> 2010. Samuel Paty, Simone Veil, Miloš Forman ed Elisabetta II erano ancora di
> questo mondo, Barack Obama era presidente degli Stati Uniti e, quattro anni
> prima, Vladimir Putin aveva fatto assassinare Anna Politkovskaja. Il 2010 è
> stato dichiarato l’anno Francia-Russia. Non so cosa significhi.I talebani non
> avevano ancora riconquistato il potere in Afghanistan. Kathryn Bigelow è
> diventata la prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con il
> film The Hurt Locker. (…) Il presidente della Francia era Nicolas Sarkozy.
> TikTok non esisteva. Adele non cantava ancora Someone Like You né Clara
> Luciani cantava La grenade. Il 2010 è l’anno di J’accuse di Damien Saez.
>
> Il 2010 è l’anno in cui mia zia è morta per la seconda volta.
>
> (incipit di Tatà di Valérie Perrin, edizioni E/O, 2024)
Tatà, questo lungo romanzo edito da E/O, l’abbiamo trovato nel cestino della
carta da buttare un giorno in cui eravamo in visita qui alla redazione. Poiché
non mastichiamo granché la letteraturina francese in voga oggi, un amico ci ha
ragguagliati sull’autrice, spiegando che Valérie Perrin è la quarta moglie – di
trent’anni più giovane – del quasi novantenne regista francese Claude Lelouch. È
lei ad avergli scritto le sceneggiature degli ultimi sette film, e gli ha fatto
anche da fotografa di scena; poi ha pubblicato alcuni romanzi di successo che
qui in Italia sono stati propagandati in pompa magna, a suon di bla-bla-mila
copie vendute in una settimana, in un mese, in un anno e via dicendo.
Incuriositi, l’abbiamo esaminato per cercare il motivo di quella cestinatura:
magari ci era finito per sbaglio.
Innanzitutto, il riferimento puntiglioso all’anno 2010 nell’incipit riportato in
epigrafe – per inciso, non abbiamo idea di cosa sia il J’accuse e nemmeno chi
siano Damien Saez e Clara Luciani – serve a far partire la storia, in cui
Colette, la zia della narratrice, “muore per la seconda volta” perché le avevano
già fatto il funerale tre anni prima:
> «Pronto?».«Buongiorno, qui è la gendarmeria di Gueugnon».«Buongiorno».«Parlo
> con la nipote di Colette Septembre?».«Sì».«Sono il capitano Cyril Rampin. Devo
> darle una brutta notizia, signora».«…».«Sua zia è deceduta».«Mia zia?».«Sì,
> Colette Septembre. Sono qui con l’ambulanza. L’abbiamo trovata priva di vita
> al numero 19 di rue des Fredins. A prima vista sembrerebbe che sia morta nel
> sonno, ma stiamo portando le spoglie all’istituto medico legale per le
> verifiche del caso».«Guardi che mia zia Colette è sepolta da tre anni nel
> cimitero di Gueugnon. E abitava in rue Pasteur».«Ho la carta d’identità sotto
> gli occhi: Colette Septembre, nata a Curdin il 7 febbraio 1946. Sulla foto è
> più giovane, ma le somiglia».«Dev’esserci un errore. Probabilmente è un caso
> di omonimia».«Nel suo portafoglio c’è un biglietto su cui è scritto: Persona
> da contattare in caso di emergenza: mia nipote Agnès, 01 42 21 77 47».«…».«C’è
> anche scritto che vuole essere cremata e riposare accanto a Jean
> Septembre».«Jean?».«Sì. Lo conosce?».«Era mio padre».
Già in questo primo scorcio, purtroppo, qualcosa non va. A parte la banalità di
certe battute che si sarebbe potuta evitare («Buongiorno», «Buongiorno», «Sua
zia», «Mia zia?»), a esser fuori luogo sono i tre puntini messi tra virgolette,
tipici di un’ingenuità espressiva da andamento fumettistico del dialogo, dove si
crede che il silenzio dello spiazzamento debba per forza essere rappresentato
con un capoverso muto, per aiutare il lettore debole a immedesimarsi. Il guaio è
che questa formula semplificante non è un incidente, ma viene riproposta in vari
punti, come un vezzo stilistico:
> «A cosa ti riferisci?».«A Charpie, te lo ricordi?».«No. Chi è Charpie?».«Un
> dirigente, uno che non c’entrava niente con gli spogliatoi, ma ti giuro che ha
> passato un bel po’ di tempo nelle docce dei ragazzi, si è rifatto gli occhi
> con tre generazioni senza la minima discrezione. Per non parlare dei muscoli e
> dei coglioni che palpeggiava i mercoledì pomeriggio».«…».
Non vogliamo annoiarvi con citazioni inutili, ma vi assicuriamo che il silenzio
espresso coi puntini fra le virgolette continua a comparire anche in seguito,
come se fosse l’unico modo per esplicitare quel tipo di situazione. Questa
dissonanza ci ha fatto insospettire un po’, spingendoci a cercare qualche
notizia in più sull’autrice. In Wikipedia – la fonte principe dei nostri tempi –
viene innanzitutto specificato che Valérie Perrin è “scrittrice, sceneggiatrice
e fotografa”. Dunque, immaginiamo che lavori innanzitutto per il cinema: quali
film ha sceneggiato? Oltre agli ultimi sette del marito, null’altro viene
segnalato. Se non esistono altre collaborazioni al di fuori della cerchia
familiare (qualora esistessero, qualcuno le menzioni) non sappiamo fino a che
punto si possa parlare di sceneggiatrice come “professione”, nel senso di
attività che si sia sviluppata e misurata col mondo professionale esterno.
Inoltre, l’autrice viene definita fotografa. Bene, per chi ha lavorato? Quali
riviste, quali eventuali campagne, o servizi su internet? Ha fatto qualche
mostra, pubblicato qualche libro fotografico? Non si sa, perché l’unica cosa che
risulta aver fatto è la “fotografa di scena” per i film del marito. Se non è
così, suggeriamo di rimpolpare il curriculum con qualche notizia in più che
possa chiarire le cose.
Rilevate queste criticità, asteniamoci da ogni illazione o elucubrazione sul
personaggio e su come viene presentato al pubblico, e restiamo invece
sull’argomento libro. Sempre Wikipedia dice che il primo romanzo della
Perrin, Les Oubliés du dimanche (Il quaderno dell’amore perduto), ha ricevuto
ben tredici premi, ma nell’elenco lì dedicato ne compaiono solo sette. E gli
altri sei dove sarebbero? Si tratta forse di piccole manifestazioni di paese non
degne di menzione? Poi leggiamo che il suo secondo romanzo Changer l’eau des
fleurs (Cambiare l’acqua ai fiori), “ha ricevuto diversi premi tra cui il prix
Maison de la Presse che premia un’opera scritta in francese per il vasto
pubblico”: ecco dunque un indizio che ci aiuta a inquadrare questo genere di
romanzi. Il Vasto Pubblico diventa la parola chiave, la formula magica del parco
lettori da nutrire con ciò che chiede.
Confermiamo comunque che questo romanzo procede in modo disinvolto e scorrevole,
con quel genere di scrittura che piace tanto a chi usa dire “si legge d’un
fiato!”, con la differenza che Tatà è un volume di seicento pagine, quindi di un
fiato non si può certo leggere: al contrario è un macigno che fa penare
parecchio chi si metta in testa – per principio o per cocciutaggine – di
leggerlo fino in fondo. Secondo la vulgata di Wikipedia, i romanzi di Valérie
Perrin “raccontano ‘storie di vita’, mettendo in scena dei personaggi
accattivanti e dal percorso di vita atipico. Con uno stile semplice, vivace e a
tutto tondo, l’autrice costruisce i suoi romanzi in corti capitoli al fine di
dare un ritmo al suo racconto; Changer l’eau des fleurs, per esempio, comprende
più di un centinaio di capitoli, riassunti ogni volta da un epitaffio poetico”.
Ora qualcuno dovrebbe spiegarci cosa significa “uno stile a tutto tondo”.
Essendo effettivamente semplice, lo stile in questo libro non decolla mai, resta
rigorosamente sotto un’asticella definita, e rimane a galleggiare sulla
superficie di un chiacchiericcio da consorteria che si riunisce in soggiorno o
nella sala da tè: un chiacchiericcio che appartiene alla vita quotidiana di
moltissimi, che sia declinato in seno alle classi medio-popolari oppure negli
ambienti privilegiati della gauche intellectuelle a cui l’autrice sembra
appartenere. Ma cerchiamo di essere più specifici. Il blocco narrativo che la
Perrin cerca di dipanare per far stare in piedi la storia vorrebbe intrecciare
“segreti familiari, memorie sepolte e il peso insondabile del passato, lasciando
il lettore intrappolato in una ragnatela di emozioni e misteri” (citiamo formule
elogiative raccolte in Rete). La protagonista Agnès è – ovviamente – una regista
di successo che deve affrontare la (seconda) morte della zia Colette, detta
affettuosamente Tatà, che furbescamente aveva finto di defungere tre anni prima.
“Perché Colette ha fatto credere di essere morta? Questo enigma, oscuro e
spiazzante, conduce Agnès in un viaggio a ritroso nel tempo, tra frammenti di
memoria e segreti sepolti. Una valigia piena di audiocassette lasciata dalla zia
si rivela il filo conduttore che lega voci dimenticate, vecchi amici e verità
sommerse. Emergono storie che si intrecciano in un mosaico di destini e di
personaggi”.
E qui arrivano i dolori: purtroppo non c’è nessuna “esperienza emotiva che
trascende le pagine”, nessuna “riflessione sulla memoria e sui legami familiari
che invita il lettore a guardarsi dentro” (guardarsi dentro è un’espressione che
andrebbe abolita); e i classici “fantasmi del passato” non portano nessun
fardello che cerca redenzione, ma restano evanescenti e pretestuosi, senza nerbo
come la girandola di personaggi che interagiscono come se si trovassero in un
film commedia, ovviamente francese. Lo stile è quello lì, coi toni disinvolti e
sbrigativi da sceneggiatura interpretata da Catherine Deneuve, con la spocchia
velata della gauche intellectuelle che abbiamo citato, quella che finge
spontaneità lasciando trasparire la consapevolezza di essere due gradini sopra,
di poter trascurare quella che si chiama onestà artistica perché, comunque, il
“vasto pubblico” ci cascherà e verserà i soldi in cassa. È l’espressione chiara
di quella sorta di cripto-disprezzo che rimane tra le righe, che si omologa alla
decadenza culturale del nostro tempo rinunciando a impegnarsi, cavalcando
scorciatoie, gettando brioche al popolo per restare in sella. In Tatà la trama
non esiste, ovvero si attorciglia in una sorta di labirinto che fa vagolare il
lettore senza risolversi in una narrazione. I personaggi, così inconcludenti,
fanno venire i nervi al pari di quei dannati tre puntini messi fra virgolette
che ogni tanto spuntano senza motivo:
> «Sono lì dentro?».«Sì» mormora.«Tutte?».«Sì».«Mi stai dicendo che zia Colette,
> la persona più taciturna che abbia conosciuto in vita mia, ha registrato…
> quanti minuti, Cornélia?».«Dodicimila».«…dodicimila minuti di nastro
> magnetico?».«Sì, anche un po’ di più».«Un po’ di più?».«Sì».«Perché l’ha
> fatto?».«Per te».«…».
Le battute che ripetono, i famigerati tre puntini virgolettati, il
chiacchiericcio sofisticato da Comédie Française, fino alla nemesi delle
audiocassette registrate dalla zia con gli spezzoni di una storia incoerente,
frammentata, che non riesce a formarsi in una narrazione logica. Una sarabanda
di ricordi che sembra l’espediente per riempire le pagine senza una vera
direzione, solo per inserire quegli elementi-chiave che simulano sostanza e
vogliono dare il necessario appeal alla vicenda, per blandire il pubblico: la
sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, un
celebre pianista, un assassino senza scrupoli, un insospettabile pedofilo, e il
tifo sfegatato e pittoresco della zia per la squadra locale di calcio.
Segnaliamo che Agnés è ossessionata dall’ex marito Pierre, che l’ha lasciata per
una donna più giovane: va da sé che la donna in questione è – a seconda dei
momenti – stronza, baldracca, troia, oppure pasticcino. Talvolta le
elucubrazioni della protagonista sono enfaticamente spiattellate, a effetto,
come se ci si trovasse in una scena comica di Louis De Funès:
> “Sono Agnès”.Come avrebbe reagito? Non gli avrei dato il tempo di dire
> “Agnès?” o “Agnès!” o “Perché mi chiami, è successo qualcosa?”.Gli avrei
> detto: “Pensa, mi ha appena chiamato la gendarmeria di Gueugnon. È morta
> Colette”.No, non avrei detto “pensa”, avrei detto: “Mi ha telefonato la
> gendarmeria di Gueugnon. Hanno trovato il cadavere di una donna e sostengono
> caparbiamente che si tratti di Colette”.No, caparbiamente non va bene, non
> dico mai “caparbiamente”.Mi avrebbe risposto: “Ma è già morta… Hai bevuto?
> Dimmi la verità, hai bevuto?”.Avrei replicato: “Ti piacerebbe, eh? Così tu e
> la tua baldracca potreste avere la custodia esclusiva di Ana”. E avrei
> riattaccato.Non ho mai detto la parola “baldracca”. Quando sono arrabbiata
> grido “stronza” o “troia”. Chi dei due avrebbe riattaccato per primo? In quale
> momento la conversazione si sarebbe inasprita?
Che dubbi amletici, talmente drammatici da accorciare il respiro. Più si procede
nella lettura più la protagonista Agnès diventa insopportabile, al punto da
farci solidarizzare col marito fedifrago Pierre. E certe riflessioni sembrano
rivelatrici dei problemi di questo libro:
> “E io ero stanca. È il prezzo da pagare per la gloria: la paura, sempre più
> presente e opprimente, di non avere più niente da dire, la sensazione di
> rifilare sempre la stessa minestra. Cosa raccontare nel prossimo film? Tra le
> altre donne che mio marito non guardava ce n’è stata una che ha fatto più che
> guardarlo, gli è saltata addosso. Aveva un buon odore, era carina e
> zuccherosa, aveva voglia e faceva venire voglia. E lui, senza opporsi, l’ha
> lasciata fare, in un primo momento per sapere, per capire, per assaggiare
> qualcosa di diverso”.
In conclusione, possiamo dire che uno degli scopi occulti di questo libro pare
essere quello di trasudare mondanità. Effettivamente, è una vocazione che viene
da lontano, da quell’aristocrazia Ancien Régimeanteriore alla Rivoluzione del
1789, dove una piccola schiera di privilegiati, splendidamente condannati
all’ozio, si creava una realtà circoscritta in cui autocelebrarsi. Era lì la
Civiltà della conversazione, raccontata nel magnifico libro di Benedetta Craveri
edito da Adelphi: fare della vita mondana un’arte e un fine in sé, come tratto
distintivo di un’identità aristocratica che dal Sei-Settecento è riuscita a
proiettare la sua eredità fino alla gauche intellectuelle francese novecentesca,
l’estremo baluardo culturale che potesse arginare la deriva inevitabile,
compiutasi nell’ultimo quarto di secolo per estinzione generazionale.
L’autocelebrazione occulta, ben percepibile nella prosa pretestuosa della
Perrin, discende proprio da quel bisogno irrefrenabile di mondanità, da
quell’esprit de société che nel tempo si è sfilacciato fino ad annientarsi nel
chiacchiericcio stolido che oggi macina tutto, che dice senza costrutto, che
parte per tornare al punto di partenza, che celebra la propria inutilità in
pagine che – siamo desolati – torneranno nel cestino.
Paolo Ferrucci
*In copertina: un’opera di Roland Topor
L'articolo Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno
irrefrenabile di mondanità) proviene da Pangea.
Tag - Letteratura francese
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza
considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente
la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a
Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo
brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di
essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai
suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il
romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno
dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e
dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra.
Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante
vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato
e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una
scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta
anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.
Aveva, come sempre, ragione.
Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura
francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa –
registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale
come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria
Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il
consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras,
Yourcenar, de Beauvoir…).
Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra –
sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus &
Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur
disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è
ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica
penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati
in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni
– non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi
misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il
sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di
bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la
biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares,
2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la
vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine
incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi,
ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo
(anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che
bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito
alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia
Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant,
Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per
Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni
“testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).
Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise
Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai
“miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli
scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita
dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una
questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.
Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il
quale penetrare nel mondo della Némirovsky?
Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due
romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo
il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben
distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel
1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in
assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne
segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei
anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet
e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”,
se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento,
fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica
scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a
lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di
antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il
romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha
determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel
2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha
definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente
finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche
perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una
certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema
dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge
l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto
l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un
tono lirico.
Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?
Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse,
scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène
Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a
tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe
insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la
affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se
forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da
personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati
all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli,
gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per
cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio
direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale
dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.
Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria?
Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio
soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica
pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la
lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans,
Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva
intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come
avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano
Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande
influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice
famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una
predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano
più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era
ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva
mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e
Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi
dedicati a Sisifo della poesia La scarogna.
…e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?
Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è
oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il
successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale
che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente
maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste
importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini.
L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi
talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di
pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno
spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché
sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale,
Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel
gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”,
le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne
ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti
suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di
israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale
slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner
firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma
la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando
l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua
opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e
romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti
dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli
internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James
Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente
recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una
passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però
ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène
e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la
aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che
dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.
Irène Némirovsky (1903-1942)
Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare
un destino?
L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione
bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria,
una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria
il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa
Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di
Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata
dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole
della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie
dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere
ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice
di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che
traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940,
incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli
stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia
come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione
tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a
rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi,
malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il
governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera.
Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky?
Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due
tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre
e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il
più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili
nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e
le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante,
insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le
donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di
grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a
inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.
La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una
sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così?
Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène?
Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò
che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e
continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando
poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al
mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle
recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della
slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa
nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più
tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese,
investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro
incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con
nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire
per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo
scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere
deportata.
Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è
in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora?
È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che
scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto.
Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino
collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era
quella di ricordarsi che
> “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre
> quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto
> la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.
Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale
ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di
Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al
lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso
di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda
dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e
sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo,
le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo
lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno
spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente
posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto,
interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.
L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo
con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il
futuro che ti cuce gli occhi.
Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel
Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo
concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue
anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero.
Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo
libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi
trent’anni dopo, nel 1951.
*
Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di
gioventù.
Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore.
Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel
sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni
diciottenni.
Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi
commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga,
finalmente, palmeto, prato.
*
Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per
Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La
Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto,
ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa
con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito,
che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come
“problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto
prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a
Yourcenar un contratto.
*
Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei
importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.
Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.
*
Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto
d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da
Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà
drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile
e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente
purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata
a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di
lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del
corpo:
> “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai
> paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una
> crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua
> fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca
> delle solite squallide delizie”.
Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che
la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.
> “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più
> prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la
> vanità del desiderio”.
Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”,
narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de
Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del
monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le
sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di
maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la
folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è
lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un
monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.
Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più
radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo
che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata
divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun
angelo la addita, nessun uomo la addomestica.
Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono
stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.
*
L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di
Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di
William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del
linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S.
Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in
lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di
Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che
sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva:
questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre
rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non
vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere,
rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca,
mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare
da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga,
trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille
sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a
quell’epoca di maschere d’oro.
In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.
*
Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto
portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di
realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan
preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una
reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la
splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza,
Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice:
> “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con
> gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non
> ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli
> esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza
> è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.
Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro
affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico,
inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs
modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti
sconvolgente, la nostra stessa vita”.
*
Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il
romanzo di Virginia Woolf.
Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il
colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante
la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira
a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il
risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare
nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i
romanzi più noti ed elaborati.
Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato
da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie
d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro
sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene
redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André
Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È
vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta,
con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e
ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per
rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i
testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il
monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini
neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno,
dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta,
occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le
liberi.
> “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e
> ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di
> dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei
> boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i
> pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno
> per la Sua opera”.
Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta
il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.
*
Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che
sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive
propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov,
Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite
non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo
il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo
von Hofmannsthal.
In Fuochi, incideva nella carne:
> “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un
> corpo.
>
> Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti
> lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile
> figlio”.
Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in
ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.
*
La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano
ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le
estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in
fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la
scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.
*
Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia.
L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone,
Amsterdam.
In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa
Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione
definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les
emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il
primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista
che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo
straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente
vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il
largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore
pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti
del vecchio Wang-Fô.
L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les
tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro
contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo
logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per
“l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad
appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem.
L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che
Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli
uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura
delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni
singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un
insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al
vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche
a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.
In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni
dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la
barbarie, la balbuzie, la bellezza.
L'articolo “Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente
secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo
dire. Riverginarlo. Resurrexi.
Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli
altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del
vocabolario.
Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.
Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba
a imbottirci di false speranze.
Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e
miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre
– altrove.
Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a
tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il
volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe
bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020,
Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72
anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta
di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel
luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia…
dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un
‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente
destabilizzante:
> “Il foyer della Poesia gode dei tentativi
> delle parole di trovare per lei
> una ragion d’essere
> (la poesia autorizza il conoscere
> non certo l’inverso)
>
> Riverso il capo tra le mani
> non rendo scaltre le poesie di agonie
> passate all’autopsia della notte:
> pratico alfabeti impropri
> estranei alla cappa del pensiero
> necessario a ordire le loro
> cronache contemporanee”
Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di
Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal
proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando
al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con
lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di
scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile
precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di
pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili.
In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata
Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica:
> “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì,
> allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È
> l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.
Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier
scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.
Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un
improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil
Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei
surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il
crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia
disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come
un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza.
Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande
editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile
“libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”.
Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond
Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che
sia pubblicato il suo Bestiaire.
Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si
installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in
prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una
pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto
borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è
improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).
Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica
all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry
Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard
Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come
trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto
per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire
l’universo”). Secondo il poeta
> “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso
> che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le
> mani”.
Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire
incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso
per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro
vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot,
contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.
Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può
restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo
mistico del verso.
Dunque, sì: documento-nocumento.
***
Crepita il crepuscolo e crolla la camera
sempre in quello stesso crollo
nell’atto della creatura randagia
finché Locarno non si serra
in una crisalide epica e crepa l’idea
Volto fisso
e freme la circolazione
nel particolare, oh, sì, l’unico
preso dal panorama, il convulso, il rovinoso
soprassalto della carne
la maestà che diviene sudore
e il più vile dei tratti:
il tutto rampogna la propria apoteosi
e
vivacità dell’ossessa pazienza
annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo
*
Lugano, la forma lappa
la sostanza del faticare
l’oscurità appena lambita
dalla speranza angolare
in aria si dispiega il rifugio
dello stesso volume o quasi
perché di rado l’arborescente visione
compie dell’asse degli anni
la nota astratta, la sorpresa
al calendario delle sentinelle
solo l’esasperazione
di un paradiso in sussiego
e il broncio corrugato come una goccia
preso da una divinità larva
che lavora al vertice
di un’immaginazione esperita
con tanto di balsamo addosso
con tanta redenzione priva di pareti.
*
Amadriadi arroganti al sole di maggio
C’era una lunga seta poetica
che nuotava con serica dolcezza.
“Intanto
della resina degli occhi
della sentinella che sfianca il giorno
la miscela è chiara
e il bruto atomo la sua fragranza
vinto al concerto
dalla prima”.
Amadriadi arroganti al sole di maggio
e perfino la grammatica dell’assenzio
le nuvole dei primati aggiunte
a quelle trasparenze su sopiti prati…
…su stupiti prati si slanciano
classifiche di ore al miele
e noi passiamo tra i punti e le virgole
per perderci (quando il medico mi ha auscultato
il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”)
*
L’autunno non sa redimersi dall’estate
quando esplodono le lacrime
perché è troppo – è difficile
il vano appello all’oggetto e al fine
Ed è rosa, è opaco
porge la sua tristezza
di rari alcolici
Da qui puoi vedere tutto
lo stato del risveglio
appena importato
Un torrente di carta & matita
i sorrisi della mano sinistra
frantumi di regni sconfitti
al culmine di una illogica velocità
Ma la vita è altro, è altrove
Matthieu Messagier
L'articolo “Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come
ribellione proviene da Pangea.
La prima volta che ebbi tra le mani un libro di poesie del grande Victor Hugo fu
alla biblioteca civica Luigi Maino di Gallarate. Non sapevo affatto ‒ come molti
di voi, suppongo, del resto ‒ che il grande narratore francese avesse scritto
persino delle poesie. La sorpresa fu doppia, perché una volta aperto il libro,
scoprii che (scritto a matita) lo stesso era stato donato da Franco Buffoni alla
Biblioteca. Giuro, avrei voluto trafugare il libro!…
Va detto che il poeta Franco Buffoni io non lo conoscevo, né mai l’ho conosciuto
di persona; eppure il destino ha fatto sì che in alcune circostanze i nostri
sguardi e le nostre parole s’incrociassero per imbastire brevi aneddoti, che
adesso non starò certo qui a raccontare.
Quel che importa ricordare però, ora, invece, è la potenza della poesia di Hugo.
Difatti, lo stesso identico libro di allora (Hugo, Poesie, Mondadori 2002), è
tornato a me (non solo tra le mie mani, ma a far parte della mia “piccolaˮ
biblioteca). E leggendo di gran carriera ieri sera le poesie raccolte in questa
vasta antologia, pubblicata per i duecento anni dalla nascita del poeta, non
solo ho goduto assai dal piacere, ma soprattutto mi ci sono ritrovato
pienamente. Come se nei suoi versi Victor Hugo mi conoscesse e mi descrivesse
perfettamente.
Tra l’altro, detto per inciso, sono molte e varie le poesie che egli dedica al
poeta. Ma non sono le uniche potenti. La maestria dell’autore francese è
rinomata anche nello scrivere versi in tutti gli svariati temi che singolarmente
affronta.
Su tutte, quella dove mi ci ritrovo completamente s’intitola È bene che il
poeta…
> È bene che il poeta, assetato d’ombra e di cielo,
> Spirito dolce e splendido, che irraggia chiarità,
> Che innanzi a tutti cammina, illuminando chi dubita,
> Cantore misterioso che trasalendo ascoltano
> Le donne e i sognatori ed i saggi e gli amanti,
> Diventi in certi istanti un essere terribile.
> Talvolta, quando fantastica sul suo libro,
> Ove ogni cosa culla, abbaglia, calma, carezza, inebria,
> E l’animo a ogni passo trova polline per il suo miele,
> E gli angoli più bui hanno luci celesti;
> In mezzo a quell’umile ed alta poesia,
> In quella pace sacra in cui cresce il fiore prediletto,
> E si sentono scorrere le sorgenti ed i pianti,
> E le strofe, uccelli dipinti di mille colori,
> Volano cantando l’amore, la speranza e la gioia,
> Occorre che, a tratti, si tremi, e si oda,
> Di colpo, scuro, grave, tremendo per chi passa,
> Dall’ombra un verso feroce uscire ruggendo!
> Occorre che il poeta, il poeta dal seme fecondo,
> Somigli alle foreste, verdi, fresche, profonde,
> Piene di canti, amate dal sole e dal vento,
> Incantevoli, in cui d’un tratto s’incontra un leone.
>
> Parigi, maggio 1842
Confesso che stare nei boschi di montagna mi ha educato a questo tipo di poesia
e di vita. Stare nei boschi di montagna mi ha insegnato ad essere feroce e
fecondo, fiore prediletto, speranzoso cantore misterioso. Del resto, che il mio
urlo rimbombi tuttora per certe valli e in altrettanti luoghi immersi nella
natura e nel sentimento panico, non è cosa affatto scontata e banale.
Giorgio Anelli
*In copertina: Victor Hugo, Octopus, 1866–69
L'articolo “Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor
Hugo proviene da Pangea.
In inglese si chiamano Furious Fifties – venti che azzannano, raffiche
capodoglio. Stanno al 50° parallelo dell’emisfero meridionale; apolidi
all’estremo confine della Patagonia, alle calcagna della Nuova Zelanda,
sparpagliati a poche braccia da Antartide. Dicono di possenti depressioni,
dicono dello scontro – letale, vulcanico – tra le vampe degli oceani e il gelo
della divinità antartica.
Dovremmo raccontare i perplessi progressi della civiltà stando segugi dei venti,
dissezionandone il ventre. Una storia occidentale per raffiche. Gli inglesi lo
sanno. Durante la leggendaria “Age of Sail”, tra il XVI e il XIX secolo – era di
conquiste e di razzie, di esplorazioni e di guerre per mare, di vascelli
fantasma e di ammutinati – i “Roaring Forties” (i venti al 40° parallelo sud) e
i “Furious Fifties” erano i Castore & Polluce dei velieri e dei velisti, i
gemelli terribili. Incoccare il giusto vento permetteva di penetrare nel
Pacifico o di fendere l’Indiano a velocità doppia – altrimenti: rotta, disarmo,
crollo, vagabondaggio da agnelli sacrificali presso lande inumane.
Les cinquantièmes hurlants è la traduzione in francese di “Furious Fifties”, i
“Cinquanta urlanti”. L’esergo avvampa: “Al di sotto del 40° parallelo sud non
c’è legge. Sotto il 50° non c’è Dio”. La quarta di copertina parla di
“periglioso vagabondaggio per mari”, di “elogio dell’avventura e del rischio”,
di “spedizione geografica e metafisica”, di “irragionevolezza”. Tutte cose che
nell’epoca dei sentimenti tenui, delle sentenze algoritmiche, della letteratura
illetterata, ombelicale, sociologica, sociopatica, patetica, affascinano per
inattesa inattualità.
Les cinquantièmes hurlants – stampa Gallimard – è un poema come non se ne vedeva
da tempo: audace fino all’ingenuità, ingordo, di scaltrita innocenza. Al primo
impatto, l’autore pare mescolare il Rimbaud del Battello ebbro alle cronache di
viaggio di James Cook, nella convinzione – australe, belluina e assurda;
assordante – che l’uomo, in fondo, sia sempre lo stesso, brutale impasto
d’argilla e d’angelo, proteso a belare verso le stelle, indifferenti al suo
ardire. In esergo, Hermann Melville – Moby Dick, la mappa alchemica di noi
industriosi perduti – e Velimir Chlebnikov, il folle poeta russo idolatrato da
Ripellino. L’autore ama le parole desuete, vara improbabili neologismi, gioca a
sconfinare dal linguaggio. “Perché dovrei essere ‘compreso’?”, ha detto
l’autore-pioniere in un’intervista, un paio di anni fa,
> “E poi, chi dovrebbe ‘comprendermi’? Per quel che mi riguarda, la poesia si
> colloca in una dimensione completamente diversa rispetto al linguaggio usato
> per ‘comunicare’ – ne è la suprema forma, il supremo abuso. Matthieu Messagier
> diceva che ‘la vera poesia è autentica delinquenza’”.
Tom Buron – l’autore – si atteggia a ribelle; spesso indossa pellicce troppo
grandi, improbabili; ha gli occhi assatanati, la fronte onniveggente; legge le
poesie appeso al microfono, pare Nick Cave. Si è costruito una sua pericolosità,
forse per consegnare ai versi un sovrappiù di rischio. Cita Ernst Jünger e René
Daumal, ha lavorato con musicisti jazz, legge Hart Crane e Dylan Thomas, le
stelle polari del suo ondivago verseggiare. Si atteggia, teneramente, a duro:
> “Sono legato a poeti la cui esistenza è all’altezza dell’opera – preferisco i
> poeti ‘compiuti’. Quelli che si lanciano con tutto il cuore, che dissipano le
> forze; gli avventurieri, questi antieroi della scrittura e del bel gesto; una
> specie di incrocio tra l’autore metodico e il torero, l’asceta e il corsaro.
> Insomma, si tratta di lottare e di essere, insieme a Conrad, ‘fedeli
> all’incubo che ci ha scelti’”.
Pratica la boxe – “uno sport pieno di eleganza, di sacralità… prima della
scrittura, è la boxe ad avermi dato una disciplina, una solida struttura dopo
un’adolescenza eccessiva, diciamo così” –, gli piace dire di aver vissuto a
Praga, a Napoli, a Dakar e a Città del Messico; dallo scoppio della guerra in
Ucraina lo si è visto, di tanto in tanto, a Kiev, a Zaporižžja, a Cherson. È
giovane: nato nel 1992, Tom Buron ha già pubblicato – Marquis Minuit è del
2021, Le chambre et le barillet è del 2023; ha esordito ragazzo, nel 2016 con
una serie di “Blues del XXI secolo” –, si è già conquistato le proprietà del
pioniere e del ribelle. Il libro edito da Gallimard – in contrasto con la poesia
francofona vigente, spesso di risulta, spesso un sussulto minimal, grave di
grigi aforismi, di tediosi borborigmi – dovrebbe essere quello della
consacrazione. Vista l’indole e il gergo, speriamo sia il libro della
dissolutezza e della dissacrazione: una zaffata oceanica, un galeone conficcato
nei muffiti salotti della poesia odierna. E poi… al largo, a bordeggiare
l’ignoto, a predare lo sconosciuto – ogni libro sia dunque un addio.
**
Da “Les cinquantièmes hurlants”
I
Già immagino la traversata, la trenodia,
giusto è il momento della nostra
rotta sopra i fari del mondo;
invento una virata di muso per deviare
la nave che scroscia su eleganti cariaggi
e sbava arguzie d’olio e di rame
mentre il litorale è nulla, ormai, e il mare
rende tellurico il suo decotto, le acque,
le flotte, una processione di palchi
tra nappe di nebbia.
Ho fatto il ritratto al regno:
non tornerò, neppure
per tutto l’oro del mondo nei lombi
del carcere, nel dire dei compagni, nel
vasto circo di quegli anni cruciali.
Stasera il cielo è incerato
lampi nelle giunture del cratere natio, questa sera,
ritornano elettrici i morti contro di noi.
Così, alla conquista della risacca,
inebrio il ritmo nel liquore liquame
da questo spiraglio, la scoperta di una
sferragliante consonanza – luce:
luce che agonizza come il mozzicone di una cicca
il komboloi tra il pollice e l’indice
mi rammenta alcune fate obliate dalla terra
che hanno abitato con noi con i loro furtivi passi
omettendo le mappe, le loro sinuose costole –
poi ricordo i cembali
la febbre dei codardi in evasione
ancora il ricordo dei cembali –
entriamo nella caccia: senza audacia
entrando nell’offerta della prossima isola.
Questa sera, setacciamo il cielo
per trovare un poco di immobilità
finché ci sovviene la litania
quella litania che dice: devi
dimenticare ben poche cose e poi
tieniti a distanza dalla febbre e dalla brace.
“Trasbordi, tragici tragitti – infine
il blu rinomina la lontananza delle strade
a tre golfi dalla commemorazione:
Mai più questo blu, mai, mai più…”
per lasciare infine un quinto del cielo
alla macabra danza dello zefiro.
Intanto, ho messo a morte
le mie prime intenzioni, conteggio
le crisi, marcio sulle liti
tra segreti estuari. Tempo
fa ero un cercatore, è vero.
Ho negoziato con un negromante
per farmi strada tra questi
sentimenti medioevali:
la buona sorte in una
tasca, quella cattiva nell’altra.
Ma oggi la notte fugge
e io vado mendicando
tra fratelli plurali, senza sosta.
La nave mi ha reso cieco
alle effemeridi della vendetta:
lo giuro, ho lasciato nei sobborghi
gli appetiti del mio abbaiare. L’ho fatto
per apprendere ogni giorno l’arte
della resurrezione: ecco cosa genera
un cuore apofatico, un corpo che s’inginocchia
davanti a ogni mistero del mondo libero.
Ma so ruggire – pirata impenitente
e intempestivo – ruggisce la pira
dei miei primevi pensieri. Sull’altra rotta
nelle altre notti, cacofonia di desideri
che rinnova la bella benedizione
del dolore, canceroso, arcigno, provato
nell’abitudine di quelle albe
quando ci si imbarca per terra
senza fuga, quando imbocchiamo
la via verso tratturi di fango che i nostri
avi non hanno avuto cura di nominare.
Quindi: vagabondaggio di onde
il coraggio del faro. Le porte si spalancano
e ricomincia la commedia
la disgrazia, i nuovi consolidati errori.
So i goffi ritornelli a ramponi
sul viso dei fumatori, quel po’
di eternità che fende gli indiani segni
prima del santuario del panico
quell’ambasciata sull’ascia della sera
irredimibile, in cui dicevo, andremo
a distillare il nostro sangue da quello altrui
ma non ho data di nascita
nessun genitore terreno: soltanto
qualche moneta in tasca – lucido
la fodera del tuono a ogni ora.
Aratura di scafi, armi –
incomparabile accordo tra estasi
e crollo, questa è la mia parte.
Così, ogni giorno sondiamo
l’oracolo dei mari, ogni giorno
partiamo da gorghi
carnevaleschi per incrociare
le spade ed è tutto un basculare
tra maniaci e manieri in questi
nuovi giardini di Eden.
Che vomitino il vino iniquo
il vento maligno dei civilizzati
nei porti dell’Est, posti dalle vaste palpebre;
pallidi isolotti, palme, spuma di spezie,
involuti incanti di catene – chiara è la lettera:
ciò che è costruito dev’essere distrutto
e ogni giorno rinnovato, alla partenza –
Tom Buron
L'articolo “Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro
proviene da Pangea.
Nella biografia di uno dei primi romanzi, ripidi come un’erta di vento, c’è
scritto che “coltiva mimose nel paese natale”. In realtà – per scoscendimento di
luce – i suoi eroi, ostinati e desolati, figli di un sussurro, il Varí di Vento
largo, ad esempio, vagano tra ulivi che flagellano il cielo. Francesco Biamonti
veniva da San Biagio della Cima, alle spalle di Ventimiglia, ha esordito più di
quarant’anni fa, ne aveva più di cinquanta, è morto nel 2001. I suoi libri sono
rari, per pochi: gli piaceva scollinare nel rancore, era amico di Ennio
Morlotti, amava Cézanne, leggeva René Char, ma aveva imparato “la tenuta dello
stile… la laboriosità dello stile” da Julien Gracq.
Dopo una giovinezza disordinata – piena di città portuali dai nomi immaginari,
mi diceva – Biamonti era stato bibliotecario a Ventimiglia: negli occhi aveva
una nostalgia pietrificata, ligure, non scevra da una certa scaltrezza. Gracq,
nato nel 1910 nella Loira, nelle fotografie ha il viso affilato, duro; è magro e
perennemente elegante; il neo appena sopra il labbro e la pettinatura composta
confermano l’estro dei perfezionisti, una specie di ansiosa ossessione per il
dettaglio. Arrestato a Dunkerque nel 1940, imprigionato in Slesia insieme a
Raymond Abellio e a Patrice de La Tour du Pin, è ricordato come “il più
individualista, il più anticomunitario di tutti, ferocemente anti-Vichy, retto
per lo più da un perpetuo disprezzo”. A Biamonti piaceva Una finestra sul
bosco (1958); Julien Gracq esordisce nel 1938 con Nel castello di Argol: un
capolavoro, certo, ma editorialmente un disastro (130 copie vendute su 1200
stampate). André Breton, che aveva conosciuto l’autore nel ’39, vide in quel
libro l’esito del surrealismo, che si librava – diceva – verso la
“chiaroveggenza”. Come tentò di essere comunista – si iscrisse al Parti
communiste français nel 1936 – così si forzò di farsi surrealista: ancora nel
1953, una fotografia scattata da Man Ray al Café de la place Blanche lo ritrae
insieme a Le groupe surréaliste. Tra gli altri, si riconoscono Max Ernst,
Alberto Giacometti, Benjamin Péret; Gracq guarda di lato, perplesso; a
quell’epoca il suo destino era già deciso.
In effetti, si era fatto fuori da tutto, da tempo: gli pareva irrilevante, in
letteratura, “l’impegno”, una irrisione il “realismo socialista”; in genere, non
credeva nelle imprese di gruppo né nell’azione politica (“non è un serio
esercizio per la mente”, diceva), preferiva Edgar Allan Poe e Lautréamont a
Sartre, adorava Wagner. Fu fedele ad André Breton – d’altronde, era stato il
primo a riconoscerlo –, non parteggiò per alcuna avanguardia. Ad ogni modo,
a Nadja, l’opera imperitura – ma datata – di Breton, anteponeva Sulle scogliere
di marmo di Ernst Jünger. Gracq volle incontrare lo scrittore tedesco: si videro
a Parigi, nel ’52; Jünger apprezzava quell’uomo schivo, dai silenzi
sconvolgenti, e ancor più i suoi libri, “dopo Marcel Jouhandeau, ha scritto la
miglior prosa francese che abbia mai letto”.
In realtà, si chiamava Louis Poirier, un nome al limite dell’insignificante: dal
1946 fu impiegato al Lycée Claude-Bernard di Parigi come insegnante di storia e
geografia, incarico che mantenne sino alla pensione, nel 1970. Consacrato al
sacerdozio dell’arte, mirava a farsi invisibile, mero gioco di verbi e di
specchi. Ci riuscì a tal punto da essere considerato, alla sua morte, capitata
tre giorni prima del Natale del 2007, “l’ultimo dei classici francesi”.Redigendo
una sorta di carta d’identità dei suoi personaggi letterari, ha scritto che “non
abitano mai a casa propria”, non se ne conosce il luogo né la data di nascita,
praticano il “nottambulismo” e il “sogno ad occhi aperti”.
Sfuggente, radicale, inafferrabile, il ‘tipo’ di Julien Gracq ha un’aristocrazia
in Francia – che riguarda, spesso, l’indocile postura dei poeti: Jean Grosjean,
Georges Perros, Thierry Metz, ad esempio – che scaturisce dalle scelte, quasi
messianiche, di Rimbaud. Il divino, tremendo Rimbaud è stato l’angelo di Gracq
durante la scrittura di Libertà grande(pubblicato nel 2021 da L’orma, che in
edizioni di pregio ha stampato alcuni grandi libri di Gracq); nel 1954, sulla
rivista “Arts”, in un articolo dal titolo Le Dieu Rimbaud, descrive il divo
Arthur come “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”, che “non
ci è mai stato vicino”.
Quanto a Gracq, aveva preso le distanze dal fottio intellettuale francese pochi
anni prima, con un pamphlet vertiginoso e violento, La Littérature à l’estomac,
stampato nel 1950, tradotto da De Piante nel 2022 come La letteratura da
voltastomaco (a cura di Émil Ronìn, con una introduzione di Goffredo Fofi), dopo
un passaggio per Theoria nel 1990. Il testo, radioso per livore polemico,
scardina il giogo del sistema culturale, dimostrandone l’insensatezza,
l’iniquità. In un tempo in cui l’editoria ha come unico fine quello di
rimpinzare le masse di libri banali, prodotti da scrittori creati in vitro,
estratti “da una serra di coltivazioni forzate”, proni all’intrattenimento,
innocui, atti a favorire il sonno dell’audacia, a rimpinzare il “rumore di
fondo” nonché la vile acquiescenza sulle proprie convinzioni, palestra per
sottomessi e remissivi, la letteratura è scelta monastica, per eversivi e
miniatori del verbo. Nell’era delle apparenze e delle apparizioni estemporanee,
lo scrittore “ancor prima di avere un talento” deve curare “come si dice,
un’immagine esteriore”, deve “esibirsi”, in un contesto in cui la critica è
avvilita a “cronaca”, avviluppata nell’ebetudine. La ‘forma’ imposta da Julien
Gracq al pamphlet – livida, refrattaria alla facilità, con l’indole del
predatore – garantisce un’esuberanza corrusca che va ben al di là dell’‘attuale’
(a tutti è ormai noto che i premi premiano i soliti noti e che un sistema
editoriale schiavo delle classifiche di vendita è destinato a produrre libri
senza lignaggio, per lo più noiosi).
Il pamphlet infuocò fatue polemiche; di fatto, in molti perdonarono a Gracq
l’eccentricità da virtuoso avvelenato. L’anno dopo, nel ’51, gli assegnarono il
Goncourt per La riva delle Sirti, il libro più bello. Non attendeva altro:
rifiutò. Tra le molte cose, Gracq disprezzava il piagnisteo, la litania degli
eterni incompresi. La letteratura da voltastomaco è, in effetti, il referto di
una lotta.
L'articolo Praticare il sogno a occhi aperti. Julien Gracq contro gli scrittori
di oggi proviene da Pangea.
Pubblicato il 9 febbraio del 1973, Hiulques Copules recava le stimmate del
capolavoro. Il libro – arduo, circolare, oracolare, impossibile –, si sviluppa
in duecentodieci ‘fibbie’, folgorazioni beneaugurali che paiono inscritte
nell’antro dello scudo dei guerrieri achei – oppure, nella federa della
Sulamita.
Pubblicato da Gallimard nella collana ‘Le Chemin’, diretta da Georges Lambrichs,
dedicata a testi anomali ed extra ordinari – nella quale, tra gli altri, sono
stati publicati il Nobel per la letteratura J.M.G. Le Clézio e Pierre Guyotat,
Jude Stéfan e Georges Perros, Michel Butor e Henri Meschonnic –, il libro è
presentato come un’opera poetica tesa al “depistaggio”, “cerimonia blasfema,
destino d’inganno che combatte tra essere e verità”. Nella ‘quarta’ s’intravede,
per fervore psicanalitico, lo stile di Michel Foucault. Era stato proprio lui a
presentare l’autore, Dominique Rouche, un ragazzo, a Gallimard. Nato nel 1946 a
Évreux, in Normandia, Dominique Rouche aveva elaborato quel libro per anni. Dopo
gli studi universitari a Caen, insegnava in un collegio religioso.
A proposito di Hiulques Copules, “Le Monde” scrisse di Une écriture nouvelle; il
recensore registrò il dominio di “una scrittura sconcertante”, una scrittura in
forma di Centauro, ribelle ai binari grammaticali, che procedeva gemmando
neologismi, allusioni, assedi. “Poesia? Più che altro preghiera, verrebbe da
dire, stilettata di aforismi e confessioni, pronunciate in una lingua che non
appartiene ad alcun genere a noi noto – ma che li incorpora tutti”.
Il giornalista profetizzò per quel libro un destino d’insuccesso, “è molto
probabile che passi del tutto inosservato”. In un tempo dominato dagli
assordanti sperimentalismi, dalla reggenza dell’ormai dimenticato ‘Nouveau
Roman’, dagli sfitti allori degli anziani surrealisti, Rouche portava la
sregolatezza del linguaggio da un’altra parte, in altre alcove. Nel suo caso, il
gesto è quello di spezzare l’ostia, di spaccare a mezzo la bestia, di verificare
con la fiamma un decreto che brilla tra le viscere.
Penetrare nel libro di Rouche, pressoché intraducibile, è arduo; ecco alcuni
frammenti tra i più intelleggibili:
> “Essere : intanto nella più cieca Immanenza possibile. Come se nulla fosse
> all’Universo che il niente Stesso che è Dio che è Me.
>
> E che Dio, infine, si riveli Morte”.
> “Per qualche Tempo ancora una Violenza s’impossesserà del mio dire : ma, so
> cos’è il Tempo della Perdita. E lo annuncio e ho per questo toni ricchi di
> gioia”.
> “In verità vi dico : “Tutta la Scrittura ho scritto”. E ancora : “I miei
> Scritti sono inesistenti”.
>
> Così sia : in Eterno : Supplemento Perverso della mia Parola”.
Già: si tratta di fare lo scalpo a Chirone; di scotennare il linguaggio fino
all’arco, fino a ciò che sfreccia. Più che altro, il libro di Rouche è una
specie di Nube della non conoscenza in questi immediati, immedicabili tempi,
l’andare tra crani alieni con il lume Eraclito in mano.
Così termina un libro che divora doveri e desideri: “Qui al culmine della lampa
il Libro si chiude, sul Nome già precipitato SIPARIO”.
Il libro, che l’anomalia ha tolto dall’anonimato, piacque a Michel de Certeau:
nel disse nel suo immane studio, Fabula mistica.
Ad ogni modo, Hiulques Copules, libro primo e ultimo, ultimativo, masticò il
proprio autore. Costrinse il proprio autore a estinguersi, estirpato dalla
scrittura – a farsi esso stesso scritto, traccia sul greto, vana bava di neve.
“Il pensatore insolente” – così la rivista Combat – sparì. Si sa di una sua
prossimità con Jacques Lacan; i reperti bibliografici sono scarni, improntati,
pare, a inseguire l’indicibile. Con le edizioni L’Harmattan Rouche pubblica,
alcuni decenni dopo, Phantôme (2010) e Vers l’inframonde (2011); con Orizons
stampa Œdipe le chien (2012). Libri che piantumano un linguaggio tra al di qua e
al di là, biada per angeli.
Il primo libro ha sconfitto Rouche – forse, lo ha miracolato dai fantasmi della
fama. Hiulques Copules è un libro inaudito, un libro-Rimbaud: ha spalancato
un’Africa nel cuore del poeta, lo ha spossessato dal demone letterario.
Nelle rare fotografie, Dominique ha gli occhiali scuri.
L’ho cercato a lungo; l’ultima mail è di qualche mese fa. Rouche preferisce
scrivere in italiano; ho mantenuto il suo stile, di bruschi improvvisi. Si scusa
degli errori, si firma Confraternellement.
Parto da Hiulques Copules. Come nasce questo libro? Che cosa significa il
titolo?
Questo libro è nato insieme alla mia nascita. Nel libro la mia nascita è la mia
rinascita. Quindi questo è il libro che ha guidato la mia esistenza.
Il significato del titolo risiede semplicemente nell’epigrafe del libro stesso:
parole che non si incastrano bene tra loro. Aperto a metà. Che ha la bocca
spalancata. Parole che lasciano vuoti incolmabili tra loro. Che si dividono e si
rompono. Questo è il significato del titolo.
In quel libro, aurorale, sembra che lei distrugga il linguaggio. Quali sono i
suoi ‘maestri’? Che cos’è, infine, per lei, la letteratura, la poesia?
Non distruggo il linguaggio. È il linguaggio che mi spezza: da questa lacuna
nascono la nascita e la morte del libro. Quindi la mia vita è divisa tra due
estremi. Il primo: apri un libro per leggerlo. Questo è il libro del mio
destino. Questo è il libro della mia fine. Ho scelto di esprimermi: vale a dire
di tirare fuori tutte le parole che guideranno la mia vita fino all’ultimo.
Ho scelto di essere distrutto affinché al mio posto nascesse il discorso di un
altro fino alla sua fine etc… Il mio discorso finisce nel momento in cui lascia
il posto al lettore successivo. È l’eterno ritorno della letteratura: metto i
miei passi sulle orme di un altro.
Ho sacrificato la mia esistenza affinché fosse assicurata l’esistenza del libro.
Dalla mia nascita fino alla sua scomparsa. Tra questi due estremi c’è spazio per
molti gradini della scala che sale verso l’eternità. Quindi sostituirò la lingua
degli altri con la mia. La letteratura non esiste senza la scrittura che la
trasmette. Perché: per realizzare le Scritture è necessario.
I miei maestri sono stati l’imitazione di Cristo in ogni sua fase fino al
compimento finale. Molto più tardi, il diavolo sarà anche il mio padrone. In
questo senso, Georges Bataille era un maestro in letteratura. In seguito, la
letteratura latina e la triade Hegel, Nietzsche, Heidegger avrebbero determinato
la mia vita letteraria.
La letteratura è sotto l’influenza delle “lettre volée” che circolano di mano in
mano. Dunque, la lettera uccide, ma lo spirito “vivifica” (E.A. Poe è un maestro
di stile e di invenzione, come hanno dimostrato i suoi grandi traduttori,
Baudelaire e Mallarmé).
Alla sua uscita, si è parlato molto di Hiulques Copules: perché non ha
proseguito in quella indagine nel linguaggio? Che cosa è accaduto dopo la
pubblicazione di quel libro?
Non ho continuato perché dentro di me la letteratura continuava a sopravvivere
senza che io lo sapessi. La letteratura è inevitabile. La poesia ne è il
culmine.
Una indagine nel linguaggio, dici? Jacobson e Lévy-Strauss ne hanno già
ampiamente scritto. Come ha fatto Lacan per Sade (cfr. Kant con Sade). Non sono
un teorico: ciò che scrivo è valido anche come teoria.
Quanto alla pubblicazione, Lacan ha espresso la sua convinzione riguardo al
libro: “smaltimento dei rifiuti”, perché: una lettera è spazzatura
(lettera/rifiuti). “Letteratura”? sarebbe meglio dire, “leggere” le
cancellature. Sotto la cancellatura si possono leggere altre parole: Ferdinand
de Saussure riuscì a stabilire che sotto un’iscrizione romana è possibile
decifrarne un’altra, la cui identificazione è ancora da definire. La scoperta di
Saussure su questo argomento è pari alla scoperta di Freud, che ci ha insegnato
che dietro un lapsus è possibile leggere un’altra parola.
Dopo la pubblicazione, resta solo un pezzo di spazzatura: “Sicut palea”, pari a
sterco diceva Tommaso d’Aquino.
In rete, sono scarsi i riferimenti alla sua vita e alla sua bibliografia: è una
scelta di solitudine, di pudore – di spudoratezza nel pudore?
Quanto a me, vivo senza più pensare al libro: mi basta esistere, benché diverso.
La vita è l’attesa di una rivelazione, definitiva o meno. Quindi, a ciascuno la
sua vita; la mia è una parentesi in cui ognuno può leggere ciò che vuole. La mia
vita, la mia biografia, la mia bibliografia sono forse significative solo per
me. Oggi scrivo D’un discours de servitude, il discorso sul padrone e il suo
schiavo, e viceversa.
Lo scopo di uno scrittore è non lasciarsi sfuggire le opportunità che si
presentano inaspettatamente. Come quella di rivolgermi a un amico italiano…
So che il suo primo libro ha affascinato Michel de Certeau: come mai?
Ho incontrato almeno due uomini che mi hanno lasciato un’impressione duratura:
Michel Foucault e Jacques Lacan. Michel de Certeau è rimasto impressionato dal
mio libro? È vero, ma non l’ho mai incontrato. Non possiamo più rivolgergli la
tua domanda, ma sfogliare i suoi libri.
Mi scriva un verso-amuleto – suo o di chi stima – per orientare la mia ricerca
di ‘verità’ (qualunque cosa significhi la parola ‘verità’).
Joyce ha detto che l’esistenza è un incubo dal quale vogliamo svegliarci.
Preferisco le parole di Rimbaud: “Io è un altro”.
Questa è un’altra ‘parola amuleto’: “Questo pensiero tenta solo di far udire, in
una sorta di preludio, qualcosa che dalle profondità del tempo, proprio
all’inizio del pensiero, è già stato detto senza essere stato veramente
pensato”.
Ha scritto un libro su Edipo…
…mi è piaciuta molto la versione di Edipo di Pier Paolo Pasolini. Sofocle ha
scritto: “È quando non sarò più niente che finalmente sarò un uomo”.
*In copertina: Odilon Redon, Armatura, 1891
L'articolo “Perché nascesse, ho scelto di essere distrutto”. Dialogo al buio con
Dominique Rouche proviene da Pangea.
Meglio un portinaio impiccato che un poeta vivo. Così sentenzia nel suo Sommario
di decomposizionequell’apologeta incoerente del suicidio che fu Emil Cioran, le
cui parole poste in epigrafe ci introducono agli scritti, editi in Italia per la
traduzione e la cura di Arlindo Hank Toska (Sarò un grande morto, ed. Joker),
del dandy surrealista morto nel 1929 Jacques Rigaut. Rigaut, l’indolente Alain
immortalato da Pierre Drieu La Rochelle – amico di distratte bevute di Martini
al Ritz di Parigi – in Fuoco fatuo (Louis Malle, nel 1963, ne farà un film
indimenticabile), resoconto delle ultime ore di un trentenne scrittore che cerca
di disintossicarsi da alcol e droga mentre medita il da farsi dentro un mondo
che pare rigettarlo come un organo non tollerato.
Chiaramente, parlare di Jacques Rigaut vuol dire anche rievocare la Parigi di
quei formidabili primi decenni del ’900, teatro di incontri indimenticabili
nell’incrocio, peraltro drammatico, di letteratura e Storia. Alain è stato, fino
a quando chi l’ha creato non ha emulato in qualche modo nell’epilogo l’amico, lo
specchio del fantasma Jacques e del vivo senza troppa convinzione Drieu;
entrambi hanno condiviso una pervicace resistenza alla vita, un modo di stare al
mondo neppure di passaggio, come turisti distratti da una meta reale e troppo
lontana, ma come chi vorrebbe amare una donna sapendo che più che sfiorarla non
può e andare fino in fondo si traduce necessariamente in una vocazione al
precipizio.
Nel gioco delle comparse, nella città con i suoi luoghi diventati di culto per i
personaggi straordinari, nel bene e nel male, che li hanno frequentati Rigaut
stesso ha vissuto come una comparsa di poca importanza che per nessuna ragione
poteva essere trattenuta: “Prova, se riesci, a fermare un uomo che viaggia col
suicidio all’occhiello” sicché – nelle parole che prendiamo in prestito da Addio
a Gonzague – tra il fango e la morte la decisione per i Jacques, i Drieu e gli
Alain è drammaticamente ovvia, laddove la seconda diventa, per dirla sempre con
il Gonzague che ci restituisce il dolore mai lenito di Drieu per non aver fatto
abbastanza, “ciò che si poteva fare di più bello”.
Qui esplode la questione del rapporto tra estetica e suicidio: non pochi
studiosi hanno, in un certo senso, liquidato l’affaire Rigaut ascrivendolo
all’atteggiamento in voga in quegli anni, tanto dei dadaisti quanto dei
surrealisti, di elevare il suicidio a momento di massima autoaffermazione
estetica. Ma è una scorciatoia interpretativa che lascia il tempo che trova.
Intanto, in una lettera all’amica Simone Kahn, Rigaut ha scritto di essere
assorbito da una noia che definiamo cannibale e che avrebbe potuto pensare di
farla finita con la stessa poca convinzione con cui aveva sempre vissuto;
neppure avere ragione poteva servire a qualcosa. Coniugando al presente, Rigaut
in uno scritto sottolinea l’inutilità del possederla: “Io ho sempre ragione, tu
hai sempre ragione” fino a “Loro hanno sempre ragione” e viene quasi da pensare
alle parole di quella carogna geniale di Céline che ci esorta ad imparare ad
aver torto: il mondo è pieno di gente che ha ragione ed è per questo che
marcisce. Inevitabilmente, anche i pensieri e le parole sembrano dimorare sulla
carta in modo sbadato, quasi per caso, del resto la scrittura è senza dubbio il
coraggio dei deboli.
> […] Per un occhio esperto, non c’è differenza tra perdere
> e vincere. Se non c’è nulla da vincere, cosa c’è da perdere?
> Il diavolo è passato di qui, si era già notata la sua
> traccia, un’ala grigia e molto appuntita all’ora della
> grazia. Lord Patchogue è inebriato dalla peggiore vanità
> della perdita. Ogni occasione lo trova esatto, è il
> suo unico appuntamento. Diminuire, atrofizzarsi –
> sempre meno – che ebbrezza. Il segno –, un inno nazionale,
> la parola d’ordine degli iniziati del cuore. Ogni
> mese, se non ogni giorno, lo trova un po’ più inadatto
> a gestire tutto ciò che serve a trovare, a muoversi, a
> evadere; attenzione arrugginita.
Rigaut si è guardato allo specchio e nel riflesso è sortito Lord Patchogue, una
sensibilità mai realizzata nell’azione, giaciglio di un’irraggiungibile
salvezza. Come ha scritto in Evasione, quarto capitolo di Lord Patchogue “non
succede niente, o almeno non è mai successo niente.” Tutto quello che rimane è
la contemplazione del proprio guscio. “Sorride: “Presto sarò in una sola
parola”. Si è rifugiato nella vigliaccheria, a ciascuno la sua dignità”.
L’immagine sancisce una distanza, anche quando a fermarla in un istante che
ambisce pretenziosamente all’eternità è una fotografia che più che salvare ciò
che è stato, sbatte in faccia senza troppi riguardi un’assenza. Come quella di
Rigaut che Drieu la Rochelle si fece spedire dalla famiglia e davanti alla quale
cominciò a scrivere il suo Fuoco Fatuo. Ma la foto, così come il romanzo, più
che l’opera di un testimone, ricordano Hank Toska e Jonathan Bortolotti nelle
parole che chiosano il libro, sono lo sforzo di non cedere al tradimento del
ricordo, che non è la stessa cosa della memoria. Davanti all’istantanea gli
occhi che la guardano sono gli stessi che per un attimo dovranno chiudersi per
salvare nel pensiero il suono di una voce, “il peso della sua presenza – i gesti
che definivano il suo nome”. La memoria è il luogo di un paradossale e precario
equilibrio tra ciò che è stato e ciò che non è che riguarda l’osservato e chi
osserva. Poi, anche l’immagine migra in qualche altrove, come misteriosamente
migrano le parole nel tentativo impossibile di nominare un’assenza,
inchiodando la vita sulla punta della lingua di uomini arruolati alla morte.
Livia Di Vona
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