Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di
strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia,
dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e
ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025;
s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della
capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente
di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo
ricordi”, scrive Spada.
> “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la
> sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è
> nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia,
> bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo
> le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato
> tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e
> degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.”
Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con
un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto
coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia
Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da
una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e
poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo
consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si
parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e
all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e
moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle
sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944,
“Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla
stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima
punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.
Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti
degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione,
selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.
Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.
Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio
dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del
cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su
di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante
dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto
agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura
coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le
Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della
cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno
funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo
di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.
Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si
guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre
un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un
radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato
e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri
restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi
romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne
racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio –
conosce diverse fasi.
Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale
francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint
Ferdinand. A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato
dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal
porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra
tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato
per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella
vita.
E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque
rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale
con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due
protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.
Livia Di Vona
L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio
tragico proviene da Pangea.
Tag - Letteratura francese
Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro
chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le
stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino.
Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza,
l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero,
una tirannia.
È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo.
Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed
Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento.
È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il
pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia:
sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto.
Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso,
l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista –
fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In
René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del
bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di
contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di
redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e
di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia
messa sottosopra.
Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera
quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi
scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico
a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto.
Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare
un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione
di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées
atomiques.
Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro
della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi,
l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il
linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres
dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive
Char:
> “Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che
> orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di
> vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte,
> sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo
> nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca
> dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e
> ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e
> degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di
> questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono
> per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte
> queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri
> fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”.
A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in
carcassa, qualche briglia che chiameranno legge.
In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme.
Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto.
All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a
fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in
amore del bianco.
Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da
Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle
“Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche
energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole.
Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra –
e mai rendere domestico il dire.
***
Mettersi in marcia
Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi
Che si plachi la sete della loro manchevolezza:
Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira
Perché è terribile la terra.
Hermann Melville
A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo
stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua
e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti.
Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la
superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite
che il nostro non molteplice corpo ferisce.
Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a
vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto
rettile”. Con gelosia paludata.
Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare!
La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva
l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che
soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto
prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei.
La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici
sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia.
Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo
di preparativi è la nostra occasione senza rivali.
Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa
delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la
gravità delira in allegria.
Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone
sorvola la città.
Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu
onnipotente. Afillante, nostra padrona!
Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte,
e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve
giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le
labbra murmuri…
Le sanguinose utopie del XX secolo.
Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre
fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in
scacco la simpatia.
L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono
innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il
secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E
la nostra figura si accomoda.
Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola
notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio.
Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti.
L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo
quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre.
Strappiamone svergognati l’ipogeo.
Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso
è lastricato dai cristalli del nostro sangue.
Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io
collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere
senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti.
Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato
dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge.
La poesia può riscattare il ricatto?
René Char
L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale
proviene da Pangea.
Un Balzac tirato a lucido e caricato a pallettoni, in una forma a dir poco
smagliante. Non è certo una novità dal momento che quando aveva la penna, o per
essere più precisi, la piuma in mano Balzac era sempre in forma smagliante. Come
facesse resta ancora oggi un mistero. Può darsi che fosse un modo per sfuggire
ai ricordi di un’infanzia senza calore o per inseguire le sue mille illusioni
perdute. Scrivere capolavori era certo una rivalsa per un provinciale come lui
che, arrivato a Parigi da Tours, aveva passato molti anni in una squallida
mansarda nel quartiere dell’Arsenale; forse ad aiutarlo erano le dosi
industriali di caffè che ingurgitava.
Stiamo ai fatti. Scritto tra il 1840 e il 1841, uscito prima a puntate
come feuilleton e poi in volume unico, per motivi a me del tutto
incomprensibili Un caso tenebroso è un romanzo tra i meno noti di Balzac, ma è
un libro modernissimo, anticipatore e quelli che se ne intendono lo considerano
a tutti gli effetti il primo noir della storia della letteratura. Uno
straordinario ritratto della società francese di inizio Ottocento colta nei suoi
aspetti essenziali; un’epoca nella quale gli ideali della Rivoluzione ormai
erano degradati a mero scontro di potere e gli opportunisti di ogni sorta e
colore la facevano da padroni. Balzac sapeva guardare dentro la Storia e le sue
complicazioni come nessun altro.
Se volessimo riassumerlo in uno strillo di copertina potremmo dire: Giochi di
potere sullo sfondo dell’Impero napoleonico. Una vicenda nella quale si
intrecciano storia e politica e che trae spunto da due fatti realmente accaduti:
la congiura antinapoleonica che costò la vita al duca Enghien e il rapimento del
senatore Clément de Ris. Anche nel romanzo abbiamo una congiura contro Napoleone
Bonaparte ordita dalla giovane e bellissima contessa Laurence de Cinq-Cygne
insieme ad alcuni suoi parenti e amici. Tra i complottatori i due gemelli cugini
della contessa che entrambi corteggiano la bella Laurence, come d’altra parte fa
Adrien uno dei due fratelli d’Hauteserre, anche loro implicati nella congiura.
Per aggiungere mistero al mistero un gruppo di uomini rapisce Malin, un
importante funzionario dell’Impero, e del fattaccio vengono accusati la contessa
e il suo entourage. In realtà sono assolutamente innocenti, ma finiranno
condannati al termine di un drammatico processo, magistralmente raccontato da
Balzac in un turbinio di testimonianze e colpi di scena dove un ruolo non
secondario è giocato dagli umori del pubblico.
> «Se è vero che, durante i processi, la verità assomiglia spesso a una bugia, è
> anche vero che la bugia assomiglia molto alla verità.»
Il processo arriva a una sentenza che però non chiarisce affatto l’intricato
caso, come d’altra parte molto spesso vediamo accadere anche oggi. Più
anticipatore di così!
Dulcis in fundo, una memorabile scena in cui la bella Laurence va a incontrare
Napoleone alla vigilia di una delle sue tante battaglie per chiedere la grazia
per tutti quanti i condannati. Lei sarà prosciolta, uno verrà sacrificato alla
sete giustizialista popolare e condannato alla pena di morte, gli altri
finiranno ai lavori forzati.
> «Da quando la società civile ha inventato la Giustizia, non ha mai trovato i
> mezzi per dare all’imputato innocente un potere uguale a quello di cui dispone
> il magistrato contro il criminale.»
In definitiva, nonostante il funzionario rapito venga rilasciato dai suoi
sequestratori, la verità su tutta la vicenda non viene acclarata. Solo venti
anni dopo verrà raccontata a Laurence, ormai unica sopravvissuta. Si scoprirà
così che dietro le quinte a tirare le fila del “tenebroso caso” c’erano
dueprotagonisti assoluti della vita pubblica francese a partire dalla
Rivoluzione del 1789: l’ex giacobino e poi bonapartista Fouché, uomo
spregiudicato e ambizioso
> «uno di quei personaggi che hanno tante facce e tanta profondità in ogni
> faccia da essere impenetrabili nel loro gioco e che possono essere compresi
> solo molto tempo dopo che la partita è finita»
e il camaleontico Talleyrand, astuto nobile di vecchia casata, freddo e
calcolatore. Due figure con origini e personalità molto diverse, accomunate però
dalla consapevolezza che i regimi cambiano ma gli uomini restano.
Vanno assolutamente messi in evidenza due aspetti tutt’altro che secondari e che
sono parte essenziale del piacere della lettura del libro: innanzitutto le
affascinanti ambientazioni naturali descritte con grande abilità e dovizia di
particolari, con quella foresta di Simeuse che va considerata a tutti gli
effetti una protagonista del romanzo e costituisce ben più di uno sfondo a tutta
la storia, e poi il personaggio della contessa Laurence, una straordinaria
figura di donna tenace, energica, intrepida, intelligente e coraggiosa,
ammirevole sotto tutti i punti di vista. Come direbbe Karl Kraus: «Per essere
perfetta le mancava solo un difetto».
A prima vista la trama può risultare ingarbugliata, a volte ci si può perdere
nella selva oscura dei tanti nomi citati, nell’intrico delle macchinazioni dei
vari personaggi e nei mille rivoli della vicenda, ma quando sei dentro a un
romanzo di Balzac non puoi scappare; ergo, fatevi prendere per mano e lasciatelo
fare. Ci penserà lui a spiegarvi come la durezza della realtà e l’asprezza della
storia siano in grado di spezzare ogni fiero slancio ideale e come i destini dei
singoli non possano rimanere esenti dalle strumentalizzazioni dalla politica,
per la quale molto spesso gli esseri umani sono solo marionette di cui tirare i
fili: burattini che si credono burattinai. Un finale amaro, senza sconti per
nessuno, ma che a quasi duecento anni di distanza spinge noi lettori di oggi ad
aprire gli occhi sulla realtà e a fare una serie di riflessioni sulla natura
umana. Che cosa volete di più da uno scrittore? Lasciatemelo dire: Balzac è
formidabile!
Silvano Calzini
L'articolo Quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare… Ovvero:
anatomia di un libro modernissimo proviene da Pangea.
Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano:
errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di
enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume
interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la
falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.
Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per
familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti?
Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques
Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è
forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si
magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito
sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del
linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio,
tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela
all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino
alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso:
l’analfabeta e il retore sono lo stesso.
Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean
Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio
– piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da
allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più
nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.
Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri
inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è
descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e
dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro
mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre
dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011;
Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato
una enquête sur les miracles.
Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade
sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio
a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”.
Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato
della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini
– meglio: siamo legione.
I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati
in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità
compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo
muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se
gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel
vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se
questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La
magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.
Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi:
“Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione
quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi
all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati,
prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode.
Per quello?
Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito
a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto?
Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero,
evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi
libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita.
Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto.
È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci
allontana da Lui.)
La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine:
suicidio?
Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola
sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre
distaccate.
Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà.
L’arte della meditazione mi consuma”.
Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi
verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi
ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione
teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne.
Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche?
Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique:
Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo
libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de
La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo
essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni,
Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da
un’auto.
> “Aprire la dimora freatica
> essere là
> nelle acque che preparano una cascata
> niente è più fresco”.
In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su
pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si
incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo
transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo
lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è
il passeur, l’intransigente calesse.
Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno,
uno dei poeti più risonanti in Italia.
“questo qui
– senza nome –
rifornisce la lingua
con quello che trova:
ramoscelli
argilla sterco
appena qualche parola qui
per accogliere l’imprevedibile
quasi nulla dietro la porta
salvo che lui
– l’abitante –
preferisce alla dimora la finestra”
Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli,
all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione
interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per
espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi
nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.
Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa
fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto –
dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.
Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una
parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam.
Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di
sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che
sigilla il Nazareno nel sepolcro).
Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai:
“eclissi d’uccelli
e l’ala che trattiene i venti
d’improvviso ti solleva
ti porta il più lontano possibile
dove la parola nidifica
nella tua voce”
E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di
snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto.
Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali,
vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a
redimerlo giovanneo.
Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un
mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge
fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola
voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!,
Più luce!”.
Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique.
Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una
parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in
briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato
sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla
parete.
*I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche
L'articolo “Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique
Rouche e Thierry Metz proviene da Pangea.
Catherine Pozzi è una poetessa. È la poetessa francese che ammaliò Valéry e
Rilke. È il trait d’union delle lingue nella poesia. Genio tubercolotico, con la
voce della notte, insegnava danzare alle parole. Concisa. Poco incline al
compromesso, fu tutta sentimento. Proprio per questo pagò cara la tresca con il
più grande poeta francese di quel tempo: Paul Valéry.
Essenza e umore sfuggenti facevano di lei una donna solitaria, poco affine ai
salotti dell’epoca.
Le sue poesie sono lampi provenienti da un cielo a margine, sospeso tra
dimensione terrena e immaginaria. Le sue poesie, una volta scritte, comportano
un cordoglio, e mestizia, per la morte del poeta stesso che le ha create.
Scrisse soprattutto sei grandi liriche, tutte pubblicate postume, tranne
una, Ave (apparsa sulla “NRFˮ il 1° dicembre del 1929), preghiera-ode,
cantico-celebrazione per quell’«altissimo amore» innominabile e irraggiungibile,
nel quale il corpo si frantuma e dissolve.
Quasi addio (Vale)
Il grande amore che mi hai dato
Il vento dei giorni l’ha mandato in frantumi ‒
Dove fu la fiamma, dove fu il destino,
Dove eravamo, dove per mano stretta
Noi stavamo
Il nostro sole, il cui ardore era pensato
Il mondo per noi di essere senza un secondo
Il secondo cielo di un’anima divisa
Doppio esilio dove il doppio si fonde
Il suo luogo per te appare cenere e paura,
I tuoi occhi verso di lui non l’hanno riconosciuto
La stella incantata che sviava lo sguardo
L’estremo istante del nostro unico abbraccio
Verso l’ignoto.
Ma il futuro che ti aspetti di vivere
È meno presente del bene scomparso.
Qualsiasi raccolto che alla fine ti porta
Lo berrai senza poter essere così ubriaco
Del vino perso.
Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio
Il paradiso dove l’angoscia è desiderio.
L’altisonante passato che cresce di età in età
È il mio corpo e sarà il mio senso
Dopo la morte.
Quando in un corpo la mia gioia dimenticata
Dove fu il tuo nome, prenderà la forma del cuore
Io rivivrò il nostro grande giorno,
E questo amore che ti ho dato
Per il dolore.
*
Maya
Scendo i gradini di secoli e di sabbia
Che ritornano a voi nell’istante disperato
Terra di templi d’oro, entro nella vostra favola
Atlantico adorato.
Da un corpo che non mi appartiene più, la fiamma finalmente fugge
L’Anima è un nome disprezzato dal destino ‒
Lascia che il tempo si fermi, lascia che la cornice crolli,
Ritorno sui miei passi verso l’abisso infantile.
Gli uccelli planano sul vento nell’Occidente marino,
Devi volare, felicità, nella vecchia estate,
Tutti profondamente addormentati dove cessa la riva
Rocce, il canto, il re, l’albero lungamente cullato,
Stelle da tempo legate al mio primo volto,
Sole stupefacente incoronato di calma.
Intransigente e severa critica di se stessa, Catherine Pozzi visse con l’anima
aperta sul mondo, trasponendo in versi dal temperamento mistico la sua intensa
fame d’assoluto e il suo non meno sconcertante desiderio di calarsi nel regno
tumultuoso della notte oscura.
«Quello che non può diventare notte o fiamma», confessava la poetessa, musa e
amante tradita di Paul Valéry, «lo si deve mettere a tacere».
Poetessa pura, genio giovanile come il suo amato/odiato Paul, non poteva che
lasciarci un diario denso e intenso, intriso di canto e lirica. Intraprende i
suoi studi con sete di conoscenza enciclopedica: si interessa a materie diverse
come la filosofia greca, la teologia, la fisica e la chimica, nonché ai misteri
orfici e al pensiero orientale. Il suo bisogno di razionalità da un lato e di
assoluto dall’altro non conosce limiti.
Tutto ciò fa di lei persino una fine traduttrice, che ha saputo però gestire il
genio, comprendendo e godendo pienamente dalla lettura le poesie della Browning
tradotte da Rilke, e le poesie di Rilke tradotte da Valéry. Infatti, senza
entrare nel merito del suo rapporto con Catherine, Valéry pregò Rilke di
inviarle le sue traduzioni dei Sonetti dal portoghese di Elizabeth
Barrett-Browning, precisandogli che la sua «amica» era ben qualificata per
apprezzarle, considerata la sua ottima conoscenza dell’inglese e del tedesco, ma
soprattutto in ragione della sua ammirazione sconfinata per la poetessa inglese.
Questo fu il la, tra l’altro, per la nascita di un carteggio assoluto tra Rainer
Maria Rilke e la Pozzi.
Nyx
A Louise anche lei di
Lione e d’Italia
O voi mie notti, o nere attese
O paese orgoglioso, o segreti ostinati
O lunghi sguardi, o nudi ardenti
O volo consentito oltre i cieli chiusi.
O gran desiderio, o diffusa sorpresa
O bel cammino dello spirito incantato
O male peggiore, o grazia discesa
O porta aperta dove nessuno era passato
Non so perché muoio e annego
Prima di entrare nella dimora eterna.
Non so di chi sono la preda.
Non so di chi sono l’amore.
*
Ave
Altissimo amore, se è possibile che io muoia
Senza sapere da dove vi ho preso,
In quale sole era la vostra casa
In quale passato il vostro tempo, in quale ora
Io vi amavo,
Amore altissimo che fuggite il ricordo,
Fuoco senza focolare di cui ho fatto tutta la mia giornata,
In quale destino avete tracciato la mia storia,
In quale sonno si vedeva la vostra gloria,
O mia dimora…
Quando sarò persa con me stessa
E divisa nell’abisso infinito.
Infinitamente, quando sarò sopraffatta,
Quando il presente di cui sono rivestita
Avrà tradito,
Per l’universo in mille corpi sbriciolata,
Di mille istanti non ancora raccolti,
Dalla cenere ai cieli fino al nulla setacciato,
Lo rifarete per una strana annata
Un unico tesoro
Voi rifarete il mio nome e la mia immagine
Di mille corpi portati via ogni giorno,
Viva unità senza nome e senza volto
Cuore dello spirito, oh centro del miraggio
Altissimo amore.
Sei poesie non sono molto per assegnare una gloria letteraria, ma per Catherine
Pozzi non serviva altro: «Ho scritto
VALE, AVE, MAYA, NOVA, SCOPOLAMINE, NYX. Vorrei che se ne faccia una plaquette.
Saffo non ha attraversato il tempo con più parole.»
Il futuro ha esaudito il suo desiderio…
*L’articolo e la traduzione delle poesie sono di Giorgio Anelli; traduzione da
“Oeuvre poétique”, Éditions de La Différence, 1988
L'articolo “Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna proviene da
Pangea.
Usava una parola molto più possente. Per dire ciò che noi intendiamo, indotti
dagli intellettuali modaioli, con fake news, lui diceva «controverità» – e
occorre aggiungere che quest’uomo dal nome di un brigante variopinto, con gli
occhiali tondi e il sorriso laccato, aveva già capito tutto ottant’anni fa o
quasi. L’immagine è questa. Siamo nel 1941 e il tizio, prima per impegno
contratto con il ministero dell’Informazione del governo di Vichy, poi da casa
sua, per i fatti suoi, ha le cuffie e ascolta le voci. Si è costruito un
apparecchio radio, e lui è lì, specie di sentinella che smista i linguaggi, a
spiare cosa si dice a Tokyo, a Istanbul, a Mosca, a Londra, a New York. Tutto il
mondo ronza nelle sue orecchie. E lui, registra. In un capoverso che pare il
sunto di un romanzo di H.P. Lovecraft, racconta così ciò che ascolta, la notte,
mentre Morfeo disintegra Parigi:
> «Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la
> sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri
> psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi
> popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare… Al di là delle parole,
> percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto».
Armand Robin, classe 1912, ultimo di otto figli, si vantava di essere nato in
«una famiglia contadina scarsamente alfabetizzata»: nel 1931 comincia a studiare
il russo e il polacco, s’impantana nei linguaggi e in quel labirinto si perde,
«è destinato a diventare un vero e proprio poliglotta, arrivando ad usare,
quando non parlare e scrivere, una ventina di lingue e dialetti». Traduttore
inossidabile, di Goethe, Shakespeare, Pessoa, Khayyam, Majakovskij e Lope de
Vega, il suo talento è riconosciuto anche da Ungaretti:
> «le mie poesie tradotte da Robin sono io più Robin. Mi ha colto alla radice.
> Sotto terra c’è una seconda fioritura».
Robin ha il radar del linguaggio, è una specie di Isaia che profetizza, nel
niente contemporaneo, in tutte le lingue del mondo. Sa, pure, che il linguaggio
è spietato e chiede tutto. A lui sottrae il talento creativo. In un aforisma di
violenta nitidezza, Robin si definisce
> «poeta senz’opera, eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto,
> una gola strozzata da parole troppo esigenti».
Ma torniamo in quella stanza radiofonica, dove Robin ascolta le voci degli
altri.
Lì, nel suo bunker privato, uno shuttle gettato nel cuore della Storia – «Non
vivevo che visitato da lamenti, preso di mira dai pianti di ogni Paese» – Robin
esplicita l’essenza delle fake news. Tutto comincia, però, con il fatidico
viaggio in Russia, nel 1933, in estasi comunista. Prima di tutti, sul campo,
Robin capisce cos’è l’Unione Sovietica: «Quanto hai visto fu un incubo, un mondo
in cui ogni senso della dignità umana è morto, perseguitato». Nel 1940 incontra
Pierre Drieu La Rochelle e collabora con Vichy come «ascoltatore di voci» via
radio. L’esito di questi ascolti, che proseguono per oltre un decennio, sfocia
in un libro indefinibile e magnetico, La fausse parole, pubblicato dalla
Éditions de Minuit nel 1953 e proposto, insieme ad altri scritti, da Giometti &
Antonello, nel 2018, come L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti (a
cura di Antonio Malinverno). In un paragrafo, Al di là di menzogna e verità.
Mosca alla radio, Robin spiega la dinamica della fake new, della «controverità»,
che durante l’era stalinista giunge a vertici deliranti. Proclamare
reiteratamente che il mondo in cui si vive, anche se fa schifo, è il più bello
possibile, ha per scopo l’annientamento della realtà. Obbiettivo di ogni regime
– anzi, di ogni politica –, risolto da Stalin con sublime audacia.
> «In breve, è come se la realtà non esistesse, o almeno come se il vero scopo a
> cui si mira fosse di correggere l’umanità dalla sua indesiderabile propensione
> a constatare che quanto esiste, esiste davvero… Per quanta immaginazione si
> abbia, è difficile concepire un modo migliore per far sentire agli uomini che
> la loro coscienza non ha più nessuna ragion d’essere, che è ormai soltanto una
> grottesca vestige. Si tratta della liquidazione dell’umano intendere.
> Nonostante sia la prima volta nella storia dell’umanità che una simile impresa
> viene tentata con tanta suprema abilità, essa porta lo stesso nome da secoli:
> è l’assalto di Lucifero contro l’uomo».
Robin, l’uomo che disinnescò il sistema della propaganda, lavorava con Vichy e
passava le notizie ai giornali clandestini: sorvegliato dalla Gestapo,
malsopportato dagli intellettuali di sinistra – rappresentati da Eluard e
Aragon, su cui piombavano i devastanti fulmini di Robin: «La nostra letteratura
è stata disonorata da quella miserabile farsa chiamata per antifrasi poesia
della Resistenza (quale poesia? Quale resistenza?)… Si sono visti i cantori
della libertà presiedere i tribunali dell’inquisizione, i distruttori di
prigioni reclamare la moltiplicazione delle prigioni». Dopo la guerra, fu
inserito nella lista nera dei collaborazionisti. Non se ne curò. S’iscrisse alla
Fédération Anarchiste per puro spirito, si diede a epici vagabondaggi in
motocicletta, tradusse Boris Pasternak, verso cui riservava un’ammirazione
assoluta («è l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal
comunismo»).
Morì nel 1961, sopraffatto dai debiti, «per cause mai accertate», dopo essere
stato condotto a forza al commissariato di quartiere, Parigi. Era il 28 marzo,
faceva a cazzotti in un caffè, forse; «in seguito al rifiuto dell’eredità da
parte della famiglia, tutti i beni di Robin sono finiti nella discarica
pubblica. Solo tre valigie di manoscritti raccolti in dieci minuti vengono
salvate in extremis».
Così, come un errore grammaticale, svanì un uomo fantomatico, di traslucida
veggenza – di sé disse: «attraversando tutti i paesi fui trasparente. Non ho
riconosciuto frontiere». Il regime irrigidisce la grammatica, preda il
linguaggio, lo conquista e da lì imprigiona l’uomo – questo ci ha insegnato
Robin.
*In copertina: una immagine tratta da “Le vite degli altri”, film di Florian
Henckel von Donnersmarck del 2006
L'articolo “È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che
ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news” proviene da Pangea.
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque
polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura,
quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle
antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” –
un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori
estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita
attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali:
moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo
dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna
privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si
leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo
l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un
trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo
giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo
ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia
e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in
destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de
notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica
dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la
prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo
e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i
filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle
cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito
che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale
corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
> «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco
> Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere
quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria
inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale
spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il
revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar
brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.
Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con
l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che
già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la
geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere
negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio
ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che
Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi.
La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della
donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si
ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture
importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere
Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia
Minore.
> «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto
> allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso
all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci
attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal
presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un
plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa
traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella
bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di
cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute
accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si
rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano
l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro
sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle
guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a
riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.
I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e
Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A
Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher
Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e
salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando
tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era?
Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di
entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima,
la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé
stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni –
così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito
di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni
costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
> «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello
> che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla
> di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le
> angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e
> della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì
> sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste
> portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è
l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla
mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la
materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre
per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura
una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata
dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale
di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e
l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una
sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a
provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con
l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre
sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il
marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini,
obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un
uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più
grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che
meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore
dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto
creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da
quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un
destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
> «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei
> fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi
> della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata;
> quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il
> servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato
> detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
>
> Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per
un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il
suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo;
nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha
ragione su tutto.
Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi
importanti nella sua vita.
La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia
per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per
cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino,
Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale
circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche
movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry,
l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido
fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se
stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero
nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò
che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento
d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di
«aumentare la precisione».
Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa,
rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi
marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.
La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale.
La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una
donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i
due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma,
mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e
nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!
La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava
l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad
attraversarsi il cuore con le parole.
Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato
soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali
e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di
Genova.
Elevazione della luna
L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava,
E il vento addormentato taceva il suo ululo,
La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna,
Sottile e violetta episcopalmente!
Le Stelle sembravano ceri funerari
Accesi come in una chiesa nelle sere;
E spandendo profumi, i gigli Turiferari
Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri.
Una preghiera saliva in me come un’onda
E nell’immensità inazzurrante e profonda,
Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!…
Allora, apparve! ostia immensa e bionda
Poi scintillò, staccandosi dal Mondo
Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!…
È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per
sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente
prodigio.
È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico,
maturo.
Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera
saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi
scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava
entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:
> «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi
> delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto),
> è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato
> creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua
> per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille
> devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud,
> Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione,
> nauseante incoscienza.»
Giorgio Anelli
L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
proviene da Pangea.
Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud
scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato
ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di
novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che
non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La
grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che
balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata,
che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima
invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la
morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare
il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo
imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo,
e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).
Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo
più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta
– con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia
alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta
nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era
stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca
della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia
incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le
fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato
dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero.
Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi
diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance
typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison
en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn:
presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più
grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo,
infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile?
Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il
proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un
santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un
poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo
Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero
francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto
e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante
Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile.
L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta
pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al
resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024).
La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il
segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I
viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie
James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di
Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici,
ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per
l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di
“Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia
selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad
Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il
primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino
Arthur:
> “Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare
> il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie,
> per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.
L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è
Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre
meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della
poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà
– è il suo essere “abbastanza inumana”.
È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non
chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi
versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud,
tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su
questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo.
Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della
parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia
le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla
lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in
cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno,
come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre
mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e
prato, biscia e vento.
Fernand Léger, Ritratto di Arthur Rimbaud, 1949
Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici
andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i
gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza
inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911
nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un
poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella
vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per
Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della
ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del
fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho
interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche
una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di
tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e
di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta
Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la
stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le
lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto
che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa
dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero
bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud
accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che
scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”.
Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si
può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le
voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto
forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito
nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.
Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli
stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio
della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il
veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una
parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato
fuoco, incede nell’incendio.
È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin,
William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la
propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia,
nella fuga.
Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un
comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno
la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano.
Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte
ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre
volte un lupo.
Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo
a osare.
Davide Brullo
Pablo Picasso, Arthur Rimbaud, 1960
*
Vite
A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho
illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche
festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei
pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze
classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la
mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio
sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero
dall’oltretomba, senza commissioni.
*
Sfridi
Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici,
*
Da dietro tartassava grottesche oscenità
Una rosa s’involava nel ventre del portiere
*
Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono
……………………………………………………………….
E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette.
*
E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo.
*
Piove con dolcezza sulla città.
*
Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la
disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I
cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da
molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di
sopprimerli… Certi accettarono.
*
All’assalto, o mia vita assente!
Arthur Rimbaud
*Per gentile concessione si pubblica la pagina introduttiva e una manciata di
testi, in traduzione inedita, da “Le più belle poesie di Arthur Rimbaud”,
Crocetti, 2025
In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962
L'articolo “E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con
Rimbaud proviene da Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.