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“Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra Heidegger e Celan
È stato Roger Munier, munifico in amicizia, a far incontrare Martin Heidegger e René Char. Era il 1955, Jean Beaufret aveva invitato Heidegger a un convegno, Qu’est-ce que la philosophie?, a Cerisy-la-Salle; Jacques Lacan avrebbe ospitato il filosofo tedesco a casa sua. Ne sortì, tra estremi, un legame possente. Undici anni dopo, Char invita Heidegger a Le Thor, in Provenza, a parlare di Eraclito.  Nato a Nancy il 21 dicembre del 1923, Roger Munier aveva incontrato Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta Nera, nel 1949: aveva ventisei anni, cominciò a tradurre la Lettera sull’“umanismo”, uscita, infine, nel ’53 sui “Cahiers du Sud”. Si era avventurato in Germania per sfidare, viso-nel-viso, quell’uomo che gli aveva in certa misura cambiato la vita. Heidegger, come sempre, maculato di sorrisi e di allusioni, fu cordiale, generoso, di quarzo.  Che figura straordinaria quella di Roger Munier: ha tenuto insieme mondi, spiriti, con l’arguzia di una merlettaia del pensiero; sì, proprio come una devota figura di Vermeer, sempre a distanza dal centro verminaio del quadro – per eccesso di sapienza –, sempre così azzurra.  Scoprì Heidegger mentre studiava teologia tra i Gesuiti: per un po’, Munier fu folgorato dall’ordine, stigmatizzato da una specie di conversione. Mollo tutto nel ’53, impegnandosi, da allora, nei ranghi dell’Otua (Office technique pour l’utilisation de l’acier), organizzazione legata all’industria siderurgica, per cui ricoprirà alti incarichi. In Francia, si legò a Paul Celan; riceveva biglietti affettuosi da Emil Cioran. In Giappone, si innamorò della poesia orientale: ne amava l’asciuttezza, la tirannia dello sguardo, quelle immagini al contempo brusche come un colpo d’ascia, tenere come un fiore. La passione fermentò in un libro, Haiku, pubblicato da Fayard nella collana di documents spirituels “L’espace intérieur”, diretta proprio da Munier; tra i titoli in catalogo spiccano un saggio di Thomas Merton sul Taoismo, la Guida spirituale di Miguel de Molinos, il padre del “quietismo”, la biografia di Milarepa tradotta da Jacques Bacot (attualmente in catalogo Adelphi) e un libro di Julius Evola sullo yoga tantrico. A corredo del libro, eletto alla bellezza, un sublime saggio di Yves Bonnefoy, Du haiku.  Negli anni, Munier, figura tanto centrale da restare elusiva ai più, eletta da un istinto allo straniamento, si trincerò dietro un fortino di autori-totem: a lui dobbiamo la traduzione in francese di Angelo Silesio e di Antonio Porchia, di Roberto Juarroz e dei libri più importanti di Octavio Paz. Per i “Cahier de l’Herne” voltò nel proprio idioma Che cos’è metafisica?, il celebre lavoro di Heidegger; per le edizioni Fata Morgana ha tradotto e commentato l’ottava delle Elegie duinesi di Rilke: lo affascinava il punto di “completa lacerazione” della poesia, quello in cui “la visione si apre, finalmente, senza schemi né limiti, e lo sguardo, liberato, si effonde nella profondità dell’animale”.  Nel 1973 Gallimard aveva pubblicato L’Instant, indocile esordio poetico di Munier. Si legge, in quel procedere per frizioni e slogature grammaticali – che sorbite in calce all’articolo –, lo sgocciolio di Celan; soprattutto: i vagabondaggi nel linguaggio di Eraclito. Con “l’Oscuro” di Efeso Munier si confronta per anni: nel 1991 Fata Morgana pubblica un’edizione dei Fragments che, a dire di chi sa, resiste per aurea nitidezza. Anche qui: Munier è affascinato dal crollo del linguaggio, dalla sua imbestiata beatitudine, da una solitudine solare – scrive di una “parola-cosmo, il primo e ultimo dire di tutte le cose”. Come a dire aiuto – come a dire amore.  Autore di un’opera erratica, dal 1995 comincia a raccogliere i diari con il titolo simbolico Opus incertum(qualcosa esce per Gallimard, poi è gara tra diversi editori, per una mole di oltre tremila pagine; l’ultimo tomo, La Voix de l’érable, Opus incertum VII, Mars 1995 – Septembre 1997, è uscito quest’anno per le edizioni Arfuyen). Si tratta, scrive Munier, di “pensieri quotidiani che s’incastrano l’uno nell’altro con un certo disordine, non senza un movimento segreto che li governi… è un percorso da nottambuli”. Disordine, segreto, notte. Già: omaggiare il linguaggio nella sua disparità; romperne il carapace, essere capaci nel fuoco.  In questa tratta nell’aldilà della parola, è quasi naturale che Munier abbia ingaggiato una lotta senza quartiere con Rimbaud, con quel dire senza diaria, senza ricompensa. Nel 1976, per “Archives des Lettres modernes”, cura una inchiesta, aujourd’hui, Rimbaud…, che mette in fila pensatori, scrittori, poeti. Tra i tanti, partecipano Le Clézio e Bonnefoy, Derrida e René Char, che rinviene con un’illuminazione: > “Bisogna vivere Rimbaud, l’inverno, attraverso un ramo verde la cui linfa > ribolle e schiuma nel camino, nell’indifferenza di un fuoco di ceppi morti che > si inchinano”.  Naturalmente, all’alto consesso partecipò, avvolto in titanica stola, anche Heidegger; come sempre, portò il discorso in un altrove terribile: “Intendiamo con sufficiente chiarezza, nel dire che dice la poesia di Arthur Rimbaud, ciò che tace? Vediamo, già, l’orizzonte a cui è giunto?”.  Nessun punto di sutura tra noi e il linguaggio – dacché la parola esiste per scatenarci. Dunque: si dice per recidere (non per recitare, non per decidere).  Muore, infine, Roger Munier, nell’agosto del 2010, riposa a Xertigny, nei Vosgi, la terra degli avi; un bel sito è consacrato alla sua memoria. *** I privi di tutto Chi nomini – cosa?  Nulla ha nome il nome nomino. Il mare non conosce la tua musica – tu  ignori la sua È l’albero che freme al vento o il vento  che freme nell’albero? Chi si muove: albero o vento? Un corvo nero, aguzzo nel giorno opale artiglia l’opale.  Il brusio del torrente se nessuno lo intende è niente. Non esiste brusio non è che nulla. Ma urla.  Il canto  del Nulla. Predilige l’alba che nel suo imbelle chiarore tiene sotto chiave la notte.  Qualcosa viene il solo che viene e non viene porzione del nostro oblio.  Il tempo avviene infaticabile continuo come il divenire di ciò che viene.  Tutto è chiuso e si conferma nel centro della sua notte. Tutto ciò che si spalanca è ferita.  Il giorno non sfugge alla notte né la notte al giorno: ciò che esiste esiste perché sia annientato.  Il nulla non è il terribile: terribile è la lotta nel giorno della sua apparizione questa agonia che viene.  Cercò una parola l’ultima parola. Quella che metterà fine a quel dire  inutile e infinito. Soltanto una parola ha tale potere.  Niente  non c’è da dire su ciò che ci fa parlare.   Dicembre 1974 * Da La traccia Destituire. Strappare.  Nulla se non l’aleatorio eppure non è caos. Quando perdi il filo e insinuarsi non è più possibile quando l’ostacolo è massiccio compatto, continuo allora tocchi il continuo l’esattezza del continuo continuamente. Niente che possa vedere niente – è indubbio. Niente  è lì se non lo vedo.  Fissa… cosa? L’istante? No.  La figura. Quella che appare e sparisce nel volgere dell’istante.  Che rinvenga che ritorni dissotterrato il puro momento che tutto miracolosamente disfa – essendo sé (nello splendore) e dunque indistinto, fuso nell’unità perenne…  Il cielo si copre.  Remissione, rapimento.  Nel grigio del mare: il caglio del tempo.  Se viene, se è è nel deviare. È come decentrato e devi sporgerti per raggiungerlo. Nell’inatteso – di lato.  No, il sole in effetti non si leva né cala.  Nel ritrarsi della traccia appare, al di là di ogni designare. Insignificante apparenza: non è che se stesso. Perde perfino il nome.  L’uccello riceve la pioggia nel becco, nel cranio tesi verso ciò che precipita.  È pioggia? No: specie di crollo, l’impalpabile si effonde e affonda un venire, un avvento silente, dall’alto.  La pioggia, la pioggia… Come la fine di una distanza.  La gioia risaputa non è più gioia gioia non è – nulla  può essere identificato –  poi: identità comincia.  La pioggia cessa all’improvviso qualcuno la trattiene è riottosa, reticente. Poi: comincia a martellare ricomincia, incerta… Il tempo – cos’è il tempo? Tutto è lo stesso ed è  immobile, ma mai  un precedente.  Nuvole: grigia lega, lenta lana che nega, assolve la sera, svanisce.  ** Da Haiku Ah… poter essere                   un bambino il primo giorno dell’anno (Issa) * Mi sono voltato ma l’uomo si era già perso nella nebbia (Shiki) * Sovrasta il mare un sole ingabbiato tra rovi di nebbia (Buson) * Pioggia di primavera –                    e ogni cosa torna a splendere (Chiyo-ni) * Nel più lungo giorno                   muschio negli occhi                                     che fissano il mare (Taigi) * Ignaro del lignaggio del luogo                   un uomo taglia l’erba (Shiki) * Anche sulla legna ammassata per il fuoco nascono germogli (Bonché) * Prima che l’ipomea fiorisca, consumiamo il pasto: siamo umani (Basho) * Ho colto la peonia: stasera mi coglie una profonda nostalgia (Hokushi) L'articolo “Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra Heidegger e Celan proviene da Pangea.
September 8, 2025 / Pangea
“Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di Mireille Havet
Nel 1917, per le edizioni di Georges Crès, pubblicò un libro delizioso, La Maison dans l’œil du chat. I disegni, vigorosamente liberty – che un po’ ricordano, frenati per gioia ingenua, Aubrey Beardsley, l’inquieto illustratore di Wilde –, scortavano uno strampalato libro ‘per bambini’, che alternava brani in prosa a brevi testi poetici. Crès era l’editore di Victor Segalen e di Marcel Schwob, aveva stampato Noa Noa di Paul Gauguin: il fiabesco e l’esotico, cioè, dalle tinte perturbanti.  L’autrice, Mireille Havet, era giovanissima: nata nell’ottobre del 1898 a Médan, aveva scritto quei testi, in origine, a quindici anni, pubblicandoli su “Les Soirées de Paris”, la rivista su cui pubblicavano, tra gli altri, Blaise Cendrars e Giovanni Papini, Alberto Savinio e Max Jacob. Il padre, nevrastenico, si era suicidato proprio quell’anno, era il 1913, nel ricovero psichiatrico dove l’avevano rinchiuso; lei dirà di aver vissuto l’infanzia nell’agone di una libertà “terribile”. Negli “avvertimenti”, Mireille – un nome che sa di miracolo e di sole – scrive di aver “lasciato alcune pagine bianche per il lettore: sono tue. Scrivi la tua storia (una storia che potrebbe essere più bella di quelle che ho scritto io), fai il tuo disegno”. Il libro – di cui abbiamo tradotto alcuni brani, in calce – ha la violenta innocenza dell’infanzia: sguardi che recano more e coltelli.  L’introduzione l’aveva scritta Colette, la superstar della letteratura francese, l’autrice del ciclo di “Claudine”. In realtà, l’introduzione di Colette è una lettera a Bel-Gazou, Colette de Jouvenel, la figlia, nata nell’estate del 1913: > “Bel-Gazou, bimba mia, nata esattamente dodici mesi prima della guerra, ancora > non sai leggere. Serberò per te questo libro, il primo che leggerai. È stato > scritto da una bambina, non vi troverai le frivolezze degli adulti. Gli > adulti, mia Bel-Gazou, aspettano sempre che sia troppo tardi per scrivere un > libro per bambini. Quando lo fanno, hanno dimenticato che l’infanzia è una > cosa seria, spesso disprezzano la farsa e non capiscono i racconti > stravaganti… Colei che conversa, con fare infantile, con il Gatto e con la > Rana, non esita a cantare le Stelle, a seguire le orme della Notte, del Fumo, > del Raggio; si protende con familiarità verso l’Eterno… Amerai questo libro, > Bel-Gazou, lo amerai così tanto che sarà il tuo primo segreto, il primo libro > che troverò nascosto sotto il tuo cuscino”.   Cresciuta in un ambiente supremamente autarchico – cioè, in piene ristrettezze – Mireille divenne il souvenir e il passepartout dei grandi scrittori del tempo. Colette la adorava, Guillaume Apollinaire, il suo mentore, la vezzeggiava, chiamandola “le petite poyétesse”; Jean Cocteau tentò di rubarle l’ispirazione, fece di lei la sua musa-musetto. Il suo primo romanzo, Carnaval, pubblicato nel 1922 da Arthème Fayard, ne consacrò il talento: fu applaudito da André Gide e da René Crevel, gareggiò per il Goncourt. Il resto era il sapido frutto della sua audacia: bella, disinvolta, lasciva, Mireille vestiva da uomo, professava con ribalderia la propria omosessualità, dicono fosse insaziabile, un cannibale con il viso da bambola. Nell’anno in cui esce Carnaval,scrive sul diario una frase che ne identifica l’indole: > “Procedere, rompere, non ammettere altro, distruggere e respingere tutto ciò > che, pur da molto lontano, minaccia la mia indipendenza anche soltanto per un > secondo: questa sia la mia legge. Non una politica di conciliazione ma di > rivolta. Non mangerò il tuo pane. Sarò sconvolgente fino alla fine”.  Dal 1919 fu letteralmente schiava dell’oppio e della cocaina. La bambina terrible che scriveva con leggiadra sapienza mutò in vampiro: si dava a chiunque, di notte, nelle catacombe parigine, per pochi denari, a corroborare le proprie manie. Tubercolotica, tossica, divorò tutti e fu da tutti rigettata, fin dalla fine degli anni Venti – morì in un sanatorio, nel marzo del 1932, a trentatré anni. Prima di morire, aveva consegnato i suoi scritti a Ludmila Savitzky, attrice, poetessa, traduttrice (tra l’altro, di Joyce, Virginia Woolf e Frederic Prokosch). Nel 1995, Dominique Tiry, nipote di Ludmila, scovò nella soffitta di famiglia i diari di Mireille. Fu un evento sconvolgente: nei Journal, tenuti tra il 1913 e il 1929, Mireille Havet descrive, con micidiale minuzia, la sua “vita da dannata”. Il ‘genere’ canonico della letteratura francese – il diario, genio dell’egotismo supremo, viziato gioco di maschere – viene sviscerato fino al suo contrario: l’ego non è che bocca che trabocca, denti che mordono, lingua che lecca. “Il mondo intero ti tira per il ventre”, scrive Mireille. I Journal di Mireille sono stati stampati, in cinque tomi, tra il 2003 e il 2010 dalle Éditions Claire Paulhan; in Italia esiste una porzione del Diario (1918-1919) divulgata da Editoria & Spettacolo nel 2015. Il fondo dei suoi scritti, invece, è custodito, insieme al fondo Jean Cocteu, presso l’Université Paul Valery di Montpellier.  A tratti, la ferocia di Mireille Havet, così come traspare dai diari, ricorda quella di Alejandra Pizarnik. Mireille usa la scrittura per scotennarsi, per annientarsi – dunque: per esistere. Dicendo il proprio abominio, lo abbellisce e lo abolisce; scrivendo l’abisso, lo abita, lo domina.  Fu l’androgino di quei folli anni – figura che penetra e comprime tutti gli opposti, sapienza nell’abiezione e nell’elezione. Tentò di restare un’eterna bambina, l’effimero ‘maschiaccio’, l’imperdonabile a cui tutto è perdonato. Finì per esplodere – gli altri, intanto, osservavano, distratti, a tratti.  ** Da La Maison dans l’œil du chat Quello che pensano “Mi piacciono gli abeti neri, dice Jacques, dove si nascondono le volpi”. “Preferisco le radure, dice Luce, dove sbocciano i papaveri”. Il grande fuoco crepita e offre agli occhi il mistero del bosco che si sgretola, rivelando nella cenere città e luoghi che non potranno mai possedere.  * Marmellata di mele È duro coltivare le mele, ma hanno un buon profumo, un profumo che evoca il mistero delle dispense chiuse, dove sono stipate, dormienti, le marmellate di qualche anno fa, insieme alle tovaglie degli sposi. Forza, coraggio! Abbiamo superato i tre alberi, manca soltanto il sentiero del paese. Ma il sole picchia e abbiamo le braccia nude. Non importa. Avremo una mela da assaggiare, una mela tutta per noi, da mangiare al lavatoio: i pioppi muovono lentamente le loro cime, a sera.  * La pecora La pecora si chiama Robin. Lo so, ne avevo un’altra che si chiamava Robin; poi Blanchot, ma Robin è sempre stata la più carina. Ci allontaniamo, fianco a fianco, come due fratellini nel gorgo della vita. Una pecora pascola, l’Altra sogna. Entrambe, ci voltiamo verso i prati in fiore. Poi, quando arriviamo presso un albero frondoso, mi fermo all’ombra e stringo la mia pecora al cuore.  La lana è morbida. La pecora profuma di timo selvatico. Nelle grandi orecchie piene di lana, le sussurro la storia di un principe che aveva tre castelli stregati. La pecora ascolta in silenzio, con la solita aria triste e rassegnata… Poi, seguendo il fiume, torniamo a casa, come due fratellini nel gorgo della vita.  * Il mare Alla fine del sentiero, la chiesa: la croce si alza come una mano verso l’azzurro cielo.  Il sentiero si snoda per il dolce pendio della collina che domina sulla Casa del Buon Dio.  Il tempo è bello su tutta la terra perché in uno spiraglio del paesaggio c’è l’immenso mare…  uno zaffiro gigante.  Le barche danzano sul mare. Pescherecci, barche a vela partite all’alba, che la marea di mezzogiorno fa rincasare: le vele lacere formano rombi d’ombra contro il cielo.  L’universo intero è qui placido, esatto. Dal mare alla chiesa, solo la luce e un sentiero che sale come una preghiera per configgersi nel Chiaro.   * Nel prato Tutta la dolcezza del mondo si annida nell’erba alta: non c’è altro che Pace nei labirinti del prato e il sole sboccia come il fiore dei re.  Insegui serenamente il tuo sogno pieno del felice fascino che dispensa il bel tempo. Le mucche ritmiche muovono le code come  orologi magnifici e potenti: ti insegnano la fermezza del tempo ideale dove cola l’infanzia pura come un cristallo.  * Sss… Claude si è addormentato, a voi divinare, prima di chiudere il libro, qual è il meraviglioso sogno che vaga sotto le sue palpebre.  Quanto a me, non posso dirvi nulla: Claude dorme… Sss! Camminate piano e non svegliatelo, sapete meglio di me che le anime dei bambini misteriosamente tornano in cielo. Claude si è addormentato mentre giocava…  ** Dal Journal Il mio vizio non è l’amore né la ricerca del più infimo piacere fisico, perché in fondo faccio l’amore per guadagnarmi da vivere e ottenere dalle mie amanti il reddito necessario ai miei veri appetiti, per sfamare il mio ego, e comprarmi, soprattutto, sostanze tossiche, morfina più che altro, nella cui presunta ebbrezza incenerisco la mia anima calcolatrice e il mio corpo, innamorato di quell’oblio artificiale che mi permette di dimenticare le sconvenienze della mia carriera illecita.  […] I miei libri? Le poesie? Costruzioni di un tossico con il cervello surriscaldato dagli stupefacenti e l’idea fissa di camuffare la propria vera identità con l’aura del poeta prodigio, ignaro, per eccesso di purezza e incuria d’intelletto, delle realtà materiali della vita.  […] Infine, non sono che un operaio della distruzione e dello scandalo, della putrefazione contagiosa, del disordine nelle famiglie, sono un subdolo istigatore, avveleno le donne che mi si avvicinano, che cadono nelle mie trappole.  L’unica giusta punizione è abbandonarmi per sempre, lasciarmi nel mio inevitabile deserto, nella miseria.  Che mi arrangi. Siete avvertiti: chiudete le porte e i cuori alla mia doppiezza, alla mia prevaricazione. Nessuno mi deve niente, nessuno mi perdoni – questo mi basta.  Ho ventotto anni.  19 e 20 gennaio 1927 * Progressivamente, lo ripeto, come un rullo compressore che avanza, inesorabile, senza incontrare ostacoli, compiendo il suo lavoro ora dopo ora, la morfina ha distrutto tutto, minato tutto, annientato tutto, e io da tutti sono alienata, dagli amici, dai soldi, dalle case, dalla fiducia negli altri, dalla salute, dagli anni, dal mio talento, dal mio coraggio, dalla mia naturalezza, dall’amore e dall’amicizia, dalla poesia che si ritrae da me come il mare da un ingrato scoglio, che d’ora in poi, frantumato, lurido, sorgerà nudo, senza più onde, senza uccelli, senza semi, senza terra, soprattutto, dove i semi portati dagli uccelli possono germogliare, senza più nulla nell’infinito dell’eternità se non il cielo e il mare, entrambi egualmente lontani, sempre più lontani, lontanissimi. Tutto ho perduto, la vita, l’istinto a vivere, la ripugnanza per il male, il desiderio di guarire. La morfina, quella spina invisibile, è diventata il mio pugnale, l’alabarda che si è impossessata del mio corpo e mi ha trafitto il cuore, mi ha ucciso, inchiodandomi alla bassezza, alla terra fangosa dove sarò sepolta… era ora! La morfina e sua sorella, la cocaina, e l’eroina, la più grande, sette volte più pericolosa e tossica di un veleno, hanno gradualmente sostituito tutto: ora rimango io, sola.  Come puoi aspettarti che non avendo più nulla non abbia venduto l’anima al diavolo e stretto un patto con lui? È per comprare la droga che prendo in prestito, do tutto, imploro a chiunque. Venderò tutto per questa spesa che mi distrugge, unica e dominante.  Giovedì 24 maggio 1928 * Trent’anni! L’età in cui ho perso tutto ciò che avevo a venti. Mi ci sono voluti dieci anni per liberarmi dei miei privilegi e della mia eredità, dieci anni per distruggermi, impoverirmi, annientarmi in ogni modo – si potrebbe dire, per sempre. 29 giugno 1929 L'articolo “Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di Mireille Havet proviene da Pangea.
August 26, 2025 / Pangea
“Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro”
È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico, Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi anni. Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati, splendenti intelligenza…”. In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”. Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).  Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18 novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni. Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da mistico:  > “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non > attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in > quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non > un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con > gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che > ognuno è.”  Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto nella Prigioniera: > “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso > nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”  Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust. I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla “comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito. Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a Swann: > “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di > segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva > soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così > forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé, > ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli > aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito > a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.” Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili per non correre il rischio di vederlo svanire. Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte dell’Io ed esprime l’indicibile. Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di parole che è la Recherche. Marilena Garis L'articolo “Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro” proviene da Pangea.
August 25, 2025 / Pangea
Oltre l’oltre. Béatrice Douvre, vita & opera di “un elfo doloroso”
“Lei non era di qui” [1], quasi sveniva trasognato Cioran a proposito di Susana Soca – lo stesso si potrebbe dire di miriadi d’altre “incandescenti” che divamparono lungo la notte sacra prima di spegnersi, in intimo accordo col decreto del buio. Vedove dell’ultimo cielo, votate alle nozze postume coll’Assoluto defunto alla vita e talvolta ritrovato nella segreta ipnagogia funebre della poesia, spose dai corpi di bruma che, crivellate da stelle, indugiavano innamorate e nostalgiche sulla Soglia in attesa del bacio dello Sposo, dell’Altro, della morte.  E certamente a questo peculiare ordine di vestali abusate dal nulla, di «paralitiche della luna» come diceva Lorca, apparteneva anche Béatrice Douvre, questa poetessa francese obliata come teneramente si dimentica il nome d’un fiore. Infatti, come i fiori estinti, di lei s’hanno poche ed errabonde informazioni. Nata a Neuilly-Sur-Seine nel 1967 e morta di brutale sfinimento ventisette anni più tardi a Mans nel treno in cui entrò e donde non uscì che defunta: la ritrovarono assisa, nella compostezza trasparente della sua postura di serafico silenzio, lo sguardo lontano, infinitamente lontano, oltre la finestra, oltre l’oltre… Quello sfinimento fu il triste obolo offerto da anni di anoressia, di cui soffre dall’età di tredici anni. L’ardore della fame, nelle sue policefale diramazioni, è infatti il sole nero che strapiomba la sua opera. La desianza dell’Invisibile, d’un’ostia intagliata nella carne stessa del cielo e che sazi infine l’anima. Definisce molto chiaramente queste tensioni nella sua tesi di laurea: Anorexie et orexie dans l’œuvre d’Arthur Rimbaud e che potrebbe essere riassunto coi versi di Rilke, nella settima Elegia: “Come un braccio proteso, è il grido mio./ E la sua mano che si scaglia in alto/ schiusa a ghermire, ti rimane innanzi/ aperta, dentro gl’infiniti spazii/ difesa e ammonimento, o Inafferrabile!”[3]. Necessità dell’Altro, e impossibilità fatale di raggiungerlo – e solo da tale irredimibile colpa sorge e si apre l’infimo e atroce spazio in cui tremando precariamente abitare, nello sisma che investe le ossa liriche, e, di bruciore in bruciore. Mi piace pensare che le sia accaduto di leggere Caterina da Siena, quest’altra anoressica teofaga, questa sitibonda d’edenico sangue. Douvre scrive nell’eccesso, nel venir meno della parola, nella casa chiusa al quadrivio del paradiso dove passano a turno a violentarla gli angeli. È una mal nata, una Maddalena psicopompa, una “prostituta piena d’amore”, come dice lei stessa. Vietato ogni ricevere, la poetessa poteva solo offrirsi, dilapidarsi, crepare dozzinalmente, a pieno regime, irrigare del proprio sangue i solchi che percorrono ogni poesia onde fecondarle, chiamare a raccolta tutti gli uccelli dell’oltretomba a becchettarle i seni che si sfogliano in briciole… Dare pieno rogo di sé, consacrare con alla notte il suo pube in fiamme, attendendo tutta affebbrata che la morte la insemini. In Francia, i pochi che sanno che esistette la ricordano come la “viandante del pericolo”. Philippe Jaccottet nella prefazione alla sua raccolta di poesie pubblicate postume ne fa un ritratto commovente:  > “Mi ricordo di Béatrice Douvre, era, lo si indovinava, una sorta di elfo > diafano, un essere vibratile, troppo frale per questo mondo dove gli elfi non > posso mettere radice, ma soltanto fluttuare a metà via tra terra e cielo. > Fluttuare in siffatto modo è talvolta la loro felicità, ma certamente anche la > loro dannazione. Béatrice Douvre era un elfo doloroso, del quale non si poteva > che intuire con timore il destino”. [4] De Saint-Cyr ** Offriamo di seguito per la prima volta una traduzione in italiano di qualche spina della fiamma del fuoco del suo diario, “Journal de Belfort” [5]; Belfort, 12 febbraio 1994 Città aperta, cammino per le tue vie, rosseggiante, le mani piene di ghiaia, il ventre eccitato dalle tue fosse, il volto coperto di rossori cristiani. Follia dei corpi aggrovigliati delle città, sessi esibiti a Stalingrado, prostituzione piena d’amore, puttane agonizzanti di verginità, sono il vostro cammino di grazia. Ruscelli di sangue labirintici, patisco le mie vene malate, gonfiando i miei seni gemelli, esibendo la mia solitudine. Michel mi mormora all’orecchio il suo sesso diciassettenne, per un po’ di tempo gli tenni la mano, gli occhi negli occhi dell’infanzia. Sulle strade d’ieri – immortali parole, del sudore in volto, il ventre cinto di birre; notte verde, abitata, lenzuola che sanguinano dormendo, ho male di amare, voglio morire, selvaggiamente sperma sulla lingua. Polvere vinosa, ho l’alito dei poveri, la trasparenza degli amanti, la dolcezza delle madonne. […] * Parigi, 15 febbraio 1994 Alba indomita, febbrose lenzuola, ho il risveglio dei sogni insolenti, potenti e fredde le mani, la pietra è in sudore, voglio il freddo sudario della mia fecondità, il sale sulla lingua venenosa, e sul dolce nido del mio ventre la sua mano… Voglio allargata la ferita, ruscellanti le alghe poi luccicanti, la roccia scoscesa come le parole. Vago pei lastricati grassi, nel fango rosso e nero, armonie dorate nimbavano i viali, una mano nativa nella mia, ma la mano di nessuno. […] Non sono la sua amante e quasi non più sua sorella. Rimango altra e irreale, ho in me la dolcezza delle lontananze, mi abbandono alla collina, sono il riflesso d’un cielo stretto. Spettrale il tempo mi perseguita, la morte mi eccita, mi visita talvolta, io sono il suo oste stellato e perdura la notte tra lei e me, forse il passaggio. I sessi nemici si sotterrano nel vento, mi carezza ma io sono l’intervallo vicino al focolare freddo del molto basso. Peccato di carne nascosta e redento nella pietra stessa, madidore dei sentimenti troppo scialbi. Io voglio il sale e il linguaggio, avida la bocca e scavata come i ciottoli del mare. Popolato d’uccelli è il silenzio, ma io, angelo malato, imploro il suo corpo come una terra, un sacramento, la tomba bianca (sarò Raffaello senz’ali), per lui, per me, per la prossimità di vivere. La mia malattia mi feconda il ventre neutro. * Parigi, 14 febbraio 1994 […] Confusa beltà dei ruscelli, oscura percorro le vostre sponde malate, ho la follia degli impazienti, delle prigioni narrative. Piccoli seni gonfi d’acqua, curvi sotto il vento, come Eva nel balzo. Il piede scalzo, animale, il serpente nel frutteto, come grappoli i frutti, penduli, ho l’ala di un angelo aguzzo sopra il membro stretto. Spiegacciamento delle sere alla Madeleine, Parigi barocca, illuminata. Attenderò, ai piedi delle cattedrali, e coagulata nella nostalgia dei seni sprigionati, il veleno di una passione traforare, come una daga, la mia pelle imberbe e intoccabile. […] * Parigi, 18 febbraio 1994 Rimango rigida e nuda nella notte torrentizia, il fango scoppia sulle disgrazie altrui. Una pazza piange per la città e poi tace come una nave. Intorno al mio girovita indolente una collana si sottomette, nelle mie mani, una rondine costruisce quasi una primavera. Sono sola a morire nell’immondo, odio il mio ritiro sacro, il mio corpo casto dal secolo scorso, le notti verdi lasciate a far collare il miele. Io sono la fiaccola e l’olio, l’innominato abitacolo presso sorgenti fertili. Vivi l’epoca nata, privilegia il giorno. Si sollevano le foglie e vorticano gli astri. Sono l’estate dei palmi nelle braccia dei riflessi. Oh ramo inaccessibile, il troppo corto vento, ho affrettato la benedizione degli astri nulli. Polvere dei templi, grandi divinità assise e meditanti, voi vi cibate dell’obolo dei fedeli sognando all’alito offeso dei fanciulli. Ricurve Madonne, cosce colmi, e dischiuse dal pudore, io benedico i vostri seni biondi per accrescere il vento. **** [1] “Esercizi di ammirazione”, E. Cioran, Adelphi, 1988. [2] “Juego y teoría del duende”, F.G. Lorca, Alionza, 1984. [3] “Elegie Duinesi”, Settima Elegia, R.M. Rilke, Sansoni, 1941. [4] “Œuvres poétiques, peintures et dessins”, B. Douvre, Éditions Voix d’Encre, 2015. [5] “Journal de Belfort”, B. Douvre, Éditions de la coopérative, 2019. L'articolo Oltre l’oltre. Béatrice Douvre, vita & opera di “un elfo doloroso” proviene da Pangea.
August 21, 2025 / Pangea
Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny
Per comprenderne l’indole, dobbiamo partire dalla fine. Alfred De Vigny – che una celebre fotografia di Nadar mostra a braccia incrociate, il viso corrucciato, la giacca ad ampie falde: un pipistrello, insomma – morì nel settembre del 1863. Soffriva, da tempo, di un cancro allo stomaco; passò gli ultimi anni a curare la moglie, Lydia Jane Bunbury, di origine inglese, bellissimo, dicono, ricchissima, sprofondata in una nera demenza. L’amore della sua vita – ovviamente: tormentato, inquieto, destinato a niente – fu però l’attrice Marie Dorval, tra le più grandi dell’epoca, pervicace nella posa e nel capriccio. Da anni alieno ai circoli letterari, per il disgusto verso le mode imperanti, per una disciplina all’arte della sprezzatura, nel buon ritiro di Maine-Giraud, un maniero in Charente, Alfred De Vigny, il poeta idolatrato da Marcel Proust – da ragazzo lo considerava, insieme a Baudelaire, “il più grande poeta del XIX secolo: anche nelle sue poesie meno note, mantiene una calma, quell’ineffabile bellezza che ci sfuggono” – morì solo. La biografia redatta dall’Académie française è spietata per rigore: “Indifferente al pubblico, fu il vuoto intorno alla sua bara, accompagnata soltanto da qualche romantico della prima ora”.  Fu eletto al seggio 32 – attualmente occupato da Pascal Ory, vi sedette, tra gli altri, Alain Robbe-Grillet – nel maggio del 1845, dopo essere stato rifiutato per sette volte. Gli “accademici” non amavano le sregolatezze dei Romantici; Vigny rifiutò di presentarsi al cospetto di Luigi Filippo I di Francia. Quando tentò di far eleggere tra i ranghi dell’Accademia Balzac, gli andò male.  Rampollo di una genia di militari, Alfred de Vigny passò la giovinezza in armi. Pensava di fare carriera, di mettere alla prova la sua ideale audacia; languì nella palude di guarnigioni mal assemblate. I fasti napoleonici – esemplificati nello schietto romanzo di Conrad, I duellanti – erano un ricordo. Ottenne i gradi, si licenziò capitano; in un ritratto, ragazzo, con la divisa della “Maison du roi”, ha lo sguardo languido, la bellezza scapigliata, ininterrotta.  Alfred de Vigny (1797-1864) fotografato da Nadar Dicono fosse incapace di “capire la realtà” – il che, per un poeta, non è poi grave –, crebbe nel mito di Lord Byron, fece parte del circolo di Victor Hugo. Tradusse – con spigliata grazia, in versi – Shakespeare, i suoi Poèmes antiques et modernes (usciti, in edizione definitiva, nel 1829 e aggiornata nel 1841) gli diedero autorevolezza lirica. I critici dicono che i “poèmes philosophiques” raccolti come Les Destinées nel 1864, la sua opera definitiva, annunciano le innovazioni di Stéphane Mallarmé (dei Poemi antichi e moderni e de I destini esiste una traduzione di Lanfranco Binni, edita da Garzanti nel 1991). Il capolavoro di Alfred de Vigny resta comunque Chatterton: andata in scena al Théâtre français il 12 febbraio del 1835 (con l’amata Marie Dorval nei panni di protagonista femminile), la pièce riscosse un successo assoluto; fu applaudita, tra gli altri, da George Sand e da Sainte-Beuve. Da quel testo, Leoncavallo trasse un’opera lirica assai meno fortunata, omonima, andata sul palco del Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel 1896, con scarse repliche.  Alfred de Vigny era ossessionato dalla figura di Thomas Chatterton, l’acerbo, geniale poeta di Bristol, suicidatosi a poco meno di diciotto anni, nel 1770, a Londra. Gli pareva, più di ogni altro, prima di tutti, l’emblema del poeta, eternamente giovane, che si schianta contro l’indifferenza della società letteraria e “va fino in fondo”. Il poeta che si immola per la poesia, con disperazione messianica. Thomas Chatterton, amato da Coleridge e da Keats, sbandierato, via via, come un simbolo, più citato che letto (la sua storia e la sua opera sono state recepite per la prima volta in Italia di recente, in: T. Chatterton, Nell’aura del fulmine, Feltrinelli, 2025), sarebbe piaciuto a Borges: quindicenne, si era corazzato con un alter ego, il monaco Thomas Rowley, vissuto nel XV secolo, che scriveva odi in un inglese antico di inedito conio, fitto di indecifrabili invenzioni. L’eterno fanciullo della poesia inglese, ridotto in miseria, malcompreso (da Horace Walpole, soprattutto, l’autore del Castello di Otranto, doge dei circoli letterari londinesi del tempo), fu il primo a scatenarsi contro le viete formalità della cultura – scriveva versi audaci fino al rebus, pieni di abissi, di ferina ingenuità, che delizieranno Dylan Thomas.  Già in Stello – romanzo nottambulo del 1832 – Alfred de Vigny si era appellato a Thomas Chatterton come a uno spettro amico; con Chatterton ideò il più vigoroso manifesto del romanticismo francese. In particolare, sono le pagine poste a introdurre la pièce, Dernière nuit de travail, a costituire una sorta di manuale dell’indole romantica di allora. Alfred de Vigny fa di Chatterton il poeta per antonomasia, l’ispirato assoluto, che non si piega di fronte alla necessità del mondo, non scende a compromessi, ed è trattato dagli uomini come uno strano, un estraneo, un folle. Il testo – qui tradotto, in calce – evita i rischi della secca retorica perché Vigny è sorretto da un’intuizione sagace: Chatterton non è colpevole di suicidio, è la società ad averlo costretto a uccidersi. Il poeta è come lo scorpione rinchiuso per gioco dai bambini in un cerchio di fuoco; vedendosi perduto, l’artropode rivolge contro di sé il velenoso aculeo e muore, mentre gli altri, intorno, ridono. L’idea del suicidato dalla società sarà ripresa con furia da Antonin Artaud parlando di Vincent Van Gogh, un altro artista messianico. Ci sono artisti la cui scelta si staglia come un’opera con esiti spesso sfrenati, inattesi. Di fronte alla morte di un ragazzo – eternata da quadri che ne hanno fatto una specie di figurina pronta alla lacrima e al solido applauso – bisogna tumularsi nel silenzio – anzi, nella preghiera. Più che altro, Alfred de Vigny ha profetizzato la figura del maledetto: a lui Paul Verlaine si riferisce quando, nel 1884, licenzia il saggio sui Poètes maudits. Thomas Chatterton ha stigmatizzato i poeti, costringendoli alla sequela estrema, “li condanna all’eterno esempio di una morte in miseria, abbandono, speranza mutilata”. Tutti gli altri – chi stringe accordi con il tempo, ‘a fin di bene’, per sopravvivere – è, in fondo, reo di tradimento, un vile.  A suo modo, Alfred de Vigny si allineò al duro addestramento di Chatterton. Voltò le spalle alla città, rifiutò di pubblicare, continuando a molare e ad approfondire l’opera. Vedeva Chatterton ogni giorno, nei brevi boschi che circondavano la sua villa – era mutato in volpe, diceva.   *** Ultima notte di lavoro. Per Thomas Chatterton La causa: il perpetuo martirio e la perpetua immolazione del Poeta. La causa: il diritto che egli ha di vivere. La causa: il pane che gli viene sottratto. La causa: la morte che è costretto a infliggersi.  Da dove tutto questo? Dal fatto che lodiamo il genio, ma uccidiamo i geniali. Li uccidiamo negando loro la vita. Potremmo pensare, vista la scarsa importanza con cui viene trattato, che il Poeta sia cosa comune. Una nazione dovrebbe essere orgogliosa se avrà due Poeti in dieci secoli. Ci sono Stati che non ne hanno mai avuto uno. Eppure: perché così tante stelle si estinguono appena cominciano a brillare?  Perché ignorate cosa sia un Poeta.  Continuerete ancora a non vedere? Per quanto? Tre tipi umani, che non dobbiamo confondere, agiscono nella società tramite il pensiero, muovendosi in regioni separate.  L’uomo esperto negli affari della vita, apprezzato dal mondo, si incontra ad ogni passo. A tutti adatto, a tutto si adatta. Ha una flessibilità e una disinvoltura che rasentano il prodigio. La sua mente è libera, sempre fresca, pronta a ogni risposta. Privo di autentiche emozioni, restituisce buone parole a seconda delle occasioni. Scrive di economia come di letteratura. Pratica l’arte come la critica, assume per l’una toni alla moda per l’altra la dissertazione sentenziosa. Sa combinare le parole per creare l’effimero della passione, della malinconia, dell’erudizione, dell’entusiasmo. È posseduto da fredde inclinazioni, che intuisce più che comprendere; le respira da lontano, come i vaghi odori di fiori sconosciuti. Crea il linguaggio dei ‘generi’ come si forgiano le maschere per i volti. Può scrivere commedie e orazioni funebri, romanzi e fiabe, epistole e tragedie, poesie e discorsi politici. È l’uomo di lettere, da sempre amato e compreso, sempre in auge, bene in vista, mai inviso. Quest’uomo non ha bisogno della nostra pietà.  Sopra di lui, c’è un uomo dalla natura più forte e raffinata. Una profonda e grave convinzione fonda le sue opere, che riversa su una terra cruda, spesso ingrata. Ha meditato in solitudine la propria filosofia, la vede al colpo d’occhio, squadernata, la tiene in mano come una catena: sa che il primo anello condurrà all’ultimo, sa come ogni anello si colleghi agli altri. La sua memoria è ricca, quasi infallibile, il giudizio sano, è uno studioso completo, calmo. Il suo genio è attenzione al massimo grado, buon senso nella più piena espressione. Il linguaggio è coerente, limpido, franco, grandioso nel portamento, vigoroso nei tratti. Soprattutto, gli occorrono ordine e chiarezza. L’ardore della lotta perpetua infiamma la sua vita e i suoi scritti. Il suo cuore racchiude grandi rivolte e l’ira superba, che lo rode in segreto. Sa seminare a grande profondità e attendere che l’opera germogli: è spaventoso quando è immobile, in veglia. È padrone di se stesso e di molte anime, che conduce a Nord e a Sud, a suo piacere; tiene in mano un polo, e l’opinione che la gente ha di lui lo obbliga a custodire la propria vita, a mantenere desto il suo amor proprio. È il vero, grande scrittore.  Non è infelice; ha ciò che desidera; sarà sempre in lotta, ma quando concederà tregua ai nemici, riceverà degni omaggi. Vincitore o vinto, sarà sempre incoronato. Non ha bisogno della vostra pietà.  Ma c’è un altro tipo, dalla natura passionale più pura e più rara. La sua opera proviene da Dio e giunge al mondo a intervalli rari. È un peso per gli altri, perché appartiene completamente alla stirpe degli ispirati. L’emozione, in lui, è così intima e profonda che vi si è immerso fin dall’infanzia. L’immaginazione lo possiede sopra ogni cosa. Al minimo urto, si sbriciola; al minimo respiro, volta verso mondi sconosciuti. Da allora in poi, smette i rapporti con la creatura umana. La sua sensibilità è troppo vivida; ferisce fino al sangue; i suoi eccessivi entusiasmi lo traviano; le sue simpatie sono troppo veraci; compatisce chi soffre infinitamente meno di lui, muore dei dolori degli altri. Le resistenze della società umana, il suo disgusto, lo gettano in un profondo sconforto, in una nera indignazione, in una desolazione insormontabile, perché tutto comprende, e troppo profondamente. In questo modo, tace, si ripiega su se stesso, recluso nella sua prigione. Lì si forma qualcosa di simile a un vulcano. Il fuoco cova lento, la lava è armoniosa. Ma quando esploderà? Si direbbe che assista come uno straniero a ciò che accade dentro di lui. Cammina come un malato, non sa dove andare, vaga per giorni. Non ha bisogno di fare nulla, perché accada la sua arte. Non deve fare nulla, perché gli accordi del mondo si formano comunque nella sua anima: il roco rumore del lavoro regolare irrompe, li interrompe. Lui è il poeta. Appena si mostra, è mutilato – tutte le lacrime, tutta la nostra pietà sia per lui! La lingua che ha scelto è compresa da un infimo numero di uomini ed è a loro che egli grida: “Ascoltatemi, fatemi vivere a mio modo!”. Ma molti sono inebriati dalle proprie opere, altri lo sdegnano perché in quel perenne bambino vogliono la perfezione dell’uomo maturo; i più sono distratti, indifferenti; tutti sono impotenti nel bene.  E lui grida ai Poteri: “Ascoltatemi, fate che non muoia!”. Ma i Poteri proteggono soltanto gli interessi positivi, sono estranei al genio, che li offende.  Se ne ha la forza, diventerà un soldato, trascorrendo la vita sotto le armi; una vita attiva, rozza, che ucciderà il suo essere morale. Altrimenti, se ha costanza, si condannerà alle fatiche del numero, al calcolo che uccide le illusioni. Se il suo cuore non si impenna con violenza, può piegarsi, molare i pensieri, smettere il canto. Si farà, allora, uomo di lettere; oppure, se la filosofia lo sorregge e incoraggia, diventare un grande scrittore; ma a lungo andare il giudizio soffocherà la visione, schiacciando il poema che aveva in petto.  In ogni caso, ucciderà una parte di sé, ma per questi suicidi a metà, per queste immense irragionate rassegnazioni è necessaria una forza rara, nera. Se questa forza non gli è data, quale strada gli resta da intraprendere? Quella di Thomas Chatterton: il suicidio radicale.  Dunque, è un criminale! Un criminale davanti a Dio e agli uomini, dacché il suicidio è un crimine, religioso e sociale. Chi può negarlo? Il dovere e la ragione lo confermano. Si tratta soltanto di capire se la disperazione non sia qualcosa di più forte di dovere e ragione. […] La vera disperazione è un potere che divora, irresistibile, famelico, al di là della ragione, che comincia annichilendo il pensiero. La disperazione non è un’idea, è una bestia che tortura, che stringe, schiaccia e lacera il cuore di un uomo, fino a farlo impazzire.  Ma è lui, il poeta, il vero colpevole o lo è la società, che lo disarma, che lo bracca senza fine? C’è un gioco terribile comune ai bambini del Midi. Essi costruiscono un cerchio con i carboni ardenti; in mezzo, mettono uno scorpione, catturato con le pinze. All’inizio, lo scorpione resta immobile. Quando il fuoco comincia a bruciarlo, si agita. I bimbi ridono. La creatura cerca di evadere dalle fiamme, facendosi strada tra i carboni ardenti; ma il dolore è troppo e si ritira. E ridono. Lo scorpione cerca un passaggio impossibile, uno spiraglio. Poi ritorna al centro, in una più oscura quiete. Infine, rivolge il dardo avvelenato contro se stesso e muore, sul colpo. E ridono – e ridono più forte di prima. È lo scorpione il colpevole? I bambini sono innocenti e buoni? Quando un uomo muore nello stesso modo, è davvero un suicida? No. È la società a gettarlo nel fuoco.  I bei versi, dobbiamo dirlo, sono merce che non piace alla gente comune. La moltitudine mira a moltiplicare il proprio stipendio; nelle nazioni più nobili, la massa ama ciò che amano tutti. Soltanto dopo una lenta istruzione e un continuo addestramento può apprezzare la bellezza; nel frattempo, schiaccia il talento nascente, il genio sorgivo, senza udire le grida della sua angoscia.  Ho voluto mostrare l’uomo spirituale soffocato dalla società materialista, dove l’avido calcolo sfrutta senza pietà l’intelligenza e il lavoro. Non voglio giustificare gli atti disperati degli sventurati ma protestare contro l’indifferenza che costringe costoro a compierli.  Il Poeta è tutto per me; Chatterton è il nome di un uomo – ho omesso i fatti esatti della sua esistenza per trarre dal suo destino l’emblema eterno di una nobile miseria. Oggi i tuoi compatrioti, caro Chatterton, ti chiamano ‘ragazzo meraviglia’… Eri infelice – tanto mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! Perdonami di aver eretto a simbolo il nome mortale che indossavi su questa terra, per fare del bene nel tuo nome.  Tra il 29 e il 30 giugno 1834 Alfred de Vigny *In copertina: Egon Schiele, Bildnis Paris von Gütersloh, 1918 L'articolo Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny proviene da Pangea.
August 13, 2025 / Pangea
Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio tragico
Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia, dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025; s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo ricordi”, scrive Spada. > “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la > sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è > nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia, > bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo > le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato > tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e > degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.” Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944, “Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.  Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione, selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.  Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.  Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.   Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio – conosce diverse fasi.  Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint Ferdinand.  A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella vita.  E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.  Livia Di Vona L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio tragico proviene da Pangea.
August 2, 2025 / Pangea
“La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale
Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino.  Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza, l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero, una tirannia.  È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo. Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento.  È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia: sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto.  Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso, l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista – fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia messa sottosopra.  Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto.  Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées atomiques.   Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi, l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive Char: > “Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che > orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di > vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte, > sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo > nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca > dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e > ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e > degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di > questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono > per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte > queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri > fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”.  A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in carcassa, qualche briglia che chiameranno legge.  In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme.  Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto. All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in amore del bianco.  Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle “Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole.  Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra – e mai rendere domestico il dire.  *** Mettersi in marcia Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi Che si plachi la sete della loro manchevolezza: Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira Perché è terribile la terra. Hermann Melville A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti.  Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite che il nostro non molteplice corpo ferisce.  Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto rettile”. Con gelosia paludata.  Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare! La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei.  La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia.  Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo di preparativi è la nostra occasione senza rivali.  Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la gravità delira in allegria.  Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone sorvola la città. Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu onnipotente. Afillante, nostra padrona! Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte, e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le labbra murmuri…  Le sanguinose utopie del XX secolo.   Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in scacco la simpatia.  L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E la nostra figura si accomoda.  Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio. Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti.  L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre. Strappiamone svergognati l’ipogeo.  Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso è lastricato dai cristalli del nostro sangue.  Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti.  Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge.  La poesia può riscattare il ricatto? René Char L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale proviene da Pangea.
July 24, 2025 / Pangea
Quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare… Ovvero: anatomia di un libro modernissimo
Un Balzac tirato a lucido e caricato a pallettoni, in una forma a dir poco smagliante. Non è certo una novità dal momento che quando aveva la penna, o per essere più precisi, la piuma in mano Balzac era sempre in forma smagliante. Come facesse resta ancora oggi un mistero. Può darsi che fosse un modo per sfuggire ai ricordi di un’infanzia senza calore o per inseguire le sue mille illusioni perdute. Scrivere capolavori era certo una rivalsa per un provinciale come lui che, arrivato a Parigi da Tours, aveva passato molti anni in una squallida mansarda nel quartiere dell’Arsenale; forse ad aiutarlo erano le dosi industriali di caffè che ingurgitava.  Stiamo ai fatti. Scritto tra il 1840 e il 1841, uscito prima a puntate come feuilleton e poi in volume unico, per motivi a me del tutto incomprensibili Un caso tenebroso è un romanzo tra i meno noti di Balzac, ma è un libro modernissimo, anticipatore e quelli che se ne intendono lo considerano a tutti gli effetti il primo noir della storia della letteratura. Uno straordinario ritratto della società francese di inizio Ottocento colta nei suoi aspetti essenziali; un’epoca nella quale gli ideali della Rivoluzione ormai erano degradati a mero scontro di potere e gli opportunisti di ogni sorta e colore la facevano da padroni. Balzac sapeva guardare dentro la Storia e le sue complicazioni come nessun altro. Se volessimo riassumerlo in uno strillo di copertina potremmo dire: Giochi di potere sullo sfondo dell’Impero napoleonico. Una vicenda nella quale si intrecciano storia e politica e che trae spunto da due fatti realmente accaduti: la congiura antinapoleonica che costò la vita al duca Enghien e il rapimento del senatore Clément de Ris. Anche nel romanzo abbiamo una congiura contro Napoleone Bonaparte ordita dalla giovane e bellissima contessa Laurence de Cinq-Cygne insieme ad alcuni suoi parenti e amici. Tra i complottatori i due gemelli cugini della contessa che entrambi corteggiano la bella Laurence, come d’altra parte fa Adrien uno dei due fratelli d’Hauteserre, anche loro implicati nella congiura.  Per aggiungere mistero al mistero un gruppo di uomini rapisce Malin, un importante funzionario dell’Impero, e del fattaccio vengono accusati la contessa e il suo entourage. In realtà sono assolutamente innocenti, ma finiranno condannati al termine di un drammatico processo, magistralmente raccontato da Balzac in un turbinio di testimonianze e colpi di scena dove un ruolo non secondario è giocato dagli umori del pubblico.  > «Se è vero che, durante i processi, la verità assomiglia spesso a una bugia, è > anche vero che la bugia assomiglia molto alla verità.» Il processo arriva a una sentenza che però non chiarisce affatto l’intricato caso, come d’altra parte molto spesso vediamo accadere anche oggi. Più anticipatore di così! Dulcis in fundo, una memorabile scena in cui la bella Laurence va a incontrare Napoleone alla vigilia di una delle sue tante battaglie per chiedere la grazia per tutti quanti i condannati. Lei sarà prosciolta, uno verrà sacrificato alla sete giustizialista popolare e condannato alla pena di morte, gli altri finiranno ai lavori forzati. > «Da quando la società civile ha inventato la Giustizia, non ha mai trovato i > mezzi per dare all’imputato innocente un potere uguale a quello di cui dispone > il magistrato contro il criminale.» In definitiva, nonostante il funzionario rapito venga rilasciato dai suoi sequestratori, la verità su tutta la vicenda non viene acclarata. Solo venti anni dopo verrà raccontata a Laurence, ormai unica sopravvissuta. Si scoprirà così che dietro le quinte a tirare le fila del “tenebroso caso” c’erano dueprotagonisti assoluti della vita pubblica francese a partire dalla Rivoluzione del 1789: l’ex giacobino e poi bonapartista Fouché, uomo spregiudicato e ambizioso  > «uno di quei personaggi che hanno tante facce e tanta profondità in ogni > faccia da essere impenetrabili nel loro gioco e che possono essere compresi > solo molto tempo dopo che la partita è finita» e il camaleontico Talleyrand, astuto nobile di vecchia casata, freddo e calcolatore. Due figure con origini e personalità molto diverse, accomunate però dalla consapevolezza che i regimi cambiano ma gli uomini restano. Vanno assolutamente messi in evidenza due aspetti tutt’altro che secondari e che sono parte essenziale del piacere della lettura del libro: innanzitutto le affascinanti ambientazioni naturali descritte con grande abilità e dovizia di particolari, con quella foresta di Simeuse che va considerata a tutti gli effetti una protagonista del romanzo e costituisce ben più di uno sfondo a tutta la storia, e poi il personaggio della contessa Laurence, una straordinaria figura di donna tenace, energica, intrepida, intelligente e coraggiosa, ammirevole sotto tutti i punti di vista. Come direbbe Karl Kraus: «Per essere perfetta le mancava solo un difetto». A prima vista la trama può risultare ingarbugliata, a volte ci si può perdere nella selva oscura dei tanti nomi citati, nell’intrico delle macchinazioni dei vari personaggi e nei mille rivoli della vicenda, ma quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare; ergo, fatevi prendere per mano e lasciatelo fare. Ci penserà lui a spiegarvi come la durezza della realtà e l’asprezza della storia siano in grado di spezzare ogni fiero slancio ideale e come i destini dei singoli non possano rimanere esenti dalle strumentalizzazioni dalla politica, per la quale molto spesso gli esseri umani sono solo marionette di cui tirare i fili: burattini che si credono burattinai. Un finale amaro, senza sconti per nessuno, ma che a quasi duecento anni di distanza spinge noi lettori di oggi ad aprire gli occhi sulla realtà e a fare una serie di riflessioni sulla natura umana. Che cosa volete di più da uno scrittore? Lasciatemelo dire: Balzac è formidabile! Silvano Calzini L'articolo Quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare… Ovvero: anatomia di un libro modernissimo proviene da Pangea.
July 22, 2025 / Pangea
“Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique Rouche e Thierry Metz
Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano: errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.  Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti? Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio, tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso: l’analfabeta e il retore sono lo stesso.  Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio – piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.  Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011; Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato una enquête sur les miracles.  Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”. Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini – meglio: siamo legione.  I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.  Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi: “Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati, prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode. Per quello? Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto? Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero, evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita. Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto. È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci allontana da Lui.) La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine: suicidio? Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre distaccate. Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà. L’arte della meditazione mi consuma”. Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne. Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche? Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique: Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni, Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da un’auto.  > “Aprire la dimora freatica > essere là > nelle acque che preparano una cascata > niente è più fresco”.  In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è il passeur, l’intransigente calesse.  Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno, uno dei poeti più risonanti in Italia.  “questo qui  – senza nome –  rifornisce la lingua con quello che trova: ramoscelli argilla sterco appena qualche parola qui per accogliere l’imprevedibile quasi nulla dietro la porta salvo che lui  – l’abitante –  preferisce alla dimora la finestra” Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli, all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.  Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto – dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.  Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam. Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che sigilla il Nazareno nel sepolcro). Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai: “eclissi d’uccelli e l’ala che trattiene i venti d’improvviso ti solleva ti porta il più lontano possibile dove la parola nidifica nella tua voce” E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto. Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali, vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a redimerlo giovanneo. Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!, Più luce!”.  Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique. Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla parete.  *I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche L'articolo “Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique Rouche e Thierry Metz proviene da Pangea.
July 16, 2025 / Pangea
“Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna
Catherine Pozzi è una poetessa. È la poetessa francese che ammaliò Valéry e Rilke. È il trait d’union delle lingue nella poesia. Genio tubercolotico, con la voce della notte, insegnava danzare alle parole. Concisa. Poco incline al compromesso, fu tutta sentimento. Proprio per questo pagò cara la tresca con il più grande poeta francese di quel tempo: Paul Valéry. Essenza e umore sfuggenti facevano di lei una donna solitaria, poco affine ai salotti dell’epoca. Le sue poesie sono lampi provenienti da un cielo a margine, sospeso tra dimensione terrena e immaginaria. Le sue poesie, una volta scritte, comportano un cordoglio, e mestizia, per la morte del poeta stesso che le ha create. Scrisse soprattutto sei grandi liriche, tutte pubblicate postume, tranne una, Ave (apparsa sulla “NRFˮ il 1° dicembre del 1929), preghiera-ode, cantico-celebrazione per quell’«altissimo amore» innominabile e irraggiungibile, nel quale il corpo si frantuma e dissolve. Quasi addio (Vale) Il grande amore che mi hai dato Il vento dei giorni l’ha mandato in frantumi ‒ Dove fu la fiamma, dove fu il destino, Dove eravamo, dove per mano stretta                      Noi stavamo Il nostro sole, il cui ardore era pensato Il mondo per noi di essere senza un secondo Il secondo cielo di un’anima divisa Doppio esilio dove il doppio si fonde Il suo luogo per te appare cenere e paura, I tuoi occhi verso di lui non l’hanno riconosciuto La stella incantata che sviava lo sguardo L’estremo istante del nostro unico abbraccio                      Verso l’ignoto. Ma il futuro che ti aspetti di vivere È meno presente del bene scomparso. Qualsiasi raccolto che alla fine ti porta Lo berrai senza poter essere così ubriaco                        Del vino perso. Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio Il paradiso dove l’angoscia è desiderio. L’altisonante passato che cresce di età in età È il mio corpo e sarà il mio senso                       Dopo la morte. Quando in un corpo la mia gioia dimenticata Dove fu il tuo nome, prenderà la forma del cuore Io rivivrò il nostro grande giorno, E questo amore che ti ho dato                       Per il dolore. * Maya Scendo i gradini di secoli e di sabbia Che ritornano a voi nell’istante disperato Terra di templi d’oro, entro nella vostra favola                                   Atlantico adorato. Da un corpo che non mi appartiene più, la fiamma finalmente fugge L’Anima è un nome disprezzato dal destino ‒ Lascia che il tempo si fermi, lascia che la cornice crolli, Ritorno sui miei passi verso l’abisso infantile. Gli uccelli planano sul vento nell’Occidente marino, Devi volare, felicità, nella vecchia estate, Tutti profondamente addormentati dove cessa la riva Rocce, il canto, il re, l’albero lungamente cullato, Stelle da tempo legate al mio primo volto, Sole stupefacente incoronato di calma. Intransigente e severa critica di se stessa, Catherine Pozzi visse con l’anima aperta sul mondo, trasponendo in versi dal temperamento mistico la sua intensa fame d’assoluto e il suo non meno sconcertante desiderio di calarsi nel regno tumultuoso della notte oscura. «Quello che non può diventare notte o fiamma», confessava la poetessa, musa e amante tradita di Paul Valéry, «lo si deve mettere a tacere». Poetessa pura, genio giovanile come il suo amato/odiato Paul, non poteva che lasciarci un diario denso e intenso, intriso di canto e lirica. Intraprende i suoi studi con sete di conoscenza enciclopedica: si interessa a materie diverse come la filosofia greca, la teologia, la fisica e la chimica, nonché ai misteri orfici e al pensiero orientale. Il suo bisogno di razionalità da un lato e di assoluto dall’altro non conosce limiti. Tutto ciò fa di lei persino una fine traduttrice, che ha saputo però gestire il genio, comprendendo e godendo pienamente dalla lettura le poesie della Browning tradotte da Rilke, e le poesie di Rilke tradotte da Valéry. Infatti, senza entrare nel merito del suo rapporto con Catherine, Valéry pregò Rilke di inviarle le sue traduzioni dei Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett-Browning, precisandogli che la sua «amica» era ben qualificata per apprezzarle, considerata la sua ottima conoscenza dell’inglese e del tedesco, ma soprattutto in ragione della sua ammirazione sconfinata per la poetessa inglese. Questo fu il la, tra l’altro, per la nascita di un carteggio assoluto tra Rainer Maria Rilke e la Pozzi. Nyx                                                           A Louise anche lei di Lione e d’Italia O voi mie notti, o nere attese O paese orgoglioso, o segreti ostinati O lunghi sguardi, o nudi ardenti O volo consentito oltre i cieli chiusi. O gran desiderio, o diffusa sorpresa O bel cammino dello spirito incantato O male peggiore, o grazia discesa O porta aperta dove nessuno era passato Non so perché muoio e annego Prima di entrare nella dimora eterna. Non so di chi sono la preda. Non so di chi sono l’amore. * Ave Altissimo amore, se è possibile che io muoia Senza sapere da dove vi ho preso, In quale sole era la vostra casa In quale passato il vostro tempo, in quale ora                                           Io vi amavo, Amore altissimo che fuggite il ricordo, Fuoco senza focolare di cui ho fatto tutta la mia giornata, In quale destino avete tracciato la mia storia, In quale sonno si vedeva la vostra gloria,                                           O mia dimora… Quando sarò persa con me stessa E divisa nell’abisso infinito. Infinitamente, quando sarò sopraffatta, Quando il presente di cui sono rivestita                                           Avrà tradito, Per l’universo in mille corpi sbriciolata, Di mille istanti non ancora raccolti, Dalla cenere ai cieli fino al nulla setacciato, Lo rifarete per una strana annata                                           Un unico tesoro Voi rifarete il mio nome e la mia immagine Di mille corpi portati via ogni giorno, Viva unità senza nome e senza volto Cuore dello spirito, oh centro del miraggio                                           Altissimo amore. Sei poesie non sono molto per assegnare una gloria letteraria, ma per Catherine Pozzi non serviva altro: «Ho scritto VALE, AVE, MAYA, NOVA, SCOPOLAMINE, NYX. Vorrei che se ne faccia una plaquette. Saffo non ha attraversato il tempo con più parole.»  Il futuro ha esaudito il suo desiderio… *L’articolo e la traduzione delle poesie sono di Giorgio Anelli; traduzione da “Oeuvre poétique”, Éditions de La Différence, 1988 L'articolo “Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna proviene da Pangea.
July 15, 2025 / Pangea