
“Fedeltà a questa poesia misteriosa e leale”. Vincenzo Gambardella scrive ad Antonio Trucillo
Pangea - Tuesday, October 7, 2025Caro Antonio Trucillo,
questa lettera è un esperimento, e un’attestazione di verità, insieme a una confessione, nell’attimo in cui s’è fatta luce dentro di me, direi spazio vitale, nel chiedersi cos’è un libro se non andare all’origine della conoscenza, della scoperta, e cos’è la nostra vita, in particolare la vita di uno scrittore, di un poeta, se non interrogarsi su questo, e ingrandirlo, lasciare che prenda il campo intero, fino a escludere il resto, assorbito da quell’unico soggetto… Un dettaglio, ma è tutto, ingigantito in quanto forma del Novecento, dove ci siamo compiuti, e perciò secolo delle relazioni, delle espressioni, dei tentativi, dell’inesprimibile che si rivela, del rinnovamento, dell’uomo che è “fedeltà a questa poesia/ misteriosa e leale/ che aspira al pane/ e all’elettricità… […]” (p. 49 del volume che sto per citare), dunque, anelante a vivere in pienezza, disintegrando l’io in modo da renderlo strumento dell’opera, suo compimento. Umanità (Interno Libri Edizioni, 2025) è proprio andare alla radice, per un dettato che è il mondo, e dentro questo ecco il suo dono. D’accordo, il frammento, ma qui il discorso è trovare la parola migliore del Novecento, che ha saputo dire il confine dell’uomo, il suo limite mentre dice “Italia, la nostra lingua è splendente” (pag. 25), che è la voce intera a scandire il legame con una tale potenza di pienezza da sfidare il mistero. Quando è avvenuto un simile destino?, sempre, viene da rispondere, e noi non siamo esclusi, nessuno ci ha alienato, tant’è vero che per tutta la vita abbiamo cercato dentro quella parola del Secolo, il valore che si afferma avanti a tutto, che esalta solo la pronuncia: umanità!… Già di per sé esclamativa, ma che sulla pagina appare in controluce.
Ah quei convogli dell’Adriatico
treni neri
spenti treni neri
come noi stessi sperduti
in umana cadenza
in umana disarmonica pena
dov’è grano e granaglia
dov’è olivo e olivastro
dov’è umanità.
Ce lo chiediamo ancora: dov’è?, e, anche se può sembrare patetico, aggiungerei: chi ci ha amati veramente, umanamente? Comunque meglio l’ingenuità di certe richieste, che il farcela a tutti i costi di oggi, pena il fallimento, ché, nel concreto, si riduce ad attuale propaganda: stare sempre a pensare di riuscire, di potercela fare, competizione, quindi, soprattutto se si ritiene essere necessità primaria, mentre appartiene alla regola in cui viviamo, o talmente assunta in noi stessi da diventare volontà nostra specchiata.
Cade,
viene a poggiarsi,
sciacqua i cotti dei tetti
ma tu sai per certo
che tra poco poco resterà:
pure, che festa sarà
dove finiscono gli orti
e ricomincia la piccola
città.
Quel poco è il tanto della poesia, quella piccolezza è in realtà immensa, perché è affidata all’eterno, e se siamo stati ignorati, o riteniamo sia stato insufficiente il bene, basti pensare a come l’abbiamo ricevuto. Che punta è l’amore!, che sottolineatura!, la parola sta lì per questo, ripete per ribadire, serve a ristorare il nostro rapporto con gli affetti, con ciò che ci manca. La parola sta sul corpo degli affetti, si potrebbe parlare di nuovo di una parola innamorata che trova nell’intimo dell’immagine il solco, o la traccia di una vicenda che rimanda all’infinito delle cose, poesia ferita, la poesia stessa, che non si sa da cosa è diretta, per cui anche il conoscere arrossisce, si schermisce di fronte al mistero della nostalgia, del dire il punto dove è accaduta l’ispirazione, lo stesso che ha mosso (per inquietudine) o ha fatto dire a Rilke o a Celan o a Luzi o a Caproni: io questa cosa l’ho vissuta, anch’io l’ho provata ma in modo irripetibile.
I nomi sono là, sono quelli che ho citato, insieme a molti altri, calibrati dal lavoro espressivo, eppure se allunghi un braccio ecco che scompaiono, appartengono al passato, mentre la tua poesia, amico mio, ha bisogno di un tempo ancora da venire, ancora da scoprire nella sua portata e nel suo valore poetico, secondo cui un discorso su Umanità apre a una questione profonda che è la predestinazione, o predisposizione al bene, al linguaggio poetico, il bene di tutti, senza saperlo, senza nemmeno immaginarlo, inteso come sentire del poeta universale, vocazione al trascendente. Viene da chiedersi quando arrivano le parole, quando si configurano in versi in ritmo, immagini, forma, stile. Quando? Accade qualcosa e ci mettiamo in ascolto. Dunque all’inizio è fantasma, poi si presenta nell’accadimento della parola, distinta, precisa, netta all’attenzione umana… Umanità, di nuovo, roba da non poter sfuggire (diciamo roba), che comunque si affronta per poter conoscere il peso di quel determinato verso, la sua forma. Dove porta? Chiamiamo tutto questo ispirazione, ma è il lavoro che si fa dopo che è fondante. Nel tuo libro si intuisce. Lì si scrive la poesia, che è già scritta, eppure deve essere messa sulla carta, aggiustata fino al divenire. È questo il mistero che c’interroga: come fa a esserci già se non è stata ancora composta? Se esiste già, chi l’ha scritta?, chi è il poeta?, dove vive? Possiamo richiamarci a un paradosso, quello che sosteneva Diderot per quanto riguarda l’attore. Ne Il paradosso sull’attore, la cui prima stesura risale al 1768, e che fu pubblicato postumo nel 1830, l’enciclopedista francese sostiene, in ultima analisi, che non è l’attore il vero protagonista ma le sue parole, il testo a cui le sue parole rimandano, ecco allora l’annullamento della sensibilità recitativa in funzione di un maggior controllo delle emozioni, e dunque il raggiungimento dell’effetto voluto. Questo a costo di uno sdoppiamento, dovuto allo sforzo d’interpretare. Ma nel poeta?… Se vogliamo svolgere un parallelo si può dire che il maggior paradosso del poeta è il fatto che egli si fa piccolo fino a scomparire, per poter dare forma e forza alla pagina. Così pure il lettore, quante volte ci sentiamo immersi nelle parole del vero poeta, tanto da dimenticarci di noi stessi, perché è quello che accadrà un giorno, ne sono sicuro, un giorno io credo che si ascolterà soltanto, e l’ascolto ci renderà liberi, felici, infatti la realtà vera del poeta allude a questo e consiste nelle sue parole.

Tutto richiama all’infinito, non l’emozione, o meglio, l’emozione arriva in seconda battuta, prima si presenta la conoscenza, e l’emozione è una conseguenza della verità. La realtà del fenomeno emozione rimane, resta sigillata eternamente, forse addirittura nel sangue. Il sangue è il primo segno, eppure qui non è l’espressione di un sintomo, con buona pace dei dottori, qui parliamo di altro, ma nemmeno questo basta a dire il nostro stato. La verità è la speranza, e Umanità, il tuo ultimo libro, amico mio, lo dice, fin da subito incomincia a macinare il suo seme, che darà frutto, è promessa, non importa quello che pensiamo a livello di opinioni, è importante ciò che si rafforza in noi senza che ce ne accorgiamo, nonostante non sia un caso il corso della nostra vita. Umanità ripete questo processo in versi, arriva e tocca, è sintomo e forma, è cura ma non in quanto l’uomo è malato, bensì perché ha un compito e lo deve assolvere, anche se ha deciso basta. C’è uno struggimento in questo, che va oltre, la fine non è il termine ultimo, l’umanità è più forte delle nostre teorie. Un solo momento di verità assolve tutto. Leggiamo:
E solo a pronunciarlo in un soffio quella parola,
u-m-a-n-i-t-à stelle velocissime solcano,
attraversano il vuoto del firmamento,
non più nascosto dietro il silenzio
del corpo, mi sono avvicinato
più che potevo al suo respiro,
mi sono afferrato ai filanti,
alla scia del racconto
per esserne parte, sentirne anch’io
l’odore.
“La domanda ‘Che cosa domandiamo, umanità, alla poesia?’ è proprio il manuale d’uso con cui leggere questo libro. Possiamo domandare? E se sì, cos’è che ci fa essere umani più umani? E cosa, invece, ci fa assomigliare al tutto dal quale veniamo?”. Sono parole esemplari, perfette, profonde, di Anna Ruotolo, magnifica poetessa che ha scritto la prefazione al libro. Io dico che ci fa umani il desiderio di perdono, invece ci facciamo problemi su tutto tranne chiederci a che punto è l’amore nel mondo, e nel nostro cuore, che percentuale ha di non morire. Dovrebbe essere la domanda principale sul livello della nostra civiltà, in grado di verificare, misurare in che stato è il nostro sentire. Parlo da cristiano, dunque mi sento di sviluppare il mio pensiero all’intero creato. Creature, non gente, non popolo, non massa, non pubblico, non no.
Cito Turoldo, grande poeta e ancora attuale nel fondere i contrasti in argento vivo, scintillante, utile alla riflessione. L’autore si riferisce a Leopardi, che chiama anima mia:
“[…] Oltre agli accenni interni al discorso, come il suo idillio sul colle da dove sentiva la contemplazione quale dolce naufragare (e quindi poesia come salvezza), io mi chiedevo: per noi che resta? e che infinito ci salva? o almeno, quale la nostra possibilità di canto e di ascolto? E oltre il ricordo della sera del dì di festa, quale sera per noi e quale festa? e cioè, in cosa crediamo ancora?”
(David Maria Turoldo, pag. 427, da O sensi miei…, Rizzoli, 2002)
Il finale, qui sotto, appartiene alla poesia intitolata Scolio XVI (omaggio a Emilio Vedova), ed è a pag. 50.
[…] È papiro indecifrabile? È l’umano,
non astrazione e neppure
vertigine. È l’umano che si fa
narrativa connessa ai ventricoli pulsanti,minuzioso strazio, non geologia
e neppure cieco desolato
avvenire.
Ed ecco la confessione che ho preannunciato all’inizio. Sono stato io a gettare “Il cortile”, il dattiloscritto che mi mandasti tanti anni fa per posta, confidando nell’esistenza di un’altra copia, e che non trovi più. L’ho fatto io, di certo, durante qualche pulizia di casa, o trasloco o che so, negandolo al tempo. Eppure mi piace immaginare che da qualche parte deve trovarsi, ma non so, e il non sapere avvalora maggiormente l’incognita, rende più vero, più luminoso il margine buio delle cose inespresse, che pure continuano a vivere, per miracolo. Lo rivelo adesso perché una ragione c’è, e ha a che fare con la tua poesia, Antonio. Voglio dire che è rimasto incancellabile il suo senso, il quale si è fermato in me, custodito fra me e te. Là dicevi che la poesia è l’ostia, lo ricordo bene, e incarna, si offre (“l’ostia totale”, scrive in una sua poesia Padre Turoldo, per tornare a lui). Ora posso dire di questo libro fantasma, mai nato, oppure, scritto e perduto, che si fa vivo nella presente citazione, alla luce del nuovo Umanità, e vuole riemergere dai pensieri, determinare umanità nostra, tradita dal baratro delle cattive abitudini, dalla superficialità, addirittura dai fatti della grande Storia, andando in parallelo con essa, come ritengo di dimostrare: gli ebrei non sono più le vittime, e il comunismo non è morto, dobbiamo fare i conti con la nostra menzogna; dobbiamo, io per primo. È questo il succo, e sono pronto a rifarmi. Il male ci divide, aspettiamo un ricongiungimento. Imperituro, si spera. Dal fondo di questo piccolo abisso che sono, e in cui mi trovo, concludo qui la mia lettera.
Vincenzo Gambardella
*In copertina: un disegno del Guercino
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