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“L’aldilà della voce”. Intorno a un libro impossibile di Dominique Rouche
C’è come una voluttà nel farsi imprendibile – imprenditore dell’imprendibile – la sequela disseccata. Una pratica dell’elusione portata al punto di rottura: alla soglia del fantasma. Ovvio: ci piacciono i libri impossibili. Quelli che sfuggono alla gabbia stessa del libro – questo sono le parole, d’altronde: corde, coltelli, cani da slitta, strumenti di evasione dalla massa. Le parole non stanno ben intruppate in un libro: il libro non è un pollaio, non è una caserma. Il libro non è un parlamento. Sta allo scrittore forzare i sigilli del libro; al lettore il coraggio di cavalcare a pelo nudo un simile destriero. Ci piacciono i libri disabili all’editoria odierna. Ci piace questo scalpitio di libri che obbligano l’ascesi al lettore – cercalo, affrontalo, sfiatalo. Torno a Dominique Rouche, lo scrittore più elusivo della letteratura francese. Anche la parola scrittore lo irrita; anche dire letteratura. Dominique scrive – e vive. Le notizie sul suo conto sono rade, le fotografie inaffidabili; l’anno prossimo dovrebbe compiere ottant’anni – nel 1973, per Gallimard, ha pubblicato Hiulques Copules, libro di spiazzante bellezza, ascritto, senza troppa ragione, al magma ‘sperimentale’. In realtà – come ha compreso Michel de Certeau, mistico fan del poeta – Dominique Rouche si muove a ritroso, verso l’origine del linguaggio, all’Ur del Verbo. Di qui, il disastro grammaticale, la dizione animale, la lacerazione tra trafittura eraclitea e glossolalia. Più che i nouveau, a qualsiasi sigla appartengano, in Rouche agisce, semmai, il dire di Angelus Silesius, l’angelologia dello Pseudo-Dionigi, il razzolare tra locuste aforistiche, tra spine verbose. Togliere il vello al linguaggio, fare lo scalpo al logos. Che questo deambulare tra gli estremi comporti un romitaggio da sé, l’occlusione, il silenzio è ovvio. Chi scrive, vive – scrivendo, c’è chi si inscrive in una storia, la propria, illusoria, con le ecchimosi della fama, e chi, meticolosamente, si cancella. Ricalcare uno scritto, screpolandolo. Ad ogni modo, Dominique mi scrive da Parigi – una città, immagino, in cui si può vivere sparendo, come in un anfratto della Tebaide. Un giorno, allo zenit dell’estate, nel suo italiano inventato, un Petrarca col cilicio, Dominique mi reclama: > “Ho baciato l’alba estiva. È davvero Rimbaud a dettare questo a tutti coloro > che sono coinvolti in questa ineffabile avventura alla quale siamo destinati? > In quale lotta siamo impegnati? La letteratura potrebbe essere quest’arma di > cui non comprendiamo appieno la portata? Quindi siamo gettati in questa lotta > senza armi a proteggerci. > > A questo proposito, come da lei richiesto, le invio uno dei miei libri > intitolato Dieue, al quale sono molto affezionato. Vorrei permettermi di > elencare alcuni requisiti essenziali per la lettura di quest’opera prematura: > aprire il libro a caso e decifrarne l’intera portata; leggere lentamente ogni > riga in cui il testo è affrontato nella sua interezza. Privo di qualsiasi > cronologia narrativa, questo racconto frammentato non ha né inizio né fine: > incarna il ciclo della scrittura di cui forse abbiamo ignorato la portata. > Tutto questo vi sembrerà vano, dal momento che sapete già leggere tutto ciò > che conta in questo vangelo, in questa apocalisse in cui dispieghiamo il > nostro talento, così modesto e tuttavia così ambizioso. Ho baciato l’alba > d’estate: questo è tutto ciò che c’è da ripetere”. Poco più tardi, mi arriva il libro. Dieue – spietata sintesi tra dieu, dio, e to die, morire – è un libro introvabile, fuori mercato, fuori da tutto. Lo ha pubblicato, nel 2006, Editions QUE; il sito dell’editore risulta attualmente scomparso. Stampato senza troppa grazia, in copertina reca una voragine scura, qualcosa tra il buco nero e la mammella – il nutrimento e la sete, il corpo e la stella – su fondo bianco. Sottotitolo: Hymne à la déesse blanche. In esergo: frasi sparse di Jacques Lacan, Thomas de Quincey, Goethe, Franz Rosenzweig. Il biglietto di Dominique è in una calligrafia che non riesco a districare; il libro è stato tirato in cinquecento copie; l’ultima parola: “l’essere soggiogato”. Trecentocinquanta pagine: fitte, nottambule, che alternano il racconto mitico, la quest, all’apoftegma, la ‘regola’ all’epica, l’impennata lirica al dire tra gli stenti. Coltivazione di apparizioni; spettri in quantità – spesso malevoli. E poi: una purezza, una tenerezza, come di chi, ovunque, scavi fino al latte, fino al sì. Uno scrivere a stalattiti. I supporti al libro sono fatti per dissuadere. Si dice che “Dieue è linguaggio crollato nell’abisso della soggettività. Leggere, a questo punto, equivale a essere posseduti dal lirismo della trasgressione”. Dei libri di Dominique Rouche si dice che hanno “messo in scacco la critica”; viene citata una frase tratta da un articolo uscito su “Le Monde”: “un capolavoro dell’inafferrabile”. Nonostante i manichini e le quinte teatrali, le turbe da impossessato, Dominique non sobilla le ombre. Mi scrive: “Mehr licht: questo è lo scopo di un’opera del genere. ‘Più luce’ implica l’oscurità in cui siamo tutti immersi”. Qui si traducono le prime pagine di Dieue. Genesi e Apocalisse paiono rimeditate alla luce di Lautréamont – ma c’è un momento in cui anche il gioco delle assonanze, il gioco delle discendenze e della specie reietta e della specie rettile non ha più senso. Il linguaggio si usura per esaltazione, qui, con i capitelli della luce: ciò che ne esce già urla, già va a mensura di latrato. Che bello: c’è qualcosa da cui siamo espulsi, qualcosa che nessuna intelligenza può più comprendere. Ed esserne grati, al colmo. *** Dieue Sì, il serpente addormentato sotto il tripode si agita, dilaga, come una scrittura sacra che, con le sue spire, compone tutta la verità furente e ancora con le travi: ebbro, allora, legge i lemmi scavati sul bordo dell’altare, sente l’offerta in sangue devota alla Sua furia, alla Sua collera. Offre alla lettura un manoscritto disfatto che la falesia del deserto contesta radicalmente con tutto l’ardore della sua negata altezza. L’eroe – perché è qui che inizia il nuovo canto, che non sarà smentito dal cielo occluso di stelle, dalle inverate costellazioni, le enervate – mostra il viso, illuminato da un sole dimentico, dissimulato dalla lava, eclissi sublimata di uno stile senza ornamenti. Apre al nuovo e all’allarmato il dire: apre i bastioni a un’avventura a cui solo lui può donarsi, su cui misura le passioni dimenticate. Solleva il viso: a precipizio la scrittura su cui grava l’interdetto dell’incesto e del parricidio. Attribuisco la mia furia d’amare al nulla, ai calcoli di chi nega, e i filatteri del cielo rimandano alla parola incarnata del dio crocefisso che s’incarica di ogni verità perduta ai confini di un Oriente travestito. Parla – la sua violenza trafigge la verginità della pagina dove il nome del dio senza imperfezioni illumina la finestra di una stanza misteriosa, gelida. Il fuoco cova nel camino, sdraiato sui tappeti di una calcolata resurrezione conta le crepe sul soffitto, sempre sul punto di crollare, sempre sotto il tiro di un cataclisma annunciato. Il lettore, immagino, è pallido, è nello sconcerto come chi legge di nascosto, strappa il manoscritto del sogno e ne sparge i frammenti a casaccio, nell’eternità – e comprende l’intera portata della sua perdita. Le pagine, questo paradiso, questa colpa, volano nel cielo moribondo: cosmo e caos sono una colonna di marmo che sprofonda nell’abside dove giace il corpo verginale, le sue vesti, blu o viola. Pronuncio il sacro nome, la grafia segreta, e verso di me crollano i carri della fama – sul sentiero geme la voce esausta, sotto dettatura. * Infallibile, freddo avanzo su questa terra dannata e la maschera dell’interiorità è slacciata: il volto si inchina al mago mitridatizzato in cui vita e morte sono mescolate. Ma lui parla, la sua violenza irrompe nella nube e io scrivo per un morto che continua a esistere in me – diluvia, e i mondi sono riverginati nei primi fondamenti. Esiste un lettore perfetto: ha letto il vangelo della crudeltà e la sua ferocia irrompe, incide chiose ai margini del dire in fiamme. La trappola di una prosa troppo complessa si chiude sul lettore, in gabbia, davanti ai cancelli di una verità inappropriata. * Ma egli calcola, fracassa il sogno dalle invise pareti, sfiora l’adolescente che riposa sui tappetti ammonticchiati: penetrerà nel regno che gli è dato e il suo rifiuto scalpita sotto la ragione, esposta ai quattro angoli di un cielo veritiero. Perché: non esiste passaggio obbligato alla realtà del desiderio: non esiste barriera infinita al verbo incarnato: egli regna, assiso sul vuoto, e il discorso, contorto, si avvolge tra le sue mani – anelli di zaffiro lo accertano. * Cosa dice la volontà del padrone, presto dimenticata perché non ha rimpiazzi? Enuncia la legge della menzogna e della crudeltà: enuncia la paratia del vero che si offre a chi varca soglie che non ammettono ritorno, in cui egli, adorato e solo, è affrancato dalla trasgressione, dall’obbligo del candore. Graffi incisi sulla pella di una vittima assetata di verità: scrittura che traccia scogliere: inchiostro misto a sangue. * La ferocia del dire e del nominare comporta l’aldilà della voce, una voce rappresa che ruggisce nella scrittura, dove riversa ogni conoscenza, ogni calcolo del destino: la castrazione è un inganno, è ingiuria al vero: esiste solo un solo passaggio: l’essere che distrugge l’istante della sua morte annunciata: la seconda morte è rinviata ai residui dell’essere – sole che si eclissa sul deserto e illumina senza sfarzo il poeta, accucciato tra gli stracci. Dorme o finge di sonnecchiare – perché gli è apparecchiata una via dove può avanzare libero dalle sue presunte catene –, le mani scarnificate: perdura nella morte che gli si oppone ma non lo scalfisce: rivive nel discepolo designato la voce impossibile di Colui che per primo lo ha insultato. Se muore è per approdare sulla riva dove l’eroe torna carico dei fiori dell’immortalità, il petto nudo che erutta nubi e sangue, la sostanza del suo corpo universale. Il maestro crolla nella replica della sconfitta e il discepolo gli vela il viso: eco che riverbera ai quattro angoli di un cielo trafitto, che si spiega sul nulla. Il mondo torna sull’inveterato asse, il logos riappare all’orizzonte della volontà. Castrazione e morte si scambiano – l’impossibile può essere realizzato nell’essenza della libertà. Dominique Rouche *In copertina: un’opera di Pierre Soulages L'articolo “L’aldilà della voce”. Intorno a un libro impossibile di Dominique Rouche proviene da Pangea.
October 8, 2025 / Pangea
La poesia è “il giorno del giudizio” quotidiano. Intorno a Michel Deguy
Émigré que scalpe un âge è il poeta che opera con l’arma dell’assenza e con questa produce senso-apertura. Un senso scalare e quindi non progressivo che intuisce rovina perché canta, intona una nuova musica e travalica l’immagine, affondando nella materia ne trascende la pura superficie. “Le favole parlano come animali” perché le parole ribaltano l’acquisito e dicono il loro verso selvaggio – “verso”, suono significante della bestia, la “girata” che sospende nel vuoto la parola – l’ombra che diventa voce. “Transumanza”, ampia metafora di uno spostamento forzato e necessario, questo ci dice Deguy della poesia, la sua, che è frusta di lottatore che annuncia, è avvento tra le profondità della terra e le altezze del cielo. “Cammino e reame”: incanto “che ha bisogno di una parabola come dimora” perché “il reame assomiglia a questo luogo” per cui la parola ha ancora forza immaginifica e capacità di oltranza come “una stella ingrandita” in un verso che respira, ampliandosi e restringendosi, accordandosi all’unica realtà che è vita non polarizzata, presenza sospesa che non pretende di conoscere ma s’insinua tra noi, nella soglia che non definisce. L’unica possibilità di dire “noi” è “tra”, nella relazione sempre aperta: “rien avec rien” e “bella apparizione” che abbandona l’uomo e ne riscopre la natura: animale vivente, albero e preghiera, nuovo rischio d’amore e consacrazione. Ma come è possibile parlare di sacro ora che il linguaggio è parte integrante del dissesto comunicativo? Deguy gioca (ma quanto seriamente) con le capacità di disturbo della poesia, e lo fa non dimenticando il ritmo, la necessità di sospensione dell’andare a capo. Freneticamente a volte o osando percorsi iterativi, autoecolalici, rischiando anche l’autoreferenza perché la vera lotta è il tentativo di approfondire il limite identitario, scavarlo e aprirlo, senza arrendersi alla pura constatazione: >  la vita come un campo sconnesso >                                                       nnesso >                                                                   e il campo > come un infermo che si porta al sole >                                                          ole >                                                                e il sole > come un confine dove la terra si rigira >                                                             ra >                                                                 e la terra > come lo scritto che un miope aggiusta ai suoi occhi >                                                                                 cchi >                                                                                        e > come la vita Ma è quando l’individuo rischia tutto e va incontro alla débâcle relazionale che appare l’annuncio, la scala di Giacobbe e la sua lotta con l’angelo, la burella-poesia che è caduta e strettoia per la risalita: > Si attenda di essere portato da un angelo > Nel luogo dove la vista si offre senza magia > Terra fragile sotto l’edificio delle mani > Tutto è gradino dove s’innalza non Babele > Né la colombaia vista da Giacobbe > Ma dove sale la terra sull’altare del suolo > Fino a questo punto di se stessa se sappiamo > Dove l’analogia delle sue vie ci guida verso > I suoi monti le faglie i margini le acque > Incrinate nelle ore dove simile al mulo > Mi divide il suo cammino fra tutto e tutto  Questa espansione estatica del linguaggio contrasta in maniera decisa la faciloneria comunicativa che incombe sempre sulle possibilità espressive. La sospensione, invece, conduce il verso a ricomporre “passi di tigre sulla pietra” per denunciare il comfort linguistico dello spettatore borghese che al massimo prende atto di ciò che accade senza proporre e rischiare alcuna risposta. Ma la poesia non è voyerismo bensì immersione per Deguy (e anche per chi scrive), abitazione provvisoria e necessaria proprio nella sua precarietà rivelatrice. La poesia è veramente “il giorno del giudizio” ricorrente, quotidiano. La poesia è osmosi, Deguy lo conferma in ogni testo, unendo l’alto e il basso, approfondendo e ripetendo un tragitto che annienta ogni polarizzazione:  > Le rocce i fiori i fiumi stregati di forme eroiche > Dèi idrificati pirificati ossificati cose > Come mai vi furono cornacchia alloro > Cosa sono questa maschera > Questa modellatura d’uomo > Del quale il poema sospetta la genesi nel suo silenzio > Apparire fu morire e l’immortale si ritirava È “la questione della superficie” quella di coincidere con un fondo, è l’immersione della parola in un ambiente, è l’essere dentro il paesaggio, non soltanto “cingendosene” come dice il primissimo Zanzotto, ma assorbendolo. D’altronde, il problema sollevato da Deguy in tutta la sua opera è quello della verità. Poesia di pensiero e desiderio, perché la verità è assenza e tensione che non possiede, non può. La parola non ha, è questa verità: > Cancellazione > > Dedica > > Non posso scrivere il tuo nome. Le leggi lo proibiscono. Avendo scritto il tuo > nome, dirò che non lo dirò mai e così lo terrò nascosto. Sei la mia indagine > sulla ricchezza. È scritto che adempia il tuo voto che scriva di un giacente. In tempi di inganno (fake), la poesia di Deguy (che non è mai stata di nessun tempo) si fa luce perché educa manifestando che il creduto vero (la stessa poesia) non è il vero, azzardando che non tutte le opinioni sono valide e criticando alla base le ipocrisie della democrazia. La poesia di Deguy è autocritica, si denuda nella sua oscurità: >  Capisci che è una dichiarazione d’amore? Come una certa luce, il rivestimento > dell’alba, fra le altre, accoppia tutto facendo rientrare in lei, sollevandole > nel suo bagliore, tutte le cose esistenti, così il poema con il suo bagliore > particolare d’eclissi: rende visibile l’eclissi dell’essere e il tutto (cose > nominate solo in parte che sono tutto) e la luce: il linguaggio. > >  Parlo di questo mattino blu leggero fresco d’autunno, blu adorabile, e di > caccia e di uccello trampoliere, questo sapore per sé, fuori tutto ma > facendone un tutto, disgiunto e diminutivo. In che modo lo perderemo? Dobbiamo > privarcene. La luce che rende visibile attrae il soggetto, lo rende partecipe in una contemplazione attiva. La circolazione, il respiro linguistico apre a un eterno estatico aprendo e chiudendo la parola, trasponendola in una dimensione liminale che combatte la sclerosi del senso. Il verso diventa cinetico, sobbalza nella sua brevità anche se non in modo definitivo, adattandosi al contesto perché il soggetto riparta sempre in un nuovo cammino: Dentro-fuori A Valerio Adami In soglia Il dentro vuole uscire e il fuori vuole entrare l’uscio che sbatte inventa a porte non chiuse una soglia per il ritmo che suddivide i due lati All’interno dell’interno richiudendo il dentro il cuore messo al segreto sigilla e mostra il tutto la parte che lo integra non ignora le altre “Ciò che è ugualmente alto e basso” nella parola arrende l’uomo al contatto osmotico col mondo, perché nel riconoscimento dell’incommensurabilità del tutto accade l’oltrepassamento rivitalizzante: il senso dell’essere al mondo e del mondo nell’essere è possibile solo se “anche i rami perfino i muschi / fanno ideogrammi”. Apertura panica dell’essere e trascendenza nella materia. Gianluca D’Andrea Bio: Michel Deguy, Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006 (Sossella, Roma 2007, traduzione di Mario Benedetti) L'articolo La poesia è “il giorno del giudizio” quotidiano. Intorno a Michel Deguy proviene da Pangea.
October 7, 2025 / Pangea
Accelerare la vita. Drieu vs. Saint-Exupéry: intorno a due romanzi “notturni”
“Abbiamo giocato e io ho perso. Esigo la morte”. Sono le ultime parole di Drieu. Lapidarie, si può dire. La Rochelle le scrive nervosamente su un pezzetto di carta prima di ammazzarsi.  Non la morte eroica che aveva immaginato. Eppure l’idea di una morte annichilente, notturna, senza speranza, lo aveva già accarezzato attraverso il suo alter ego Alain, in Le feu follet (Fuoco fatuo). Nel 1931, Drieu pubblica con Gallimard una storia di vagabondaggio morale: Alain Leroy, intellettuale parigino assuefatto alla droga, durante la sua ultima notte, vaga per Parigi incontrando amici e conoscenti. Nessuno di loro lo salverà da se stesso. Mai come nella sua ultima notte, così affollata, Alain è solo. Senza le due donne della sua vita, la moglie Dorothy, ormai stanca di assecondare la sua dipendenza, e l’amante Lydia, figura fantasmatica che scompare dall’alcova amorosa col sorgere del sole. Due anni prima, a suicidarsi era stato Jacques Rigaut, amico di Drieu. La storia è ispirata al suicidio dello scrittore surrealista, ma prelude al suicidio di Drieu stesso, tredici anni dopo. È il 1945, Drieu è compromesso col regime collaborazionista di Vichy. Ha provato ad ammazzarsi due volte nel 1944. Non ce l’aveva fatta. Come il poeta austriaco Georg Trakl, che, segnato dall’orrore della Prima Guerra Mondiale, tentò senza successo di uccidersi prima di chiudere definitivamente con il mondo, anche Drieu è così poeta, così incomprensibilmente e involontariamente attaccato alla vita da non riuscire a morire. Il 15 marzo del ’45 i giornali annunciano un mandato di cattura contro di lui, a nulla erano valse le assicurazioni degli amici André Malraux e Louis Aragon, che gli avevano promesso salvezza.  Drieu stacca il tubo del gas e si imbottisce di fenobarbital.  Stavolta ce la fa.  1931. Antoine de Saint-Exupéry pubblica Vol de nuit con Gallimard. Ambientato negli anni pionieristici dell’aviazione postale, nel romanzo prendono forma le incertezze e le insidie dei cieli notturni. Il pilota Fabien affronta un volo rischioso sopra le Ande, mentre a terra il direttore Rivière incarna la disciplina e il rigore del dovere.  Perché leggere parallelamente questi due romanzi, apparentemente così diversi? Nello stesso anno, schiacciato tra due Guerre, due autori profondamente compromessi con la realtà politica francese – un devoto fascista e un fautore dell’umanesimo – elaborano due romanzi brevi che si esauriscono in una notte, snocciolando, entro la parabola vitale di una falena, l’intera visione del mondo. I due testi rispondono alla necessità dei rispettivi autori di scrivere per offrire una proiezione autobiografica di se stessi. Non sono autobiografie, però: gli intrecci dei due romanzi prendono le mosse dalla morte di amici dei rispettivi autori. Jean Mermoz è Fabien e Jacques Rigaut è Alain, ma entrambi i ritratti di questi due personaggi sono la rappresentazione sformata del pensiero autoriale. L’intreccio basato sul fatto biografico amicale è quindi maschera di una volontà di autorappresentazione, nonché il dispositivo che entrambi gli autori sfruttano per esporre la conflittualità intrinseca delle proprie posizioni. Se in Vol de nuit, infatti, Saint-Exupéry costruisce sui personaggi di Fabien e Rivière un’etica rigidissima di dedizione, responsabilità e umanesimo, in Le Feu follet, La Rochelle tratteggia in Alain il prototipo dell’esteta decadente, assuefatto alla droga e alla menzogna, privo di qualsivoglia tensione ideale. I personaggi di Vol de nuit riflettono con coerenza l’etica dell’autore, pur senza nascondere, talvolta, voci alternative, dubbi e ripensamenti: l’impronta, per così dire, dialogica e testimoniale del romanzo è l’opportunità di costruire per contrasto una visione eroica complessa. Alain è invece il prodotto di uno specchio deformante entro cui il proprio autore si riflette. Deformante perché, di fronte al nichilismo spiazzante di Alain, non si può non considerare il vitalismo politico-intellettuale del Drieu uomo e pensatore, ideologicamente in aperto contrasto con l’individualismo proclamato dal suo personaggio, ma, di fatto, praticato dallo scrittore.   Lo stesso rapporto dell’autore con il relativo personaggio speculare è differente: laddove Saint-Exupéry manifesta un vero e proprio sentimento di ammirazione per Rivière, La Rochelle oscilla tra l’immedesimazione (soprattutto nei tratti misantropici, classisti ed estetici) e la condanna («In questo s’ingannava»). Il suo protagonista è un nichilista totale, disgustato dal suo tempo e dalla società che lo circonda. Fin qui, il ritratto potrebbe anche combaciare.  In effetti, stando alle parole di Louis Aragon, che La Rochelle lo conosceva bene, Drieu in politica era «ambiguo, inaffidabile». La solitudine esistenziale tradita anche dal suo personaggio, oltre a un’assenza di fede unita alla necessità di praticare una ‘religione laica’, lo conduce all’adesione al fascismo. Solo nel ’36 propende per il Partito popolare di Doriot. Durante la guerra collabora con Vichy, sentendosi al contempo vicino alla Russia stalinista. Teorizza il socialismo fascista. Il protagonista di Fuoco fatuo, invece, non crede in nulla. Il rovesciamento e al contempo la conferma di quel vitalismo decadente che La Rochelle incarna nella vita, nei romanzi e nella poesia. Mitizza il fallimento, ne definisce un culto, scolpisce un altare profano. Un antieroe a tutti gli effetti, che si crogiola nel disprezzo per il mondo e che trova nella droga il compimento del suo potere sulla terra e al tempo stesso l’annullamento di sé. Ma Drieu è un individualista che odia il proprio individualismo e vede la decadenza dell’Europa proprio nell’individuo come fine.  Da rilevare anche come l’idea dell’impotenza dei piloti durante il volo di notte («Sulle rive di quella notte gli uomini si agitavano impotenti») trovi una forte somiglianza con l’impotenza (che è anche, invero, indolenza) di Alain, che durante il giorno è già consapevole che quella stessa notte dovrà drogarsi.  > «Ma quella stessa sera, poiché aveva diecimila franchi, si sarebbe drogato di > nuovo». Un senso di predestinazione e ineluttabilità che, se per Fabien e Rivière è un rischio calcolato, un’assunzione di responsabilità, per Alain è passiva accettazione della propria natura in virtù di un generale disprezzo per il mondo circostante. Una condizione esistenziale che sembra non poter essere piegata da nessuna delle figure che gravitano intorno ad Alain. Quegli affetti della vita stanziale agognate ma inarrivabili per Fabien e Rivière – così concentrati sulla loro impeccabile etica del dovere – e possedute ma inutili per Alain, che esaspera la stanzialità fino alla stagnazione, alla monotonia scandita solo dal rito liturgico della droga. La santa messa dell’Europa delle cattedrali vuote. Si rovescia la figura paradigmatica del concetto di responsabilità incarnata dal Rivière autoritario e «responsabile di un cielo intero», sostituito in Fuoco fatuo da un medico indulgente, che fa appello alla sola (e debolissima, se non inesistente) volontà individuale, che sceglie di non esercitare alcuna autorità sul paziente, provando disagio, incapace di spronare il drogato e di dirgli che, in fondo, «la vita era bella». Magra consolazione: meglio un’altra dose. Annullarsi fino a scomparire. Ministro di un culto oscuro e indemoniato. D’altro canto, Alain stesso incarna l’antitesi a qualsivoglia senso di responsabilità: nel rapporto con le donne della sua vita, nel continuo ricadere nel tunnel della tossicodipendenza senza mai sentire davvero la volontà di uscirne. Ma anche nell’approccio fin troppo sarcastico e scanzonato alla sua condizione e alle sue relazioni, nonché nel suo volontario distacco da impalcature ideologiche e strutture sociali. Ogni suo comportamento lo allontana da quelle assunzioni di responsabilità che rendono maturo un uomo. O che rendono uomo un uomo. In effetti, rifiuta l’idea di giustizia e il concetto di verità e crede solo nel corpo solido: d’acciaio, magari, la pistola. Puro materialismo. Quasi sessuale. E poi c’è lei, ovviamente. La morte. Sembra un fatto inevitabile. Per il protagonista di Saint-Exupéry è il compimento della grandezza dell’eroe, il sacrificio necessario per accedere a una dimensione superomistica. Per Alain la morte è solo la «notte definitiva», è il morire un po’ per volta, giorno dopo giorno, mantenendo sempre vicine la siringa e la pistola, vincolando l’atto del bucarsi a un perpetuo memento mori (e forse anche un cupio dissolvi). La scelta di Alain è quindi tra “crepare” e “suicidarsi”: > «Preferirei morire anziché crepare». Cioè: lasciarsi uccidere lentamente dalla droga, o ammazzarsi, sparandosi, in un atto mosso da quella che in un primo momento considera «una forza estranea e idiota», ma che sempre di più gli sembra l’unica via di fuga. Un’esplosione di vitalità che si concreta in una «morte tardiva». Superomismo zoppicante:  > «La vita non andava abbastanza in fretta in me, devo accelerarla. La curva > cedeva, la raddrizzo. Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle, lo > dimostro».  (Abbiamo giocato e io ho perso. Esigo la morte). Questo è Drieu. Il perdente – il delicato – che esige la morte. Chi è allora questo dandy piegato dalla monotonia della droga e dall’erotica noia borghese? Un anti-eroe tragico, la cui volontà individuale risulta sempre sopraffatta dal peso di un destino già segnato, da un mondo in cui trova solo «forme vuote». Non l’antitesi del suo autore, dunque, ma la manifestazione epifanica di ciò che La Rochelle più di ogni altra cosa odiava di sé. Giulio Solzi Gaboardi *Le citazioni dai romanzi sono tratte da “Volo di notte”, Bompiani, 2020, e “Fuoco fatuo, Passigli, 2016. Si ringrazia Valeria Vitali per la preziosa collaborazione. In copertina: immagine tratta da “Fuoco fatuo”, film di Louis Malle del 1963, con Maurice Ronet e Jeanne Moreu come protagonisti L'articolo Accelerare la vita. Drieu vs. Saint-Exupéry: intorno a due romanzi “notturni”  proviene da Pangea.
October 6, 2025 / Pangea
“Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean
Jean Grosjean è stato un genio. Prete spretato, vissuto pressoché in solitudine, è morto nel 2006, più che novantenne. Conobbe André Malraux e Claude Gallimard – con cui inaugurò un’amicizia senza sconti – in prigione, durante la Seconda guerra, in Pomerania. Proprio con Gallimard pubblica i suoi libri in versi – Terre du temps, 1946, Fils de l’Homme, 1954, La Gloire, 1969, ad esempio –, spesso molto belli; si è inventato un ‘genere’, il racconto lirico – che ha i suoi precordi negli Ébauches di Rimbaud – dal fascino, spesso, perturbante. Uno di questi testi, Le Messie, è stato tradotto lo scorso anno da Qiqajon; ne restano molti altri: Pilate (1983), La Reine de Saba (1987), Samuel (1994), ad esempio. Incessante ‘cercatore’, tra i rari maestri del secolo, Grosjean ha tradotto, con sapienza superiore, diversi testi dalla Bibbia (i profeti, l’Apocalisse); ha tradotto il Corano (1979) e i tragici greci (1967). Per Gallimard, nel 1989, insieme al futuro Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio, ha fondato la collana “L’Aube des peuples”, con l’intento di setacciare miti e leggende di ogni angolo del globo. Alla società degli intellettuali, preferiva il lavoro duro, a tratti brutale. Non presenziava – agiva.  Nel 1984, sempre per Gallimard, nella ‘Collection folio junior en poésie’, Grosjean s’inventa un’antologia di millenaristica bellezza. S’intitola Dieu en poésie, e assembla, dall’Epopea di Gilgamesh a Rutger Kopland, l’ultimo autore antologizzato, diversi testi che sfidano il numinoso, che dicono l’indicibile, che accarezzano o fanno lo scalpo a Dio. L’antologia, antiaccademica, funziona come un breviario: è piccola, corta – ottanta pagine –; in copertina, un uomo, stilizzato, su un colle, fissa l’orizzonte. L’arcobaleno, al contempo, è una palpebra che si spalanca, una bocca pronta a inghiottire.  Il repertorio di testi – di cui in calce abbiamo tradotto quelli meno ovvi, i più inaccessibili – è scelto secondo il criterio di ecumenica razzia che anima il lavoro di Grosjean: ai Salmi e a Omero fanno specchio Laozi e Wang Wei, al-Hallaj e Khayyam, Ibn Al-Farid e Pascal; appaiono, come spettri della consolazione, John Keats e Edgard Allan Poe (nella versione di Mallarmé), Friedrich Hölderlin, l’assoluto ispirato, e Rimbaud, Gerard Manley Hopkins e Paul Claudel. Ci sono – come da attendersi – Giovanni della Croce, Eschilo, Meister Eckhart (“Se l’Anima vuole seguire Dio nel deserto della deità, il corpo segua il Messia nell’assolata povertà”) – ma anche Charles d’Orléans, Marceline Desbordes-Valmore, Kamo-no-Chomei, Francis Jammes, Jules Supervielle e Francis Thompson. Il capriccio – che è poi l’andare bendati nella notte oscura del cuore – precede l’ecumenismo. Secondo Grosjean, “Poesia è spesso la trama di tracce di ciò che accade dentro l’uomo, nel suo intimo”; di qui, l’dea che il divino non conforta ma spiazza, non accarezza ma azzera, e che la grande cerca è, in fondo, la caccia assoluta.  Non è un caso che un’antologia intitolata a Dio rechi a mala pena lo stigma del Nome – appena sussurrato, come si stana un lupo, come si disinstalla una spada, come si abbevera d’urlo la stella. Così scrive Grosjean nella pagina introduttiva: > “Dire semplicemente che Dio è l’aldilà di noi significa confonderlo con > l’universo – o peggio ancora, con la morte, la follia, la droga, il sogno. Ma > questi domini hanno ciascuno un nome proprio. Poiché la parola Dio esiste, > essa corrisponde a un’esperienza particolare, che è forse una consonanza tra > azione, affetto, riflessione. Una volta espulso dal caos animale, l’uomo può > irradiarsi in un metodo: questa è la via del progresso spettacolare e > contradditorio di una civiltà che resta, ai miei occhi, spietata e insensata. > Oppure, può abbandonarsi alle vie di fuga della sensazione e dell’immaginare: > questo fermento è culturale tra i benestanti, religioso tra i poveri, ma Dio > non appartiene all’uno né all’altro. Se l’uomo si accontenta di essere, una > volta presa coscienza di sé, pura febbre interiore, pura postura, così > specificamente umano da diventare anormale, allora si avventura nei cammini di > Dio. Questi cammini, sono innumerevoli, a seconda delle epoche, dei climi, dei > temperamenti. I testi qui raccolti, testimoniano il passaggio su quei > sentieri”. È fuori dalla ‘norma’ del linguaggio, fuori dalle istituite strade che mettono la museruola al verbo; fuori dalla gabbia grammatica – l’arma del potere – che accade qualcosa, che scintilla il colpo d’ala dell’angelo. Dunque: la poesia come miccia a innescare il sacro, come esca che attrae il dio – o il suo doppio, l’illustre illusione. Da qui si passa: a rischio di essere creduti gli abominevoli, gli strambi – prima di tutto, da sé. Che la poesia strombi in preghiera, devii nell’erbaceo inno, a pieno petto, a pieni pugni, è perfino ovvio – risultato non si dà oltre a questo rospo respiro. A volte, un poeta incappa nell’assoluto senza volerlo: intrappolato nei suoi stessi versi. Nessuna certezza né calcolo acclimatano alla gloria chi tenta il sacro. Forse, stiamo sbagliando strada. Pazienza. Sarà pur meglio che viaggiare dove vanno tutti.  ***  Atharva-Veda Il Soffio Gloria al Soffio signore del mondo il mondo ha in lui la sua trave. Gloria al tuo ruggire alla tua stirpe di tuoni al tumulto dei fortunali alle piogge.  Gloria a te quando vieni quando vai                  quando ti issi                 quando posi. Il Soffio vive nelle creature come il padre vive nell’amore del figlio. Padrone di ciò che respira e di ciò che non respira più.  * Esuperio di Bayeux (IV secolo) All’imperatore  Signore, siamo tuoi soldati ma siamo gli schiavi di Dio. A te offriamo il servizio in armi a Lui è dedicata la nostra anima.  Il salario viene da te a Lui dobbiamo la vita. A te l’obbedienza, sempre a patto che non sia contro di Lui. Combattiamo i tuoi nemici solo se non sono innocenti. Ti siamo fedeli, sempre ma la nostra fede è in Dio. Se deludessimo Dio dovresti infamarci.  * Anonimo islandese La croce Croce vessillo di Cristo del suo supplizio tu squarci il cielo prepari all’uomo la casa della vita. Salvifica Croce pacifica inchiodate a te hai tenuto le sue braccia Il suo sangue ti ha fatto sbocciare nel Giudice. Sei la zattera degli amanti di Dio: li trasporti tra crimini  e fortunali al porto della vita.  * Anonimo latino Nel fuoco si rintana il sole, ma tu sei la luce indivisa che invade i nostri cuori con fervore. A te cantiamo all’alba imploriamo Te a sera: trasformaci negli astri che ti acclamano tra gli dèi. Inesauribile sia la gioia come sempre è stata al Padre e al Figlio e a te, Sacro Soffio.  * Jan Kochanowski (Radom, Polonia, 1530 – Lublino, 1584) Il sonno Instilli l’idea della morte, sonno, ma ci fai desiderare la vita. Dai riposo a questo corpo terreno perché l’anima possa involarsi nei cieli. Il giorno si leva dal mare.  Lo splendore della neve e del gelo fanno sparire le ombre. I fuochi degli astri celesti cantano l’inno delle sfere.  Gioie innocenti dell’anima: il corpo dovrà morire accarezzalo mentre dorme.  * Fénelon (Sainte-Mondane, Francia, 1651 – Cambrai, 1715) Questa luce semplice, infinita, immutabile, che a tutti si dona senza spezzarsi, che illumina gli spiriti come il sole rischiara i corpi. Chi non l’ha mai vista nasce cieco. Trascorre la vita in una notte oscura e muore senza nulla aver visto. Semmai, intravede barlumi oscuri, vane ombre, futili scintille, irreali spettri.  * Carl Jonas Love Almquist (Stoccolma, 1793 – Brema, 1866) Rosa Il nostro cuore è un pallido fiore.  L’ha piantato Dio e lo chiama rosa.  Le sue spine graffiano il cuore – e il cuore chiede: perché? Dio risponde:  il tuo sangue macchierà il fiore e tu sarai un po’ come me.  * Henri de Régnier (Honfleur, Francia, 1864 – Parigi, 1936) Il silenzio Forse il silenzio è una voce mutilata come quella del dio che tace nella statua e non serba più nulla di vivo se non l’ombra, al sole, che lo accerchia. Forse il silenzio è una voce che tutto sa come quella del dio che tace, eretto  nel marmo: il suo gesto è eterno  e l’ombra sussurra ai passanti sulla strada. Loro osservano, dal basso, i silenziosi ordini di un dio pietrificato.  * Endre Ady (Căuaș, Romania, 1877 – Budapest, 1919) Non ha più ombre la mia anima: la luce di Dio le ha messe in fuga. Il suo volto è velato ma i suoi occhi bruciano e invadono il cuore.  Se vinco è perché lui mi precede e combatte per me. Mi scorta, e quando dice: Dove sei? il mio cuore scoppia. Eccolo, è dentro di me lo tengo tra le braccia siamo legati nella morte.  * Jules Supervielle (Montevideo, 1884 – Parigi, 1960) Pettegolezzi Appena sopra le nostre teste, gli dèi che ci dominano chiacchierano allungando il collo. Li sentiamo: pronunciano i nostri nomi come se fossimo già morti senza rispetto per tutta questa natura che si dispiega nell’enorme silenzio di cui siamo parte.  Ci giudicano, ci soppesano ignorano i dettagli urlano a tutti i nostri segreti poi, eccoli, più rigidi di una statua immobili e freddi come ponti di ferro sotto cui passiamo così nudi e inermi così disillusi, ma fieri perché dietro di noi rispendono ancora le montagne davanti a noi è ancora bello il mare.  * Abu Shadi (Il Cairo, 1892 – Washington D.C., 1955)  Foresta, autunno Perdi le foglie per istruirmi sulla vita che scorre? Vuoi forse addestrarmi in merito alla vanità del sogno? Il tuo pallore mi mortifica, sanguini come se la stagione fosse da eseguire così, senza pietà.  Gli uccelli piangono la tua morte: li hai protetti dai venti del nord.  Hai reso un deserto i sentieri del sole che si erano adornati di smeraldi per compiacerti.  * Jean Follain  (Canisy, Francia, 1903 – Parigi, 1971) Ladrone  Battono nel prato i cuori delle mucche: un uomo avanza perché vuole il loro latte – non ama, non odia e cammina sulla rugiada.  Il tempo si ferma solo per lui il sole è sulla vetta del cielo e quell’uomo può dormire può ripudiare l’infanzia, la vecchiaia, l’umanità. Se passi da lì non ha senso urlare: Aspetta.  * Rutger Kopland (Goor, Paesi Bassi, 1934 – Glimmen, 2012) D D, ho descritto il tuo viso in una poesia come una grande assenza, l’ho paragonato a una superficie d’acqua dove ho visto, un giorno, il muso di un cavallo: quando ho alzato gli occhi la riva era deserta. L’ho paragonato al vento: udii il respiro di un cane morto – in questa casa era così ingombrante il silenzio. L’ho paragonato a molto di più, D, a molte cose, più di quelle che ora ricordi, perché ora non trovo più quella poesia.  Non c’erano soltanto acqua o vento perché tu mi vedi quando non ti vedo  respiri e non ti sento, leggi ciò che non scrivo.  *In copertina: Pietà lignea di anonimo lombardo, XVI secolo L'articolo “Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean proviene da Pangea.
October 4, 2025 / Pangea
“Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra Heidegger e Celan
È stato Roger Munier, munifico in amicizia, a far incontrare Martin Heidegger e René Char. Era il 1955, Jean Beaufret aveva invitato Heidegger a un convegno, Qu’est-ce que la philosophie?, a Cerisy-la-Salle; Jacques Lacan avrebbe ospitato il filosofo tedesco a casa sua. Ne sortì, tra estremi, un legame possente. Undici anni dopo, Char invita Heidegger a Le Thor, in Provenza, a parlare di Eraclito.  Nato a Nancy il 21 dicembre del 1923, Roger Munier aveva incontrato Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta Nera, nel 1949: aveva ventisei anni, cominciò a tradurre la Lettera sull’“umanismo”, uscita, infine, nel ’53 sui “Cahiers du Sud”. Si era avventurato in Germania per sfidare, viso-nel-viso, quell’uomo che gli aveva in certa misura cambiato la vita. Heidegger, come sempre, maculato di sorrisi e di allusioni, fu cordiale, generoso, di quarzo.  Che figura straordinaria quella di Roger Munier: ha tenuto insieme mondi, spiriti, con l’arguzia di una merlettaia del pensiero; sì, proprio come una devota figura di Vermeer, sempre a distanza dal centro verminaio del quadro – per eccesso di sapienza –, sempre così azzurra.  Scoprì Heidegger mentre studiava teologia tra i Gesuiti: per un po’, Munier fu folgorato dall’ordine, stigmatizzato da una specie di conversione. Mollo tutto nel ’53, impegnandosi, da allora, nei ranghi dell’Otua (Office technique pour l’utilisation de l’acier), organizzazione legata all’industria siderurgica, per cui ricoprirà alti incarichi. In Francia, si legò a Paul Celan; riceveva biglietti affettuosi da Emil Cioran. In Giappone, si innamorò della poesia orientale: ne amava l’asciuttezza, la tirannia dello sguardo, quelle immagini al contempo brusche come un colpo d’ascia, tenere come un fiore. La passione fermentò in un libro, Haiku, pubblicato da Fayard nella collana di documents spirituels “L’espace intérieur”, diretta proprio da Munier; tra i titoli in catalogo spiccano un saggio di Thomas Merton sul Taoismo, la Guida spirituale di Miguel de Molinos, il padre del “quietismo”, la biografia di Milarepa tradotta da Jacques Bacot (attualmente in catalogo Adelphi) e un libro di Julius Evola sullo yoga tantrico. A corredo del libro, eletto alla bellezza, un sublime saggio di Yves Bonnefoy, Du haiku.  Negli anni, Munier, figura tanto centrale da restare elusiva ai più, eletta da un istinto allo straniamento, si trincerò dietro un fortino di autori-totem: a lui dobbiamo la traduzione in francese di Angelo Silesio e di Antonio Porchia, di Roberto Juarroz e dei libri più importanti di Octavio Paz. Per i “Cahier de l’Herne” voltò nel proprio idioma Che cos’è metafisica?, il celebre lavoro di Heidegger; per le edizioni Fata Morgana ha tradotto e commentato l’ottava delle Elegie duinesi di Rilke: lo affascinava il punto di “completa lacerazione” della poesia, quello in cui “la visione si apre, finalmente, senza schemi né limiti, e lo sguardo, liberato, si effonde nella profondità dell’animale”.  Nel 1973 Gallimard aveva pubblicato L’Instant, indocile esordio poetico di Munier. Si legge, in quel procedere per frizioni e slogature grammaticali – che sorbite in calce all’articolo –, lo sgocciolio di Celan; soprattutto: i vagabondaggi nel linguaggio di Eraclito. Con “l’Oscuro” di Efeso Munier si confronta per anni: nel 1991 Fata Morgana pubblica un’edizione dei Fragments che, a dire di chi sa, resiste per aurea nitidezza. Anche qui: Munier è affascinato dal crollo del linguaggio, dalla sua imbestiata beatitudine, da una solitudine solare – scrive di una “parola-cosmo, il primo e ultimo dire di tutte le cose”. Come a dire aiuto – come a dire amore.  Autore di un’opera erratica, dal 1995 comincia a raccogliere i diari con il titolo simbolico Opus incertum(qualcosa esce per Gallimard, poi è gara tra diversi editori, per una mole di oltre tremila pagine; l’ultimo tomo, La Voix de l’érable, Opus incertum VII, Mars 1995 – Septembre 1997, è uscito quest’anno per le edizioni Arfuyen). Si tratta, scrive Munier, di “pensieri quotidiani che s’incastrano l’uno nell’altro con un certo disordine, non senza un movimento segreto che li governi… è un percorso da nottambuli”. Disordine, segreto, notte. Già: omaggiare il linguaggio nella sua disparità; romperne il carapace, essere capaci nel fuoco.  In questa tratta nell’aldilà della parola, è quasi naturale che Munier abbia ingaggiato una lotta senza quartiere con Rimbaud, con quel dire senza diaria, senza ricompensa. Nel 1976, per “Archives des Lettres modernes”, cura una inchiesta, aujourd’hui, Rimbaud…, che mette in fila pensatori, scrittori, poeti. Tra i tanti, partecipano Le Clézio e Bonnefoy, Derrida e René Char, che rinviene con un’illuminazione: > “Bisogna vivere Rimbaud, l’inverno, attraverso un ramo verde la cui linfa > ribolle e schiuma nel camino, nell’indifferenza di un fuoco di ceppi morti che > si inchinano”.  Naturalmente, all’alto consesso partecipò, avvolto in titanica stola, anche Heidegger; come sempre, portò il discorso in un altrove terribile: “Intendiamo con sufficiente chiarezza, nel dire che dice la poesia di Arthur Rimbaud, ciò che tace? Vediamo, già, l’orizzonte a cui è giunto?”.  Nessun punto di sutura tra noi e il linguaggio – dacché la parola esiste per scatenarci. Dunque: si dice per recidere (non per recitare, non per decidere).  Muore, infine, Roger Munier, nell’agosto del 2010, riposa a Xertigny, nei Vosgi, la terra degli avi; un bel sito è consacrato alla sua memoria. *** I privi di tutto Chi nomini – cosa?  Nulla ha nome il nome nomino. Il mare non conosce la tua musica – tu  ignori la sua È l’albero che freme al vento o il vento  che freme nell’albero? Chi si muove: albero o vento? Un corvo nero, aguzzo nel giorno opale artiglia l’opale.  Il brusio del torrente se nessuno lo intende è niente. Non esiste brusio non è che nulla. Ma urla.  Il canto  del Nulla. Predilige l’alba che nel suo imbelle chiarore tiene sotto chiave la notte.  Qualcosa viene il solo che viene e non viene porzione del nostro oblio.  Il tempo avviene infaticabile continuo come il divenire di ciò che viene.  Tutto è chiuso e si conferma nel centro della sua notte. Tutto ciò che si spalanca è ferita.  Il giorno non sfugge alla notte né la notte al giorno: ciò che esiste esiste perché sia annientato.  Il nulla non è il terribile: terribile è la lotta nel giorno della sua apparizione questa agonia che viene.  Cercò una parola l’ultima parola. Quella che metterà fine a quel dire  inutile e infinito. Soltanto una parola ha tale potere.  Niente  non c’è da dire su ciò che ci fa parlare.   Dicembre 1974 * Da La traccia Destituire. Strappare.  Nulla se non l’aleatorio eppure non è caos. Quando perdi il filo e insinuarsi non è più possibile quando l’ostacolo è massiccio compatto, continuo allora tocchi il continuo l’esattezza del continuo continuamente. Niente che possa vedere niente – è indubbio. Niente  è lì se non lo vedo.  Fissa… cosa? L’istante? No.  La figura. Quella che appare e sparisce nel volgere dell’istante.  Che rinvenga che ritorni dissotterrato il puro momento che tutto miracolosamente disfa – essendo sé (nello splendore) e dunque indistinto, fuso nell’unità perenne…  Il cielo si copre.  Remissione, rapimento.  Nel grigio del mare: il caglio del tempo.  Se viene, se è è nel deviare. È come decentrato e devi sporgerti per raggiungerlo. Nell’inatteso – di lato.  No, il sole in effetti non si leva né cala.  Nel ritrarsi della traccia appare, al di là di ogni designare. Insignificante apparenza: non è che se stesso. Perde perfino il nome.  L’uccello riceve la pioggia nel becco, nel cranio tesi verso ciò che precipita.  È pioggia? No: specie di crollo, l’impalpabile si effonde e affonda un venire, un avvento silente, dall’alto.  La pioggia, la pioggia… Come la fine di una distanza.  La gioia risaputa non è più gioia gioia non è – nulla  può essere identificato –  poi: identità comincia.  La pioggia cessa all’improvviso qualcuno la trattiene è riottosa, reticente. Poi: comincia a martellare ricomincia, incerta… Il tempo – cos’è il tempo? Tutto è lo stesso ed è  immobile, ma mai  un precedente.  Nuvole: grigia lega, lenta lana che nega, assolve la sera, svanisce.  ** Da Haiku Ah… poter essere                   un bambino il primo giorno dell’anno (Issa) * Mi sono voltato ma l’uomo si era già perso nella nebbia (Shiki) * Sovrasta il mare un sole ingabbiato tra rovi di nebbia (Buson) * Pioggia di primavera –                    e ogni cosa torna a splendere (Chiyo-ni) * Nel più lungo giorno                   muschio negli occhi                                     che fissano il mare (Taigi) * Ignaro del lignaggio del luogo                   un uomo taglia l’erba (Shiki) * Anche sulla legna ammassata per il fuoco nascono germogli (Bonché) * Prima che l’ipomea fiorisca, consumiamo il pasto: siamo umani (Basho) * Ho colto la peonia: stasera mi coglie una profonda nostalgia (Hokushi) L'articolo “Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra Heidegger e Celan proviene da Pangea.
September 8, 2025 / Pangea
“Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di Mireille Havet
Nel 1917, per le edizioni di Georges Crès, pubblicò un libro delizioso, La Maison dans l’œil du chat. I disegni, vigorosamente liberty – che un po’ ricordano, frenati per gioia ingenua, Aubrey Beardsley, l’inquieto illustratore di Wilde –, scortavano uno strampalato libro ‘per bambini’, che alternava brani in prosa a brevi testi poetici. Crès era l’editore di Victor Segalen e di Marcel Schwob, aveva stampato Noa Noa di Paul Gauguin: il fiabesco e l’esotico, cioè, dalle tinte perturbanti.  L’autrice, Mireille Havet, era giovanissima: nata nell’ottobre del 1898 a Médan, aveva scritto quei testi, in origine, a quindici anni, pubblicandoli su “Les Soirées de Paris”, la rivista su cui pubblicavano, tra gli altri, Blaise Cendrars e Giovanni Papini, Alberto Savinio e Max Jacob. Il padre, nevrastenico, si era suicidato proprio quell’anno, era il 1913, nel ricovero psichiatrico dove l’avevano rinchiuso; lei dirà di aver vissuto l’infanzia nell’agone di una libertà “terribile”. Negli “avvertimenti”, Mireille – un nome che sa di miracolo e di sole – scrive di aver “lasciato alcune pagine bianche per il lettore: sono tue. Scrivi la tua storia (una storia che potrebbe essere più bella di quelle che ho scritto io), fai il tuo disegno”. Il libro – di cui abbiamo tradotto alcuni brani, in calce – ha la violenta innocenza dell’infanzia: sguardi che recano more e coltelli.  L’introduzione l’aveva scritta Colette, la superstar della letteratura francese, l’autrice del ciclo di “Claudine”. In realtà, l’introduzione di Colette è una lettera a Bel-Gazou, Colette de Jouvenel, la figlia, nata nell’estate del 1913: > “Bel-Gazou, bimba mia, nata esattamente dodici mesi prima della guerra, ancora > non sai leggere. Serberò per te questo libro, il primo che leggerai. È stato > scritto da una bambina, non vi troverai le frivolezze degli adulti. Gli > adulti, mia Bel-Gazou, aspettano sempre che sia troppo tardi per scrivere un > libro per bambini. Quando lo fanno, hanno dimenticato che l’infanzia è una > cosa seria, spesso disprezzano la farsa e non capiscono i racconti > stravaganti… Colei che conversa, con fare infantile, con il Gatto e con la > Rana, non esita a cantare le Stelle, a seguire le orme della Notte, del Fumo, > del Raggio; si protende con familiarità verso l’Eterno… Amerai questo libro, > Bel-Gazou, lo amerai così tanto che sarà il tuo primo segreto, il primo libro > che troverò nascosto sotto il tuo cuscino”.   Cresciuta in un ambiente supremamente autarchico – cioè, in piene ristrettezze – Mireille divenne il souvenir e il passepartout dei grandi scrittori del tempo. Colette la adorava, Guillaume Apollinaire, il suo mentore, la vezzeggiava, chiamandola “le petite poyétesse”; Jean Cocteau tentò di rubarle l’ispirazione, fece di lei la sua musa-musetto. Il suo primo romanzo, Carnaval, pubblicato nel 1922 da Arthème Fayard, ne consacrò il talento: fu applaudito da André Gide e da René Crevel, gareggiò per il Goncourt. Il resto era il sapido frutto della sua audacia: bella, disinvolta, lasciva, Mireille vestiva da uomo, professava con ribalderia la propria omosessualità, dicono fosse insaziabile, un cannibale con il viso da bambola. Nell’anno in cui esce Carnaval,scrive sul diario una frase che ne identifica l’indole: > “Procedere, rompere, non ammettere altro, distruggere e respingere tutto ciò > che, pur da molto lontano, minaccia la mia indipendenza anche soltanto per un > secondo: questa sia la mia legge. Non una politica di conciliazione ma di > rivolta. Non mangerò il tuo pane. Sarò sconvolgente fino alla fine”.  Dal 1919 fu letteralmente schiava dell’oppio e della cocaina. La bambina terrible che scriveva con leggiadra sapienza mutò in vampiro: si dava a chiunque, di notte, nelle catacombe parigine, per pochi denari, a corroborare le proprie manie. Tubercolotica, tossica, divorò tutti e fu da tutti rigettata, fin dalla fine degli anni Venti – morì in un sanatorio, nel marzo del 1932, a trentatré anni. Prima di morire, aveva consegnato i suoi scritti a Ludmila Savitzky, attrice, poetessa, traduttrice (tra l’altro, di Joyce, Virginia Woolf e Frederic Prokosch). Nel 1995, Dominique Tiry, nipote di Ludmila, scovò nella soffitta di famiglia i diari di Mireille. Fu un evento sconvolgente: nei Journal, tenuti tra il 1913 e il 1929, Mireille Havet descrive, con micidiale minuzia, la sua “vita da dannata”. Il ‘genere’ canonico della letteratura francese – il diario, genio dell’egotismo supremo, viziato gioco di maschere – viene sviscerato fino al suo contrario: l’ego non è che bocca che trabocca, denti che mordono, lingua che lecca. “Il mondo intero ti tira per il ventre”, scrive Mireille. I Journal di Mireille sono stati stampati, in cinque tomi, tra il 2003 e il 2010 dalle Éditions Claire Paulhan; in Italia esiste una porzione del Diario (1918-1919) divulgata da Editoria & Spettacolo nel 2015. Il fondo dei suoi scritti, invece, è custodito, insieme al fondo Jean Cocteu, presso l’Université Paul Valery di Montpellier.  A tratti, la ferocia di Mireille Havet, così come traspare dai diari, ricorda quella di Alejandra Pizarnik. Mireille usa la scrittura per scotennarsi, per annientarsi – dunque: per esistere. Dicendo il proprio abominio, lo abbellisce e lo abolisce; scrivendo l’abisso, lo abita, lo domina.  Fu l’androgino di quei folli anni – figura che penetra e comprime tutti gli opposti, sapienza nell’abiezione e nell’elezione. Tentò di restare un’eterna bambina, l’effimero ‘maschiaccio’, l’imperdonabile a cui tutto è perdonato. Finì per esplodere – gli altri, intanto, osservavano, distratti, a tratti.  ** Da La Maison dans l’œil du chat Quello che pensano “Mi piacciono gli abeti neri, dice Jacques, dove si nascondono le volpi”. “Preferisco le radure, dice Luce, dove sbocciano i papaveri”. Il grande fuoco crepita e offre agli occhi il mistero del bosco che si sgretola, rivelando nella cenere città e luoghi che non potranno mai possedere.  * Marmellata di mele È duro coltivare le mele, ma hanno un buon profumo, un profumo che evoca il mistero delle dispense chiuse, dove sono stipate, dormienti, le marmellate di qualche anno fa, insieme alle tovaglie degli sposi. Forza, coraggio! Abbiamo superato i tre alberi, manca soltanto il sentiero del paese. Ma il sole picchia e abbiamo le braccia nude. Non importa. Avremo una mela da assaggiare, una mela tutta per noi, da mangiare al lavatoio: i pioppi muovono lentamente le loro cime, a sera.  * La pecora La pecora si chiama Robin. Lo so, ne avevo un’altra che si chiamava Robin; poi Blanchot, ma Robin è sempre stata la più carina. Ci allontaniamo, fianco a fianco, come due fratellini nel gorgo della vita. Una pecora pascola, l’Altra sogna. Entrambe, ci voltiamo verso i prati in fiore. Poi, quando arriviamo presso un albero frondoso, mi fermo all’ombra e stringo la mia pecora al cuore.  La lana è morbida. La pecora profuma di timo selvatico. Nelle grandi orecchie piene di lana, le sussurro la storia di un principe che aveva tre castelli stregati. La pecora ascolta in silenzio, con la solita aria triste e rassegnata… Poi, seguendo il fiume, torniamo a casa, come due fratellini nel gorgo della vita.  * Il mare Alla fine del sentiero, la chiesa: la croce si alza come una mano verso l’azzurro cielo.  Il sentiero si snoda per il dolce pendio della collina che domina sulla Casa del Buon Dio.  Il tempo è bello su tutta la terra perché in uno spiraglio del paesaggio c’è l’immenso mare…  uno zaffiro gigante.  Le barche danzano sul mare. Pescherecci, barche a vela partite all’alba, che la marea di mezzogiorno fa rincasare: le vele lacere formano rombi d’ombra contro il cielo.  L’universo intero è qui placido, esatto. Dal mare alla chiesa, solo la luce e un sentiero che sale come una preghiera per configgersi nel Chiaro.   * Nel prato Tutta la dolcezza del mondo si annida nell’erba alta: non c’è altro che Pace nei labirinti del prato e il sole sboccia come il fiore dei re.  Insegui serenamente il tuo sogno pieno del felice fascino che dispensa il bel tempo. Le mucche ritmiche muovono le code come  orologi magnifici e potenti: ti insegnano la fermezza del tempo ideale dove cola l’infanzia pura come un cristallo.  * Sss… Claude si è addormentato, a voi divinare, prima di chiudere il libro, qual è il meraviglioso sogno che vaga sotto le sue palpebre.  Quanto a me, non posso dirvi nulla: Claude dorme… Sss! Camminate piano e non svegliatelo, sapete meglio di me che le anime dei bambini misteriosamente tornano in cielo. Claude si è addormentato mentre giocava…  ** Dal Journal Il mio vizio non è l’amore né la ricerca del più infimo piacere fisico, perché in fondo faccio l’amore per guadagnarmi da vivere e ottenere dalle mie amanti il reddito necessario ai miei veri appetiti, per sfamare il mio ego, e comprarmi, soprattutto, sostanze tossiche, morfina più che altro, nella cui presunta ebbrezza incenerisco la mia anima calcolatrice e il mio corpo, innamorato di quell’oblio artificiale che mi permette di dimenticare le sconvenienze della mia carriera illecita.  […] I miei libri? Le poesie? Costruzioni di un tossico con il cervello surriscaldato dagli stupefacenti e l’idea fissa di camuffare la propria vera identità con l’aura del poeta prodigio, ignaro, per eccesso di purezza e incuria d’intelletto, delle realtà materiali della vita.  […] Infine, non sono che un operaio della distruzione e dello scandalo, della putrefazione contagiosa, del disordine nelle famiglie, sono un subdolo istigatore, avveleno le donne che mi si avvicinano, che cadono nelle mie trappole.  L’unica giusta punizione è abbandonarmi per sempre, lasciarmi nel mio inevitabile deserto, nella miseria.  Che mi arrangi. Siete avvertiti: chiudete le porte e i cuori alla mia doppiezza, alla mia prevaricazione. Nessuno mi deve niente, nessuno mi perdoni – questo mi basta.  Ho ventotto anni.  19 e 20 gennaio 1927 * Progressivamente, lo ripeto, come un rullo compressore che avanza, inesorabile, senza incontrare ostacoli, compiendo il suo lavoro ora dopo ora, la morfina ha distrutto tutto, minato tutto, annientato tutto, e io da tutti sono alienata, dagli amici, dai soldi, dalle case, dalla fiducia negli altri, dalla salute, dagli anni, dal mio talento, dal mio coraggio, dalla mia naturalezza, dall’amore e dall’amicizia, dalla poesia che si ritrae da me come il mare da un ingrato scoglio, che d’ora in poi, frantumato, lurido, sorgerà nudo, senza più onde, senza uccelli, senza semi, senza terra, soprattutto, dove i semi portati dagli uccelli possono germogliare, senza più nulla nell’infinito dell’eternità se non il cielo e il mare, entrambi egualmente lontani, sempre più lontani, lontanissimi. Tutto ho perduto, la vita, l’istinto a vivere, la ripugnanza per il male, il desiderio di guarire. La morfina, quella spina invisibile, è diventata il mio pugnale, l’alabarda che si è impossessata del mio corpo e mi ha trafitto il cuore, mi ha ucciso, inchiodandomi alla bassezza, alla terra fangosa dove sarò sepolta… era ora! La morfina e sua sorella, la cocaina, e l’eroina, la più grande, sette volte più pericolosa e tossica di un veleno, hanno gradualmente sostituito tutto: ora rimango io, sola.  Come puoi aspettarti che non avendo più nulla non abbia venduto l’anima al diavolo e stretto un patto con lui? È per comprare la droga che prendo in prestito, do tutto, imploro a chiunque. Venderò tutto per questa spesa che mi distrugge, unica e dominante.  Giovedì 24 maggio 1928 * Trent’anni! L’età in cui ho perso tutto ciò che avevo a venti. Mi ci sono voluti dieci anni per liberarmi dei miei privilegi e della mia eredità, dieci anni per distruggermi, impoverirmi, annientarmi in ogni modo – si potrebbe dire, per sempre. 29 giugno 1929 L'articolo “Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di Mireille Havet proviene da Pangea.
August 26, 2025 / Pangea
“Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro”
È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico, Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi anni. Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati, splendenti intelligenza…”. In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”. Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).  Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18 novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni. Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da mistico:  > “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non > attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in > quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non > un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con > gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che > ognuno è.”  Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto nella Prigioniera: > “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso > nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”  Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust. I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla “comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito. Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a Swann: > “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di > segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva > soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così > forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé, > ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli > aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito > a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.” Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili per non correre il rischio di vederlo svanire. Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte dell’Io ed esprime l’indicibile. Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di parole che è la Recherche. Marilena Garis L'articolo “Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro” proviene da Pangea.
August 25, 2025 / Pangea
Oltre l’oltre. Béatrice Douvre, vita & opera di “un elfo doloroso”
“Lei non era di qui” [1], quasi sveniva trasognato Cioran a proposito di Susana Soca – lo stesso si potrebbe dire di miriadi d’altre “incandescenti” che divamparono lungo la notte sacra prima di spegnersi, in intimo accordo col decreto del buio. Vedove dell’ultimo cielo, votate alle nozze postume coll’Assoluto defunto alla vita e talvolta ritrovato nella segreta ipnagogia funebre della poesia, spose dai corpi di bruma che, crivellate da stelle, indugiavano innamorate e nostalgiche sulla Soglia in attesa del bacio dello Sposo, dell’Altro, della morte.  E certamente a questo peculiare ordine di vestali abusate dal nulla, di «paralitiche della luna» come diceva Lorca, apparteneva anche Béatrice Douvre, questa poetessa francese obliata come teneramente si dimentica il nome d’un fiore. Infatti, come i fiori estinti, di lei s’hanno poche ed errabonde informazioni. Nata a Neuilly-Sur-Seine nel 1967 e morta di brutale sfinimento ventisette anni più tardi a Mans nel treno in cui entrò e donde non uscì che defunta: la ritrovarono assisa, nella compostezza trasparente della sua postura di serafico silenzio, lo sguardo lontano, infinitamente lontano, oltre la finestra, oltre l’oltre… Quello sfinimento fu il triste obolo offerto da anni di anoressia, di cui soffre dall’età di tredici anni. L’ardore della fame, nelle sue policefale diramazioni, è infatti il sole nero che strapiomba la sua opera. La desianza dell’Invisibile, d’un’ostia intagliata nella carne stessa del cielo e che sazi infine l’anima. Definisce molto chiaramente queste tensioni nella sua tesi di laurea: Anorexie et orexie dans l’œuvre d’Arthur Rimbaud e che potrebbe essere riassunto coi versi di Rilke, nella settima Elegia: “Come un braccio proteso, è il grido mio./ E la sua mano che si scaglia in alto/ schiusa a ghermire, ti rimane innanzi/ aperta, dentro gl’infiniti spazii/ difesa e ammonimento, o Inafferrabile!”[3]. Necessità dell’Altro, e impossibilità fatale di raggiungerlo – e solo da tale irredimibile colpa sorge e si apre l’infimo e atroce spazio in cui tremando precariamente abitare, nello sisma che investe le ossa liriche, e, di bruciore in bruciore. Mi piace pensare che le sia accaduto di leggere Caterina da Siena, quest’altra anoressica teofaga, questa sitibonda d’edenico sangue. Douvre scrive nell’eccesso, nel venir meno della parola, nella casa chiusa al quadrivio del paradiso dove passano a turno a violentarla gli angeli. È una mal nata, una Maddalena psicopompa, una “prostituta piena d’amore”, come dice lei stessa. Vietato ogni ricevere, la poetessa poteva solo offrirsi, dilapidarsi, crepare dozzinalmente, a pieno regime, irrigare del proprio sangue i solchi che percorrono ogni poesia onde fecondarle, chiamare a raccolta tutti gli uccelli dell’oltretomba a becchettarle i seni che si sfogliano in briciole… Dare pieno rogo di sé, consacrare con alla notte il suo pube in fiamme, attendendo tutta affebbrata che la morte la insemini. In Francia, i pochi che sanno che esistette la ricordano come la “viandante del pericolo”. Philippe Jaccottet nella prefazione alla sua raccolta di poesie pubblicate postume ne fa un ritratto commovente:  > “Mi ricordo di Béatrice Douvre, era, lo si indovinava, una sorta di elfo > diafano, un essere vibratile, troppo frale per questo mondo dove gli elfi non > posso mettere radice, ma soltanto fluttuare a metà via tra terra e cielo. > Fluttuare in siffatto modo è talvolta la loro felicità, ma certamente anche la > loro dannazione. Béatrice Douvre era un elfo doloroso, del quale non si poteva > che intuire con timore il destino”. [4] De Saint-Cyr ** Offriamo di seguito per la prima volta una traduzione in italiano di qualche spina della fiamma del fuoco del suo diario, “Journal de Belfort” [5]; Belfort, 12 febbraio 1994 Città aperta, cammino per le tue vie, rosseggiante, le mani piene di ghiaia, il ventre eccitato dalle tue fosse, il volto coperto di rossori cristiani. Follia dei corpi aggrovigliati delle città, sessi esibiti a Stalingrado, prostituzione piena d’amore, puttane agonizzanti di verginità, sono il vostro cammino di grazia. Ruscelli di sangue labirintici, patisco le mie vene malate, gonfiando i miei seni gemelli, esibendo la mia solitudine. Michel mi mormora all’orecchio il suo sesso diciassettenne, per un po’ di tempo gli tenni la mano, gli occhi negli occhi dell’infanzia. Sulle strade d’ieri – immortali parole, del sudore in volto, il ventre cinto di birre; notte verde, abitata, lenzuola che sanguinano dormendo, ho male di amare, voglio morire, selvaggiamente sperma sulla lingua. Polvere vinosa, ho l’alito dei poveri, la trasparenza degli amanti, la dolcezza delle madonne. […] * Parigi, 15 febbraio 1994 Alba indomita, febbrose lenzuola, ho il risveglio dei sogni insolenti, potenti e fredde le mani, la pietra è in sudore, voglio il freddo sudario della mia fecondità, il sale sulla lingua venenosa, e sul dolce nido del mio ventre la sua mano… Voglio allargata la ferita, ruscellanti le alghe poi luccicanti, la roccia scoscesa come le parole. Vago pei lastricati grassi, nel fango rosso e nero, armonie dorate nimbavano i viali, una mano nativa nella mia, ma la mano di nessuno. […] Non sono la sua amante e quasi non più sua sorella. Rimango altra e irreale, ho in me la dolcezza delle lontananze, mi abbandono alla collina, sono il riflesso d’un cielo stretto. Spettrale il tempo mi perseguita, la morte mi eccita, mi visita talvolta, io sono il suo oste stellato e perdura la notte tra lei e me, forse il passaggio. I sessi nemici si sotterrano nel vento, mi carezza ma io sono l’intervallo vicino al focolare freddo del molto basso. Peccato di carne nascosta e redento nella pietra stessa, madidore dei sentimenti troppo scialbi. Io voglio il sale e il linguaggio, avida la bocca e scavata come i ciottoli del mare. Popolato d’uccelli è il silenzio, ma io, angelo malato, imploro il suo corpo come una terra, un sacramento, la tomba bianca (sarò Raffaello senz’ali), per lui, per me, per la prossimità di vivere. La mia malattia mi feconda il ventre neutro. * Parigi, 14 febbraio 1994 […] Confusa beltà dei ruscelli, oscura percorro le vostre sponde malate, ho la follia degli impazienti, delle prigioni narrative. Piccoli seni gonfi d’acqua, curvi sotto il vento, come Eva nel balzo. Il piede scalzo, animale, il serpente nel frutteto, come grappoli i frutti, penduli, ho l’ala di un angelo aguzzo sopra il membro stretto. Spiegacciamento delle sere alla Madeleine, Parigi barocca, illuminata. Attenderò, ai piedi delle cattedrali, e coagulata nella nostalgia dei seni sprigionati, il veleno di una passione traforare, come una daga, la mia pelle imberbe e intoccabile. […] * Parigi, 18 febbraio 1994 Rimango rigida e nuda nella notte torrentizia, il fango scoppia sulle disgrazie altrui. Una pazza piange per la città e poi tace come una nave. Intorno al mio girovita indolente una collana si sottomette, nelle mie mani, una rondine costruisce quasi una primavera. Sono sola a morire nell’immondo, odio il mio ritiro sacro, il mio corpo casto dal secolo scorso, le notti verdi lasciate a far collare il miele. Io sono la fiaccola e l’olio, l’innominato abitacolo presso sorgenti fertili. Vivi l’epoca nata, privilegia il giorno. Si sollevano le foglie e vorticano gli astri. Sono l’estate dei palmi nelle braccia dei riflessi. Oh ramo inaccessibile, il troppo corto vento, ho affrettato la benedizione degli astri nulli. Polvere dei templi, grandi divinità assise e meditanti, voi vi cibate dell’obolo dei fedeli sognando all’alito offeso dei fanciulli. Ricurve Madonne, cosce colmi, e dischiuse dal pudore, io benedico i vostri seni biondi per accrescere il vento. **** [1] “Esercizi di ammirazione”, E. Cioran, Adelphi, 1988. [2] “Juego y teoría del duende”, F.G. Lorca, Alionza, 1984. [3] “Elegie Duinesi”, Settima Elegia, R.M. Rilke, Sansoni, 1941. [4] “Œuvres poétiques, peintures et dessins”, B. Douvre, Éditions Voix d’Encre, 2015. [5] “Journal de Belfort”, B. Douvre, Éditions de la coopérative, 2019. L'articolo Oltre l’oltre. Béatrice Douvre, vita & opera di “un elfo doloroso” proviene da Pangea.
August 21, 2025 / Pangea
Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny
Per comprenderne l’indole, dobbiamo partire dalla fine. Alfred De Vigny – che una celebre fotografia di Nadar mostra a braccia incrociate, il viso corrucciato, la giacca ad ampie falde: un pipistrello, insomma – morì nel settembre del 1863. Soffriva, da tempo, di un cancro allo stomaco; passò gli ultimi anni a curare la moglie, Lydia Jane Bunbury, di origine inglese, bellissimo, dicono, ricchissima, sprofondata in una nera demenza. L’amore della sua vita – ovviamente: tormentato, inquieto, destinato a niente – fu però l’attrice Marie Dorval, tra le più grandi dell’epoca, pervicace nella posa e nel capriccio. Da anni alieno ai circoli letterari, per il disgusto verso le mode imperanti, per una disciplina all’arte della sprezzatura, nel buon ritiro di Maine-Giraud, un maniero in Charente, Alfred De Vigny, il poeta idolatrato da Marcel Proust – da ragazzo lo considerava, insieme a Baudelaire, “il più grande poeta del XIX secolo: anche nelle sue poesie meno note, mantiene una calma, quell’ineffabile bellezza che ci sfuggono” – morì solo. La biografia redatta dall’Académie française è spietata per rigore: “Indifferente al pubblico, fu il vuoto intorno alla sua bara, accompagnata soltanto da qualche romantico della prima ora”.  Fu eletto al seggio 32 – attualmente occupato da Pascal Ory, vi sedette, tra gli altri, Alain Robbe-Grillet – nel maggio del 1845, dopo essere stato rifiutato per sette volte. Gli “accademici” non amavano le sregolatezze dei Romantici; Vigny rifiutò di presentarsi al cospetto di Luigi Filippo I di Francia. Quando tentò di far eleggere tra i ranghi dell’Accademia Balzac, gli andò male.  Rampollo di una genia di militari, Alfred de Vigny passò la giovinezza in armi. Pensava di fare carriera, di mettere alla prova la sua ideale audacia; languì nella palude di guarnigioni mal assemblate. I fasti napoleonici – esemplificati nello schietto romanzo di Conrad, I duellanti – erano un ricordo. Ottenne i gradi, si licenziò capitano; in un ritratto, ragazzo, con la divisa della “Maison du roi”, ha lo sguardo languido, la bellezza scapigliata, ininterrotta.  Alfred de Vigny (1797-1864) fotografato da Nadar Dicono fosse incapace di “capire la realtà” – il che, per un poeta, non è poi grave –, crebbe nel mito di Lord Byron, fece parte del circolo di Victor Hugo. Tradusse – con spigliata grazia, in versi – Shakespeare, i suoi Poèmes antiques et modernes (usciti, in edizione definitiva, nel 1829 e aggiornata nel 1841) gli diedero autorevolezza lirica. I critici dicono che i “poèmes philosophiques” raccolti come Les Destinées nel 1864, la sua opera definitiva, annunciano le innovazioni di Stéphane Mallarmé (dei Poemi antichi e moderni e de I destini esiste una traduzione di Lanfranco Binni, edita da Garzanti nel 1991). Il capolavoro di Alfred de Vigny resta comunque Chatterton: andata in scena al Théâtre français il 12 febbraio del 1835 (con l’amata Marie Dorval nei panni di protagonista femminile), la pièce riscosse un successo assoluto; fu applaudita, tra gli altri, da George Sand e da Sainte-Beuve. Da quel testo, Leoncavallo trasse un’opera lirica assai meno fortunata, omonima, andata sul palco del Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel 1896, con scarse repliche.  Alfred de Vigny era ossessionato dalla figura di Thomas Chatterton, l’acerbo, geniale poeta di Bristol, suicidatosi a poco meno di diciotto anni, nel 1770, a Londra. Gli pareva, più di ogni altro, prima di tutti, l’emblema del poeta, eternamente giovane, che si schianta contro l’indifferenza della società letteraria e “va fino in fondo”. Il poeta che si immola per la poesia, con disperazione messianica. Thomas Chatterton, amato da Coleridge e da Keats, sbandierato, via via, come un simbolo, più citato che letto (la sua storia e la sua opera sono state recepite per la prima volta in Italia di recente, in: T. Chatterton, Nell’aura del fulmine, Feltrinelli, 2025), sarebbe piaciuto a Borges: quindicenne, si era corazzato con un alter ego, il monaco Thomas Rowley, vissuto nel XV secolo, che scriveva odi in un inglese antico di inedito conio, fitto di indecifrabili invenzioni. L’eterno fanciullo della poesia inglese, ridotto in miseria, malcompreso (da Horace Walpole, soprattutto, l’autore del Castello di Otranto, doge dei circoli letterari londinesi del tempo), fu il primo a scatenarsi contro le viete formalità della cultura – scriveva versi audaci fino al rebus, pieni di abissi, di ferina ingenuità, che delizieranno Dylan Thomas.  Già in Stello – romanzo nottambulo del 1832 – Alfred de Vigny si era appellato a Thomas Chatterton come a uno spettro amico; con Chatterton ideò il più vigoroso manifesto del romanticismo francese. In particolare, sono le pagine poste a introdurre la pièce, Dernière nuit de travail, a costituire una sorta di manuale dell’indole romantica di allora. Alfred de Vigny fa di Chatterton il poeta per antonomasia, l’ispirato assoluto, che non si piega di fronte alla necessità del mondo, non scende a compromessi, ed è trattato dagli uomini come uno strano, un estraneo, un folle. Il testo – qui tradotto, in calce – evita i rischi della secca retorica perché Vigny è sorretto da un’intuizione sagace: Chatterton non è colpevole di suicidio, è la società ad averlo costretto a uccidersi. Il poeta è come lo scorpione rinchiuso per gioco dai bambini in un cerchio di fuoco; vedendosi perduto, l’artropode rivolge contro di sé il velenoso aculeo e muore, mentre gli altri, intorno, ridono. L’idea del suicidato dalla società sarà ripresa con furia da Antonin Artaud parlando di Vincent Van Gogh, un altro artista messianico. Ci sono artisti la cui scelta si staglia come un’opera con esiti spesso sfrenati, inattesi. Di fronte alla morte di un ragazzo – eternata da quadri che ne hanno fatto una specie di figurina pronta alla lacrima e al solido applauso – bisogna tumularsi nel silenzio – anzi, nella preghiera. Più che altro, Alfred de Vigny ha profetizzato la figura del maledetto: a lui Paul Verlaine si riferisce quando, nel 1884, licenzia il saggio sui Poètes maudits. Thomas Chatterton ha stigmatizzato i poeti, costringendoli alla sequela estrema, “li condanna all’eterno esempio di una morte in miseria, abbandono, speranza mutilata”. Tutti gli altri – chi stringe accordi con il tempo, ‘a fin di bene’, per sopravvivere – è, in fondo, reo di tradimento, un vile.  A suo modo, Alfred de Vigny si allineò al duro addestramento di Chatterton. Voltò le spalle alla città, rifiutò di pubblicare, continuando a molare e ad approfondire l’opera. Vedeva Chatterton ogni giorno, nei brevi boschi che circondavano la sua villa – era mutato in volpe, diceva.   *** Ultima notte di lavoro. Per Thomas Chatterton La causa: il perpetuo martirio e la perpetua immolazione del Poeta. La causa: il diritto che egli ha di vivere. La causa: il pane che gli viene sottratto. La causa: la morte che è costretto a infliggersi.  Da dove tutto questo? Dal fatto che lodiamo il genio, ma uccidiamo i geniali. Li uccidiamo negando loro la vita. Potremmo pensare, vista la scarsa importanza con cui viene trattato, che il Poeta sia cosa comune. Una nazione dovrebbe essere orgogliosa se avrà due Poeti in dieci secoli. Ci sono Stati che non ne hanno mai avuto uno. Eppure: perché così tante stelle si estinguono appena cominciano a brillare?  Perché ignorate cosa sia un Poeta.  Continuerete ancora a non vedere? Per quanto? Tre tipi umani, che non dobbiamo confondere, agiscono nella società tramite il pensiero, muovendosi in regioni separate.  L’uomo esperto negli affari della vita, apprezzato dal mondo, si incontra ad ogni passo. A tutti adatto, a tutto si adatta. Ha una flessibilità e una disinvoltura che rasentano il prodigio. La sua mente è libera, sempre fresca, pronta a ogni risposta. Privo di autentiche emozioni, restituisce buone parole a seconda delle occasioni. Scrive di economia come di letteratura. Pratica l’arte come la critica, assume per l’una toni alla moda per l’altra la dissertazione sentenziosa. Sa combinare le parole per creare l’effimero della passione, della malinconia, dell’erudizione, dell’entusiasmo. È posseduto da fredde inclinazioni, che intuisce più che comprendere; le respira da lontano, come i vaghi odori di fiori sconosciuti. Crea il linguaggio dei ‘generi’ come si forgiano le maschere per i volti. Può scrivere commedie e orazioni funebri, romanzi e fiabe, epistole e tragedie, poesie e discorsi politici. È l’uomo di lettere, da sempre amato e compreso, sempre in auge, bene in vista, mai inviso. Quest’uomo non ha bisogno della nostra pietà.  Sopra di lui, c’è un uomo dalla natura più forte e raffinata. Una profonda e grave convinzione fonda le sue opere, che riversa su una terra cruda, spesso ingrata. Ha meditato in solitudine la propria filosofia, la vede al colpo d’occhio, squadernata, la tiene in mano come una catena: sa che il primo anello condurrà all’ultimo, sa come ogni anello si colleghi agli altri. La sua memoria è ricca, quasi infallibile, il giudizio sano, è uno studioso completo, calmo. Il suo genio è attenzione al massimo grado, buon senso nella più piena espressione. Il linguaggio è coerente, limpido, franco, grandioso nel portamento, vigoroso nei tratti. Soprattutto, gli occorrono ordine e chiarezza. L’ardore della lotta perpetua infiamma la sua vita e i suoi scritti. Il suo cuore racchiude grandi rivolte e l’ira superba, che lo rode in segreto. Sa seminare a grande profondità e attendere che l’opera germogli: è spaventoso quando è immobile, in veglia. È padrone di se stesso e di molte anime, che conduce a Nord e a Sud, a suo piacere; tiene in mano un polo, e l’opinione che la gente ha di lui lo obbliga a custodire la propria vita, a mantenere desto il suo amor proprio. È il vero, grande scrittore.  Non è infelice; ha ciò che desidera; sarà sempre in lotta, ma quando concederà tregua ai nemici, riceverà degni omaggi. Vincitore o vinto, sarà sempre incoronato. Non ha bisogno della vostra pietà.  Ma c’è un altro tipo, dalla natura passionale più pura e più rara. La sua opera proviene da Dio e giunge al mondo a intervalli rari. È un peso per gli altri, perché appartiene completamente alla stirpe degli ispirati. L’emozione, in lui, è così intima e profonda che vi si è immerso fin dall’infanzia. L’immaginazione lo possiede sopra ogni cosa. Al minimo urto, si sbriciola; al minimo respiro, volta verso mondi sconosciuti. Da allora in poi, smette i rapporti con la creatura umana. La sua sensibilità è troppo vivida; ferisce fino al sangue; i suoi eccessivi entusiasmi lo traviano; le sue simpatie sono troppo veraci; compatisce chi soffre infinitamente meno di lui, muore dei dolori degli altri. Le resistenze della società umana, il suo disgusto, lo gettano in un profondo sconforto, in una nera indignazione, in una desolazione insormontabile, perché tutto comprende, e troppo profondamente. In questo modo, tace, si ripiega su se stesso, recluso nella sua prigione. Lì si forma qualcosa di simile a un vulcano. Il fuoco cova lento, la lava è armoniosa. Ma quando esploderà? Si direbbe che assista come uno straniero a ciò che accade dentro di lui. Cammina come un malato, non sa dove andare, vaga per giorni. Non ha bisogno di fare nulla, perché accada la sua arte. Non deve fare nulla, perché gli accordi del mondo si formano comunque nella sua anima: il roco rumore del lavoro regolare irrompe, li interrompe. Lui è il poeta. Appena si mostra, è mutilato – tutte le lacrime, tutta la nostra pietà sia per lui! La lingua che ha scelto è compresa da un infimo numero di uomini ed è a loro che egli grida: “Ascoltatemi, fatemi vivere a mio modo!”. Ma molti sono inebriati dalle proprie opere, altri lo sdegnano perché in quel perenne bambino vogliono la perfezione dell’uomo maturo; i più sono distratti, indifferenti; tutti sono impotenti nel bene.  E lui grida ai Poteri: “Ascoltatemi, fate che non muoia!”. Ma i Poteri proteggono soltanto gli interessi positivi, sono estranei al genio, che li offende.  Se ne ha la forza, diventerà un soldato, trascorrendo la vita sotto le armi; una vita attiva, rozza, che ucciderà il suo essere morale. Altrimenti, se ha costanza, si condannerà alle fatiche del numero, al calcolo che uccide le illusioni. Se il suo cuore non si impenna con violenza, può piegarsi, molare i pensieri, smettere il canto. Si farà, allora, uomo di lettere; oppure, se la filosofia lo sorregge e incoraggia, diventare un grande scrittore; ma a lungo andare il giudizio soffocherà la visione, schiacciando il poema che aveva in petto.  In ogni caso, ucciderà una parte di sé, ma per questi suicidi a metà, per queste immense irragionate rassegnazioni è necessaria una forza rara, nera. Se questa forza non gli è data, quale strada gli resta da intraprendere? Quella di Thomas Chatterton: il suicidio radicale.  Dunque, è un criminale! Un criminale davanti a Dio e agli uomini, dacché il suicidio è un crimine, religioso e sociale. Chi può negarlo? Il dovere e la ragione lo confermano. Si tratta soltanto di capire se la disperazione non sia qualcosa di più forte di dovere e ragione. […] La vera disperazione è un potere che divora, irresistibile, famelico, al di là della ragione, che comincia annichilendo il pensiero. La disperazione non è un’idea, è una bestia che tortura, che stringe, schiaccia e lacera il cuore di un uomo, fino a farlo impazzire.  Ma è lui, il poeta, il vero colpevole o lo è la società, che lo disarma, che lo bracca senza fine? C’è un gioco terribile comune ai bambini del Midi. Essi costruiscono un cerchio con i carboni ardenti; in mezzo, mettono uno scorpione, catturato con le pinze. All’inizio, lo scorpione resta immobile. Quando il fuoco comincia a bruciarlo, si agita. I bimbi ridono. La creatura cerca di evadere dalle fiamme, facendosi strada tra i carboni ardenti; ma il dolore è troppo e si ritira. E ridono. Lo scorpione cerca un passaggio impossibile, uno spiraglio. Poi ritorna al centro, in una più oscura quiete. Infine, rivolge il dardo avvelenato contro se stesso e muore, sul colpo. E ridono – e ridono più forte di prima. È lo scorpione il colpevole? I bambini sono innocenti e buoni? Quando un uomo muore nello stesso modo, è davvero un suicida? No. È la società a gettarlo nel fuoco.  I bei versi, dobbiamo dirlo, sono merce che non piace alla gente comune. La moltitudine mira a moltiplicare il proprio stipendio; nelle nazioni più nobili, la massa ama ciò che amano tutti. Soltanto dopo una lenta istruzione e un continuo addestramento può apprezzare la bellezza; nel frattempo, schiaccia il talento nascente, il genio sorgivo, senza udire le grida della sua angoscia.  Ho voluto mostrare l’uomo spirituale soffocato dalla società materialista, dove l’avido calcolo sfrutta senza pietà l’intelligenza e il lavoro. Non voglio giustificare gli atti disperati degli sventurati ma protestare contro l’indifferenza che costringe costoro a compierli.  Il Poeta è tutto per me; Chatterton è il nome di un uomo – ho omesso i fatti esatti della sua esistenza per trarre dal suo destino l’emblema eterno di una nobile miseria. Oggi i tuoi compatrioti, caro Chatterton, ti chiamano ‘ragazzo meraviglia’… Eri infelice – tanto mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! Perdonami di aver eretto a simbolo il nome mortale che indossavi su questa terra, per fare del bene nel tuo nome.  Tra il 29 e il 30 giugno 1834 Alfred de Vigny *In copertina: Egon Schiele, Bildnis Paris von Gütersloh, 1918 L'articolo Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny proviene da Pangea.
August 13, 2025 / Pangea
Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio tragico
Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia, dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025; s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo ricordi”, scrive Spada. > “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la > sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è > nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia, > bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo > le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato > tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e > degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.” Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944, “Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.  Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione, selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.  Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.  Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.   Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio – conosce diverse fasi.  Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint Ferdinand.  A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella vita.  E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.  Livia Di Vona L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio tragico proviene da Pangea.
August 2, 2025 / Pangea