È stato Roger Munier, munifico in amicizia, a far incontrare Martin Heidegger e
René Char. Era il 1955, Jean Beaufret aveva invitato Heidegger a un
convegno, Qu’est-ce que la philosophie?, a Cerisy-la-Salle; Jacques Lacan
avrebbe ospitato il filosofo tedesco a casa sua. Ne sortì, tra estremi, un
legame possente. Undici anni dopo, Char invita Heidegger a Le Thor, in Provenza,
a parlare di Eraclito.
Nato a Nancy il 21 dicembre del 1923, Roger Munier aveva incontrato Heidegger a
Todtnauberg, nella Foresta Nera, nel 1949: aveva ventisei anni, cominciò a
tradurre la Lettera sull’“umanismo”, uscita, infine, nel ’53 sui “Cahiers du
Sud”. Si era avventurato in Germania per sfidare, viso-nel-viso, quell’uomo che
gli aveva in certa misura cambiato la vita. Heidegger, come sempre, maculato di
sorrisi e di allusioni, fu cordiale, generoso, di quarzo.
Che figura straordinaria quella di Roger Munier: ha tenuto insieme mondi,
spiriti, con l’arguzia di una merlettaia del pensiero; sì, proprio come una
devota figura di Vermeer, sempre a distanza dal centro verminaio del quadro –
per eccesso di sapienza –, sempre così azzurra.
Scoprì Heidegger mentre studiava teologia tra i Gesuiti: per un po’, Munier fu
folgorato dall’ordine, stigmatizzato da una specie di conversione. Mollo tutto
nel ’53, impegnandosi, da allora, nei ranghi dell’Otua (Office technique pour
l’utilisation de l’acier), organizzazione legata all’industria siderurgica, per
cui ricoprirà alti incarichi. In Francia, si legò a Paul Celan; riceveva
biglietti affettuosi da Emil Cioran. In Giappone, si innamorò della poesia
orientale: ne amava l’asciuttezza, la tirannia dello sguardo, quelle immagini al
contempo brusche come un colpo d’ascia, tenere come un fiore. La passione
fermentò in un libro, Haiku, pubblicato da Fayard nella collana di documents
spirituels “L’espace intérieur”, diretta proprio da Munier; tra i titoli in
catalogo spiccano un saggio di Thomas Merton sul Taoismo, la Guida spirituale di
Miguel de Molinos, il padre del “quietismo”, la biografia di Milarepa tradotta
da Jacques Bacot (attualmente in catalogo Adelphi) e un libro di Julius Evola
sullo yoga tantrico. A corredo del libro, eletto alla bellezza, un sublime
saggio di Yves Bonnefoy, Du haiku.
Negli anni, Munier, figura tanto centrale da restare elusiva ai più, eletta da
un istinto allo straniamento, si trincerò dietro un fortino di autori-totem: a
lui dobbiamo la traduzione in francese di Angelo Silesio e di Antonio Porchia,
di Roberto Juarroz e dei libri più importanti di Octavio Paz. Per i “Cahier de
l’Herne” voltò nel proprio idioma Che cos’è metafisica?, il celebre lavoro di
Heidegger; per le edizioni Fata Morgana ha tradotto e commentato l’ottava
delle Elegie duinesi di Rilke: lo affascinava il punto di “completa lacerazione”
della poesia, quello in cui “la visione si apre, finalmente, senza schemi né
limiti, e lo sguardo, liberato, si effonde nella profondità dell’animale”.
Nel 1973 Gallimard aveva pubblicato L’Instant, indocile esordio poetico di
Munier. Si legge, in quel procedere per frizioni e slogature grammaticali – che
sorbite in calce all’articolo –, lo sgocciolio di Celan; soprattutto: i
vagabondaggi nel linguaggio di Eraclito. Con “l’Oscuro” di Efeso Munier si
confronta per anni: nel 1991 Fata Morgana pubblica un’edizione
dei Fragments che, a dire di chi sa, resiste per aurea nitidezza. Anche qui:
Munier è affascinato dal crollo del linguaggio, dalla sua imbestiata
beatitudine, da una solitudine solare – scrive di una “parola-cosmo, il primo e
ultimo dire di tutte le cose”. Come a dire aiuto – come a dire amore.
Autore di un’opera erratica, dal 1995 comincia a raccogliere i diari con il
titolo simbolico Opus incertum(qualcosa esce per Gallimard, poi è gara tra
diversi editori, per una mole di oltre tremila pagine; l’ultimo tomo, La Voix de
l’érable, Opus incertum VII, Mars 1995 – Septembre 1997, è uscito quest’anno per
le edizioni Arfuyen). Si tratta, scrive Munier, di “pensieri quotidiani che
s’incastrano l’uno nell’altro con un certo disordine, non senza un movimento
segreto che li governi… è un percorso da nottambuli”. Disordine, segreto, notte.
Già: omaggiare il linguaggio nella sua disparità; romperne il carapace, essere
capaci nel fuoco.
In questa tratta nell’aldilà della parola, è quasi naturale che Munier abbia
ingaggiato una lotta senza quartiere con Rimbaud, con quel dire senza diaria,
senza ricompensa. Nel 1976, per “Archives des Lettres modernes”, cura una
inchiesta, aujourd’hui, Rimbaud…, che mette in fila pensatori, scrittori, poeti.
Tra i tanti, partecipano Le Clézio e Bonnefoy, Derrida e René Char, che rinviene
con un’illuminazione:
> “Bisogna vivere Rimbaud, l’inverno, attraverso un ramo verde la cui linfa
> ribolle e schiuma nel camino, nell’indifferenza di un fuoco di ceppi morti che
> si inchinano”.
Naturalmente, all’alto consesso partecipò, avvolto in titanica stola, anche
Heidegger; come sempre, portò il discorso in un altrove terribile: “Intendiamo
con sufficiente chiarezza, nel dire che dice la poesia di Arthur Rimbaud, ciò
che tace? Vediamo, già, l’orizzonte a cui è giunto?”.
Nessun punto di sutura tra noi e il linguaggio – dacché la parola esiste per
scatenarci. Dunque: si dice per recidere (non per recitare, non per decidere).
Muore, infine, Roger Munier, nell’agosto del 2010, riposa a Xertigny, nei Vosgi,
la terra degli avi; un bel sito è consacrato alla sua memoria.
***
I privi di tutto
Chi nomini – cosa?
Nulla ha nome
il nome nomino.
Il mare non conosce
la tua musica – tu
ignori la sua
È l’albero
che freme al vento
o il vento
che freme nell’albero?
Chi si muove:
albero o vento?
Un corvo nero, aguzzo
nel giorno opale
artiglia l’opale.
Il brusio del torrente
se nessuno lo intende
è niente.
Non esiste brusio
non è che nulla.
Ma urla.
Il canto
del Nulla.
Predilige l’alba
che nel suo imbelle chiarore
tiene sotto chiave la notte.
Qualcosa viene
il solo che viene
e non viene
porzione del nostro oblio.
Il tempo avviene
infaticabile
continuo come il divenire
di ciò che viene.
Tutto è chiuso
e si conferma
nel centro della sua notte.
Tutto ciò che si spalanca
è ferita.
Il giorno non sfugge alla notte
né la notte al giorno:
ciò che esiste esiste
perché sia annientato.
Il nulla non è il terribile:
terribile è la lotta
nel giorno della sua apparizione
questa agonia che viene.
Cercò una parola
l’ultima parola.
Quella che metterà
fine a quel dire
inutile e infinito.
Soltanto una parola
ha tale potere.
Niente
non c’è da dire
su ciò che ci fa
parlare.
Dicembre 1974
*
Da La traccia
Destituire. Strappare.
Nulla se non l’aleatorio
eppure non è caos.
Quando perdi il filo
e insinuarsi non è più possibile
quando l’ostacolo è massiccio
compatto, continuo
allora tocchi il continuo
l’esattezza del continuo
continuamente.
Niente che possa vedere
niente – è indubbio. Niente
è lì se non lo vedo.
Fissa… cosa? L’istante? No.
La figura. Quella che appare e sparisce
nel volgere dell’istante.
Che rinvenga
che ritorni dissotterrato
il puro momento
che tutto miracolosamente
disfa – essendo sé
(nello splendore) e dunque
indistinto, fuso
nell’unità perenne…
Il cielo si copre.
Remissione, rapimento.
Nel grigio del mare:
il caglio del tempo.
Se viene, se è
è nel deviare. È come
decentrato e devi
sporgerti per raggiungerlo.
Nell’inatteso – di lato.
No, il sole in effetti
non si leva né cala.
Nel ritrarsi della traccia
appare, al di là di ogni
designare. Insignificante
apparenza: non è che
se stesso. Perde perfino
il nome.
L’uccello riceve la pioggia
nel becco, nel cranio tesi
verso ciò che precipita.
È pioggia? No: specie
di crollo, l’impalpabile
si effonde e affonda
un venire, un avvento
silente, dall’alto.
La pioggia, la pioggia…
Come la fine di una
distanza.
La gioia risaputa
non è più gioia
gioia non è – nulla
può essere identificato –
poi: identità comincia.
La pioggia cessa
all’improvviso
qualcuno la trattiene
è riottosa, reticente. Poi:
comincia a martellare
ricomincia, incerta…
Il tempo – cos’è il tempo?
Tutto è lo stesso ed è
immobile, ma mai
un precedente.
Nuvole: grigia
lega, lenta lana
che nega, assolve
la sera, svanisce.
**
Da Haiku
Ah… poter essere
un bambino
il primo giorno dell’anno
(Issa)
*
Mi sono voltato
ma l’uomo si era
già perso nella nebbia
(Shiki)
*
Sovrasta il mare
un sole ingabbiato
tra rovi di nebbia
(Buson)
*
Pioggia di primavera –
e ogni cosa
torna a splendere
(Chiyo-ni)
*
Nel più lungo giorno
muschio negli occhi
che fissano il mare
(Taigi)
*
Ignaro
del lignaggio del luogo
un uomo taglia l’erba
(Shiki)
*
Anche sulla legna
ammassata per il fuoco
nascono germogli
(Bonché)
*
Prima che l’ipomea
fiorisca, consumiamo
il pasto: siamo umani
(Basho)
*
Ho colto la peonia:
stasera mi coglie
una profonda nostalgia
(Hokushi)
L'articolo “Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra
Heidegger e Celan proviene da Pangea.
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Nel 1917, per le edizioni di Georges Crès, pubblicò un libro delizioso, La
Maison dans l’œil du chat. I disegni, vigorosamente liberty – che un po’
ricordano, frenati per gioia ingenua, Aubrey Beardsley, l’inquieto illustratore
di Wilde –, scortavano uno strampalato libro ‘per bambini’, che alternava brani
in prosa a brevi testi poetici. Crès era l’editore di Victor Segalen e di Marcel
Schwob, aveva stampato Noa Noa di Paul Gauguin: il fiabesco e l’esotico, cioè,
dalle tinte perturbanti.
L’autrice, Mireille Havet, era giovanissima: nata nell’ottobre del 1898 a Médan,
aveva scritto quei testi, in origine, a quindici anni, pubblicandoli su “Les
Soirées de Paris”, la rivista su cui pubblicavano, tra gli altri, Blaise
Cendrars e Giovanni Papini, Alberto Savinio e Max Jacob. Il padre, nevrastenico,
si era suicidato proprio quell’anno, era il 1913, nel ricovero psichiatrico dove
l’avevano rinchiuso; lei dirà di aver vissuto l’infanzia nell’agone di una
libertà “terribile”. Negli “avvertimenti”, Mireille – un nome che sa di miracolo
e di sole – scrive di aver “lasciato alcune pagine bianche per il lettore: sono
tue. Scrivi la tua storia (una storia che potrebbe essere più bella di quelle
che ho scritto io), fai il tuo disegno”. Il libro – di cui abbiamo tradotto
alcuni brani, in calce – ha la violenta innocenza dell’infanzia: sguardi che
recano more e coltelli.
L’introduzione l’aveva scritta Colette, la superstar della letteratura francese,
l’autrice del ciclo di “Claudine”. In realtà, l’introduzione di Colette è una
lettera a Bel-Gazou, Colette de Jouvenel, la figlia, nata nell’estate del 1913:
> “Bel-Gazou, bimba mia, nata esattamente dodici mesi prima della guerra, ancora
> non sai leggere. Serberò per te questo libro, il primo che leggerai. È stato
> scritto da una bambina, non vi troverai le frivolezze degli adulti. Gli
> adulti, mia Bel-Gazou, aspettano sempre che sia troppo tardi per scrivere un
> libro per bambini. Quando lo fanno, hanno dimenticato che l’infanzia è una
> cosa seria, spesso disprezzano la farsa e non capiscono i racconti
> stravaganti… Colei che conversa, con fare infantile, con il Gatto e con la
> Rana, non esita a cantare le Stelle, a seguire le orme della Notte, del Fumo,
> del Raggio; si protende con familiarità verso l’Eterno… Amerai questo libro,
> Bel-Gazou, lo amerai così tanto che sarà il tuo primo segreto, il primo libro
> che troverò nascosto sotto il tuo cuscino”.
Cresciuta in un ambiente supremamente autarchico – cioè, in piene ristrettezze
– Mireille divenne il souvenir e il passepartout dei grandi scrittori del tempo.
Colette la adorava, Guillaume Apollinaire, il suo mentore, la vezzeggiava,
chiamandola “le petite poyétesse”; Jean Cocteau tentò di rubarle l’ispirazione,
fece di lei la sua musa-musetto. Il suo primo romanzo, Carnaval, pubblicato nel
1922 da Arthème Fayard, ne consacrò il talento: fu applaudito da André Gide e da
René Crevel, gareggiò per il Goncourt. Il resto era il sapido frutto della sua
audacia: bella, disinvolta, lasciva, Mireille vestiva da uomo, professava con
ribalderia la propria omosessualità, dicono fosse insaziabile, un cannibale con
il viso da bambola. Nell’anno in cui esce Carnaval,scrive sul diario una frase
che ne identifica l’indole:
> “Procedere, rompere, non ammettere altro, distruggere e respingere tutto ciò
> che, pur da molto lontano, minaccia la mia indipendenza anche soltanto per un
> secondo: questa sia la mia legge. Non una politica di conciliazione ma di
> rivolta. Non mangerò il tuo pane. Sarò sconvolgente fino alla fine”.
Dal 1919 fu letteralmente schiava dell’oppio e della cocaina. La
bambina terrible che scriveva con leggiadra sapienza mutò in vampiro: si dava a
chiunque, di notte, nelle catacombe parigine, per pochi denari, a corroborare le
proprie manie. Tubercolotica, tossica, divorò tutti e fu da tutti rigettata, fin
dalla fine degli anni Venti – morì in un sanatorio, nel marzo del 1932, a
trentatré anni. Prima di morire, aveva consegnato i suoi scritti a Ludmila
Savitzky, attrice, poetessa, traduttrice (tra l’altro, di Joyce, Virginia Woolf
e Frederic Prokosch). Nel 1995, Dominique Tiry, nipote di Ludmila, scovò nella
soffitta di famiglia i diari di Mireille. Fu un evento sconvolgente:
nei Journal, tenuti tra il 1913 e il 1929, Mireille Havet descrive, con
micidiale minuzia, la sua “vita da dannata”. Il ‘genere’ canonico della
letteratura francese – il diario, genio dell’egotismo supremo, viziato gioco di
maschere – viene sviscerato fino al suo contrario: l’ego non è che bocca che
trabocca, denti che mordono, lingua che lecca. “Il mondo intero ti tira per il
ventre”, scrive Mireille. I Journal di Mireille sono stati stampati, in cinque
tomi, tra il 2003 e il 2010 dalle Éditions Claire Paulhan; in Italia esiste una
porzione del Diario (1918-1919) divulgata da Editoria & Spettacolo nel 2015. Il
fondo dei suoi scritti, invece, è custodito, insieme al fondo Jean Cocteu,
presso l’Université Paul Valery di Montpellier.
A tratti, la ferocia di Mireille Havet, così come traspare dai diari, ricorda
quella di Alejandra Pizarnik. Mireille usa la scrittura per scotennarsi, per
annientarsi – dunque: per esistere. Dicendo il proprio abominio, lo abbellisce e
lo abolisce; scrivendo l’abisso, lo abita, lo domina.
Fu l’androgino di quei folli anni – figura che penetra e comprime tutti gli
opposti, sapienza nell’abiezione e nell’elezione. Tentò di restare un’eterna
bambina, l’effimero ‘maschiaccio’, l’imperdonabile a cui tutto è perdonato. Finì
per esplodere – gli altri, intanto, osservavano, distratti, a tratti.
**
Da La Maison dans l’œil du chat
Quello che pensano
“Mi piacciono gli abeti neri, dice Jacques, dove si nascondono le volpi”.
“Preferisco le radure, dice Luce, dove sbocciano i papaveri”.
Il grande fuoco crepita e offre agli occhi il mistero del bosco che si sgretola,
rivelando nella cenere città e luoghi che non potranno mai possedere.
*
Marmellata di mele
È duro coltivare le mele, ma hanno un buon profumo, un profumo che evoca il
mistero delle dispense chiuse, dove sono stipate, dormienti, le marmellate di
qualche anno fa, insieme alle tovaglie degli sposi. Forza, coraggio! Abbiamo
superato i tre alberi, manca soltanto il sentiero del paese. Ma il sole picchia
e abbiamo le braccia nude. Non importa. Avremo una mela da assaggiare, una mela
tutta per noi, da mangiare al lavatoio: i pioppi muovono lentamente le loro
cime, a sera.
*
La pecora
La pecora si chiama Robin.
Lo so, ne avevo un’altra che si chiamava Robin; poi Blanchot, ma Robin è sempre
stata la più carina.
Ci allontaniamo, fianco a fianco, come due fratellini nel gorgo della vita. Una
pecora pascola, l’Altra sogna. Entrambe, ci voltiamo verso i prati in fiore.
Poi, quando arriviamo presso un albero frondoso, mi fermo all’ombra e stringo la
mia pecora al cuore.
La lana è morbida. La pecora profuma di timo selvatico. Nelle grandi orecchie
piene di lana, le sussurro la storia di un principe che aveva tre castelli
stregati. La pecora ascolta in silenzio, con la solita aria triste e rassegnata…
Poi, seguendo il fiume, torniamo a casa, come due fratellini nel gorgo della
vita.
*
Il mare
Alla fine del sentiero, la chiesa:
la croce si alza come una mano
verso l’azzurro cielo.
Il sentiero si snoda
per il dolce pendio della collina
che domina sulla Casa del Buon Dio.
Il tempo è bello su tutta la terra
perché in uno spiraglio del paesaggio
c’è l’immenso mare…
uno zaffiro gigante.
Le barche danzano sul mare.
Pescherecci, barche a vela partite
all’alba, che la marea di mezzogiorno
fa rincasare: le vele lacere formano
rombi d’ombra contro il cielo.
L’universo intero è qui
placido, esatto.
Dal mare alla chiesa, solo la luce
e un sentiero che sale come una preghiera
per configgersi nel Chiaro.
*
Nel prato
Tutta la dolcezza del mondo
si annida nell’erba alta:
non c’è altro che Pace
nei labirinti del prato
e il sole sboccia
come il fiore dei re.
Insegui serenamente il tuo sogno
pieno del felice fascino
che dispensa il bel tempo.
Le mucche ritmiche
muovono le code come
orologi magnifici e potenti:
ti insegnano la fermezza del tempo ideale
dove cola l’infanzia
pura come un cristallo.
*
Sss…
Claude si è addormentato, a voi divinare, prima di chiudere il libro, qual è il
meraviglioso sogno che vaga sotto le sue palpebre.
Quanto a me, non posso dirvi nulla: Claude dorme… Sss!
Camminate piano e non svegliatelo, sapete meglio di me che le anime dei bambini
misteriosamente tornano in cielo. Claude si è addormentato mentre giocava…
**
Dal Journal
Il mio vizio non è l’amore né la ricerca del più infimo piacere fisico, perché
in fondo faccio l’amore per guadagnarmi da vivere e ottenere dalle mie amanti il
reddito necessario ai miei veri appetiti, per sfamare il mio ego, e comprarmi,
soprattutto, sostanze tossiche, morfina più che altro, nella cui presunta
ebbrezza incenerisco la mia anima calcolatrice e il mio corpo, innamorato di
quell’oblio artificiale che mi permette di dimenticare le sconvenienze della mia
carriera illecita.
[…] I miei libri? Le poesie? Costruzioni di un tossico con il cervello
surriscaldato dagli stupefacenti e l’idea fissa di camuffare la propria vera
identità con l’aura del poeta prodigio, ignaro, per eccesso di purezza e incuria
d’intelletto, delle realtà materiali della vita.
[…] Infine, non sono che un operaio della distruzione e dello scandalo, della
putrefazione contagiosa, del disordine nelle famiglie, sono un subdolo
istigatore, avveleno le donne che mi si avvicinano, che cadono nelle mie
trappole.
L’unica giusta punizione è abbandonarmi per sempre, lasciarmi nel mio
inevitabile deserto, nella miseria.
Che mi arrangi.
Siete avvertiti: chiudete le porte e i cuori alla mia doppiezza, alla mia
prevaricazione. Nessuno mi deve niente, nessuno mi perdoni – questo mi basta.
Ho ventotto anni.
19 e 20 gennaio 1927
*
Progressivamente, lo ripeto, come un rullo compressore che avanza, inesorabile,
senza incontrare ostacoli, compiendo il suo lavoro ora dopo ora, la morfina ha
distrutto tutto, minato tutto, annientato tutto, e io da tutti sono alienata,
dagli amici, dai soldi, dalle case, dalla fiducia negli altri, dalla salute,
dagli anni, dal mio talento, dal mio coraggio, dalla mia naturalezza, dall’amore
e dall’amicizia, dalla poesia che si ritrae da me come il mare da un ingrato
scoglio, che d’ora in poi, frantumato, lurido, sorgerà nudo, senza più onde,
senza uccelli, senza semi, senza terra, soprattutto, dove i semi portati dagli
uccelli possono germogliare, senza più nulla nell’infinito dell’eternità se non
il cielo e il mare, entrambi egualmente lontani, sempre più lontani,
lontanissimi.
Tutto ho perduto, la vita, l’istinto a vivere, la ripugnanza per il male, il
desiderio di guarire. La morfina, quella spina invisibile, è diventata il mio
pugnale, l’alabarda che si è impossessata del mio corpo e mi ha trafitto il
cuore, mi ha ucciso, inchiodandomi alla bassezza, alla terra fangosa dove sarò
sepolta… era ora! La morfina e sua sorella, la cocaina, e l’eroina, la più
grande, sette volte più pericolosa e tossica di un veleno, hanno gradualmente
sostituito tutto: ora rimango io, sola.
Come puoi aspettarti che non avendo più nulla non abbia venduto l’anima al
diavolo e stretto un patto con lui? È per comprare la droga che prendo in
prestito, do tutto, imploro a chiunque. Venderò tutto per questa spesa che mi
distrugge, unica e dominante.
Giovedì 24 maggio 1928
*
Trent’anni! L’età in cui ho perso tutto ciò che avevo a venti. Mi ci sono voluti
dieci anni per liberarmi dei miei privilegi e della mia eredità, dieci anni per
distruggermi, impoverirmi, annientarmi in ogni modo – si potrebbe dire, per
sempre.
29 giugno 1929
L'articolo “Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di
Mireille Havet proviene da Pangea.
È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico,
Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della
letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si
incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi
anni.
Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale
di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile
a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un
paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava
uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da
guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state
sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce
sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello
scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due
occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati,
splendenti intelligenza…”.
In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda
condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di
ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”.
Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro
con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e
sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione
delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques
Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).
Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18
novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da
un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni.
Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da
mistico:
> “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non
> attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in
> quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non
> un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con
> gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che
> ognuno è.”
Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto
nella Prigioniera:
> “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso
> nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”
Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo
ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust.
I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla
“comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare
l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva
terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo
sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione
perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della
verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con
la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito.
Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra
di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria
e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la
musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel
pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva
quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a
Swann:
> “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di
> segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva
> soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così
> forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé,
> ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli
> aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito
> a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.”
Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase
ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata
per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente
nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde
colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili
per non correre il rischio di vederlo svanire.
Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la
gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in
quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte
dell’Io ed esprime l’indicibile.
Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi
manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua
musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di
parole che è la Recherche.
Marilena Garis
L'articolo “Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro”
proviene da Pangea.
“Lei non era di qui” [1], quasi sveniva trasognato Cioran a proposito di Susana
Soca – lo stesso si potrebbe dire di miriadi d’altre “incandescenti” che
divamparono lungo la notte sacra prima di spegnersi, in intimo accordo col
decreto del buio. Vedove dell’ultimo cielo, votate alle nozze postume
coll’Assoluto defunto alla vita e talvolta ritrovato nella segreta ipnagogia
funebre della poesia, spose dai corpi di bruma che, crivellate da stelle,
indugiavano innamorate e nostalgiche sulla Soglia in attesa del bacio dello
Sposo, dell’Altro, della morte.
E certamente a questo peculiare ordine di vestali abusate dal nulla, di
«paralitiche della luna» come diceva Lorca, apparteneva anche Béatrice Douvre,
questa poetessa francese obliata come teneramente si dimentica il nome d’un
fiore. Infatti, come i fiori estinti, di lei s’hanno poche ed errabonde
informazioni. Nata a Neuilly-Sur-Seine nel 1967 e morta di brutale sfinimento
ventisette anni più tardi a Mans nel treno in cui entrò e donde non uscì che
defunta: la ritrovarono assisa, nella compostezza trasparente della sua postura
di serafico silenzio, lo sguardo lontano, infinitamente lontano, oltre la
finestra, oltre l’oltre…
Quello sfinimento fu il triste obolo offerto da anni di anoressia, di cui soffre
dall’età di tredici anni. L’ardore della fame, nelle sue policefale diramazioni,
è infatti il sole nero che strapiomba la sua opera. La desianza dell’Invisibile,
d’un’ostia intagliata nella carne stessa del cielo e che sazi infine l’anima.
Definisce molto chiaramente queste tensioni nella sua tesi di laurea: Anorexie
et orexie dans l’œuvre d’Arthur Rimbaud e che potrebbe essere riassunto coi
versi di Rilke, nella settima Elegia: “Come un braccio proteso, è il grido mio./
E la sua mano che si scaglia in alto/ schiusa a ghermire, ti rimane innanzi/
aperta, dentro gl’infiniti spazii/ difesa e ammonimento, o Inafferrabile!”[3].
Necessità dell’Altro, e impossibilità fatale di raggiungerlo – e solo da tale
irredimibile colpa sorge e si apre l’infimo e atroce spazio in cui tremando
precariamente abitare, nello sisma che investe le ossa liriche, e, di bruciore
in bruciore. Mi piace pensare che le sia accaduto di leggere Caterina da Siena,
quest’altra anoressica teofaga, questa sitibonda d’edenico sangue.
Douvre scrive nell’eccesso, nel venir meno della parola, nella casa chiusa al
quadrivio del paradiso dove passano a turno a violentarla gli angeli. È una mal
nata, una Maddalena psicopompa, una “prostituta piena d’amore”, come dice lei
stessa. Vietato ogni ricevere, la poetessa poteva solo offrirsi, dilapidarsi,
crepare dozzinalmente, a pieno regime, irrigare del proprio sangue i solchi che
percorrono ogni poesia onde fecondarle, chiamare a raccolta tutti gli uccelli
dell’oltretomba a becchettarle i seni che si sfogliano in briciole… Dare pieno
rogo di sé, consacrare con alla notte il suo pube in fiamme, attendendo tutta
affebbrata che la morte la insemini.
In Francia, i pochi che sanno che esistette la ricordano come la “viandante del
pericolo”. Philippe Jaccottet nella prefazione alla sua raccolta di poesie
pubblicate postume ne fa un ritratto commovente:
> “Mi ricordo di Béatrice Douvre, era, lo si indovinava, una sorta di elfo
> diafano, un essere vibratile, troppo frale per questo mondo dove gli elfi non
> posso mettere radice, ma soltanto fluttuare a metà via tra terra e cielo.
> Fluttuare in siffatto modo è talvolta la loro felicità, ma certamente anche la
> loro dannazione. Béatrice Douvre era un elfo doloroso, del quale non si poteva
> che intuire con timore il destino”. [4]
De Saint-Cyr
**
Offriamo di seguito per la prima volta una traduzione in italiano di qualche
spina della fiamma del fuoco del suo diario, “Journal de Belfort” [5];
Belfort, 12 febbraio 1994
Città aperta, cammino per le tue vie, rosseggiante, le mani piene di ghiaia, il
ventre eccitato dalle tue fosse, il volto coperto di rossori cristiani.
Follia dei corpi aggrovigliati delle città, sessi esibiti a Stalingrado,
prostituzione piena d’amore, puttane agonizzanti di verginità, sono il vostro
cammino di grazia. Ruscelli di sangue labirintici, patisco le mie vene malate,
gonfiando i miei seni gemelli, esibendo la mia solitudine. Michel mi mormora
all’orecchio il suo sesso diciassettenne, per un po’ di tempo gli tenni la mano,
gli occhi negli occhi dell’infanzia. Sulle strade d’ieri – immortali parole, del
sudore in volto, il ventre cinto di birre; notte verde, abitata, lenzuola che
sanguinano dormendo, ho male di amare, voglio morire, selvaggiamente sperma
sulla lingua. Polvere vinosa, ho l’alito dei poveri, la trasparenza degli
amanti, la dolcezza delle madonne. […]
*
Parigi, 15 febbraio 1994
Alba indomita, febbrose lenzuola, ho il risveglio dei sogni insolenti, potenti e
fredde le mani, la pietra è in sudore, voglio il freddo sudario della mia
fecondità, il sale sulla lingua venenosa, e sul dolce nido del mio ventre la sua
mano… Voglio allargata la ferita, ruscellanti le alghe poi luccicanti, la roccia
scoscesa come le parole. Vago pei lastricati grassi, nel fango rosso e nero,
armonie dorate nimbavano i viali, una mano nativa nella mia, ma la mano di
nessuno. […]
Non sono la sua amante e quasi non più sua sorella. Rimango altra e irreale, ho
in me la dolcezza delle lontananze, mi abbandono alla collina, sono il riflesso
d’un cielo stretto. Spettrale il tempo mi perseguita, la morte mi eccita, mi
visita talvolta, io sono il suo oste stellato e perdura la notte tra lei e me,
forse il passaggio. I sessi nemici si sotterrano nel vento, mi carezza ma io
sono l’intervallo vicino al focolare freddo del molto basso.
Peccato di carne nascosta e redento nella pietra stessa, madidore dei sentimenti
troppo scialbi. Io voglio il sale e il linguaggio, avida la bocca e scavata come
i ciottoli del mare. Popolato d’uccelli è il silenzio, ma io, angelo malato,
imploro il suo corpo come una terra, un sacramento, la tomba bianca (sarò
Raffaello senz’ali), per lui, per me, per la prossimità di vivere.
La mia malattia mi feconda il ventre neutro.
*
Parigi, 14 febbraio 1994
[…] Confusa beltà dei ruscelli, oscura percorro le vostre sponde malate, ho la
follia degli impazienti, delle prigioni narrative.
Piccoli seni gonfi d’acqua, curvi sotto il vento, come Eva nel balzo. Il piede
scalzo, animale, il serpente nel frutteto, come grappoli i frutti, penduli, ho
l’ala di un angelo aguzzo sopra il membro stretto.
Spiegacciamento delle sere alla Madeleine, Parigi barocca, illuminata.
Attenderò, ai piedi delle cattedrali, e coagulata nella nostalgia dei seni
sprigionati, il veleno di una passione traforare, come una daga, la mia pelle
imberbe e intoccabile. […]
*
Parigi, 18 febbraio 1994
Rimango rigida e nuda nella notte torrentizia, il fango scoppia sulle disgrazie
altrui. Una pazza piange per la città e poi tace come una nave. Intorno al mio
girovita indolente una collana si sottomette, nelle mie mani, una rondine
costruisce quasi una primavera. Sono sola a morire nell’immondo, odio il mio
ritiro sacro, il mio corpo casto dal secolo scorso, le notti verdi lasciate a
far collare il miele.
Io sono la fiaccola e l’olio, l’innominato abitacolo presso sorgenti fertili.
Vivi l’epoca nata, privilegia il giorno. Si sollevano le foglie e vorticano gli
astri. Sono l’estate dei palmi nelle braccia dei riflessi. Oh ramo
inaccessibile, il troppo corto vento, ho affrettato la benedizione degli astri
nulli. Polvere dei templi, grandi divinità assise e meditanti, voi vi cibate
dell’obolo dei fedeli sognando all’alito offeso dei fanciulli. Ricurve Madonne,
cosce colmi, e dischiuse dal pudore, io benedico i vostri seni biondi per
accrescere il vento.
****
[1] “Esercizi di ammirazione”, E. Cioran, Adelphi, 1988.
[2] “Juego y teoría del duende”, F.G. Lorca, Alionza, 1984.
[3] “Elegie Duinesi”, Settima Elegia, R.M. Rilke, Sansoni, 1941.
[4] “Œuvres poétiques, peintures et dessins”, B. Douvre, Éditions Voix d’Encre,
2015.
[5] “Journal de Belfort”, B. Douvre, Éditions de la coopérative, 2019.
L'articolo Oltre l’oltre. Béatrice Douvre, vita & opera di “un elfo doloroso”
proviene da Pangea.
Per comprenderne l’indole, dobbiamo partire dalla fine. Alfred De Vigny – che
una celebre fotografia di Nadar mostra a braccia incrociate, il viso
corrucciato, la giacca ad ampie falde: un pipistrello, insomma – morì nel
settembre del 1863. Soffriva, da tempo, di un cancro allo stomaco; passò gli
ultimi anni a curare la moglie, Lydia Jane Bunbury, di origine inglese,
bellissimo, dicono, ricchissima, sprofondata in una nera demenza. L’amore della
sua vita – ovviamente: tormentato, inquieto, destinato a niente – fu però
l’attrice Marie Dorval, tra le più grandi dell’epoca, pervicace nella posa e nel
capriccio. Da anni alieno ai circoli letterari, per il disgusto verso le mode
imperanti, per una disciplina all’arte della sprezzatura, nel buon ritiro di
Maine-Giraud, un maniero in Charente, Alfred De Vigny, il poeta idolatrato da
Marcel Proust – da ragazzo lo considerava, insieme a Baudelaire, “il più grande
poeta del XIX secolo: anche nelle sue poesie meno note, mantiene una calma,
quell’ineffabile bellezza che ci sfuggono” – morì solo. La biografia redatta
dall’Académie française è spietata per rigore: “Indifferente al pubblico, fu il
vuoto intorno alla sua bara, accompagnata soltanto da qualche romantico della
prima ora”.
Fu eletto al seggio 32 – attualmente occupato da Pascal Ory, vi sedette, tra gli
altri, Alain Robbe-Grillet – nel maggio del 1845, dopo essere stato rifiutato
per sette volte. Gli “accademici” non amavano le sregolatezze dei Romantici;
Vigny rifiutò di presentarsi al cospetto di Luigi Filippo I di Francia. Quando
tentò di far eleggere tra i ranghi dell’Accademia Balzac, gli andò male.
Rampollo di una genia di militari, Alfred de Vigny passò la giovinezza in armi.
Pensava di fare carriera, di mettere alla prova la sua ideale audacia; languì
nella palude di guarnigioni mal assemblate. I fasti napoleonici – esemplificati
nello schietto romanzo di Conrad, I duellanti – erano un ricordo. Ottenne i
gradi, si licenziò capitano; in un ritratto, ragazzo, con la divisa della
“Maison du roi”, ha lo sguardo languido, la bellezza scapigliata, ininterrotta.
Alfred de Vigny (1797-1864) fotografato da Nadar
Dicono fosse incapace di “capire la realtà” – il che, per un poeta, non è poi
grave –, crebbe nel mito di Lord Byron, fece parte del circolo di Victor Hugo.
Tradusse – con spigliata grazia, in versi – Shakespeare, i suoi Poèmes antiques
et modernes (usciti, in edizione definitiva, nel 1829 e aggiornata nel 1841) gli
diedero autorevolezza lirica. I critici dicono che i “poèmes philosophiques”
raccolti come Les Destinées nel 1864, la sua opera definitiva, annunciano le
innovazioni di Stéphane Mallarmé (dei Poemi antichi e moderni e de I
destini esiste una traduzione di Lanfranco Binni, edita da Garzanti nel 1991).
Il capolavoro di Alfred de Vigny resta comunque Chatterton: andata in scena al
Théâtre français il 12 febbraio del 1835 (con l’amata Marie Dorval nei panni di
protagonista femminile), la pièce riscosse un successo assoluto; fu applaudita,
tra gli altri, da George Sand e da Sainte-Beuve. Da quel testo, Leoncavallo
trasse un’opera lirica assai meno fortunata, omonima, andata sul palco del
Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel 1896, con scarse repliche.
Alfred de Vigny era ossessionato dalla figura di Thomas Chatterton, l’acerbo,
geniale poeta di Bristol, suicidatosi a poco meno di diciotto anni, nel 1770, a
Londra. Gli pareva, più di ogni altro, prima di tutti, l’emblema del poeta,
eternamente giovane, che si schianta contro l’indifferenza della società
letteraria e “va fino in fondo”. Il poeta che si immola per la poesia, con
disperazione messianica. Thomas Chatterton, amato da Coleridge e da Keats,
sbandierato, via via, come un simbolo, più citato che letto (la sua storia e la
sua opera sono state recepite per la prima volta in Italia di recente, in: T.
Chatterton, Nell’aura del fulmine, Feltrinelli, 2025), sarebbe piaciuto a
Borges: quindicenne, si era corazzato con un alter ego, il monaco Thomas Rowley,
vissuto nel XV secolo, che scriveva odi in un inglese antico di inedito conio,
fitto di indecifrabili invenzioni. L’eterno fanciullo della poesia inglese,
ridotto in miseria, malcompreso (da Horace Walpole, soprattutto, l’autore
del Castello di Otranto, doge dei circoli letterari londinesi del tempo), fu il
primo a scatenarsi contro le viete formalità della cultura – scriveva versi
audaci fino al rebus, pieni di abissi, di ferina ingenuità, che delizieranno
Dylan Thomas.
Già in Stello – romanzo nottambulo del 1832 – Alfred de Vigny si era appellato a
Thomas Chatterton come a uno spettro amico; con Chatterton ideò il più vigoroso
manifesto del romanticismo francese. In particolare, sono le pagine poste a
introdurre la pièce, Dernière nuit de travail, a costituire una sorta di manuale
dell’indole romantica di allora. Alfred de Vigny fa di Chatterton il poeta per
antonomasia, l’ispirato assoluto, che non si piega di fronte alla necessità del
mondo, non scende a compromessi, ed è trattato dagli uomini come uno strano, un
estraneo, un folle. Il testo – qui tradotto, in calce – evita i rischi della
secca retorica perché Vigny è sorretto da un’intuizione sagace: Chatterton non è
colpevole di suicidio, è la società ad averlo costretto a uccidersi. Il poeta è
come lo scorpione rinchiuso per gioco dai bambini in un cerchio di fuoco;
vedendosi perduto, l’artropode rivolge contro di sé il velenoso aculeo e muore,
mentre gli altri, intorno, ridono. L’idea del suicidato dalla società sarà
ripresa con furia da Antonin Artaud parlando di Vincent Van Gogh, un altro
artista messianico. Ci sono artisti la cui scelta si staglia come un’opera con
esiti spesso sfrenati, inattesi.
Di fronte alla morte di un ragazzo – eternata da quadri che ne hanno fatto una
specie di figurina pronta alla lacrima e al solido applauso – bisogna tumularsi
nel silenzio – anzi, nella preghiera. Più che altro, Alfred de Vigny ha
profetizzato la figura del maledetto: a lui Paul Verlaine si riferisce quando,
nel 1884, licenzia il saggio sui Poètes maudits. Thomas Chatterton ha
stigmatizzato i poeti, costringendoli alla sequela estrema, “li condanna
all’eterno esempio di una morte in miseria, abbandono, speranza mutilata”. Tutti
gli altri – chi stringe accordi con il tempo, ‘a fin di bene’, per sopravvivere
– è, in fondo, reo di tradimento, un vile.
A suo modo, Alfred de Vigny si allineò al duro addestramento di Chatterton.
Voltò le spalle alla città, rifiutò di pubblicare, continuando a molare e ad
approfondire l’opera. Vedeva Chatterton ogni giorno, nei brevi boschi che
circondavano la sua villa – era mutato in volpe, diceva.
***
Ultima notte di lavoro. Per Thomas Chatterton
La causa: il perpetuo martirio e la perpetua immolazione del Poeta. La causa: il
diritto che egli ha di vivere. La causa: il pane che gli viene sottratto. La
causa: la morte che è costretto a infliggersi.
Da dove tutto questo? Dal fatto che lodiamo il genio, ma uccidiamo i geniali. Li
uccidiamo negando loro la vita. Potremmo pensare, vista la scarsa importanza con
cui viene trattato, che il Poeta sia cosa comune. Una nazione dovrebbe essere
orgogliosa se avrà due Poeti in dieci secoli. Ci sono Stati che non ne hanno mai
avuto uno. Eppure: perché così tante stelle si estinguono appena cominciano a
brillare?
Perché ignorate cosa sia un Poeta.
Continuerete ancora a non vedere? Per quanto?
Tre tipi umani, che non dobbiamo confondere, agiscono nella società tramite il
pensiero, muovendosi in regioni separate.
L’uomo esperto negli affari della vita, apprezzato dal mondo, si incontra ad
ogni passo. A tutti adatto, a tutto si adatta. Ha una flessibilità e una
disinvoltura che rasentano il prodigio. La sua mente è libera, sempre fresca,
pronta a ogni risposta. Privo di autentiche emozioni, restituisce buone parole a
seconda delle occasioni. Scrive di economia come di letteratura. Pratica l’arte
come la critica, assume per l’una toni alla moda per l’altra la dissertazione
sentenziosa. Sa combinare le parole per creare l’effimero della passione, della
malinconia, dell’erudizione, dell’entusiasmo. È posseduto da fredde
inclinazioni, che intuisce più che comprendere; le respira da lontano, come i
vaghi odori di fiori sconosciuti. Crea il linguaggio dei ‘generi’ come si
forgiano le maschere per i volti. Può scrivere commedie e orazioni funebri,
romanzi e fiabe, epistole e tragedie, poesie e discorsi politici. È l’uomo di
lettere, da sempre amato e compreso, sempre in auge, bene in vista, mai
inviso. Quest’uomo non ha bisogno della nostra pietà.
Sopra di lui, c’è un uomo dalla natura più forte e raffinata. Una profonda e
grave convinzione fonda le sue opere, che riversa su una terra cruda, spesso
ingrata. Ha meditato in solitudine la propria filosofia, la vede al colpo
d’occhio, squadernata, la tiene in mano come una catena: sa che il primo anello
condurrà all’ultimo, sa come ogni anello si colleghi agli altri. La sua memoria
è ricca, quasi infallibile, il giudizio sano, è uno studioso completo, calmo. Il
suo genio è attenzione al massimo grado, buon senso nella più piena espressione.
Il linguaggio è coerente, limpido, franco, grandioso nel portamento, vigoroso
nei tratti. Soprattutto, gli occorrono ordine e chiarezza. L’ardore della lotta
perpetua infiamma la sua vita e i suoi scritti. Il suo cuore racchiude grandi
rivolte e l’ira superba, che lo rode in segreto. Sa seminare a grande profondità
e attendere che l’opera germogli: è spaventoso quando è immobile, in veglia. È
padrone di se stesso e di molte anime, che conduce a Nord e a Sud, a suo
piacere; tiene in mano un polo, e l’opinione che la gente ha di lui lo obbliga a
custodire la propria vita, a mantenere desto il suo amor proprio. È il
vero, grande scrittore.
Non è infelice; ha ciò che desidera; sarà sempre in lotta, ma quando concederà
tregua ai nemici, riceverà degni omaggi. Vincitore o vinto, sarà sempre
incoronato. Non ha bisogno della vostra pietà.
Ma c’è un altro tipo, dalla natura passionale più pura e più rara. La sua opera
proviene da Dio e giunge al mondo a intervalli rari. È un peso per gli altri,
perché appartiene completamente alla stirpe degli ispirati. L’emozione, in lui,
è così intima e profonda che vi si è immerso fin dall’infanzia. L’immaginazione
lo possiede sopra ogni cosa. Al minimo urto, si sbriciola; al minimo respiro,
volta verso mondi sconosciuti. Da allora in poi, smette i rapporti con la
creatura umana. La sua sensibilità è troppo vivida; ferisce fino al sangue; i
suoi eccessivi entusiasmi lo traviano; le sue simpatie sono troppo veraci;
compatisce chi soffre infinitamente meno di lui, muore dei dolori degli altri.
Le resistenze della società umana, il suo disgusto, lo gettano in un profondo
sconforto, in una nera indignazione, in una desolazione insormontabile, perché
tutto comprende, e troppo profondamente. In questo modo, tace, si ripiega su se
stesso, recluso nella sua prigione. Lì si forma qualcosa di simile a un vulcano.
Il fuoco cova lento, la lava è armoniosa. Ma quando esploderà? Si direbbe che
assista come uno straniero a ciò che accade dentro di lui. Cammina come un
malato, non sa dove andare, vaga per giorni. Non ha bisogno di fare nulla,
perché accada la sua arte. Non deve fare nulla, perché gli accordi del mondo si
formano comunque nella sua anima: il roco rumore del lavoro regolare irrompe, li
interrompe. Lui è il poeta. Appena si mostra, è mutilato – tutte le lacrime,
tutta la nostra pietà sia per lui!
La lingua che ha scelto è compresa da un infimo numero di uomini ed è a loro che
egli grida: “Ascoltatemi, fatemi vivere a mio modo!”. Ma molti sono inebriati
dalle proprie opere, altri lo sdegnano perché in quel perenne bambino vogliono
la perfezione dell’uomo maturo; i più sono distratti, indifferenti; tutti sono
impotenti nel bene.
E lui grida ai Poteri: “Ascoltatemi, fate che non muoia!”. Ma i Poteri
proteggono soltanto gli interessi positivi, sono estranei al genio, che li
offende.
Se ne ha la forza, diventerà un soldato, trascorrendo la vita sotto le armi; una
vita attiva, rozza, che ucciderà il suo essere morale. Altrimenti, se ha
costanza, si condannerà alle fatiche del numero, al calcolo che uccide le
illusioni. Se il suo cuore non si impenna con violenza, può piegarsi, molare i
pensieri, smettere il canto. Si farà, allora, uomo di lettere; oppure, se la
filosofia lo sorregge e incoraggia, diventare un grande scrittore; ma a lungo
andare il giudizio soffocherà la visione, schiacciando il poema che aveva in
petto.
In ogni caso, ucciderà una parte di sé, ma per questi suicidi a metà, per queste
immense irragionate rassegnazioni è necessaria una forza rara, nera. Se questa
forza non gli è data, quale strada gli resta da intraprendere? Quella di Thomas
Chatterton: il suicidio radicale.
Dunque, è un criminale! Un criminale davanti a Dio e agli uomini, dacché il
suicidio è un crimine, religioso e sociale. Chi può negarlo? Il dovere e la
ragione lo confermano. Si tratta soltanto di capire se la disperazione non sia
qualcosa di più forte di dovere e ragione. […] La vera disperazione è un potere
che divora, irresistibile, famelico, al di là della ragione, che comincia
annichilendo il pensiero. La disperazione non è un’idea, è una bestia che
tortura, che stringe, schiaccia e lacera il cuore di un uomo, fino a farlo
impazzire.
Ma è lui, il poeta, il vero colpevole o lo è la società, che lo disarma, che lo
bracca senza fine?
C’è un gioco terribile comune ai bambini del Midi. Essi costruiscono un cerchio
con i carboni ardenti; in mezzo, mettono uno scorpione, catturato con le pinze.
All’inizio, lo scorpione resta immobile. Quando il fuoco comincia a bruciarlo,
si agita. I bimbi ridono. La creatura cerca di evadere dalle fiamme, facendosi
strada tra i carboni ardenti; ma il dolore è troppo e si ritira. E ridono. Lo
scorpione cerca un passaggio impossibile, uno spiraglio. Poi ritorna al centro,
in una più oscura quiete. Infine, rivolge il dardo avvelenato contro se stesso e
muore, sul colpo. E ridono – e ridono più forte di prima. È lo scorpione il
colpevole? I bambini sono innocenti e buoni?
Quando un uomo muore nello stesso modo, è davvero un suicida? No. È la società a
gettarlo nel fuoco.
I bei versi, dobbiamo dirlo, sono merce che non piace alla gente comune. La
moltitudine mira a moltiplicare il proprio stipendio; nelle nazioni più nobili,
la massa ama ciò che amano tutti. Soltanto dopo una lenta istruzione e un
continuo addestramento può apprezzare la bellezza; nel frattempo, schiaccia il
talento nascente, il genio sorgivo, senza udire le grida della sua angoscia.
Ho voluto mostrare l’uomo spirituale soffocato dalla società materialista, dove
l’avido calcolo sfrutta senza pietà l’intelligenza e il lavoro. Non voglio
giustificare gli atti disperati degli sventurati ma protestare contro
l’indifferenza che costringe costoro a compierli.
Il Poeta è tutto per me; Chatterton è il nome di un uomo – ho omesso i fatti
esatti della sua esistenza per trarre dal suo destino l’emblema eterno di una
nobile miseria.
Oggi i tuoi compatrioti, caro Chatterton, ti chiamano ‘ragazzo meraviglia’… Eri
infelice – tanto mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! Perdonami
di aver eretto a simbolo il nome mortale che indossavi su questa terra, per fare
del bene nel tuo nome.
Tra il 29 e il 30 giugno 1834
Alfred de Vigny
*In copertina: Egon Schiele, Bildnis Paris von Gütersloh, 1918
L'articolo Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny
proviene da Pangea.
Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di
strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia,
dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e
ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025;
s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della
capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente
di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo
ricordi”, scrive Spada.
> “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la
> sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è
> nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia,
> bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo
> le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato
> tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e
> degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.”
Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con
un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto
coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia
Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da
una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e
poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo
consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si
parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e
all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e
moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle
sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944,
“Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla
stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima
punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.
Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti
degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione,
selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.
Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.
Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio
dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del
cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su
di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante
dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto
agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura
coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le
Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della
cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno
funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo
di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.
Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si
guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre
un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un
radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato
e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri
restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi
romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne
racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio –
conosce diverse fasi.
Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale
francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint
Ferdinand. A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato
dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal
porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra
tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato
per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella
vita.
E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque
rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale
con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due
protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.
Livia Di Vona
L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio
tragico proviene da Pangea.
Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro
chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le
stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino.
Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza,
l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero,
una tirannia.
È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo.
Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed
Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento.
È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il
pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia:
sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto.
Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso,
l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista –
fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In
René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del
bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di
contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di
redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e
di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia
messa sottosopra.
Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera
quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi
scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico
a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto.
Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare
un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione
di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées
atomiques.
Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro
della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi,
l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il
linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres
dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive
Char:
> “Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che
> orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di
> vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte,
> sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo
> nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca
> dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e
> ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e
> degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di
> questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono
> per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte
> queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri
> fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”.
A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in
carcassa, qualche briglia che chiameranno legge.
In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme.
Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto.
All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a
fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in
amore del bianco.
Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da
Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle
“Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche
energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole.
Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra –
e mai rendere domestico il dire.
***
Mettersi in marcia
Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi
Che si plachi la sete della loro manchevolezza:
Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira
Perché è terribile la terra.
Hermann Melville
A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo
stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua
e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti.
Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la
superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite
che il nostro non molteplice corpo ferisce.
Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a
vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto
rettile”. Con gelosia paludata.
Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare!
La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva
l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che
soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto
prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei.
La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici
sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia.
Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo
di preparativi è la nostra occasione senza rivali.
Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa
delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la
gravità delira in allegria.
Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone
sorvola la città.
Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu
onnipotente. Afillante, nostra padrona!
Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte,
e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve
giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le
labbra murmuri…
Le sanguinose utopie del XX secolo.
Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre
fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in
scacco la simpatia.
L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono
innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il
secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E
la nostra figura si accomoda.
Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola
notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio.
Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti.
L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo
quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre.
Strappiamone svergognati l’ipogeo.
Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso
è lastricato dai cristalli del nostro sangue.
Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io
collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere
senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti.
Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato
dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge.
La poesia può riscattare il ricatto?
René Char
L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale
proviene da Pangea.
Un Balzac tirato a lucido e caricato a pallettoni, in una forma a dir poco
smagliante. Non è certo una novità dal momento che quando aveva la penna, o per
essere più precisi, la piuma in mano Balzac era sempre in forma smagliante. Come
facesse resta ancora oggi un mistero. Può darsi che fosse un modo per sfuggire
ai ricordi di un’infanzia senza calore o per inseguire le sue mille illusioni
perdute. Scrivere capolavori era certo una rivalsa per un provinciale come lui
che, arrivato a Parigi da Tours, aveva passato molti anni in una squallida
mansarda nel quartiere dell’Arsenale; forse ad aiutarlo erano le dosi
industriali di caffè che ingurgitava.
Stiamo ai fatti. Scritto tra il 1840 e il 1841, uscito prima a puntate
come feuilleton e poi in volume unico, per motivi a me del tutto
incomprensibili Un caso tenebroso è un romanzo tra i meno noti di Balzac, ma è
un libro modernissimo, anticipatore e quelli che se ne intendono lo considerano
a tutti gli effetti il primo noir della storia della letteratura. Uno
straordinario ritratto della società francese di inizio Ottocento colta nei suoi
aspetti essenziali; un’epoca nella quale gli ideali della Rivoluzione ormai
erano degradati a mero scontro di potere e gli opportunisti di ogni sorta e
colore la facevano da padroni. Balzac sapeva guardare dentro la Storia e le sue
complicazioni come nessun altro.
Se volessimo riassumerlo in uno strillo di copertina potremmo dire: Giochi di
potere sullo sfondo dell’Impero napoleonico. Una vicenda nella quale si
intrecciano storia e politica e che trae spunto da due fatti realmente accaduti:
la congiura antinapoleonica che costò la vita al duca Enghien e il rapimento del
senatore Clément de Ris. Anche nel romanzo abbiamo una congiura contro Napoleone
Bonaparte ordita dalla giovane e bellissima contessa Laurence de Cinq-Cygne
insieme ad alcuni suoi parenti e amici. Tra i complottatori i due gemelli cugini
della contessa che entrambi corteggiano la bella Laurence, come d’altra parte fa
Adrien uno dei due fratelli d’Hauteserre, anche loro implicati nella congiura.
Per aggiungere mistero al mistero un gruppo di uomini rapisce Malin, un
importante funzionario dell’Impero, e del fattaccio vengono accusati la contessa
e il suo entourage. In realtà sono assolutamente innocenti, ma finiranno
condannati al termine di un drammatico processo, magistralmente raccontato da
Balzac in un turbinio di testimonianze e colpi di scena dove un ruolo non
secondario è giocato dagli umori del pubblico.
> «Se è vero che, durante i processi, la verità assomiglia spesso a una bugia, è
> anche vero che la bugia assomiglia molto alla verità.»
Il processo arriva a una sentenza che però non chiarisce affatto l’intricato
caso, come d’altra parte molto spesso vediamo accadere anche oggi. Più
anticipatore di così!
Dulcis in fundo, una memorabile scena in cui la bella Laurence va a incontrare
Napoleone alla vigilia di una delle sue tante battaglie per chiedere la grazia
per tutti quanti i condannati. Lei sarà prosciolta, uno verrà sacrificato alla
sete giustizialista popolare e condannato alla pena di morte, gli altri
finiranno ai lavori forzati.
> «Da quando la società civile ha inventato la Giustizia, non ha mai trovato i
> mezzi per dare all’imputato innocente un potere uguale a quello di cui dispone
> il magistrato contro il criminale.»
In definitiva, nonostante il funzionario rapito venga rilasciato dai suoi
sequestratori, la verità su tutta la vicenda non viene acclarata. Solo venti
anni dopo verrà raccontata a Laurence, ormai unica sopravvissuta. Si scoprirà
così che dietro le quinte a tirare le fila del “tenebroso caso” c’erano
dueprotagonisti assoluti della vita pubblica francese a partire dalla
Rivoluzione del 1789: l’ex giacobino e poi bonapartista Fouché, uomo
spregiudicato e ambizioso
> «uno di quei personaggi che hanno tante facce e tanta profondità in ogni
> faccia da essere impenetrabili nel loro gioco e che possono essere compresi
> solo molto tempo dopo che la partita è finita»
e il camaleontico Talleyrand, astuto nobile di vecchia casata, freddo e
calcolatore. Due figure con origini e personalità molto diverse, accomunate però
dalla consapevolezza che i regimi cambiano ma gli uomini restano.
Vanno assolutamente messi in evidenza due aspetti tutt’altro che secondari e che
sono parte essenziale del piacere della lettura del libro: innanzitutto le
affascinanti ambientazioni naturali descritte con grande abilità e dovizia di
particolari, con quella foresta di Simeuse che va considerata a tutti gli
effetti una protagonista del romanzo e costituisce ben più di uno sfondo a tutta
la storia, e poi il personaggio della contessa Laurence, una straordinaria
figura di donna tenace, energica, intrepida, intelligente e coraggiosa,
ammirevole sotto tutti i punti di vista. Come direbbe Karl Kraus: «Per essere
perfetta le mancava solo un difetto».
A prima vista la trama può risultare ingarbugliata, a volte ci si può perdere
nella selva oscura dei tanti nomi citati, nell’intrico delle macchinazioni dei
vari personaggi e nei mille rivoli della vicenda, ma quando sei dentro a un
romanzo di Balzac non puoi scappare; ergo, fatevi prendere per mano e lasciatelo
fare. Ci penserà lui a spiegarvi come la durezza della realtà e l’asprezza della
storia siano in grado di spezzare ogni fiero slancio ideale e come i destini dei
singoli non possano rimanere esenti dalle strumentalizzazioni dalla politica,
per la quale molto spesso gli esseri umani sono solo marionette di cui tirare i
fili: burattini che si credono burattinai. Un finale amaro, senza sconti per
nessuno, ma che a quasi duecento anni di distanza spinge noi lettori di oggi ad
aprire gli occhi sulla realtà e a fare una serie di riflessioni sulla natura
umana. Che cosa volete di più da uno scrittore? Lasciatemelo dire: Balzac è
formidabile!
Silvano Calzini
L'articolo Quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare… Ovvero:
anatomia di un libro modernissimo proviene da Pangea.
Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano:
errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di
enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume
interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la
falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.
Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per
familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti?
Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques
Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è
forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si
magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito
sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del
linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio,
tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela
all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino
alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso:
l’analfabeta e il retore sono lo stesso.
Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean
Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio
– piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da
allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più
nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.
Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri
inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è
descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e
dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro
mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre
dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011;
Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato
una enquête sur les miracles.
Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade
sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio
a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”.
Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato
della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini
– meglio: siamo legione.
I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati
in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità
compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo
muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se
gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel
vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se
questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La
magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.
Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi:
“Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione
quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi
all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati,
prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode.
Per quello?
Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito
a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto?
Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero,
evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi
libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita.
Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto.
È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci
allontana da Lui.)
La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine:
suicidio?
Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola
sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre
distaccate.
Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà.
L’arte della meditazione mi consuma”.
Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi
verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi
ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione
teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne.
Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche?
Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique:
Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo
libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de
La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo
essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni,
Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da
un’auto.
> “Aprire la dimora freatica
> essere là
> nelle acque che preparano una cascata
> niente è più fresco”.
In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su
pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si
incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo
transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo
lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è
il passeur, l’intransigente calesse.
Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno,
uno dei poeti più risonanti in Italia.
“questo qui
– senza nome –
rifornisce la lingua
con quello che trova:
ramoscelli
argilla sterco
appena qualche parola qui
per accogliere l’imprevedibile
quasi nulla dietro la porta
salvo che lui
– l’abitante –
preferisce alla dimora la finestra”
Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli,
all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione
interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per
espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi
nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.
Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa
fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto –
dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.
Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una
parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam.
Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di
sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che
sigilla il Nazareno nel sepolcro).
Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai:
“eclissi d’uccelli
e l’ala che trattiene i venti
d’improvviso ti solleva
ti porta il più lontano possibile
dove la parola nidifica
nella tua voce”
E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di
snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto.
Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali,
vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a
redimerlo giovanneo.
Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un
mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge
fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola
voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!,
Più luce!”.
Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique.
Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una
parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in
briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato
sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla
parete.
*I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche
L'articolo “Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique
Rouche e Thierry Metz proviene da Pangea.
Catherine Pozzi è una poetessa. È la poetessa francese che ammaliò Valéry e
Rilke. È il trait d’union delle lingue nella poesia. Genio tubercolotico, con la
voce della notte, insegnava danzare alle parole. Concisa. Poco incline al
compromesso, fu tutta sentimento. Proprio per questo pagò cara la tresca con il
più grande poeta francese di quel tempo: Paul Valéry.
Essenza e umore sfuggenti facevano di lei una donna solitaria, poco affine ai
salotti dell’epoca.
Le sue poesie sono lampi provenienti da un cielo a margine, sospeso tra
dimensione terrena e immaginaria. Le sue poesie, una volta scritte, comportano
un cordoglio, e mestizia, per la morte del poeta stesso che le ha create.
Scrisse soprattutto sei grandi liriche, tutte pubblicate postume, tranne
una, Ave (apparsa sulla “NRFˮ il 1° dicembre del 1929), preghiera-ode,
cantico-celebrazione per quell’«altissimo amore» innominabile e irraggiungibile,
nel quale il corpo si frantuma e dissolve.
Quasi addio (Vale)
Il grande amore che mi hai dato
Il vento dei giorni l’ha mandato in frantumi ‒
Dove fu la fiamma, dove fu il destino,
Dove eravamo, dove per mano stretta
Noi stavamo
Il nostro sole, il cui ardore era pensato
Il mondo per noi di essere senza un secondo
Il secondo cielo di un’anima divisa
Doppio esilio dove il doppio si fonde
Il suo luogo per te appare cenere e paura,
I tuoi occhi verso di lui non l’hanno riconosciuto
La stella incantata che sviava lo sguardo
L’estremo istante del nostro unico abbraccio
Verso l’ignoto.
Ma il futuro che ti aspetti di vivere
È meno presente del bene scomparso.
Qualsiasi raccolto che alla fine ti porta
Lo berrai senza poter essere così ubriaco
Del vino perso.
Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio
Il paradiso dove l’angoscia è desiderio.
L’altisonante passato che cresce di età in età
È il mio corpo e sarà il mio senso
Dopo la morte.
Quando in un corpo la mia gioia dimenticata
Dove fu il tuo nome, prenderà la forma del cuore
Io rivivrò il nostro grande giorno,
E questo amore che ti ho dato
Per il dolore.
*
Maya
Scendo i gradini di secoli e di sabbia
Che ritornano a voi nell’istante disperato
Terra di templi d’oro, entro nella vostra favola
Atlantico adorato.
Da un corpo che non mi appartiene più, la fiamma finalmente fugge
L’Anima è un nome disprezzato dal destino ‒
Lascia che il tempo si fermi, lascia che la cornice crolli,
Ritorno sui miei passi verso l’abisso infantile.
Gli uccelli planano sul vento nell’Occidente marino,
Devi volare, felicità, nella vecchia estate,
Tutti profondamente addormentati dove cessa la riva
Rocce, il canto, il re, l’albero lungamente cullato,
Stelle da tempo legate al mio primo volto,
Sole stupefacente incoronato di calma.
Intransigente e severa critica di se stessa, Catherine Pozzi visse con l’anima
aperta sul mondo, trasponendo in versi dal temperamento mistico la sua intensa
fame d’assoluto e il suo non meno sconcertante desiderio di calarsi nel regno
tumultuoso della notte oscura.
«Quello che non può diventare notte o fiamma», confessava la poetessa, musa e
amante tradita di Paul Valéry, «lo si deve mettere a tacere».
Poetessa pura, genio giovanile come il suo amato/odiato Paul, non poteva che
lasciarci un diario denso e intenso, intriso di canto e lirica. Intraprende i
suoi studi con sete di conoscenza enciclopedica: si interessa a materie diverse
come la filosofia greca, la teologia, la fisica e la chimica, nonché ai misteri
orfici e al pensiero orientale. Il suo bisogno di razionalità da un lato e di
assoluto dall’altro non conosce limiti.
Tutto ciò fa di lei persino una fine traduttrice, che ha saputo però gestire il
genio, comprendendo e godendo pienamente dalla lettura le poesie della Browning
tradotte da Rilke, e le poesie di Rilke tradotte da Valéry. Infatti, senza
entrare nel merito del suo rapporto con Catherine, Valéry pregò Rilke di
inviarle le sue traduzioni dei Sonetti dal portoghese di Elizabeth
Barrett-Browning, precisandogli che la sua «amica» era ben qualificata per
apprezzarle, considerata la sua ottima conoscenza dell’inglese e del tedesco, ma
soprattutto in ragione della sua ammirazione sconfinata per la poetessa inglese.
Questo fu il la, tra l’altro, per la nascita di un carteggio assoluto tra Rainer
Maria Rilke e la Pozzi.
Nyx
A Louise anche lei di
Lione e d’Italia
O voi mie notti, o nere attese
O paese orgoglioso, o segreti ostinati
O lunghi sguardi, o nudi ardenti
O volo consentito oltre i cieli chiusi.
O gran desiderio, o diffusa sorpresa
O bel cammino dello spirito incantato
O male peggiore, o grazia discesa
O porta aperta dove nessuno era passato
Non so perché muoio e annego
Prima di entrare nella dimora eterna.
Non so di chi sono la preda.
Non so di chi sono l’amore.
*
Ave
Altissimo amore, se è possibile che io muoia
Senza sapere da dove vi ho preso,
In quale sole era la vostra casa
In quale passato il vostro tempo, in quale ora
Io vi amavo,
Amore altissimo che fuggite il ricordo,
Fuoco senza focolare di cui ho fatto tutta la mia giornata,
In quale destino avete tracciato la mia storia,
In quale sonno si vedeva la vostra gloria,
O mia dimora…
Quando sarò persa con me stessa
E divisa nell’abisso infinito.
Infinitamente, quando sarò sopraffatta,
Quando il presente di cui sono rivestita
Avrà tradito,
Per l’universo in mille corpi sbriciolata,
Di mille istanti non ancora raccolti,
Dalla cenere ai cieli fino al nulla setacciato,
Lo rifarete per una strana annata
Un unico tesoro
Voi rifarete il mio nome e la mia immagine
Di mille corpi portati via ogni giorno,
Viva unità senza nome e senza volto
Cuore dello spirito, oh centro del miraggio
Altissimo amore.
Sei poesie non sono molto per assegnare una gloria letteraria, ma per Catherine
Pozzi non serviva altro: «Ho scritto
VALE, AVE, MAYA, NOVA, SCOPOLAMINE, NYX. Vorrei che se ne faccia una plaquette.
Saffo non ha attraversato il tempo con più parole.»
Il futuro ha esaudito il suo desiderio…
*L’articolo e la traduzione delle poesie sono di Giorgio Anelli; traduzione da
“Oeuvre poétique”, Éditions de La Différence, 1988
L'articolo “Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna proviene da
Pangea.