola non ha, è questa verità:

Cancellazione

Dedica

Non posso scrivere il tuo nome. Le leggi lo proibiscono. Avendo scritto il tuo nome, dirò che non lo dirò mai e così lo terrò nascosto. Sei la mia indagine sulla ricchezza. È scritto che adempia il tuo voto che scriva di un giacente.

In tempi di inganno (fake), la poesia di Deguy (che non è mai stata di nessun tempo) si fa luce perché educa manifestando che il creduto vero (la stessa poesia) non è il vero, azzardando che non tutte le opinioni sono valide e criticando alla base le ipocrisie della democrazia.

La poesia di Deguy è autocritica, si denuda nella sua oscurità:

 Capisci che è una dichiarazione d’amore? Come una certa luce, il rivestimento dell’alba, fra le altre, accoppia tutto facendo rientrare in lei, sollevandole nel suo bagliore, tutte le cose esistenti, così il poema con il suo bagliore particolare d’eclissi: rende visibile l’eclissi dell’essere e il tutto (cose nominate solo in parte che sono tutto) e la luce: il linguaggio.

 Parlo di questo mattino blu leggero fresco d’autunno, blu adorabile, e di caccia e di uccello trampoliere, questo sapore per sé, fuori tutto ma facendone un tutto, disgiunto e diminutivo. In che modo lo perderemo? Dobbiamo privarcene.

La luce che rende visibile attrae il soggetto, lo rende partecipe in una contemplazione attiva. La circolazione, il respiro linguistico apre a un eterno estatico aprendo e chiudendo la parola, trasponendola in una dimensione liminale che combatte la sclerosi del senso. Il verso diventa cinetico, sobbalza nella sua brevità anche se non in modo definitivo, adattandosi al contesto perché il soggetto riparta sempre in un nuovo cammino:

Dentro-fuori

A Valerio Adami

In soglia

Il dentro vuole uscire
e il fuori vuole entrare
l’uscio che sbatte
inventa a porte non chiuse
una soglia per il ritmo
che suddivide i due lati

All’interno dell’interno
richiudendo il dentro
il cuore messo al segreto
sigilla e mostra il tutto
la parte che lo integra
non ignora le altre

“Ciò che è ugualmente alto e basso” nella parola arrende l’uomo al contatto osmotico col mondo, perché nel riconoscimento dell’incommensurabilità del tutto accade l’oltrepassamento rivitalizzante: il senso dell’essere al mondo e del mondo nell’essere è possibile solo se “anche i rami perfino i muschi / fanno ideogrammi”. Apertura panica dell’essere e trascendenza nella materia.

Gianluca D’Andrea

Bio: Michel Deguy, Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006 (Sossella, Roma 2007, traduzione di Mario Benedetti)

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