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“In attesa di essere ancora luce”. L’airone di Porta e la vita oltre frontiera
Quale traccia di senso è liberata dal nostro tempo? Derrida parlava di “aporia” come assenza di esito e, quindi, di compimento (vedi J. L. Nancy, Derrida da capo, in A partire da Jacques Derrida, Jaca Book, Milano 2007, a cura di Gianfranco Dalmasso). Per questo, l’unico senso possibile sembrerebbe indecidibile e disseminato, senza origine e senza identificazione, puro mistero metafisico e consapevolezza di un’alterità impensata e, perciò, per sempre impensabile. No-where perenne e allo stesso tempo qui e adesso, questa è la vera “oltranza” e il fuori confine: l’accensione costante di un senso che contiene la sua caduta, che non può comprendersi se non in avvii improvvisi che, però, covano nel tempo, come una “nube della non conoscenza” post litteram: > come se il mio ventre covasse una bomba > > (Antonio Porta, Airone) l’intera vita non è altro che desiderio e attraversamento costante di frontiere che riportano l’ombra di una percezione incomprensibile e rigiocano l’origine nel continuo ri-chiamo che è verso e parola, balbettio di nuovi linguaggi per tornare ancora a smentire la tensione, l’accecamento della relazione e il suo ritardo. Il soggetto diventa “realtà espressiva”, avrebbe detto Raboni, e la realtà di mondo che implica l’identità si formula solo attraverso l’intreccio indissolubile e l’aspirazione costante. Il “suono del contatto” che è l’airone di Porta funziona come sentimento e avvertimento (“avverto il sobbollire nello scroto”) per una sessualità al suo risveglio, la tensione relazionale, la ri-nascita continua del contatto desiderato, fecondazione e spargimento e allo stesso tempo rimando e resistenza: uomo “umile dio del suo corpo” che “resiste sulle rive dei fiumi”. L’uomo è come l’airone? Simbolo transizionale ma riconoscibile “non troppo uomo non troppo animale” “quando muove le zampe / nei primi passi della danza amorosa”, si apre ai limiti dell’identità individuale, alla trasformazione restando se stesso > come la cagna > lupa affamata insegue disperata > la lepre elegante troppo veloce > quasi non si fa distanziare nel breve piano > ma alla soglia di un boschetto > tra i primi cespugli quella sparisce > perché la cagna è vecchia ormai > e la sua fame non diminuisce > come la sua crudeltà di prima, > della sua giovinezza, > così la chiamiamo: crudeltà > invece è fame > di mille altre lepri > eleganti paurose prudenti veloci > di continuo nascono e muoiono al mondo > inseguite inseguitrici, > è tanto semplice, infine, > quando la vita mostra di bastare a se stessa > riflessa nei nostri occhi puntati > dalla cima della collina > come nei tuoi specchi ciechi, airone La frontiera tra il boschetto e la “semplice vita” è l’età, la soglia dell’abbandono nonostante il desiderio sia ancora “affamato”, la frontiera è “nascere e morire, / rinascere e volare via” come l’airone-angelo indica. Messaggero di relazione,    > ilare sorgente ultima di melodia > contro la sua assenza di voce, airone, > i tuoi striduli messaggi, > hai partorito l’invisibile usignolo la musica dell’invisibile è l’ultima e prima sorgente di senso. Marc Augé diceva che “una frontiera non è un muro che vieta il passaggio, ma una soglia che invita al passaggio. Non è un caso che gli incroci e i limiti, in tutte le culture del mondo, siano stati oggetto di un’intensa attività rituale. Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera: è solo grazie all’idea che la si possa attraversare nei due sensi che la frontiera non cancella irrevocabilmente la relazione fra gli uni e gli altri” e “l’illusione, diceva Freud, è figlia del desiderio”.  Il desiderio è il problema dell’identità, del dio di cui l’airone è il feticcio, quasi un albatro rovesciato, cioè il “dio oggetto” simbolo di una realtà di cui si tenta ancora di cogliere il senso. Riassumendo ancora Augé (Il dio oggetto), il senso del limite e il limite del senso hanno in ogni cultura un nonluogo pensato e vissuto con e nel sistema generale dei valori della vita, che solo il rituale è in grado di individuare e re-inventare, aggiungerei, come l’airone di Porta: > Nel tuo volo immagino, Airone > osservi le ferite della Terra > scopri l’opera dell’uomo > dove senza sosta rivoli di sangue > e la fame morde > camminano uomini che non possono > essere ancora uomini > e ci porti testimonianza > del silenzio di morte > e ci imponi di ammutolire > con te sorvoliamo un luogo > che è un luogo più di ogni altro di tortura > El Sexto, il carcere di Lima > dove i perduti rinchiusi > leccano per sete il sangue delle ferite dell’altro rinchiuso > si sappia non si dimentichi che cosa > all’uomo nasce dall’uomo, fratello > come non chiamarti fratello che ti rifiuto > Airone hai due occhi come ribes purpurei > mi chiedo se sono ciechi > solo un puro ornamento Un rituale che è cammino costante verso frontiere inaudite e incomprensibili, verso un’ibridazione di forme per “continuare a nuotare”, “sollevarsi tra gli dèi / e sprofondare nel cuore marino” o nell’ “intorno” (il mondo) “cerchiato dai boschi pieni d’ombra / dove altri dèi dormono in silenzio / visibili invisibili”. La nuova frontiera è “il fuoco puro dell’energia” (metafora nucleare) che annienta il vecchio soggetto, il concetto stesso di uomo e l’identità per come l’abbiamo conosciuta: > ci sarà non io > e il pensiero non mi dà tristezza né gioia > ma quiete, soltanto, felicità del limite Siamo nella fase liminare della rinascita, in un mondo intermedio e in transito ma bloccato all’azione, in uno stato di perenne immaginazione. Come viene detto in La nube della non conoscenza, siamo nella “facoltà attraverso la quale ci rappresentiamo tutte le immagini di cose assenti e presenti. Sia essa che gli strumenti per mezzo dei quali essa opera”, in attesa di una “grazia” che interrompa la proiezione di “differenti immagini illusorie di creature materiali” e indirizzi alla pratica di diverse ritualità relazionali: > come in attesa di essere ancora luce > all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude > in un uovo minuscolo > dove già pulsa il cuore di un usignolo > dove batte il minuscolo mio cuore neonato > come milioni di altri muscoli nascosti > potenti macchine da guerra che avanzano > che scuotono la cintura della terra > e misurano ogni altro respiro La rinascita in nuova forma dentro la metafora del volo, nell’Airone di Porta, demarca l’urgenza di liberazione dall’impasse concettuale che vede l’essere umano stretto nella sua stessa definizione, come una lingua morta che vuole rinascere dal solco della sua scomparsa: volare per essere risucchiato “verso un passaggio strettissimo”, per poi essere partorito “in una forma che non conosco ancora”. “L’anticipo nel desiderio…”, quel desiderio di cui dicevamo in precedenza, è il margine (la frontiera) che non annienta il sociale per manifestare il principio di senso (ancora Augé, per cui nel passaggio-limite è ravvisabile la “grazia” come base “concreta” che non riesamina l’origine ma si arrende alla trasformazione) ma è punto di arrivo senza esserlo, un presente che indaga il passato per scoprire il limite della vita nella sua alterazione. Il futuro è finito a causa della sua indeterminazione, senza possibilità di rinvio, se non costante e immanente. La grazia è uno spazio senza speranza che, ugualmente, tende al semplice riconoscimento di quel che è e ne rende grazie. Possibile trascendenza di sé nell’altro, la grazia immanente corre sempre il rischio della disperazione ma anche questo è “un dono che viene da se stesso”; persino l’airone feticcio, allora, non è più una guida ma un gioco di parole, una questione linguistica, e come ogni lingua mutuabile, trasformabile (in questo senso non un cascame, ma un nuovo inizio):  > Ai, nero, qui il tuo inchiostro > arriva l’intraducibile scrittura > il filo spinato dei tuoi versi > aire, no, non spira > non vola, si chiude: > è questa la fodera dell’aire immobile > impermeabile calor bianco > occhicorallini, biancospada > buchi il sole debole del crepuscolo > buchi la piena luna dell’alba, mi chiedo > come seguire la tua assenza? Forse camminando in questa assenza, nonostante la fine di ogni fine o il non finire della fine, possono scoprirsi linguaggi altri, come i riassemblaggi verbali sembrano suggerire, e perfino la coscienza di sé può sorprendersi “altra”: “(lo stellato mi ha attraversato senza dolore / ora sono albero, ora bottiglia)”. Il “terrore della perdita” è la parola ri-trovata nella caduta, l’incontro col dio è l’incontroscontro col mondo: > Qui in casa dormono tutti, un’ondata > improvvisa mi rigetta sulla spiaggia > a incontrare il tuo becco. Gianluca D’Andrea (dicembre 2025) *In copertina: opera di Helena Almeida L'articolo “In attesa di essere ancora luce”. L’airone di Porta e la vita oltre frontiera proviene da Pangea.
December 19, 2025 / Pangea
“I poeti non si accontenteranno mai”. L’innocenza del linguaggio e la tensione dell’origine
Origine e confine: Aurore d’autunno In Aurore d’autunno Wallace Stevens porta la sua meditazione sul senso della poesia a risultati estremi. Le ambientazioni inserite nei testi, ad esempio, a partire dal poemetto omonimo, sono una strategia che il poeta usa per rimodulare di continuo la contaminazione tra alto stilistico e basso (il registro ironico) dei contenuti, in una tensione panica che accoglie il reale nel corpo della poesia. Questo bisogno di inclusività fluisce verso un confine poroso che mette in comunicazione gli ambienti concreti di cui si diceva con l’incorporeo, come nella figura che apre il testo, il serpente/aurora, fino all’apparizione estrema dell’angelo tra i contadini, quasi un’epifania dell’idea nella realtà ma anche, nella sua conseguente sparizione, dell’impossibilità della permanenza. Aurore d’autunno, dunque, è la raccolta più “spirituale” di Stevens, un manifesto eretico, il quale rivelando la realtà nel suo essere umile e cruda ne intuisce, attraverso l’immaginazione, il potenziale dinamico e trasfigurativo. Il soffio dell’invisibile è sempre annunciato da oggetti materiali, si diceva, e penso alla capanna bianca che avvia il secondo movimento del poemetto iniziale o alle campane senza “setta” di Le vecchie campane luterane di casa o ancora alla “versione semplice dell’occhio” come “cosa a parte” e “vulgata dell’esperienza” di Una serata ordinaria a New Haven. Il confine, allora, appare come un luogo di attraversamento artificiale e reale insieme, in continuo divenire, necessario perché vero e vero perché necessario. Ed ecco l’eresia: la poesia è “l’occhio angelico” che “definisce”, ponendo il limite all’arbitrio ma spalancando il senso proprio attraverso la nominazione, “assume le grandi velocità dello spazio” attraverso l’immaginazione che è la potenzialità di sublimare il reale riconoscendone l’inconsistenza e la fragilità. Anche la brutalità è traccia di altro, di ciò che è già sfuggito alla nostra comprensione lasciandoci liberi persino di recitare il nostro nome, anche se “non c’è copione” se non il nostro mero “essere qui”. Ma è proprio questo essere de-finiti da una soglia a modificarci come la “nuvola trasformata/ in nuvola di nuovo trasformata” fino alla “distruzione” della parola stessa che può caricarsi, così, del fardello della ferocia umana. “Cabala mistica” è questa immaginazione che cambia “da destino a capriccio leggero”, che cammina nella sua disfatta fino a sfumare in una ben più semplice “comunicazione beffarda sotto la luna”. Eresia, si diceva, perché l’innocenza nega ogni accomodamento, attraversa la soglia pur riconoscendola come inevitabile limite, perché la poesia è questa scelta innocente che è già “oltre l’abitudine del senso”, una “forma anarchica/ infuocata”. * Pellegrinaggio e sublimazione in Pasolini: l’oltreconfine Un’altra esperienza liminare, che parte da altezze diverse ed è connotata da scelte di poetica apparentemente lontanissime, è quella di Pasolini. Nella sua opera multiforme, la poesia è in circolo come esperienza corporea e sensoriale, come necessità di attraversamento di limiti fisici e psichici. La scena del corpo colpito, del dolore che si trasforma in narrazione, assume una funzione simbolica centrale: il confine tra il soggetto e il mondo è anche il luogo in cui si sperimenta la vulnerabilità e la trascendenza. Pasolini esplicita che il limite non è un confine invalicabile, ma un modo di re-imparare a sentire le proprie ferite e di riconoscere l’altro nel dolore, nell’ultima speranza di “trasumanare” attraverso un pellegrinaggio di ricerca assidua e instancabile che, però, ha compreso l’impossibilità di una nuova ascesi. > Jo i soj na viola e un aunàr, > il neri e il rosa ta la ciar. > > (da Dansa di Narcìs II, in La meglio gioventù) Pasolini/Narciso è tutto perché è dentro l’umiltà del mondo, perché “il corpo resta povero” come urla il poeta in Trasumanar e organizzar a vent’anni di distanza dalla serie dei narcisi, perché la necessità panica che lo investe e lo accompagna esprime la ferita dell’unità perduta e accentua in ogni scelta ambivalenze, ambiguità, contraddizioni. Ma è l’aspetto trans-formativo la sua ossessione, giusta come l’osservazione spietata e costante del corpo individuale e sociale martoriato. La riflessione sulla mutazione antropologica è il risultato di un pensiero liminare tra conservazione e progresso che resta tale nonostante i tentativi di ibridazione dell’ultima fase della sua opera, anzi anche grazie a essi.  “Non c’è alcuna ragione/ di scrivere in calce a questi versi la parola// FINE” come per il “discreditato corpo” non c’è alcuna ragione per non rimpiangere la “purezza originaria” e aspirare sempre alla redenzione nella catastrofe. Sineciosi, secondo l’individuazione retorica di Fortini, è scegliere tutta la realtà che vive nelle sue contraddizioni, e l’eresia pasoliniana è proprio la scelta mistica di non scegliere, unica possibilità di accogliere il mondo in potenza, senza abusarne, senza assuefarsi alle logiche di potere, alla predazione. Questa dialettica lacerata disperde ogni possibilità di stabilizzare l’esistenza, fino a portare persino il corpo, sia reale che simbolico (corpo linguistico), alla diaspora, alla disseminazione e, quindi, alla distruzione. Eppure è questa fine che germina qualcosa di ancora illeggibile a non accontentare nessuno perché si fa carico di altro, cioè dell’insoddisfazione e dell’assenza di confine:  > “i poeti, destinati a intravedere nel contrario  > di ciò che fanno, la libertà, sono poeti del bene comune,  > e, senza complicità, sarebbero incomprensibili.  > Essi non vogliono avere diritti –  > nello scherzo o nella superbia essi non fanno altro  > che chiedere pietà a chi, se proprio vogliono, gliela concede;  > ma essi non si accontenteranno mai”. Per il poeta è impossibile la resa, nonostante la scomparsa di un mondo – quello contadino e di un apparato linguistico fatto di pulsione, accensioni e cadute legate al non ragionevole della pura sopravvivenza – di una “terra promessa” che è rappresentazione di un centro ancora illusoriamente umanistico ma già de-caduto a banale artificio. La carne, un tempo presente fino allo scandalo, è ormai merce di scambio dell’omologazione e quindi corpo “fantasmizzato”, obbediente all’unica legge di “essere un bravo americano”, un corpo-uniforme “cheap”, un altro numero che si consuma.  Il poeta “non cadrà per terra” ma opporrà la sua “innocenza” alle “notizie false che la radio dirama” (il medium/potere), continuando a vivere a oltranza, “fino alla fine”, mentre quelle stesse notizie – il che vale sempre – “mostrano il dolore/ che è nella schiena della bestia che fugge”. Il dolore, cioè il disagio sanguinante del “corpo separato” che invoca l’Altro colpevolizzandolo per l’assenza macroscopica di “vie altre” che possano aprire alla pienezza della relazione, contrastando il “vuoto nel cosmo” che mette in scena simbolicamente l’incompletezza della realtà. Per Pasolini, la realtà è linguaggio come in ogni vero poeta, cioè tradizione che si ripete e rinnova, perpetuando la dimensione liminare, sistole e diastole di un versamento del verbale nel reale e viceversa, profondo fino al rigetto. Il poeta può abdicare ma solo per sposare l’eresia, cioè la scelta di ritornare “alla purezza perduta”, anche se questo ritorno è decisamente compiuto da un “pellegrino” che non crede alla “nuova” fede della società dei consumi ma che va comunque avanti guidato da “una strana speranza” di recupero. Così, nonostante “la vita sia [ormai] un mucchio di insignificanti e ironiche rovine” perché il potere consumistico ha “colonizzato l’inconscio”, non può esserci resa: Plantànd chista seconda planta chel che pì i bramavi, a era ch’a fos identica a la prima; e chel che pì a mi scrussiava a era ch’a essi diviersa a no podeva. (da Variante, in La nuova gioventù)    L’atto di abbracciare il reale, anche quello più sconvolgente, era stato un tentativo di riappropriazione, il desiderio ultimo che potesse realizzarsi il contatto con un’autenticità originaria. La poetica di Pasolini, è risaputo, ha sempre invitato a non eludere il limite, ma a viverlo come un modo di aprirsi all’infinito nascosto nel quotidiano. E la poesia è sempre stata il luogo dove si chiarisce un’identità che si può riconoscersi solo nel desiderio sconfinato, tra innocenza primitiva e complessità della storia. L’esperienza poetica, in conclusione, è un attraversamento continuo, nella tensione a un rinnovamento di senso che si nutre di memoria e dolore e quindi di incanto e disincanto. La passione per l’origine in Pasolini, senza dogmatismi, viene rivolta a un’umanità che si riconosce imperfetta e per questo infinita, sempre in cammino tra limiti e possibilità. * La discesa dell’Airone grigio di Alessandro Ceni, uno spazio tra mondi Airone grigio Scenderò su di voi come una tenue trama invernale, una nebbia, per condurvi all’esaltazione e al regno, alla caduta e all’esilio. «Entra, in questa Lapponia della mente in questa Islanda del cuore, nel pubere esilio di un’infinita prospettiva, nella taiga nella tundra nella muta fornace, un cumulo rossiccio e senza fondo dove puoi imparare a fare a meno di dio e dire ecco uno si sveglia in una stanza d’albergo uno in un’altra, entra ed ascolta lo stantìo di molti in un camerone, il puzzo dentro la scatola, il bambino brutto avvolto in una matassa di fuliggine dipanarsi nel ventre obeso del cielo come una figurina di pasta lievitata – un lontano profumo in cui riconosci il calamo ottuso della vita, la tregua – e il sapido risalire della prediletta nelle sue mutande sporche o il lungo piscio dell’estate all’estuario deforme delle sue gambe, ora prese in prestito dal morto che, con ostinato lento passo di mulo, detto no a cronaca e storia, smarrisce l’unica via di fuga e con disperata calma con forza enigmatica di acrobata torna, entra, ed ascolta i suoi due figli – estranei incomprensibili ma ospiti fissi al banchetto – e la sua ancor giovane moglie – la smarrita – che udendolo rincasare gli tendono l’imboscata di un sogno armando un vascello di specchi ed allodole nel tranello dell’atrio, dove la carne della sua carne, il sangue del suo sangue e la sua con-sorte e metà, credendolo annegato in pensieri – l’identificazione, ad esempio, di un solo granello di felicità per chilometri litoranei arenili – gli pongono in grembo la prova della loro profonda, autentica, incommensurabile gratitudine: perpetrare l’inganno. Entra, come farebbe un bambino nel mattatoio, cioè muggendo, con fiamme implicite e il grave tinnito dei corvi disteso sopra il paesaggio come una fiaba, dove, nella fredda temperatura, nell’impianto disattivato, nel focolare estinto vive ancora, colpo dopo colpo e anni su anni di combattimenti e perdite, un eroe, la morte su una spalla – il frinìo della nube che si posa a indicarlo come una leggenda imperitura – l’amante sull’altra, le entrambe vecchie dal gomitolo turchino o fucsia della permanente sull’occipite arso, la lunga e ritorta pelliccia della passera spiumata, il foro di fumo, il foro d’acqua, l’unghia incarnita del piede giallo, col quale – ascolta – assunte sembianze di ricordo, il racconto della fiaba – astuto come un capo comanche, furtivo come un guerriero apache – discese per la scaletta retrattile dell’orecchio nella camera blindata della mente, e lì, invecchiato soltanto nel volto, mangiò peyotl, fumò, bevve e danzò l’intera notte – la cintura ridente di innumerevoli scalpi, il lastrico del sepolcro diffuso d’ignoti cadaveri, i suoi altri ricordi dispersi in missione: e tutti erano allegri e fiduciosi nella sorte». Scenderò su di voi come una tenue trama invernale, una nebbia, per condurvi all’esaltazione e al regno, alla caduta e all’esilio. Cosa ci cade addosso nel paradosso della soglia? L’entrata ambigua nel regno e il paradosso dell’esistenza, un racconto di lontananza e carne, di freddi boreali che si consolidano nella mente del soggetto e appiccano un sogno che aspira alla realtà e vi rinuncia, che si sposta, cade e si allontana dal mondo. Il linguaggio entra nella dimensione liminare tra sogno e veglia e in quella crepa allarga il suo racconto, un altro μῦϑος. L’affabulazione è a doppia entrata, prima il freddo del pensiero astratto (la Lapponia della mente corrisponde all’Islanda del cuore), poi l’accesso all’immaginazione profonda dove ogni figura incendia la referenza, incenerisce la sua stessa simbologia. Come l’immagine del bambino nel mattatoio sembra suggerire, accedere significa trasformarsi nel luogo in cui siamo immersi, “muggiamo” perché solo in quel modo, e solo nel perpetuo rinnovamento dell’infanzia, possiamo aderire e far sopravvivere “l’eroe”, il sempre nativo, l’allucinato (come i riferimenti ai guerrieri americani e l’utilizzo del peyotl sembrano suggerire). L’airone grigio ci racconta una favola da invasati, ci investe con ciò che di più reale abbiamo: ci avvicina cantando e nel suo fluire ci abbraccia per raccontarci un’apparizione scenica, quella di un sempre possibile sogno. La “trama invernale” dell’airone, per quanto tenue e nebulosa, è l’unica possibilità per attraversare il reale, per essere condotti “all’esaltazione e al regno, alla caduta e all’esilio”, allo spazio tra mondi che la scrittura può invocare, evocare, provocare, come la sua presenza in luoghi liminali suggerisce accompagnandoci nel viaggio tra materia e spirito, quasi rinnovato Virgilio tra le ombre. * Il viaggio sospeso, beyond the border Essere oltre è una questione talmente intima da non poter essere individualizzabile fisicamente e precisabile in luoghi concreti. Questa illusione materialistica è uno dei mali ideologici del secolo appena trascorso e che ha già sconfinato (perché in realtà, è ovvio, non ci sono “secoli” arginabili entro limiti cronologici) nell’attuale. Essere oltre è una resa all’invisibile per accedere a un’altra percezione e poterla raccontare come fosse una leggenda. Reinventare il reale è la sbordatura, è l’arte di sporgersi dall’orlo e lasciarsi cadere fuori dal senso nel tentativo di coglierne il substrato emotivo. Reinventare non è la pagina bianca o l’assenza di senso ma l’inseguimento di una lingua che per quanto nota è sempre sconosciuta, lasciando all’altro (il lettore) la libertà di reinterpretarla. Reinventare ha a che fare con un’onestà radicale nei confronti dell’altro che abbraccia anche l’abbandono, ma non si limita alla fine della relazione, anzi la riattiva nel vederla scomparire, ma solo dopo aver accettato la scomparsa. Reinventare è un ricominciare e non un inizio altro, perché niente è mai iniziato: Leggenda o mito, se vogliamo, che parte sempre dalla privazione e dell’oltranza:  >     Myself to set foot >         That second > In the still sleeping town and set forth. In un istante che rivela l’urgenza dell’autoesilio e dell’eremitaggio, Dylan Thomas, poeta dell’eccesso, si consacra alla natura. Il panteismo di Poesia in ottobre è totalmente volatile, carico di esseri della fuga, psicopompi dell’oltre confine come l’airone che compare due volte e che, come abbiamo visto nella poesia di Ceni, è figura della soglia.Gli “uccelli dell’acqua e gli uccelli degli alberi alati” portano il nome del poeta sul paesaggio, anticipando e anzi stimolando il cammino. Prendere la strada “over the border” è aprire le porte a una nuova visione (la leggenda di cui si diceva), trasformando le stagioni – significativo il passaggio inaspettato, appena iniziato il viaggio, dall’autunno reale alla primavera dell’immaginazione, “il sole d’ottobre” diventa “estivo” – accompagnati ancora da uccelli, allodole e merli fischianti, che introducono a un’allucinazione, a un “cielo azzurro alterato”, a un’aria “other”, altra, a un mutamento fruttifero (e infatti, prima della fine il testo sostituisce gli uccelli con i frutti, “con mele/ Pere e rossi ribes”) che, contemporaneamente, evoca delle “child’s forgotten mornings”, cioè l’origine perduta che solo nell’immaginazione si rinnova, richiamando più antiche leggende (vedi “le leggende delle verdi cappelle” alla fine della quinta strofa).  Così il mito può essere narrato ancora, un’altra volta ripetendosi e allo stesso tempo mutando per ravvivare l’inconoscibile, l’invisibile: “the mystery/ Sang alive/ Still in the water and singingbirds”, cioè un canto che rinasce attraversando la fine (gli uccelli tornano al termine del componimento nella loro funzione “misterica”, pionieri dell’aldilà, dell’oltranza appunto). A questa lontananza dai giorni della creazione e a questo bisogno di ritorno misterico, occorrerà sposare il quotidiano e la terra nuova, cioè il presente e la speranza che esso possa rinnovarsi. Cicli stagionali e fantasie di ritorno si spogliano delle loro immaginifiche meraviglie ma solo per inoltrarsi in un cammino reale al prossimo stupore:  >      O possa ancora la verità del mio cuore >         Esser cantata > Su quest’alta collina al volgere di un anno. Gianluca D’Andrea L'articolo “I poeti non si accontenteranno mai”. L’innocenza del linguaggio e la tensione dell’origine proviene da Pangea.
November 27, 2025 / Pangea
“L’assoluto nella dissolutezza”. Sulla poesia di Ella Frears
Dentro la materia “il mare è senza fine, dolorante”, ed è necessario che questo dolore sia focalizzato, parossisticamente pro-vocato e registrato, perché solo vivendone persino la proiezione è possibile sentire ciò che vive, ri-sentire nella provocazione la relazione:  La pellicola Il sole splendeva mentre noi andavamo in giro per il campus a fermare ragazzi e uomini chiedendo che mi colpissero in pieno viso.               Si rifiutavano tutti all’inizio, ma noi spiegavamo che era arte ed era necessario così mi hanno schiaffeggiata, uno dopo l’altro.               Ho capito che per farglielo fare dovevo indurire gli occhi, provocare. Lo schiaffo dei ragazzi era comico – palmo sul viso, con scuse prima e dopo. Era caldo e luminoso.               Abbiamo flirtato con un geografo dallo schiaffo leggero, con le dita a sfiorarmi la guancia come girandomi il viso di lato per vedermi di profilo. Avevamo circa venti               uomini su pellicola. È arrivato il ragazzo della mia amica e gli abbiamo chiesto se volesse farlo. Lui l’ha baciata e si è piazzato di fronte a me. La mia amica ha premuto record, e ha detto               ‘vai’ e io ridevo, mi ero dimenticata di preparare il viso, con la guancia sinistra un po’ rosa dopo una giornata di schiaffi. Non ero preparata al suo rovescio. Rapido                e forte, un rumore strano come se mi avesse schiaffato via la risata, un dolore più spesso di una puntura, un’immediata perdita di respiro. Siamo rimaste in silenzio                un attimo, e io ho guardato la mia amica e la sua mano portata alla guancia automaticamente, la luce rossa della telecamera che ancora lampeggiava e ho saputo                che non avremmo mai guardato la pellicola, che avrei sentito la nausea e la colpa finché il livido durava – più a lungo – avendo chiesto ciò che non era mio.  Il linguaggio di Frears è materia ustoria che sbracia e riaccende il percorso da metafora a dato, rinnova il senso della referenza, iniziando da un contesto umile e concreto. È una tensione ipercinetica a svolgere e riavvolgere il cammino della parola, i cui passi e salti manifestano una nudità d’intenti che è anche desiderio di stabilire un contatto. Altezze delle cadute ma più intimità nel dolore, in questa operosità slabbrata si muove il verso narrativo in tante zone di Risplendi, cara (Taut, 2023), il piccolo corpo del vivente (così come il corpo testuale) si aggrotta pudico per espandersi subito dopo e arrivare a toccare vertigini celesti: Mito lunare Dato che abbiamo donato i nostri gioielli per il tabernacolo (e con noi intendo le donne e con donne intendo le allegorie) ci è stata assegnata la luna. Non una luna, la nostra luna, la nostra piccola luna litigiosa. Il mare delle crisi e quant’altro – la vecchia ‘pietra dell’oh issa’ che trascina le onde ai ciottoli fin dall’alba dei tempi. Il 58% delle donne dice ‘prendi quello che ti danno, prima che ci assegnino un corpo celeste ancora più piccolo.’ Ad ogni modo, tutti sanno che la tuba di Falloppio è un germoglio di luna. Tutti sanno che il sole è una stella-ragazzo, buono e caldo e luminoso e piuttosto semplice se ti ricordi di portare la crema solare. Certo che ha un cazzo. Quando mi metto una torcia in bocca le guance mi si accendono di rosso come una lanterna carnosa – niente argento, né crescente né calante; sono accesa o sono spenta. Non proprio da luna. oh Satellite, oh Artemide, oh Orbe della notte. Domanda: posso dare la colpa alla luna perché dormo poco? Il 73% delle donne si è detto ‘a disagio’ con il nuovo rito lunare testato settimana scorsa, che prevede un melograno, un frutto stella (e del simbolismo di mela ben calcato). Ora di un altro gruppo di discussione. Magari possiamo bruciare cose, oppure il fuoco è solo roba da sole? Hanno versato del vino nuovo in una vecchia brocca, e ci hanno detto che i miti si fanno così. Abbiamo bevuto tutto il vino e ci siamo esposte al plenilunio, quindi dovevano aver ragione. Luce e carne costruiscono il mito, arte di raccontare il minimo, che confonde perché include piccolo e grande, abbattendo il confine dell’ambivalenza. Frears è certa del malessere di dire ma lo espone, è consapevole dell’impossibilità della permanenza per questo apre al lettore la sua intimità, offrendola come in una parabola: Scopare in Cornovaglia La pioggia è spessa e c’è un mezzo arcobaleno sulla spiaggia umida; mettimi la mano fin sopra. Ho camminato per quel museo di paese centinaia di volte e ho deciso che il cagnolino imbalsamato, etichettato: il cane più piccolo del mondo, è un falso. Baciami in un panificio di pasty con tutti i forni accesi. Ho stretto un uovo fresco e caldo in una fattoria e ho pensato a scopare. Ho stretto un piccolo granchio verde nel palmo della mano. Ho teso la manica fin sopra le dita e ho raccolto un’ortica e l’ho stretta contro la gola di un ragazzo come una spada. Slacciami le scarpe in quel vicolo e sollevami delicata sui cassonetti. Il sole luminoso del mattino viene e viene e i bambini vacanzieri sono pronti con i loro secchi gialli. Ti ricordi cosa si provava a scavare un buco tutto il giorno con una paletta solo per vederlo riempirsi di mare? Lo voglio così – come l’acqua che indovina un percorso al di  sopra del bordo. Come due anemoni rosso acceso in una pozza di marea, i tentacoli in onde estatiche. Come se la ginestra si è incendiata attraverso la brughiera e tu sei il fantasma di un pescatore, che ha sempre odiato la terra. Umiltà e fede, praticamente agostiniane, non sono eluse ma reindirizzate a nuove “apparizioni”, come fossero l’ossessione scaturente da un rapporto in perdita. La poesia si fa strumento, allora, che avvicina distanziando, che aspira e solo per poco accompagna: > Per favore capisci che non è addosso a te, è con te. Co-ire è sfiorare il rapporto mistico, l’assoluto nella dissolutezza dell’amore, è il tentativo che la carnalità si superi in un oltre desiderante e iper-percettivo. Ma cosa può l’essere umano esplorare l’infinito impraticabile della vita? Forse solo attraversandola facendosene infaticabile ricognitore, forse. Non cacciamo Giovanna, non cacciamo l’ossessione di sentire sempre e sempre più a fondo: Giovanna d’Arco ci perseguita Lei sa come trema il vetro prima che venga scagliata la pietra, come le tubature sibilano le une alle altre a mo’ di serpenti attraverso la casa. Ha sentito la prima spinta del fungo verso l’alto, ha mappato l’incedere furtivo della propria ombra sul terreno variabile. Cerca di ascoltare il tonfo minuto del cuore di un coniglio; ha sempre amato il calore del sangue anche mentre se ne va dal corpo, affonda nel fango. Ha sentito lo schiaffo rapido di uno sparo, la lenta leccata della lingua di un cervo, sa che il dolore si modella nella mente come la brina. Il sole le cuoce il corpo, le sue orecchie bacinelle di piccole pozze d’ombra nel fulgore, il rumore di un aereo nel cielo le ronza dentro. Nelle giornate storte lega i vestiti in complicati nodi, invita i passanti a fare lo stesso. Zitta, Giovanna, diciamo noi. Vai a contare i crochi. Et lux in tenebris lucet, afferrare o perdere la luce è la posta in gioco dell’incontro e della poesia che lo cerca. Frears dice di aver “sentito dire che il nemico che indossa le scarpe/ o troverà Dio o Lo perderà”, il che può essere tradotto nel desiderio e nella ricerca costante del bene nel male, in una spoliazione di sé e delle proprie acquisizioni. Frears spalanca la lingua della poesia e accoglie il mondo, prendendo e tremando: A una festa un ragazzo mi segue nel bagno sostenendo che quando ho lasciato la stanza gli ho fatto cenno di seguirmi. Davvero? Sapeva che non lo avevo fatto? Lo lascio entrare, perché quasi quasi mi prendo quello che mi dicono che desidero – chissà, magari ha ragione. * Mi chiama per controllare che non gli abbia dato un numero falso, mi lascia un messaggio in segreteria con il mio capezzolo nella sua bocca.       Il mattino seguente, da sola, ascolto la sua voce – un bambino che parla con la bocca piena                                                                         e poi io, come una madre noiosa, distante:                                piano,    piano,    piano. Nella compravendita che l’esistenza diventa quando lo slancio e il trasporto all’altro si interrompono, occorre confrontarsi con “l’agonia del deserto” e provarsi in un altro attraversamento. Nonostante “il mare imbestialito” sarebbe necessario accostarsi e sentire “l’orecchio bagnato del diavolo”, lasciarsi scorticare nella fuga continua che immagina una meta, in una tensione mai soddisfatta: Sulla cordatura della forma Esse sono la raffica di vento marino che ti tormenta mentre scendi in spiaggia; l’ambiguità sessuale dell’amico del tuo amico con cui ci stai provando in un bar.      Guidi in una galleria;             trattieni il respiro. Sono sette solide frasi spezzettate lungo un’idea; un singolo filo di ragnatela teso tra due corpi che dormono; i punti di sutura nella tua ferita sullo stomaco mentre ti allunghi verso il telecomando;        una macchina in bilico su una scogliera per sessant’anni. Sono la suspense mentre ti lavi il viso, sapendo che le probabilità di trovarti un assassino in casa sono aumentate mentre avevi gli occhi chiusi;       il picco febbrile che questa paura raggiunge mentre             chiudi l’armadietto a specchio del bagno. Non sono la tua autocoscienza, spalmata finemente sul tuo toast mattutino; non possono sedurre tua madre nella hall di un hotel. Ma sono un aeroplano di carta lanciato attraverso una stanza fumosa,       e sono esattamente come svegliarsi              per gli occhi di un insonne. Stai tornando a casa a piedi da un incontro / uno spettacolo /  negozi, hai con te gli ingredienti per la cena che hai deciso di fare – facendo dondolare un po’ il sacchetto semplicemente sentendo il peso di ciò che sarà. La sera è di un blu smorzato / arancio, l’aria non è né fredda, né calda. Di punto in bianco ti senti insignificante in un modo molto lussuoso e proprio in quell’istante il lampione sotto cui stai camminando si accende, tipo illuminazione. Attorno non c’è nessuno. Senti solo quella sensazione e continui verso casa. Corde – infilate e fisse:      una sensazione enorme, contenuta all’interno                di un piccolo corpo, sotto un cielo enorme. Enorme come ogni parola che s’inoltra e perde l’orientamento, come la luce che investe la strada mentre ad attraversarla il vivente vaga e prova. Sente? > Ci hai mai provato tu? È la luce più simile > all’acqua, a pozzanghera sulle tue palpebre, fresca > e senza parola sulla tua lingua. L’enorme si nientifica perché risgorghi lo slancio e ridiventi inondazione, pensiero lungo, racconto. La vita di ogni giorno è epica e metafisica, e solo così vivifica l’esperienza. La scrittura in versi di Frears e soltanto esperienza nell’urlo e nell’abbraccio, nell’alto come nel basso che comunicano, puro sentire: Elegia per la sonda Cassini 1997-2017 Pensavo alla tua morte. Cercavo di immaginare l’istante in cui la pressione diventa troppo forte o il calore troppo elevato.            E poi verso le quattro del pomeriggio ho sentito delle urla tremende. I suoni si diffondono in modo strano nel nostro vicolo cieco e non riuscivo a capire se fosse lontano o appena sotto la mia finestra.            Parte dell’orrore è non sapere da cosa proviene il suono. E infatti nei film fatti bene, la cosa brutta si intravede appena o non si vede per nulla. Ho sostato sulla porta cercando di capire: un cane abbaiava, un uomo gridava, una donna urlava.            E poi sentito un corpo che veniva colpito con un oggetto. Sapevo che era un corpo e non una cosa dal modo in cui gli altri suoni gli si piegavano attorno. Il traffico, le urla, gli alberi e il vento distorti da queste percosse sorde, irregolari. Gli sono corsa incontro.            Dietro una piccola staccionata, un uomo picchiava un cane con un badile. C’erano vicini alle finestre e per strada, guardavano. C’è stato il suono distante di sirene e l’uomo si è fermato ed è tornato dentro.            Il cane non faceva rumore, guardava nel vuoto verso il cielo. Ci siamo raccolti attorno alla staccionata. Respirava, poi non più.            Cassini, oggi, mentre ti tuffavi tra gli anelli di Saturno raccogliendo dati, ho visto un cane morire – una tristezza distaccata ma molto reale. Un ohh interiore, sfinito, come un palloncino che si sgonfia.            Gli altri cani nel vicolo cieco non hanno mai smesso di abbaiare fino al mattino. Sapevano. Dubito che sarà così anche per te. Non me li vedo i corvi che si levano improvvisamente dagli alberi, o un’anziana sulla strada di casa che di colpo inspira: se n’è andato!            Ieri notte i miei sogni erano pieni di quel suono – badile contro cane. Un miliardo di chilometri sono troppi per sentire la violenza della tua perdita, mi spiace. Invece mi immaginerò le lune, che sbirciano oltre gli anelli di Saturno come vicine di casa silenziose che guardano impotenti mentre tu inizi a tremare, bruciare e distruggerti.   Gianluca D’Andrea *In copertina: Ella Frears, photo Etienne Gilfilla L'articolo “L’assoluto nella dissolutezza”. Sulla poesia di Ella Frears proviene da Pangea.
October 29, 2025 / Pangea
La poesia è “il giorno del giudizio” quotidiano. Intorno a Michel Deguy
Émigré que scalpe un âge è il poeta che opera con l’arma dell’assenza e con questa produce senso-apertura. Un senso scalare e quindi non progressivo che intuisce rovina perché canta, intona una nuova musica e travalica l’immagine, affondando nella materia ne trascende la pura superficie. “Le favole parlano come animali” perché le parole ribaltano l’acquisito e dicono il loro verso selvaggio – “verso”, suono significante della bestia, la “girata” che sospende nel vuoto la parola – l’ombra che diventa voce. “Transumanza”, ampia metafora di uno spostamento forzato e necessario, questo ci dice Deguy della poesia, la sua, che è frusta di lottatore che annuncia, è avvento tra le profondità della terra e le altezze del cielo. “Cammino e reame”: incanto “che ha bisogno di una parabola come dimora” perché “il reame assomiglia a questo luogo” per cui la parola ha ancora forza immaginifica e capacità di oltranza come “una stella ingrandita” in un verso che respira, ampliandosi e restringendosi, accordandosi all’unica realtà che è vita non polarizzata, presenza sospesa che non pretende di conoscere ma s’insinua tra noi, nella soglia che non definisce. L’unica possibilità di dire “noi” è “tra”, nella relazione sempre aperta: “rien avec rien” e “bella apparizione” che abbandona l’uomo e ne riscopre la natura: animale vivente, albero e preghiera, nuovo rischio d’amore e consacrazione. Ma come è possibile parlare di sacro ora che il linguaggio è parte integrante del dissesto comunicativo? Deguy gioca (ma quanto seriamente) con le capacità di disturbo della poesia, e lo fa non dimenticando il ritmo, la necessità di sospensione dell’andare a capo. Freneticamente a volte o osando percorsi iterativi, autoecolalici, rischiando anche l’autoreferenza perché la vera lotta è il tentativo di approfondire il limite identitario, scavarlo e aprirlo, senza arrendersi alla pura constatazione: >  la vita come un campo sconnesso >                                                       nnesso >                                                                   e il campo > come un infermo che si porta al sole >                                                          ole >                                                                e il sole > come un confine dove la terra si rigira >                                                             ra >                                                                 e la terra > come lo scritto che un miope aggiusta ai suoi occhi >                                                                                 cchi >                                                                                        e > come la vita Ma è quando l’individuo rischia tutto e va incontro alla débâcle relazionale che appare l’annuncio, la scala di Giacobbe e la sua lotta con l’angelo, la burella-poesia che è caduta e strettoia per la risalita: > Si attenda di essere portato da un angelo > Nel luogo dove la vista si offre senza magia > Terra fragile sotto l’edificio delle mani > Tutto è gradino dove s’innalza non Babele > Né la colombaia vista da Giacobbe > Ma dove sale la terra sull’altare del suolo > Fino a questo punto di se stessa se sappiamo > Dove l’analogia delle sue vie ci guida verso > I suoi monti le faglie i margini le acque > Incrinate nelle ore dove simile al mulo > Mi divide il suo cammino fra tutto e tutto  Questa espansione estatica del linguaggio contrasta in maniera decisa la faciloneria comunicativa che incombe sempre sulle possibilità espressive. La sospensione, invece, conduce il verso a ricomporre “passi di tigre sulla pietra” per denunciare il comfort linguistico dello spettatore borghese che al massimo prende atto di ciò che accade senza proporre e rischiare alcuna risposta. Ma la poesia non è voyerismo bensì immersione per Deguy (e anche per chi scrive), abitazione provvisoria e necessaria proprio nella sua precarietà rivelatrice. La poesia è veramente “il giorno del giudizio” ricorrente, quotidiano. La poesia è osmosi, Deguy lo conferma in ogni testo, unendo l’alto e il basso, approfondendo e ripetendo un tragitto che annienta ogni polarizzazione:  > Le rocce i fiori i fiumi stregati di forme eroiche > Dèi idrificati pirificati ossificati cose > Come mai vi furono cornacchia alloro > Cosa sono questa maschera > Questa modellatura d’uomo > Del quale il poema sospetta la genesi nel suo silenzio > Apparire fu morire e l’immortale si ritirava È “la questione della superficie” quella di coincidere con un fondo, è l’immersione della parola in un ambiente, è l’essere dentro il paesaggio, non soltanto “cingendosene” come dice il primissimo Zanzotto, ma assorbendolo. D’altronde, il problema sollevato da Deguy in tutta la sua opera è quello della verità. Poesia di pensiero e desiderio, perché la verità è assenza e tensione che non possiede, non può. La parola non ha, è questa verità: > Cancellazione > > Dedica > > Non posso scrivere il tuo nome. Le leggi lo proibiscono. Avendo scritto il tuo > nome, dirò che non lo dirò mai e così lo terrò nascosto. Sei la mia indagine > sulla ricchezza. È scritto che adempia il tuo voto che scriva di un giacente. In tempi di inganno (fake), la poesia di Deguy (che non è mai stata di nessun tempo) si fa luce perché educa manifestando che il creduto vero (la stessa poesia) non è il vero, azzardando che non tutte le opinioni sono valide e criticando alla base le ipocrisie della democrazia. La poesia di Deguy è autocritica, si denuda nella sua oscurità: >  Capisci che è una dichiarazione d’amore? Come una certa luce, il rivestimento > dell’alba, fra le altre, accoppia tutto facendo rientrare in lei, sollevandole > nel suo bagliore, tutte le cose esistenti, così il poema con il suo bagliore > particolare d’eclissi: rende visibile l’eclissi dell’essere e il tutto (cose > nominate solo in parte che sono tutto) e la luce: il linguaggio. > >  Parlo di questo mattino blu leggero fresco d’autunno, blu adorabile, e di > caccia e di uccello trampoliere, questo sapore per sé, fuori tutto ma > facendone un tutto, disgiunto e diminutivo. In che modo lo perderemo? Dobbiamo > privarcene. La luce che rende visibile attrae il soggetto, lo rende partecipe in una contemplazione attiva. La circolazione, il respiro linguistico apre a un eterno estatico aprendo e chiudendo la parola, trasponendola in una dimensione liminale che combatte la sclerosi del senso. Il verso diventa cinetico, sobbalza nella sua brevità anche se non in modo definitivo, adattandosi al contesto perché il soggetto riparta sempre in un nuovo cammino: Dentro-fuori A Valerio Adami In soglia Il dentro vuole uscire e il fuori vuole entrare l’uscio che sbatte inventa a porte non chiuse una soglia per il ritmo che suddivide i due lati All’interno dell’interno richiudendo il dentro il cuore messo al segreto sigilla e mostra il tutto la parte che lo integra non ignora le altre “Ciò che è ugualmente alto e basso” nella parola arrende l’uomo al contatto osmotico col mondo, perché nel riconoscimento dell’incommensurabilità del tutto accade l’oltrepassamento rivitalizzante: il senso dell’essere al mondo e del mondo nell’essere è possibile solo se “anche i rami perfino i muschi / fanno ideogrammi”. Apertura panica dell’essere e trascendenza nella materia. Gianluca D’Andrea Bio: Michel Deguy, Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006 (Sossella, Roma 2007, traduzione di Mario Benedetti) L'articolo La poesia è “il giorno del giudizio” quotidiano. Intorno a Michel Deguy proviene da Pangea.
October 7, 2025 / Pangea