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“Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura, quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” – un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali: moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna privata. Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un trentennio. Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.  Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:  > «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco > Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».  La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere quest’uomo. È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.  Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi. La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia Minore. > «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto > allontanarsi da me quanto il II secolo».  Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci attende l’opera compiuta?  Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza. I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e salvato dalle fiamme. È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era? Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima, la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni – così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta. > «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello > che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla > di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le > angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e > della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì > sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste > portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore». Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini, obbedendo alla loro vocazione di amore e candore. Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile. Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.  > «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei > fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi > della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata; > quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il > servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato > detto; quello che potevo apprendere è stato appreso. > > Occupiamoci ora di altri lavori». Lorenzo Giacinto L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
June 20, 2025 / Pangea
“Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo; nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha ragione su tutto. Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi importanti nella sua vita.  La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.  La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale. La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma, mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!  La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad attraversarsi il cuore con le parole. Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di Genova. Elevazione della luna L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava, E il vento addormentato taceva il suo ululo, La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna, Sottile e violetta episcopalmente! Le Stelle sembravano ceri funerari Accesi come in una chiesa nelle sere; E spandendo profumi, i gigli Turiferari Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri. Una preghiera saliva in me come un’onda E nell’immensità inazzurrante e profonda, Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!… Allora, apparve! ostia immensa e bionda Poi scintillò, staccandosi dal Mondo Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!… È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente prodigio. È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico, maturo. Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:  > «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi > delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto), > è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato > creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua > per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille > devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud, > Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione, > nauseante incoscienza.» Giorgio Anelli L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta proviene da Pangea.
June 14, 2025 / Pangea
“E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con Rimbaud
Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata, che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo, e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).  Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta – con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero. Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn: presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo, infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile? Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile. L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024). La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici, ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di “Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino Arthur:  > “Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare > il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, > per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.  L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà – è il suo essere “abbastanza inumana”.  È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud, tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo. Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno, come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e prato, biscia e vento.  Fernand Léger, Ritratto di Arthur Rimbaud, 1949 Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911 nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”. Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.  Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato fuoco, incede nell’incendio.  È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin, William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia, nella fuga.   Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano. Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre volte un lupo.  Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo a osare.  Davide Brullo Pablo Picasso, Arthur Rimbaud, 1960 * Vite A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero dall’oltretomba, senza commissioni.  * Sfridi  Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici, * Da dietro tartassava grottesche oscenità Una rosa s’involava nel ventre del portiere * Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono ………………………………………………………………. E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette. * E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo. * Piove con dolcezza sulla città. * Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di sopprimerli… Certi accettarono. * All’assalto, o mia vita assente! Arthur Rimbaud *Per gentile concessione si pubblica la pagina introduttiva e una manciata di testi, in traduzione inedita, da “Le più belle poesie di Arthur Rimbaud”, Crocetti, 2025 In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962 L'articolo “E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con Rimbaud proviene da Pangea.
June 12, 2025 / Pangea
Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke. Dialogo con Marie Darrieussecq
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare istitutrice; voleva fare l’artista.  I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901. Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi, soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà “degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre – riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.  A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq, l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque, tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani: è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice. Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.  Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale, con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è fatta di Rilke? Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio libro. Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906 Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.  Libera, energica, interrotta.  Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una scrittrice che vive nel 2025? Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e di amare, liberamente.  Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il titolo del libro? Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di Joseph-François Angelloz. Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante? Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg. Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale quello che ha scelto di tenere in ombra? Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra, oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera… Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula. Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la maternità è ambiguo, affascinante.   Marie Darrieussecq; photo Charles Freger Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?  Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia, sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli. Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza imposti da uno sguardo patriarcale.  Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale, che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto con il ‘sacro’, con l’invisibile? Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte. L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di sacralizzarlo. La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker: un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico, palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’ come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni… Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho ancora finito… Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale, come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca, gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere, accettavano di posare nude per pochi spiccioli. Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale. Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere all’IA? Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico, non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.   Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906 Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare un gesto ‘politico’?  Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista” possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della Vergine Maria! *In copertina: Paula Becker (1876-1907) L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke. Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
June 7, 2025 / Pangea
“Perché la vita continui”. René Barjavel, lo scrittore che sapeva fare il pane e ha inventato la fantascienza francese
Nel 1943 uno scrittore pressoché sconosciuto, René Barjavel, pubblica il romanzo del secolo e inventa – pressoché dal nulla – la fantascienza francese. Ravage uscì per Denoël, l’editore di Céline e di Mussolini (Le Fascisme: doctrine, institutions esce nel ’33), del collaborazionista Lucien Rebatet e del comunista Louis Aragon. Nel romanzo – edito nel 1957 in Italia come Diluvio di fuoco, nell’‘Urania’ Mondadori, poi, in nuova traduzione, nel 2019, per L’Orma, come Sfacelo –, ambientato in un ipertecnologico oggi datato 2052, si racconta il collasso di una civiltà, stordita da eccesso di progresso: il disastro comincia con un black out… Nato in provincia, a Nyons, Barjavel era cresciuto leggendo Balzac e le avventure di Nick Carter, integerrimo investigatore americano. Aveva fatto diversi lavori – dall’impiegato in banca all’agente immobiliare –, aveva dedicato il suo primo saggio a Colette: Denoël scelse di prenderlo nelle sue grazie. Durante la guerra, intruppato tra gli zuavi, lavorava in cucina, serviva il rancio; scrisse Ravage nei torbidi dell’occupazione. A Parigi, viveva al settimo piano, scalfito dallo scalpiccio dei piccioni.   Il libro, costantemente ripubblicato, distopico attacco ai paladini del progresso, ebbe successo – il suo autore fu messo alla gogna. In Ravage – l’inno alla natura, la messa al bando della scienza – qualcuno vide un oscuro elogio pétainista; d’altronde, Barjavel aveva pubblicato sulla rivista collaborazionista “Je suis partout”. Inserito nella lista nera dal “Comité national des écrivains”, fu scagionato da ogni accusa. Un paio di altri romanzi di successo – Tarendol, 1946 e Le diable l’emporte, 1948 – gli aprirono le porte del cinema. René Barjaval è conosciuto, oltre che per aver ‘inventato’ la sci-fi francese, per le sceneggiature di “Don Camillo”, il ciclo filmato da Julien Duviver. Tra l’altro, ha ridotto I miserabili per la resa filmica di Jean-Paul Le Chanois (era il 1958, Jean Gabin protagonista), ha tradotto i dialoghi del Gattopardo per la versione francese del capolavoro di Visconti.  Ma questa è aneddotica.  Un evento, in particolare, smuove la vita di Barjavel: l’incontro, all’epoca di Vichy, con Gurdjieff. Così lo scrittore ne ha detto a Louis Pauwels: > “Lo incontrai una volta soltanto, a Parigi, durante l’occupazione, a una delle > cene in cui era contornato di discepoli. Eravamo dieci persone al tavolo. Lui > sogghignò. Gli piaceva mettere in imbarazzo chi gli si avvicinava per la prima > volta, così mi offrì una cipolla cruda da mangiare. Ignorava che venissi dalla > campagna: per ma la cipolla è una delizia. Ad ogni modo, quella era un po’ > marcia. Non rividi più Gurdjieff. Perché? Mancanza di tempo, mancanza di > soldi, due bimbi piccoli da mantenere, insomma, le solite preoccupazioni > materiali che mettono a tacere quelle spirituali. Gurdjieff aveva un > temperamento vulcanico: era una montagna ruggente – preferii arrestarmi al > ruscello che scorreva intorno a essa. È successo tanto tempo fa. Ma so di aver > bevuto alla fonte della verità, la verità da cui sgorga tutta la saggezza del > mondo, da dove si sono formate tutte le religioni”.  Benché continuasse a dirsi “una merda” al cospetto della purezza gurdjieffiana, tentò una via di luce. Nel 1950, lo scrittore annota nel diario una frase gravida di conseguenze: > “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma lo ha plasmato dal fango, che > contiene, in potenza, ogni putrefazione. Eppure, lo ha pesato sulla stessa > bilancia degli spiriti puri. Questa è vera giustizia. Se un uomo vuole restare > in Paradiso – o desidera entrarvi – deve purificarsi dal fango di cui è > fatto”.  Per un po’, René Barjavel frequentò Daumal e Lanza del Vasto. Nel 1966 pubblica La faim du tigre, un libro anomalo, che sfida l’assurdo di esistere, o meglio, l’assurdità dell’uomo di credersi al centro del cosmo. Continuamente riedito – l’ultima edizione esce nel 2020 per Gallimard – il libro è figlio della nobile tradizione aforistica francese (si avverte, in particolare, un sentore di Alain), tuttavia, ha un’inattuale singolarità, inattingibile. Barjavel mescola teologia e biologia, carne e mente, parola dei primordi e trafitture alla Marco Aurelio. Alcuni hanno tentato di edificare su quel panorama un tempio, una religiosità postumana. Me lo ha mostrato un ragazzo che viene dal Belgio; ama scrivere e in un suo racconto, con stile leggiadro, impaniato di humor nero, narra di una ragazza che offre ai familiari, per il cenone natalizio, il proprio fidanzato, imbandito come un tacchino.  Nei decenni, Barjavel non si farà ingabbiare dal pensiero dominante: a Sartre – “il borghese che ama le masse popolari” – preferiva Ray Bradbury. Scrisse che > “Un leader di partito, di destra come di sinistra, o un militante ambizioso, > non presenta mai i fatti come sono ma come gli possono essere utili. Se gli si > pone una domanda specifica su un punto specifico, risponde a bruciapelo. > Sembra che abbia risposto, ma non ha detto nulla. Mente appena apre bocca. Non > può fare altrimenti perché la menzogna è il suo respiro. È così imbevuto delle > sue menzogne e di quelle dei suoi compagni e di quelle dei suoi avversari, che > non sa più nulla della verità, anzi, non crede che esista una verità”.  I comunisti attesero la sua morte per fargli lo scalpo. René Barjavel morì il 24 novembre del 1985; “professava le idee della destra più estrema”, scrisse nel ‘coccodrillo’ “L’Humanité”, “benché indossasse gli occhiali, restò cieco al senso della storia, alle sorti dei suoi concittadini”. Barjavel avrebbe riso; detestava i colpi bassi, ma in fondo – lo aveva scritto lui – è la legge della vita: polline, copula, cianciare di cince, brevi licenze, liceali licenziosità, lotte e attorialità prima della cenere, della carcassa, dello sparire nell’impasto del mondo. Nel 1978 aveva scritto un feroce pamphlet contro le armi nucleari che andrebbe letto oggi, s’intitola (ed è tutto detto) Lettre ouverte aux vivants qui veulent le rester. “Ho i miei talenti e i miei limiti. Ho camminato con le ossa e i muscoli dei miei antenati, con l’addestramento che mi hanno offerto i miei maestri. Ho cercato di non nuocere, di essere utile. Che ciascuno faccia lo stesso”, scrisse in La charrette bleue. I genitori, di origine protestante, era fornai – per tutta la vita, Barjavel si era vantato di saper fare il pane. Un dettaglio non secondario per spiegare la sua scrittura.  ** Da “Fame di tigre” La primavera non sarà mai la mia abitudine. Anno dopo anno, mi sorprende e mi meraviglia. L’età non può nulla, né l’accumulo di dubbi e di amarezze. Non appena il castagno si illumina di frutti e gli uccelli cantano, il mio cuore germoglia come una gemma. È certo: tutto andrà bene, l’inverno è un incidente, causa della nostra lasciva goffaggine; aprile e maggio non ci sfuggiranno più.  Il cielo è limpido, nobili le nubi, l’aria è libera da liquami gassosi, nessuno uccide gli agnelli e le rondini sono libere; il tiglio fiorirà accogliendo le api, le rose sbocceranno e l’usignolo, questa notte, ci ricorderà che il mondo giace nella gioia. Tutto ricomincia con entusiasmo nuovo; questa volta, tutto avrà successo, culminerà in uno scopo. Sono più giovane di un anno. No, non di un solo anno: la mia vita, intera, è giovane. Sono anch’io la primavera che sorge.  Ecco, la grande annuale illusione. Il regno vegetale è il primo a cadervi. Con una perfetta esplosione, miliardi di alberi e di piante emergono, mirabili gli steli, miracolose le foglie, non c’è alcun motivo perché non siano eterne. Eppure, nell’altra metà del mondo è autunno: le meraviglie vengono gettate al suolo, l’inverno le farà marcire. Ma per noi, prossimi alla primavera, l’autunno è improbabile e l’inverno non è più reale della morte. Il castagno è bianco come il fiore della comunione, il pesco è una fiammata rosa, il lillà è una torcia. In tutti i giardini, nei campi e nei boschi, nei coltivi e nei lembi selvaggi, non c’è centimetro di terra in cui non si dispieghi in prodigiosi modi l’amore silenzioso e lento delle piante. Ciascun fiore è un sesso. Non ci pensi quando annusi la rosa? Il pesco fa l’amore con sé tramite i suoi fiori; l’erba fa lo stesso, i campi sono immersi nell’amore. In metà del mondo, in poche settimane, piante e alberi rilasciano miliardi di tonnellate di polline – la maggior parte si disperde nel vento. Alcuni, grazie alla brezza o all’opera degli insetti, raggiungeranno l’erezione congelata del pistillo, feconderanno gli ovuli. Perché la vita continui.  Nelle foreste e nelle savane, sotto le pietre, sotto le cortecce, negli antefatti della terra, negli anfratti del vento, tutte le specie animali, dall’acaro all’elefante, gettano i maschi perché afferrino le femmine. In ogni pozza d’acqua, negli stagni, nei fiumi, negli oceani, le femmine del pesce depongono miliardi di uova su cui i maschi spargeranno il seme. Per alcuni giorni, le acque non saranno che rimescolamento seminale. Gli avanotti sbucano a grappoli, la loro ingenua agitazione attira mascelle fameliche. In molti vengono inghiottiti, risucchiati e digeriti nei primi istanti di vita. Alcuni matureranno in pesci, deponendo uova, a loro volta, prima di essere catturati e uccisi. Alcuni.  Abbastanza, perché la vita continui.  * Ogni essere vivente, in sostanza, è un organo di riproduzione. Gli organi associati esistono soltanto per consentirgli di sopravvivere e compiere la sua missione.  La materia vivente non ha altra ragion d’essere che espandersi nello spazio e perpetuarsi nel tempo. Le specie incaricate di assicurare questa doppia espansione non hanno possibilità di sottrarvisi: la loro esistenza ne è succube con la stessa freddezza di un filo di piombo teso dal grave, dalla gravità. Anche se il vento lo muove, il filo torna sempre in verticale, oscilla prima di rientrare nel suo stato. * L’uomo ha di fronte a sé due destini possibili: morire nella culla, o per propria scelta, per un’efferatezza del genio o per un eccesso di stupidità, oppure slanciarsi, correre nell’eternità del tempo, verso lo spazio infinito, e perpetuare la vita, libera dall’assassinio. La scelta spetta al domani. Potresti averla già fatta.  * L’individuo non si è fatto da sé, non ha voluto la vita, la vita continua senza l’aiuto della sua volontà. Non esiste perché lo vuole, in alcun momento. La vita è indipendente dalla sua coscienza; non sono le decisioni dell’individuo a mantenerlo in vita. La sua intelligenza è misera, instabile la veggenza, enorme l’ignoranza: se un individuo diventasse interamente responsabile del proprio corpo, affonderebbe nel disordine e nella decomposizione. Il governo di un mondo complesso come il corpo umano richiede una conoscenza totale delle leggi dell’universo. Richiede vigilanza perpetua, attenzione ininterrotta, capacità di coordinare ogni parte dell’organismo. Tutto ciò è al di sopra delle possibilità della comprensione umana.  L’uomo è alloggiato in se stesso come un passeggero incompetente.  Per la maggior parte delle religioni, il suicidio è considerato il peggiore dei peccati e provoca sempre, tra le persone prossime a chi lo commette, uno stupore misto a orrore. È un intervento dell’individuo in uno spazio non suo. L’omicidio, per certi versi, è meno grave: forse è biologicamente normale che un individuo causi la morte di altri individui, come è normale essere la ragione di altre nascite. Ma non della sua.  * La fame della tigre è pari alla fame dell’agnello. È la fame naturale e implacabile – eppure, dolorosa – di vivere. È questo appetito mai sazio a provocare le atrocità quotidiane, e a permettere di sopportarle; è questo appetito che perpetua, da sempre e per sempre, il sinistro teatro del mondo, dove avvengono sofferenza e crimine, terrore e schiavitù, a cui solo la morte può porre fine. La fame della tigre è infine e soprattutto la rabbiosa ricerca della ragione per cui, in questo sordido cinismo, a punteggiare questa tragedia, esistano la grazia, la bellezza, l’innocenza e l’amore.  * Prodotto dalla trasformazione della cellula iniziale e dall’attività di miliardi di cellule, l’uomo non interviene in alcun momento per dirigere il loro lavoro. L’uomo è il risultato di tale maestria, non il maestro. Se le maltratta, le avvelena, le soffoca e le mutila, le cellule si arrangiano come possono.  Quando sopravviene la morte dell’individuo, quando la materia vivente si decompone e ritorna agli elementi, una di queste cellule, o due o più tra miliardi, si stacca dall’individuo e trasmette nuova vita. L’individuo serve a questo scopo: è garante che la vita continui. Per la propria infima parte, serve a mantenere l’enorme corrente che trasporta le creature nel tempo e nello spazio.  Incapace di autodeterminarsi e di dirigersi, ignaro della propria direzione, l’essere umano possiede solo in apparenza una vita indipendente. La sua esistenza individuale, in effetti, è un imbroglio.  René Barjavel L'articolo “Perché la vita continui”. René Barjavel, lo scrittore che sapeva fare il pane e ha inventato la fantascienza francese proviene da Pangea.
May 31, 2025 / Pangea
“Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento, l’amico di Cioran
Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.  Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera, nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine. Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage dei club parigini – non lo tocca.  Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo ‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire, di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.  Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill, agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto “affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne, il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua, gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato – restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì, infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia – subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore. L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato Novalis a salvarmi”, dirà.  Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963, sorprende Emil Cioran: > “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in > cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla > preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per > questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”. Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo spurio.  L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès, in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima, d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard, le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese. Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi – Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia: > “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri > sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata > notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva > per andare a fare qualche nefandezza…” A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.  L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A. Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali, dell’incubo di essere in balia dei medici.  > “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti > in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la > morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase > della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende > intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti > infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia > per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti > di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di > compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver > saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio, > soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico > che l’uomo deve affrontare”.   In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza, un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono: profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il denaro, un falso”.  Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.  *** Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne Mio caro Guerne, se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo: leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono infossato nel nonsenso.  L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.  Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).  I miei migliori auguri, E.M. Cioran Parigi, 30 novembre 1963 * Mio caro Guerne… La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove prospera la mia anemia? Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?  Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno, perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.  A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri E.M. 23 dicembre 1963 * Mio caro Guerne, le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.  Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma, vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…  Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me, che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo! Tutta la mia amicizia, E.M. Cioran Parigi, 5 agosto 1968 *** Freddo  La luce è troppo dura per questo tempo, ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà: troppo scaltro il lucore, troppo nudo troppo sottile nel filo e liscio nella grana e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo per un sole tanto alto, radioso e felice. Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma illuminata e illuminante, non sappiamo se il suo invisibile canto trapassi le ombre se monta o se cala, se è avanguardia o resa; ma quando il vero novembre crolla su di noi questa musica ci rende radiosi e leggeri lascia una magia, un lento profumo d’estate che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.  * Il vivo peso della parola Puoi scrivere – e scrivi; puoi tacere – e taci.  Ma è sapere il silenzio l’unica, la grande chiave: devi perforare i simboli e divorare le immagini udire per non intendere soffrire fino alla morte –  lascia che il vivo peso della parola ti frantumi.  * L’albero e il muro Un albero non è mai dritto: è al debutto. S’impenna potente, fin dal fondo delle radici verso quel punto nel cielo che lo attende, quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui. Il muro è dritto, eretto dalla base non nasce che da se stesso. È pur sempre l’erede diretto di Babele.  L’albero tace: quando muore la sua preghiera resta impressa  in noi e il suo nome è la luce.  * Ouverture  Sotto il velo di un aprile che impreca e ride più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori il giorno minaccia il giorno che viene: non reca annunci perché le sentinelle hanno munto la notte. Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore? L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia? Un rischio si apre in ogni istante che passa e il pericolo è come una corona altera che mostra il cranio, si inebria di gioielli ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.  * Il temporale Drago che governi su nebbia e nibbi monarca oscuro e onnipossente dei frantumi che ti offriamo: principe del torpore e dell’ira crestata salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri istanti perché vogliamo essere come te.  Ciò che temiamo è il momento che si biforca che lascia essudare tutto, il momento in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere in piedi, nella nostra singolarità.  * Il giardino in collera Nel crudo oscuro giardino in collera della carne e del sangue, sui neri meridiani di questa anatomia strappata dalla mente e rubata all’anima a cui è annodata grazie a cui spirava la vita prima di spirare, come sappiamo: cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere? La lettera è morta: ci resta il grido l’urlo dell’essere, un’onomatopea e l’appello scheggiato di un gesto senza speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi possedevano il genio della grazia e della conversazione. Armel Guerne L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento, l’amico di Cioran proviene da Pangea.
May 22, 2025 / Pangea
Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron
Tom Buron pare un corsaro. Giovane – classe 1992 –, gioviale, ha esordito con Gallimard con un poema, Les Cinquantièmes hurlants, che va in direzione opposta ai toni dominanti del nostro tempo: lo stile sifilitico, il pallore da confessionale, una scrittura senza febbre, senza sbalzi, spesso anemica, utile al post sui social, gradevole alla lettura pubblica. In una intervista pubblicata di recente su “Zone Critique”, Tom Buron ha detto che “questa è un’epoca che necessita di miti”; si è detto portavoce di “una sorta di lirismo in lotta, di un lirismo violento”; disprezza la “poesia del quotidiano e quella che esiste per rivendicare qualcosa”, come “l’anti-poesia, cioè la poesia ‘che non sembra poesia’”. Nei suoi versi, la foga di Melville e di Lord Byron si mescola al rock, l’epica dilagante di Saint-John Perse dialoga con sonorità elettriche contemporanee. Il mito di Tom Buron è Velimir Chlebnikov, uno dei più prodigiosi inventori di linguaggio del secolo: non credo sia sul comodino di molti scrittori di oggi, in verità, spettri viventi. Come Chlebnikov, anche Tom Buron veste ampie pellicce, indossa uno sguardo spiritato, confida nel neologismo.  Tra i romanzi, preferisce Sotto il vulcano, l’epopea alcolica di Malcolm Lowry, ambientata a Cuernavaca, Messico. Proprio il Messico è uno dei luoghi-totem di Tom Buron – lo fu anche per Antonin Artaud, che laggiù tentava di ritrovare l’origine magica, glossolalica della parola poetica.  Nonostante il gargantuesco, granguignolesco entusiasmo – che è già oro in un’era di palestrati e di depressi – Tom Buron non è un poseur. Ha vissuto a lungo in Ucraina, dove ha terminato Les Cinquantièmes hurlants – ha combattuto, ha sofferto, ma ne sussurra, senza i laboriosi sofismi del retore e del neofita. Esige il rischio, proclama l’avventura come sale per la letteratura, eppure non gioca all’esteta armato. Resta, nonostante tutto, un ragazzo sfuggente – più René Char che André Malraux, per intenderci. Non ama i proclami, sa cos’è l’ispirazione e cosa significhi perdere l’ispirazione – conosce la veglia, la ferita in ambone, l’acquasantiera degli insonni.  Les Cinquantièmes hurlants, a una prima lettura, ha due grandi precedenti: Le bateau ivre di Rimbaud e The Bridge, il poema di Hart Crane, il poeta che ha scelto di morire gettandosi nel golfo del Messico. In ogni caso, è l’elemento marino a dominare il libro di Tom Buron, il disorientamento, la rottura di tutti gli ormeggi del linguaggio – un Antartide tutto attorno, che è poi pari a Minotauro, e venti che scuoiano la pelle fino al sillabario.  Non è stato difficile raggiungerlo – la generosità è parte dell’estro di un poeta; gli altri, quelli che non si imbarcano nelle imprese disperate, continuino a fare le vittime.  Perché la poesia in questo tempo impoetico?  Non è forse questa l’unica arte della nostra epoca a non essere diventata industria? Quali sono i tuoi maestri, i poeti che ritieni decisivi alla tua crescita? Citami una poesia-amuleto, un libro-totem, un lotto di versi che tieni sempre con te.  Velimir Chlebnikov, Conrad Aiken, Roger Gilbert-Lecomte, Hart Crane, T.S. Eliot e Pound, Dylan Thomas, Matthieu Messagier, Saint-John Perse, Cendrars, Majakovskij sono molto importanti per me: il mio amore per loro dura dall’adolescenza. Potrei citare altri poeti dell’Era d’argento russa come Marina Cvetaeva e Anna Achmatova. A questi dovrei aggiungere il sommo Derek Walcott, o ancora Basil Bunting e John Ashbery. Dei francofoni, devo citare Arthur Cravan, un autentico selvaggio, un autentico modello di vita e di energia vivente, ma anche Stanislav Rodanski e Marcel Moureau. Non amo distinguere tra poeti e romanzieri, dunque voglio dirti anche Nikos Kazantzakis, Ernesto Sábato, William Faulkner, Dostoevskij, Melville, Bolaño, Thomas Wolfe (non ho detto Tom…), Joyce… Cormac McCarthy e la sua cavalcata nell’orrore, quel tremebondo poema in prosa faulkneriana che è Meridiano di sangue… A noi più prossimo, devo citare Laszlo Krasznahorkai, uno dei più grandi romanzieri viventi. Amo la lingua francese di Pierre Michon, quella di Albert Cohen, di Drieu e di Morand, di Blondin – amo le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera che apprezzo di più è quella di Malcolm Lowry. Potremmo dire del desiderio contro il senso di colpa, dell’ossessione per il paradiso perduto, della cerca e della devastazione nell’alcol, di una sublime vulnerabilità e di uno stile che combatte tutti gli stili, ma ciò che ricordo meglio di Lowry è la sua presenza, ovunque, nell’opera, è il rapporto conflittuale con la scrittura, frammentario e doloroso, questo rapporto con l’opera in corso, in corsa, che commenta costantemente e da cui dipende la salvezza dell’uomo, senza condizioni.  Detto questo, è difficile scegliere l’unico libro, il libro-totemico, come dici tu, ma sono disposto al gioco: se dovessi andare in qualche luogo per sei mesi e potessi portare con me un solo libro, beh, allora opterei per le opere degli ultimi anni di vita di Velimir Chlebnikov. Amo la dismisura e le imprese eccessive, la chiave di una soluzione che deve essere ancora trovata, e lui ha tentato di trovarla più di chiunque altro: credo, come Chlebnikov, che il poeta debba essere anche un pensatore – Chlebnikov è il grande poeta dell’impossibile. D’altronde, un grande amore, quando tentiamo di spiegarlo, ci sfugge sempre, non è forse vero? Mi viene in mente quell’aneddoto in cui Caitlin racconta che il marito, Dylan Thomas, di fronte agli amici, cercando di spiegare alcuni suoi versi, si gettò a terra, d’improvviso, rotolandosi sul tappeto, grattandosi come una bestia… Che rapporto esiste tra ‘vita’ e ‘poesia’? O meglio: qual è la tua ‘poetica’ dell’esistere? Mi dirai banale: l’incontro con Rimbaud, a dodici anni, mi ha fatto credere, allora e per sempre, che l’avventura sia legata alla scrittura poetica. Il mio desiderio di scrivere si è sempre manifestato con il gusto per l’avventura e per il rischio: credo, come Hemingway, che bisogna far scontrare il corpo e la mente con la realtà, credo nella viva carne, nel sangue che ribolle. Non riesco a distinguere una dimensione dall’altra, è una sorta di rivelazione ontologica. Già a quel tempo vedevo il poeta come una creatura che scrive e agisce al medesimo tempo, una canaglia capace nel metodo, un essere che oscilla tra ascetismo e latitanza. Byroniani, rimbaudiani, insomma. Credo che occorra andare e ‘vedere’, sperimentare con i nervi e con le ossa. Ci sono cose che non si possono trasmettere né ripetere se non dopo averle vissute, se non dopo l’avventura, quella autentica. L’avventura, come la poesia, è una forma di eccedenza, si tratta di dimensioni che comunicano. Insomma, è una visione un po’ nietzschiana del poeta. La vita non basta – la letteratura neppure. Il mio caro Zorba direbbe: “Vivere, sai cosa significa? Slacciare le cinture e attaccar briga”.  Come nasce “Les cinquantièmes hurlants”, da quale ispirazione? Mi pare che il linguaggio che usi sia diametralmente opposto al minimalismo, alla poesia ‘orizzontale’ in voga in Francia come in Italia. Da dove arriva la tua lingua? Non so dirti da dove arrivi questa lingua: passo il tempo a cercarla, a tentarla. Certamente, deriva in gran parte, oltre che dal mio inesauribile interesse verso la lingua francese, da una preoccupazione per il ritmo, la melodia, l’armonia.  Les cinquantièmes hurlants è un poema che ho portato dentro di me per sei anni. Detto questo, l’ho lavorato a lungo tra il 2020 e il 2022. Volevo terminarlo entro il mio trentesimo compleanno, come mi è riuscito, per poi smettere tutto, certo che sia la migliore delle cose che abbia tentato di fare finora. Due anni dopo, ecco che appare. È un poema che nasce dal desiderio di spiazzare i temi che mi sono cari, di spostarli dalla città all’oceano, lo spazio di ogni rischio. Nasce anche dalla prospettiva di una traversata, una traversata mutila. Tuttavia, ho dato inizio a un movimento, lungo i porti d’Europa, raccogliendo appunti, cercando di dar loro un corpo; sono andato in giro per un anno e mezzo circa, prima di mettere tutto da parte perché non riuscivo a giungere a ciò che volevo da quella distanza. Quando a Est è scoppiata la guerra, sono partito. Prima presso la frontiera polacca, poi in Ucraina, verso il fronte meridionale e orientale, a Charkiv, Zaporižžja, Cherson, Mykolaiv, Pokrovsk… Prima nei ranghi umanitari, la logistica, poi, di recente, dal 2024, nell’esercito. Di questi tre anni, un anno e mezzo è stato consacrato alla guerra. Se ciò non è direttamente ravvisabile nel libro, ciò che ho vissuto lo ha inevitabilmente intriso: di ritorno da una missione, a Ochota, un quartiere di Varsavia dove ho vissuto per alcuni mesi, sono riuscito a sedermi al tavolo, a riprendere il lavoro e a completarlo, nell’autunno del 2022. Finalmente, avevo trovato un’architettura per i miei versi, una lingua per la storia del mio navigatore, un ritmo oceanico e cavalleresco da imprimere a quella traversata, un ordine e una disciplina per tale furia. Poi ho nascosto il manoscritto, ho fatto la valigia, sono ripartito per l’Ucraina.  Riguardo al termine che usi, la poesia ‘orizzontale’: Les cinquantièmes hurlants è l’esatto opposto, è un poema della verticalità. Questa sorta di ‘orizzontalità’ permanente di cui dici, non riguarda soltanto la Francia, ma il mondo occidentale in sé – non riguarda soltanto l’arte letteraria, ma molto di più. Non me ne occupo, ma se vuoi sapere cosa ne penso, dirò soltanto che trovo la ‘produzione’ attuale per lo più deplorevole, perché va di pari passo con il disprezzo per la verticalità, la ricerca incessante, l’opera. Ma non ho tempo per reagire, mi preoccupo di lavorare, mi occupa l’azione. Tutto cambierà in fretta, sono fiducioso.  La poesia è sempre eversiva, sempre ha in sé un linguaggio anarcoide, contro la necrosi linguistica odierna: è davvero così? Quali sono i confini tra la poesia autentica e la falsa poesia, il ‘poetume’ (pattume) di cui è intriso il nostro tempo? Insomma: dove ci porta la poesia?   Mi avventuro di rado nei meandri della teoria letteraria, ma penso che la poesia non abbia nulla a che fare con una forma di ‘comunicazione’. Meglio: poesia è comunicazione suprema. Mi pare che la poesia sia in un certo modo estranea a queste considerazioni. È terra d’invenzione, superamento del linguaggio, significato e pensiero rinnovati. Credo che un poeta autentico debba necessariamente condurre il lettore in una lingua estranea. Nel passato – ma accade ancora oggi – venivo accusato di essere un poeta per poeti. È un modo per squalificarti, per evitare l’ingaggio col pensiero… Allo stesso tempo, credo che in letteratura non si possa che fallire. Questo è ciò che mi spinge a continuare, che mi fa desiderare di andare oltre. Sbagliamo e sbagliamo ancora e torniamo alla battaglia: “Ancora una volta sulla breccia, amici cari, ancora una volta”. Non so se sarò mai in grado di cogliere il segno. Siamo sempre opere incompiute, incomplete. E quando ti concentri sul poema, come nel mio caso, una gara di fondo composta da quindici round, devi stare lì, devi essere sempre vigile riguardo ai tuoi errori, devi arrivare fino alla fine. Penso che il poema sia la forma più completa e sofisticata: non ha nulla a che vedere, mi si perdoni, con una bellissima lirica di quattro strofe. Esiste a tuo avviso un rapporto – di complicità o di avversità – tra ‘poesia’ e ‘politica’? In Les cinquantièmes hurlants, pur in forma remota, c’è la presenza della guerra e delle armi nucleari, riecheggia in forma escatologica ciò che stiamo vivendo oggi. Comprendo dunque la ragione di questa domanda. Detto questo, nonostante il mio interesse per la geopolitica e la storia, non mi addentro in modo frontale in questo tema, ho orrore per quelli che si definiscono “scrittori impegnati”. Trovo che tale atteggiamento manchi di classe e corrompa il lavoro lirico. I poeti non servono alcuna causa. Bob Dylan, che ha dovuto difendersi da molte tentazioni in questo senso, diceva, fin da giovanissimo, “Non esiste il bianco e il nero… Esistono solo l’alto e il basso… E io cerco di andare in alto senza pensare a cose triviali come la politica”. Tornare alla verticalità di cui dicevamo prima: ecco la mia risposta.  Hai viaggiato tanto. Quale viaggio e quale incontro ti hanno formato? È vero. Ho viaggiato in Africa, nelle Americhe, in Asia, poi ho deciso di concentrarmi sul nostro continente e ho girato l’Europa in autostop, con l’autobus, sui treni, come quando ero ragazzo. Mi sento uno scrittore europeo che si esprime in lingua francese e proviene da Omero, Dante, Blake, Nietzsche e Rimbaud. Da giovane alternavo lavori part-time, scrittura e lunghi viaggi con pochi mezzi per il continente.  Tre anni fa avrei risposto a questa domanda in modo diverso. Avrei detto che il Messico mi ha cambiato profondamente. È stato un viaggio che ho scelto nel momento giusto e in cui – cosa rara – tutto è andato per il verso giusto. Potrei parlare dell’Africa, in particolare del Senegal. Tuttavia, è l’Ucraina che occupa ormai un posto enorme nella mia vita. Ciò che ho condiviso lì con alcuni esseri umani, non lo vivrò con nessun altro. Ciò che ho vissuto con certi amici, nel lavoro umanitario come nell’esercito, non sarò mai in grado di raccontarlo come si deve – sono racconti che infine mettono a disagio chi li ascolta, al ritorno, quindi, semplicemente, smetto di parlarne, anche alle persone a me prossime. Almeno, questo vale per me: ne parlo poco, racconto poco, non condivido quasi nulla, ne scrivo, per me solo, però. Penso che tutto questo troverà, col tempo, un suo equilibrio, ma è certo che gli ultimi tre anni mi hanno invaso, hanno mutato in profondità l’uomo che ero.  E adesso… cosa fai? Ho ancora qualche lettura prima dell’estate. Intanto, a Parigi, attorno a una antologia su jazz e poesia che ho curato insieme allo scrittore di jazz Franck Médioni, s’intitola Le nom du son. È la prima antologia in francese su questo tema. Riunisce un centinaio di autori, dunque un centinaio di testi scritti tra il 1917 e il 2024. Leggerò una selezione di testi che comprende poesie di Mina Loy, Michel Bulteau e Bob Kaufman, accompagnato da un musicista, Antoine Berjeaut. Porterò Les cinquantièmes hurlants nel sud della Francia, a Sète, poi a un festival parigino, con un adattamento musicale creato insieme a Fred Aubin dei “La Maison Tellier”, un mio amico trombettista. Abbiamo alcune date da qui a settembre. Da poco, ho ricominciato a scrivere. Come dicevo, dopo aver finito Les cinquantièmes hurlants, alla fine del 2022, ho pensato di smettere con la scrittura. Il silenzio è durato due anni.  ** Da Les cinquantièmes hurlants Alimentiamo questa caduta mercuriale, la magnolia in un concerto di vertigini, una volta soltanto – sole di rame –  tra i flutti di un mandolino catartico ci ha reso vulnerabili. L’odore della meccanica i ronfi dell’Olandese Volante ci lordavano i sandali: “Strano, il babbuino, puah… sublime assillo” Sento lo stesso, di lontano, lo stesso sciaguattare di chiatta, un’ambiguità ontologica e le corde che vibrano lacerando straniere plaghe, strani pelasgi.  Perché occorre dirlo abbiamo dormito poco in quest’ultimo secolo: le radici dissennate divennero torce e ancora recludono lo spasmo delle montagne russe tossicologiche. Non ho detto troppi addio perché sono marchiato dai sigilli, ma, fiacchi di guerra, hanno assolto gli idoli cavi, la vite, un amuleto occulto, l’esca e l’acciarino nell’avventura dello squallore, dello squarcio: tutto spira, l’alba si perde in caricature carminio. La parata d’oro impone trasalimenti i colori si rinnovano come folgorazioni dall’acquarello che popoliamo tra il bronzo e il piombo, convergendo instancabili verso queste tessere del domino che cadono una dopo l’altra nel culto del ricordo.  Così, così, mai l’oblio fu incontrato ma questo vivere se non da mutilati, seguaci di frammenti eremitici, di un deliberato disordine, lo specchio semovente, l’arena regina il combattimento intangibile: Mare, dunque e lì, Mare, e là, la plenitudine del Sud – il pieno Sud.  Tom Buron L'articolo Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea
“Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido: Maurice Bardèche sfida Céline
Uno sguardo profetico: “Altrove dichiara che nella storia degli uomini vi è certamente un progresso, che ‘l’uomo è sensibilmente migliore di quanto non era [in passato]’, ma che tutte le civiltà, ognuna a sua volta, ‘tengono nella storia per un momento la fiaccola del progresso’, poi sono fatalmente colte dalla decadenza e non sono più rappresentate che da ‘cari vecchi popoli’, costretti ormai a rimettere ad altri la direzione dell’evoluzione”. Appunti di stile: “La pittura accademica e i libri scritti nella lingua letteraria sono incapaci di provocare l’emozione. La pittura presenta la realtà sotto una falsa luce, la ‘luce dello studio’. E i libri utilizzano una ‘lingua morta’, che è una falsa lingua, quella dei mandarini. Gli scrittori devono dunque fare quel che hanno fatto i pittori della scuola impressionista. Devono ritrovare la lingua vera, creatrice di emozione, così come i pittori hanno ritrovato la vera luce. Ebbene, Céline è l’unico scrittore a cui sia riuscita questa traslazione. Egli è tornato allo stile parlato e l’ha reso emotivo. La nuova lingua della quale è l’inventore è lo stile emotivo parlato: ‘L’emozione non si lascia captare che nel parlato… Il compito dello scrittore è quindi semplice: si tratta di captare l’emozione del parlato e di «riprodurla» attraverso lo scritto, al prezzo di mille sofferenze, mille pazienze che nemmeno s’immaginano! Chiaro, eh?’”. È in libreria Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (ITALIA Storica Edizioni, 2025, a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Moreno Marchi). A un primo sguardo Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche parrebbe solo l’ennesima voce in un coro già affollatissimo di biografie dedicate all’autore di Viaggio al termine della notte: un mattone in più accatastato accanto a una decina, forse venti, Céline che già gremiscono gli scaffali. E invece c’è un carburante segreto che lo fa scattare avanti: una vera “complicità” – quasi una dipendenza reciproca – fra biografo e biografato, entrambi forgiati da uno stesso sguardo ferocemente disincantato sul mondo. Scrivere di Céline resta un terreno minato: senti alle spalle il suo ghigno pronto a sconfessare ogni aggettivo. È il pedaggio che ogni céliniano paga. Per decenni lo scrittore ha incassato le interpretazioni più disparate, dall’acrobaticamente dotto al ridicolmente balzano. Bardèche, però, non si fa cogliere impreparato. Sa che la biografia è impastata di storia, così come la storia scolpisce i destini individuali e collettivi. E lui, insieme a Céline, quelle tempeste le ha attraversate in prima linea, talora fianco a fianco, talora su fronti divergenti ma sempre dentro lo stesso turbine. Il risultato è un corpo a corpo fra titani: da una parte uno dei narratori più dirompenti del Novecento; dall’altra un critico-saggista tra i più acuminati, prolifici e irrequieti della sua epoca. Ne esce un ritratto che, più che aggiungere un altro Céline agli scaffali, costringe a riconsiderarli tutti. Carlo Tortarolo  ** Da “Louis-Ferdinand Céline” Non avevo intenzione di scrivere un libro su Céline. Il mio progetto consisteva nel ricercare perché, come la letteratura di narrativa avesse cessato di essere una creazione artigianale umilmente presentata agli acquirenti, e come, perché essa sia divenuta, per la maggioranza degli scrittori, un modo di presentarsi, di affermarsi, insomma un esibizionismo. A ciò contribuiscono molti fattori. Non pretendo di esporli tutti. Volevo soltanto individuare degli itinerari, cercare di capire da qualche tipico caso, come alcuni autori fossero stati indotti a sostituire i loro studi con un one man show, come avessero abbandonato la stessa idea di avere uno studio, una fucina e perché, come avessero sostituito al loro dovere professionale uno strip-tease inteso sia quale esibizione muscolare sia quale apologia e sovente entrambe assieme. La trasformazione dello scrittore in divo dello show-business esigeva uno studio sociologico che trovavo al di sopra delle mie forze. Volevo limitarmi ad analizzarne tre esempi: quelli di Jean-Jacques Rousseau, di Léon Bloy e di Céline. Tale modesta inchiesta era quanto potevo fare. Non conosco molto bene l’opera di Céline. Da lontano trovavo nella sua carriera di scrittore una soddisfacente risposta alla questione postami. Egli venne indotto all’esibizionismo dalla persecuzione. Il suo esempio fu edificante: s’era lanciata contro di lui una muta, che lo aveva costretto a far fronte e a difendersi, che aveva distrutto in lui lo scrittore, facendone un animale di bosco non potendo far altro che emettere grida, malgrado lui, esibizioniste. Era divenuto un esibizionista perché aveva dovuto giustificarsi: come Jean-Jacques, come Léon Bloy. Mi accorsi allora che la sua opera non era, come credevo, come molta gente crede, un’opera autobiografica, ma che Céline era un affabulatore, il quale aveva usato come canovaccio il proprio itinerario biografico. Più m’informavo, più verificavo e più constatavo l’estensione dell’affabulazione. Capii che di questa sistematica deformazione egli aveva fatto uno dei principi della sua tecnica narrativa. Dovetti anche ammettere che era stato quell’artigiano che speravo ritrovare nello scrittore: il suo coraggio, gli scrupoli, le infinite correzioni, il suo accanito lavoro corrispondevano alla perfezione con la probità da me opposta all’attrazione dell’esibizione. Le cose non erano dunque così semplici come immaginavo. Céline era al contempo un artigiano e una rockstar, non perché traeva i racconti dalla sua esistenza, ma perché gridava, misurava il palco, suonando la sua selvaggia musica, impegnando in simile denuncia della realtà ciò che di più profondo e vero era in lui, mettendo “sul tavolo”, come diceva, “la sua pelle e le sue trippe”. Era la definizione stessa del poeta lirico: secondo Musset, così come secondo Rimbaud o Baudelaire. Céline finì per confessarlo. Presentò il chiarimento scenico sullo scrittore quale un diritto, un privilegio ed addirittura una necessità. Mi trovai quindi davanti ad uno sconosciuto che metteva a soqquadro la mia arbitraria classificazione. Avevo cominciato, decisi di continuare. Davanti a questo sconosciuto provai disparati sentimenti. Era stato esaltato e violentemente attaccato. Era stato ammirato e odiato. Tali contrasti non mi dispiacquero. Ma più ne avevo conoscenza, più li trovavo estranei alle qualità che amo trovare in un uomo. Mi apparve fanfarone, bugiardo, arrogante, chiacchierone, tonitruante prima e lagnone poi. Ammirai il suo coraggio allorquando si fece tribuno. Vedevo un intrepido volontario affrontare l’odio, rischiare la vita. L’impetuosa carica mi fece dimenticare quanto di lui sapessi. Mi apprestai ad ammirarlo nelle tribolazioni. Quelle da lui attraversate rinnovarono la mia simpatia: pensai alla prigione di Tasso, alle infermità di Cervantes. L’incontro mi deluse: lo scoprii egocentrico, ingiusto, stridulo, vanitoso come un uccello di cortile. Cos’è uno scrittore che non accetta la responsabilità di quel che ha scritto, quando quel che ha scritto è stato per altri mortale? Capii che egli fu al contempo un eroe ed il suo contrario: un irresponsabile. Irresponsabile perché in lui è tutto contraddizione. Mescola tutto, il cinismo che ostenta, la bontà che nasconde. È un utopista, sogna per gli uomini un inaccessibile benessere, ma allo stesso tempo, non si fa su di loro alcuna illusione. Il suo amore, la sua pietà vengono contraddetti ogni istante da ciò che vede e descrive. Bugiardo quando parla, quando inventa, detesta la menzogna degli uomini e denuncia la perpetua commedia che recitano tra loro, come scrittore egli persegue aspramente la verità: quanto sa degli uomini, la cattiveria, il sadismo, l’isteria, la vanità della loro vita. Tale verità, così crudele, concreta, brutale, imbarazza, offende. E quando la si estende a tutto, ai regimi come agli uomini, più non si vede cos’abbia di generoso: essa provoca l’odio. Si trattava di un compito troppo arduo per lui, di un fardello che non ha saputo portare. A causa di questo cinismo, non solo professato, ma per così dire statutario, tutta una parte di lui stesso non riesce a esprimersi e va indovinata. E per attimi la s’indovina quando il suo linguaggio, quel famoso linguaggio così osceno, così sconcio, si flette. All’improvviso la voce diviene musicale e triste. Dietro al teppistello si avverte un’ombra, come nei Campi Elisi degli Antichi, tendente delle braccia translucide verso i vivi in visita ai morti. È un’apparizione, quella di un altro, di un prigioniero di colui che scriveva, un’anima intravista che chiede di essere liberata e che vuole si sappia. Quest’ombra è il Céline incompreso, terminante una delle sue prime interviste con il dir degli uomini: “Ah! avessero potuto amarsi!”, esclamazione incongrua ed enigmatica; senza commenti. Pertanto sono le parole che riprende alla fine della sua esistenza, quando scoraggiato scrive: “La gente dice è un bruto, non è vero, io sono tutto cuore”. Ci aveva messo vent’anni a scoprire ciò che chiamava “il terribile pericolo dell’aver buon cuore”. Ho voluto conservare, presentare come conclusione del mio ritratto di Céline la sua immagine custodita da coloro che gli furono vicini, Pierre Monnier, Arletty, Robert Poulet ed anche Barjavel: una buona fata sotto le sembianze della fata Carabosse. Per riconciliare i due Céline, quello che si mostrava in primo piano occupando l’intera scena e quell’ombra che domandava giustizia sulle sponde del fiume della morte, immaginai una spiegazione che si ponesse al centro della mia presentazione. Punto di partenza è l’immagine che lo scrittore si fa di se stesso e che in ogni sua opera del dopoguerra appare come un’idea fissa: tale panoplia comprende la ferita durante il combattimento nelle Fiandre, la sua anima di “sottuff.” effettivo, la medaglia militare, indispensabile accessorio sovente ricordante lo sconosciuto Céline posto sotto i travestimenti di Bardamu e di Ferdinand. Cardine di simile spiegazione è la maggiore e più determinante crisi della sua vita, gli anni di prigione e di esilio in Danimarca e l’ingiusta persecuzione di cui fu vittima. Questo “eroico” Céline da anni camuffato in un Céline chiacchierone ed ingombrante è quello che un giorno ebbe l’idea di caricarsi di una supposta missione di sacrificio al servizio degli uomini. Tale suo periodo di vita, che i biografi attraversano in punta di piedi, è molto interessante. Se ne scorge il vero carattere. Innanzitutto, l’ingenuità. Il cinico, l’insubordinato si toglie la maschera: si vede comparire uno zelante, un “fanà”, dicono i militari, un maresciallo agli alloggi che si dà volontario per una missione pericolosa. Al contempo, l’irriflessione: “Cos’andava a fare in quella galera?”. Al contempo, l’inesperienza. L’odio lo sorprenderà: cosa aspettava dunque? “Forza, piccolo!”, come a undici anni quando accompagnava il padre con un fagotto sulle spalle. Infine ne veniva fuori tutto quel che fa il conservatore, compresa l’intransigenza, il semplicismo, la perentorietà. Insomma, secondo me sull’autore di Viaggio al termine della notte si erano sbagliati tutti. In seguito, nel pericolo e nella sofferenza che sondano reni e cuori, appare un altro uomo: quello che la sua immaginazione trasporta così come lo aveva trasportato nella galoppata dei pamphlet. Giustamente egli ha paura, fugge, ne ha ben ragione. Ma nel momento in cui non teme più niente, è ancora prigioniero del panico. L’illusione della persecuzione muta le forme di ciò che lo circonda: geme, grida, accusa in un incubo. Per giustificarsi si ripiega allora sull’idea di essersi sacrificato, volontariamente sacrificato, che era stato l’unico ad averlo fatto. Quindi si costruisce una propria maschera, o piuttosto si ritrova tale era davvero, ravvivando con ostinazione l’immagine tutelare, ispiratrice che si era fatta di sé all’epoca dei suoi pamphlet, i quali, diceva, io avevano guidato: il valoroso combattente del 1914, glorioso ferito di guerra, irreprensibile patriota, perseguitato da un’odiosa cospirazione, fuorviato in un’abominevole avventura che lo altera e da cui non riesce ad estrarre la storia di sé che vorrebbe imporre: quella di un resistente alla guerra, all’Occupazione, che è stato deportato in Prussia e che sotto il terribile stivale danese ha subito sofferenze sfidanti l’immaginazione. Simile cambiamento a vista fu un po’ brutale. Céline trovava il percorso assai semplice, logico, evidente. Nessuno condivise tale convinzione. Egli vi si rifugiò, la mantenne per sé, senza riuscire ad imporla. Ma, per difendersi dagli uomini, si costruì un’altra maschera, opposta alla prima. Non più il cinico, ma il vinto, il relitto. Ha scoperto l’odio e vi risponde con l’odio, è lui ad usare il termine. “Io sono tutto cuore”, specifica a volte l’epilogo… Non dimentica niente. Non ha però il diritto di esprimere la sua rabbia. Si protegge, come può, sotto il suo ultimo mascheramento, una canadese da esiliato nel fango di baroni: diffidente, sornione, prudente, “in guardia”, come dice, traduzione della frase di Descartes: “Larvatus prodeo”. Ed a questo punto la trasparenza non lascia passare altro che un’immagine, la più sorprendente di tutte, quella di un uomo che, non credendo a nulla, crede ancora al premio Nobel e alla Pléiade. L’immagine che Céline si faceva di sé io la credevo vera. Noi non siamo quel che siamo, ma quel che crediamo di essere. L’ha detto Pirandello e prima di lui Pascal. Perché non spiegarlo attraverso l’immagine che si faceva di sé? Come ognuno di noi. Egli ha diritto ad un giusto processo. È uno da rimettersi all’immagine che il Partito si fa obiettivamente della nostra condotta? Si può allora dire che Céline fu uno scrittore “fascista”? Non si è necessariamente fascisti perché si è portato un plico sotto le palle, non di più perché si è antisemiti, in qualunque partito vi sono gli antisemiti, né perché si è desiderata un’alleanza franco-tedesca onde assicurare un avvenire di pace. Non è nemmeno “razzista”, in quanto la sua angoscia davanti al declino della razza bianca non ha niente in comune con il dogma della superiorità degli ariani, essa esprime l’ansietà dell’igienista che egli sempre fu. Con la sua condotta, con la sua attitudine Céline è profondamente estraneo all’energia, al rigore, alla determinazione rivendicate dai “fascisti”: ed ancor più ad una rigidezza da loro ostentata. Lo si crede fascista a causa dei suoi pamphlet: non lo è più di quanto non fosse comunista quando scrisse il Viaggio. Egli non è né coerente né sistematico. Vi è in lui qualcosa di molle, a volte di debole: in alcuni momenti fa pensare ad un ubriaco incontrato per caso e che tra i singhiozzi ci racconta la sua storia. Essa può interessare, l’ubriaco la sviolina abbastanza bene. Lo si può amare, ma senza illusioni. Ad ogni modo è inclassificabile e ci s’inganna quando si pretende di appropriarsene.  Maurice Bardèche *Per gentile concessione si pubblica un passaggio dal “Louise-Ferdinand Céline” di Maurice Bardèche, edito da Italia Storica Edizioni, pubblicato in origine da La Table Ronde nel 1986 L'articolo “Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido: Maurice Bardèche sfida Céline proviene da Pangea.
May 15, 2025 / Pangea
Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno irrefrenabile di mondanità)
> 2010. Samuel Paty, Simone Veil, Miloš Forman ed Elisabetta II erano ancora di > questo mondo, Barack Obama era presidente degli Stati Uniti e, quattro anni > prima, Vladimir Putin aveva fatto assassinare Anna Politkovskaja. Il 2010 è > stato dichiarato l’anno Francia-Russia. Non so cosa significhi.I talebani non > avevano ancora riconquistato il potere in Afghanistan. Kathryn Bigelow è > diventata la prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con il > film The Hurt Locker. (…) Il presidente della Francia era Nicolas Sarkozy. > TikTok non esisteva. Adele non cantava ancora Someone Like You né Clara > Luciani cantava La grenade. Il 2010 è l’anno di J’accuse di Damien Saez. > > Il 2010 è l’anno in cui mia zia è morta per la seconda volta. > > (incipit di Tatà di Valérie Perrin, edizioni E/O, 2024) Tatà, questo lungo romanzo edito da E/O, l’abbiamo trovato nel cestino della carta da buttare un giorno in cui eravamo in visita qui alla redazione. Poiché non mastichiamo granché la letteraturina francese in voga oggi, un amico ci ha ragguagliati sull’autrice, spiegando che Valérie Perrin è la quarta moglie – di trent’anni più giovane – del quasi novantenne regista francese Claude Lelouch. È lei ad avergli scritto le sceneggiature degli ultimi sette film, e gli ha fatto anche da fotografa di scena; poi ha pubblicato alcuni romanzi di successo che qui in Italia sono stati propagandati in pompa magna, a suon di bla-bla-mila copie vendute in una settimana, in un mese, in un anno e via dicendo. Incuriositi, l’abbiamo esaminato per cercare il motivo di quella cestinatura: magari ci era finito per sbaglio. Innanzitutto, il riferimento puntiglioso all’anno 2010 nell’incipit riportato in epigrafe – per inciso, non abbiamo idea di cosa sia il J’accuse e nemmeno chi siano Damien Saez e Clara Luciani – serve a far partire la storia, in cui Colette, la zia della narratrice, “muore per la seconda volta” perché le avevano già fatto il funerale tre anni prima: > «Pronto?».«Buongiorno, qui è la gendarmeria di Gueugnon».«Buongiorno».«Parlo > con la nipote di Colette Septembre?».«Sì».«Sono il capitano Cyril Rampin. Devo > darle una brutta notizia, signora».«…».«Sua zia è deceduta».«Mia zia?».«Sì, > Colette Septembre. Sono qui con l’ambulanza. L’abbiamo trovata priva di vita > al numero 19 di rue des Fredins. A prima vista sembrerebbe che sia morta nel > sonno, ma stiamo portando le spoglie all’istituto medico legale per le > verifiche del caso».«Guardi che mia zia Colette è sepolta da tre anni nel > cimitero di Gueugnon. E abitava in rue Pasteur».«Ho la carta d’identità sotto > gli occhi: Colette Septembre, nata a Curdin il 7 febbraio 1946. Sulla foto è > più giovane, ma le somiglia».«Dev’esserci un errore. Probabilmente è un caso > di omonimia».«Nel suo portafoglio c’è un biglietto su cui è scritto: Persona > da contattare in caso di emergenza: mia nipote Agnès, 01 42 21 77 47».«…».«C’è > anche scritto che vuole essere cremata e riposare accanto a Jean > Septembre».«Jean?».«Sì. Lo conosce?».«Era mio padre». Già in questo primo scorcio, purtroppo, qualcosa non va. A parte la banalità di certe battute che si sarebbe potuta evitare («Buongiorno», «Buongiorno», «Sua zia», «Mia zia?»), a esser fuori luogo sono i tre puntini messi tra virgolette, tipici di un’ingenuità espressiva da andamento fumettistico del dialogo, dove si crede che il silenzio dello spiazzamento debba per forza essere rappresentato con un capoverso muto, per aiutare il lettore debole a immedesimarsi. Il guaio è che questa formula semplificante non è un incidente, ma viene riproposta in vari punti, come un vezzo stilistico: > «A cosa ti riferisci?».«A Charpie, te lo ricordi?».«No. Chi è Charpie?».«Un > dirigente, uno che non c’entrava niente con gli spogliatoi, ma ti giuro che ha > passato un bel po’ di tempo nelle docce dei ragazzi, si è rifatto gli occhi > con tre generazioni senza la minima discrezione. Per non parlare dei muscoli e > dei coglioni che palpeggiava i mercoledì pomeriggio».«…». Non vogliamo annoiarvi con citazioni inutili, ma vi assicuriamo che il silenzio espresso coi puntini fra le virgolette continua a comparire anche in seguito, come se fosse l’unico modo per esplicitare quel tipo di situazione. Questa dissonanza ci ha fatto insospettire un po’, spingendoci a cercare qualche notizia in più sull’autrice. In Wikipedia – la fonte principe dei nostri tempi – viene innanzitutto specificato che Valérie Perrin è “scrittrice, sceneggiatrice e fotografa”. Dunque, immaginiamo che lavori innanzitutto per il cinema: quali film ha sceneggiato? Oltre agli ultimi sette del marito, null’altro viene segnalato. Se non esistono altre collaborazioni al di fuori della cerchia familiare (qualora esistessero, qualcuno le menzioni) non sappiamo fino a che punto si possa parlare di sceneggiatrice come “professione”, nel senso di attività che si sia sviluppata e misurata col mondo professionale esterno. Inoltre, l’autrice viene definita fotografa. Bene, per chi ha lavorato? Quali riviste, quali eventuali campagne, o servizi su internet? Ha fatto qualche mostra, pubblicato qualche libro fotografico? Non si sa, perché l’unica cosa che risulta aver fatto è la “fotografa di scena” per i film del marito. Se non è così, suggeriamo di rimpolpare il curriculum con qualche notizia in più che possa chiarire le cose.  Rilevate queste criticità, asteniamoci da ogni illazione o elucubrazione sul personaggio e su come viene presentato al pubblico, e restiamo invece sull’argomento libro. Sempre Wikipedia dice che il primo romanzo della Perrin, Les Oubliés du dimanche (Il quaderno dell’amore perduto), ha ricevuto ben tredici premi, ma nell’elenco lì dedicato ne compaiono solo sette. E gli altri sei dove sarebbero? Si tratta forse di piccole manifestazioni di paese non degne di menzione? Poi leggiamo che il suo secondo romanzo Changer l’eau des fleurs (Cambiare l’acqua ai fiori), “ha ricevuto diversi premi tra cui il prix Maison de la Presse che premia un’opera scritta in francese per il vasto pubblico”: ecco dunque un indizio che ci aiuta a inquadrare questo genere di romanzi. Il Vasto Pubblico diventa la parola chiave, la formula magica del parco lettori da nutrire con ciò che chiede. Confermiamo comunque che questo romanzo procede in modo disinvolto e scorrevole, con quel genere di scrittura che piace tanto a chi usa dire “si legge d’un fiato!”, con la differenza che Tatà è un volume di seicento pagine, quindi di un fiato non si può certo leggere: al contrario è un macigno che fa penare parecchio chi si metta in testa – per principio o per cocciutaggine – di leggerlo fino in fondo. Secondo la vulgata di Wikipedia, i romanzi di Valérie Perrin “raccontano ‘storie di vita’, mettendo in scena dei personaggi accattivanti e dal percorso di vita atipico. Con uno stile semplice, vivace e a tutto tondo, l’autrice costruisce i suoi romanzi in corti capitoli al fine di dare un ritmo al suo racconto; Changer l’eau des fleurs, per esempio, comprende più di un centinaio di capitoli, riassunti ogni volta da un epitaffio poetico”. Ora qualcuno dovrebbe spiegarci cosa significa “uno stile a tutto tondo”. Essendo effettivamente semplice, lo stile in questo libro non decolla mai, resta rigorosamente sotto un’asticella definita, e rimane a galleggiare sulla superficie di un chiacchiericcio da consorteria che si riunisce in soggiorno o nella sala da tè: un chiacchiericcio che appartiene alla vita quotidiana di moltissimi, che sia declinato in seno alle classi medio-popolari oppure negli ambienti privilegiati della gauche intellectuelle a cui l’autrice sembra appartenere. Ma cerchiamo di essere più specifici. Il blocco narrativo che la Perrin cerca di dipanare per far stare in piedi la storia vorrebbe intrecciare “segreti familiari, memorie sepolte e il peso insondabile del passato, lasciando il lettore intrappolato in una ragnatela di emozioni e misteri” (citiamo formule elogiative raccolte in Rete). La protagonista Agnès è – ovviamente – una regista di successo che deve affrontare la (seconda) morte della zia Colette, detta affettuosamente Tatà, che furbescamente aveva finto di defungere tre anni prima. “Perché Colette ha fatto credere di essere morta? Questo enigma, oscuro e spiazzante, conduce Agnès in un viaggio a ritroso nel tempo, tra frammenti di memoria e segreti sepolti. Una valigia piena di audiocassette lasciata dalla zia si rivela il filo conduttore che lega voci dimenticate, vecchi amici e verità sommerse. Emergono storie che si intrecciano in un mosaico di destini e di personaggi”. E qui arrivano i dolori: purtroppo non c’è nessuna “esperienza emotiva che trascende le pagine”, nessuna “riflessione sulla memoria e sui legami familiari che invita il lettore a guardarsi dentro” (guardarsi dentro è un’espressione che andrebbe abolita); e i classici “fantasmi del passato” non portano nessun fardello che cerca redenzione, ma restano evanescenti e pretestuosi, senza nerbo come la girandola di personaggi che interagiscono come se si trovassero in un film commedia, ovviamente francese. Lo stile è quello lì, coi toni disinvolti e sbrigativi da sceneggiatura interpretata da Catherine Deneuve, con la spocchia velata della gauche intellectuelle che abbiamo citato, quella che finge spontaneità lasciando trasparire la consapevolezza di essere due gradini sopra, di poter trascurare quella che si chiama onestà artistica perché, comunque, il “vasto pubblico” ci cascherà e verserà i soldi in cassa. È l’espressione chiara di quella sorta di cripto-disprezzo che rimane tra le righe, che si omologa alla decadenza culturale del nostro tempo rinunciando a impegnarsi, cavalcando scorciatoie, gettando brioche al popolo per restare in sella. In Tatà la trama non esiste, ovvero si attorciglia in una sorta di labirinto che fa vagolare il lettore senza risolversi in una narrazione. I personaggi, così inconcludenti, fanno venire i nervi al pari di quei dannati tre puntini messi fra virgolette che ogni tanto spuntano senza motivo: > «Sono lì dentro?».«Sì» mormora.«Tutte?».«Sì».«Mi stai dicendo che zia Colette, > la persona più taciturna che abbia conosciuto in vita mia, ha registrato… > quanti minuti, Cornélia?».«Dodicimila».«…dodicimila minuti di nastro > magnetico?».«Sì, anche un po’ di più».«Un po’ di più?».«Sì».«Perché l’ha > fatto?».«Per te».«…». Le battute che ripetono, i famigerati tre puntini virgolettati, il chiacchiericcio sofisticato da Comédie Française, fino alla nemesi delle audiocassette registrate dalla zia con gli spezzoni di una storia incoerente, frammentata, che non riesce a formarsi in una narrazione logica. Una sarabanda di ricordi che sembra l’espediente per riempire le pagine senza una vera direzione, solo per inserire quegli elementi-chiave che simulano sostanza e vogliono dare il necessario appeal alla vicenda, per blandire il pubblico: la sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, un celebre pianista, un assassino senza scrupoli, un insospettabile pedofilo, e il tifo sfegatato e pittoresco della zia per la squadra locale di calcio. Segnaliamo che Agnés è ossessionata dall’ex marito Pierre, che l’ha lasciata per una donna più giovane: va da sé che la donna in questione è – a seconda dei momenti – stronza, baldracca, troia, oppure pasticcino. Talvolta le elucubrazioni della protagonista sono enfaticamente spiattellate, a effetto, come se ci si trovasse in una scena comica di Louis De Funès: > “Sono Agnès”.Come avrebbe reagito? Non gli avrei dato il tempo di dire > “Agnès?” o “Agnès!” o “Perché mi chiami, è successo qualcosa?”.Gli avrei > detto: “Pensa, mi ha appena chiamato la gendarmeria di Gueugnon. È morta > Colette”.No, non avrei detto “pensa”, avrei detto: “Mi ha telefonato la > gendarmeria di Gueugnon. Hanno trovato il cadavere di una donna e sostengono > caparbiamente che si tratti di Colette”.No, caparbiamente non va bene, non > dico mai “caparbiamente”.Mi avrebbe risposto: “Ma è già morta… Hai bevuto? > Dimmi la verità, hai bevuto?”.Avrei replicato: “Ti piacerebbe, eh? Così tu e > la tua baldracca potreste avere la custodia esclusiva di Ana”. E avrei > riattaccato.Non ho mai detto la parola “baldracca”. Quando sono arrabbiata > grido “stronza” o “troia”. Chi dei due avrebbe riattaccato per primo? In quale > momento la conversazione si sarebbe inasprita? Che dubbi amletici, talmente drammatici da accorciare il respiro. Più si procede nella lettura più la protagonista Agnès diventa insopportabile, al punto da farci solidarizzare col marito fedifrago Pierre. E certe riflessioni sembrano rivelatrici dei problemi di questo libro: > “E io ero stanca. È il prezzo da pagare per la gloria: la paura, sempre più > presente e opprimente, di non avere più niente da dire, la sensazione di > rifilare sempre la stessa minestra. Cosa raccontare nel prossimo film? Tra le > altre donne che mio marito non guardava ce n’è stata una che ha fatto più che > guardarlo, gli è saltata addosso. Aveva un buon odore, era carina e > zuccherosa, aveva voglia e faceva venire voglia. E lui, senza opporsi, l’ha > lasciata fare, in un primo momento per sapere, per capire, per assaggiare > qualcosa di diverso”. In conclusione, possiamo dire che uno degli scopi occulti di questo libro pare essere quello di trasudare mondanità. Effettivamente, è una vocazione che viene da lontano, da quell’aristocrazia Ancien Régimeanteriore alla Rivoluzione del 1789, dove una piccola schiera di privilegiati, splendidamente condannati all’ozio, si creava una realtà circoscritta in cui autocelebrarsi. Era lì la Civiltà della conversazione, raccontata nel magnifico libro di Benedetta Craveri edito da Adelphi: fare della vita mondana un’arte e un fine in sé, come tratto distintivo di un’identità aristocratica che dal Sei-Settecento è riuscita a proiettare la sua eredità fino alla gauche intellectuelle francese novecentesca, l’estremo baluardo culturale che potesse arginare la deriva inevitabile, compiutasi nell’ultimo quarto di secolo per estinzione generazionale. L’autocelebrazione occulta, ben percepibile nella prosa pretestuosa della Perrin, discende proprio da quel bisogno irrefrenabile di mondanità, da quell’esprit de société che nel tempo si è sfilacciato fino ad annientarsi nel chiacchiericcio stolido che oggi macina tutto, che dice senza costrutto, che parte per tornare al punto di partenza, che celebra la propria inutilità in pagine che – siamo desolati – torneranno nel cestino.  Paolo Ferrucci *In copertina: un’opera di Roland Topor L'articolo Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno irrefrenabile di mondanità) proviene da Pangea.
May 9, 2025 / Pangea
Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra. Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.  Aveva, come sempre, ragione.  Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa – registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras, Yourcenar, de Beauvoir…).  Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra – sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus & Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni – non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares, 2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi, ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo (anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant, Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni “testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).  Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai “miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.  Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il quale penetrare nel mondo della Némirovsky? Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel 1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”, se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento, fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel 2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un tono lirico.   Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?  Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse, scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli, gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.  Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria? Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans, Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi dedicati a Sisifo della poesia La scarogna. …e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?  Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini. L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale, Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”, le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.  Irène Némirovsky (1903-1942) Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare un destino? L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria, una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940, incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi, malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera. Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky? Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante, insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.    La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così? Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène? Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese, investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere deportata.   Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora? È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto. Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era quella di ricordarsi che  > “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre > quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto > la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.  Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo, le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto, interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.  L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
May 2, 2025 / Pangea